Scarica file in PDF – SANFELICE – LA LOTTA CONTRO LA PIRATERIA SOMALA-dicembre 2017
LA LOTTA CONTRO LA PIRATERIA SOMALA
Amm. Sq. Ferdinando SANFELICE di MONTEFORTE
DICEMBRE 2017
Introduzione
Gli ultimi anni hanno mostrato come i traffici del Mediterraneo siano strettamente dipendenti da quanto accade nel Mar Rosso, nel Golfo di Aden e, più generalmente, nell’Oceano Indiano. Infatti, lo sviluppo della pirateria in queste aree ha smentito quanti consideravano un artifizio geo-politico il termine “Mediterraneo Allargato”, e ritenevano che l’Italia non dovesse curarsi di quanto avveniva al di là del Canale di Suez.
Parlare della pirateria somala è quindi necessario, trattandosi di una minaccia sempre immanente, che in alcuni periodi storici ha addirittura costretto i flussi mercantili ad aggirare il Mediterraneo, facendo piombare la sua parte orientale nella povertà e nell’instabilità.
Le origini della pirateria
Gli storici giustamente affermano che la pirateria è uno dei mestieri più antichi al mondo, dato che essa iniziò subito dopo i primi traffici commerciali via mare. Proprio perché il suo contrasto è un tipo di attività che vanta una lunghissima lista di esemplificazioni storiche, noi sappiamo molto su di essa e sulle forme che via via assume. In effetti, la pirateria è una forma di guerra che prospera in situazioni di “vuoto di potenza”, ovvero nei mari in cui non vi sia una forte presenza navale: nessuno può sperare di attaccare impunemente navi mercantili quando esse siano protette, o quanto meno possano chiedere il sostegno di navi da guerra che operino nelle vicinanze.
Un’altra lezione della storia, a proposito della pirateria, è che le azioni contro di essa si dividono in due tipologie: quelle in grado di contrastare gli attacchi dei pirati ai mercantili in mare (anti-pirateria), oppure quelle intese a sradicarla, distruggendo i loro covi (contro-pirateria).
Negli anni, le convenzioni internazionali hanno sempre meglio delimitato il concetto di pirateria, per distinguerlo da altre fattispecie. Secondo la definizione della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare[1], la pirateria è “uno qualsiasi degli atti seguenti:
a) ogni atto illecito di violenza o di sequestro, od ogni atto di rapina, commesso a fini privati dall’equipaggio o dai passeggeri di una nave o di un aeromobile privati, e rivolti:
i) nell’alto mare, contro un’altra nave o aeromobile o contro persone o beni da essi trasportati;
ii) contro una nave o un aeromobile, oppure contro persone e beni, in un luogo che si trovi fuori della giurisdizione di qualunque Stato;
b) ogni atto di partecipazione volontaria alle attività di una nave o di un aeromobile, commesso nella consapevolezza di fatti tali da rendere i suddetti mezzi nave o aeromobile pirata;
c) ogni azione che sia di incitamento o di facilitazione intenzionale a commettere gli atti descritti alle lettere a) o b)”[2].
Da questa definizione si nota, anzitutto, che gli atti di pirateria commessi nelle acque territoriali di un Paese appartengono a un’altra fattispecie di crimine, e precisamente la “rapina armata in mare”. Inoltre, gli atti criminali devono essere condotti da un altro natante, e per scopi di lucro.
Vengono quindi esclusi gli attacchi a navi motivati da fini politici, che rientrano nelle fattispecie giuridiche di “terrorismo” o di “crimini politicamente motivati”, oppure la “guerra di corsa”, che dal 1856 non può più essere praticata da privati, bensì solo da navi da guerra, limitatamente al corso di un conflitto[3].
Di solito, la pirateria nasce come impresa di piccoli gruppi, in località costiere isolate, ma prossime alle rotte commerciali, specie nei passaggi obbligati, dove i mercantili rallentano. Spesso, vi è una fase successiva, un vero e proprio salto di qualità, quando essa viene “sponsorizzata” da un attore statuale o meno, e allora diventa una forma di “proxy war”, una guerra per procura, fomentata da chi vuole distruggere, o quanto meno danneggiare, il commercio marittimo di Paesi avversari.
In questo ultimo caso, la pirateria acquisisce mezzi capaci di agire in alto mare, ed è così in grado di rendere insicuri interi bacini marittimi.
La pirateria somala “classica”
La pirateria somala, con la sua storia, è un perfetto esempio di quanto è stato detto finora. Già nell’antichità, la costa di quella regione era considerata pericolosa. Nelle cronache del tempo, ad esempio, si legge di “un marinaio greco (che) si lamentò degli abitanti della costa, estremamente turbolenti, dopo che il suo equipaggio era stato derubato in un villaggio, ritenuto trovarsi nell’area oggi nota come Puntland”[4].
Nei secoli successivi, l’attività dei predoni continuò ininterrotta, anche se le notizie sono scarse, dato che non ci sono giunti molti resoconti dei traffici marittimi dell’Impero Ottomano, né sugli attacchi dei pirati ai flussi commerciali dell’epoca. In molti documenti, tuttavia ricorre la notazione che la pirateria costiera era estesa in tutto l’Oceano Indiano.
In effetti, i flussi di commercio dell’Oceano Indiano, all’epoca come in parte ancor oggi, erano basati su imbarcazioni relativamente piccole, i dhows, che navigavano verso l’Africa durante il periodo nel quale soffiava il Monsone di Nord-Est, e tornavano verso la penisola arabica quando iniziava a soffiare il Monsone di Sud-Ovest.
La perdita di una o più di queste imbarcazioni non faceva notizia in Occidente, e per questo ci manca la possibilità di verificare quanto la pirateria, in quel periodo, fosse influente sui commerci, a parte il suo fiorire nel saccheggio delle imbarcazioni dei pescatori di perle alle Seychelles.
Oltretutto, l’avvento del potere marittimo portoghese aveva spostato la maggioranza dei traffici sulla “Rotta del Capo”, che circumnavigava il continente, passando lontano dalle coste somale, e riducendo quelli lungo il Corno d’Africa ai soli flussi di carattere locale.
Il consolidarsi del dominio britannico in India, durante la seconda metà del XVIII secolo, spostò di nuovo l’interesse occidentale verso le rotte mediterranee: le merci e i passeggeri, dopo aver attraversato il Mediterraneo, erano sbarcati ad Alessandria e trasferiti fino a Suez, dove altri mercantili assicuravano il collegamento con l’India. Comunque, le correnti di traffico erano sorvegliate, in modo da assicurare la protezione dei mercantili in transito attraverso il Mar Rosso e il golfo di Aden, fino al mare aperto.
Le guerre napoleoniche comportarono però una riduzione delle forze navali dedite alla protezione dei traffici, e la pirateria somala diede nuovi segni di vita, nei confronti dei mercantili occidentali. La Somalia, infatti, pur dipendendo nominalmente dal Sultano di Zanzibar, era stata lasciata a sé stessa, dato che il massimo sforzo del Sultano era quello di inviare, di tanto in tanto, esattori per far pagare le tasse alla peraltro poverissima popolazione. I Somali, specie quelli del Nord, i Migiurtini, quindi si arrangiavano da soli, e la pirateria divenne il loro principale mezzo di sostentamento.
Ma la pirateria, in quel periodo, non era limitata alle coste somale: infatti, nel XIX secolo la Gran Bretagna, a volte con l’aiuto dell’Italia, era impegnata nel reprimere la pirateria non solo lungo le coste africane, ma anche in Yemen e nel Mar Rosso, specie dalle isole Farisan (oggi Farasan), davanti a Hodeida.
Tornando ai Migiurtini, la loro prassi era di “favorire” l’incaglio dei mercantili, mediante falsi segnali luminosi. In realtà, stando all’attuale Diritto del Mare, non si trattava solo di pirateria vera e propria, dato che, oltre a depredare le imbarcazioni dei pescatori di perle, i Migiurtini si dedicavano a favorire l’incaglio delle navi, mediante falsi segnali luminosi, per poi saccheggiarle.
Tipico di questo fenomeno fu il disastro nel quale incappò, il 7 giugno 1801, il mercantile britannico Weisshelm, in navigazione dall’India all’Egitto. La nave, ingannata dai fuochi accessi dai pirati migiurtini, a sud di Capo Guardafui[5], la punta estrema della Somalia, andò in secca “presso il villaggio di Haafun, nell’attuale Puntland, vicino a Eyl, nota oggi come la capitale dei pirati del Puntland. Dei venti passeggeri, sei morirono sul posto. I sopravvissuti, pur deboli, riuscirono a seppellire i corpi dei loro sfortunati compagni, ma vennero presto accerchiati da venti guerrieri somali, [che li derubarono. Essi] si precipitarono sulle colline circostanti, [ma] coloro che non riuscirono a correre abbastanza velocemente furono immediatamente trucidati. Coloro che sfuggirono furono salvati, quasi cinque mesi dopo, da una nave da guerra britannica”[6].
Per rappresaglia, un anno dopo la Royal Navy bombardò la costa, ma il sistema di attirare le navi di passaggio, accendendo fuochi sulla costa, e indurle a finire in secca, continuò, tanto che, nel 1842, a causa di un altro incaglio di un mercantile britannico, il Memmon, il governatore britannico di Aden inviò un ufficiale per intervenire nei riguardi dei clan, che ormai, visto il moltiplicarsi degli incagli di navi, si contendevano il monopolio del saccheggio di mercantili, combattendo vere e proprie guerre tra loro.
Infatti, Aden, posta dall’altro lato del Golfo, era stata occupata dalla Corona britannica nel 1839, per diventare una stazione di carbonamento, e i governatori locali (Residents), per proteggere gli equipaggi delle navi inglesi, “acconsentivano di pagare al capo del clan locale un salario annuale di 360 dollari di Maria Teresa. Questa era in effetti una tangente per la protezione dei sopravvissuti agli incagli, che permetteva la continuazione del saccheggio dei relitti e quindi non fece nulla per fermare la classica pirateria costiera”[7].
Ancora nel 1878, il governatore britannico, nel riferire dell’incaglio del mercantile Voltigem, scriveva che in quel periodo i pirati migiurtini avevano assalito “non meno di 34 imbarcazioni di pescatori di perle del Sur”[8] nelle acque di Socotra, un’isola appena al largo della Somalia. Ma egli notava anche come le continue guerre tra i clan per l’esclusiva del bottino, insieme alle ricorrenti siccità, avessero creato una situazione endemica di carestia nella zona.
La prima esperienza italiana con la pirateria somala fu quella del comandante di nave Vettor Pisani, il Duca di Genova Tomaso di Savoia, che avvicinatosi con la nave a Bender Marayeh, nel 1879, seppe dell’incaglio del mercantile Mekong, il cui carico era costituito da “molti valori in oro e porcellane per l’Esposizione di Parigi”[9], uno dei numerosi incidenti provocati dai pirati locali.
Infatti, come riferiva il Duca, poco dopo il Mekong un altro mercantile, l’olandese Wortegien, si era incagliato nella stessa zona, ed era stato “dalla popolazione, per vecchio uso, ora salito a diritto, saccheggiato completamente. (Inoltre) tre altri bastimenti inglesi giacciono alla costa e nulla d’importanza venne mai salvato”[10].
Sintomatico fu il suo commento, a proposito del comportamento dei pirati: “vi è già un progresso dal passato, perché anni fa gli equipaggi venivano spietatamente massacrati, mentre ora ricevono trattamenti relativamente buoni”[11].
Passarono pochi anni, e l’Italia si trovò inaspettatamente a beneficiare della competizione tra Gran Bretagna e Germania, per l’acquisizione di colonie nell’Africa Orientale. Infatti, il nostro governo fu incoraggiato a ricercare insediamenti lungo la costa somala, in modo da anticipare possibili mire della Germania, la quale era entrata in possesso del Burundi, del Tanganika (attuale Tanzania) e del Ruanda, tentava di convincere il Sultano di Zanzibar a ottenere la protezione del Kaiser, e cercava anche di espandersi verso nord.
Nel 1886, infatti, la Gran Bretagna si era insediata a Berbera, nel Golfo di Aden, creando il Somaliland britannico, e l’anno successivo la Francia, d’accordo con il governo di Londra, si era insediata più a nord, a Gibuti, di fronte allo Stretto di Bab-el-Mandeb. Rimaneva l’esigenza di controllare il resto della costa, e l’Italia accettò di farlo.
Ma le trattative tra le Cancellerie dei tre Paesi erano in corso da tempo. Infatti, già l’anno precedente, la Regia Nave Barbarigo aveva trasportato a Zanzibar il Console CECCHI, che concluse un accordo commerciale con il Sultano, per poi toccare vari porti della costa somala.
Nel 1889, poi, Yusuf Ali KENADID, Sultano di Obbia, a nord di Mogadiscio, firmò un trattato di protettorato con l’Italia, che lo estese, pochi mesi dopo, ai territori di Uarsceik, Mogadiscio, Merca e Brava, fino a Ras Hafun, il promontorio immediatamente a sud di Capo Guardafui. Questi territori furono poi concessi in affitto all’Italia dal Sultano di Zanzibar, nel 1892, per 25 anni rinnovabili. Intanto, anche il Sultano dei Migiurtini, Osman MAHAMUD firmò ad Alula, sua capitale, il trattato di protettorato.
Ambedue i Sultani, nell’accettare il protettorato italiano, erano mossi dalla speranza di non subire l’occupazione da parte di potenze europee, ma le cose non andarono bene come pensavano: infatti, anche se l’amministrazione dei territori somali era stata affidata alla Società FILONARDI, le navi della Regia Marina dovettero intervenire spesso, per sedare le rivolte locali contro l’Italia, subendo notevoli perdite di uomini.
Le prime vittime si ebbero a Merca, il 12 ottobre 1893, quando il Tenente di Vascello TALMONE della Regia Nave Staffetta venne ucciso da un sicario, mentre era in visita al Walì locale. Per rappresaglia la nave depose il Wali, fece prigionieri i capi più influenti della città e la bombardò.
Seguì, il 26 novembre 1896, la strage di Lafolè, dove vennero assassinati i componenti della missione guidata dal Console CECCHI, che, accompagnato da 9 ufficiali, tra i quali i due comandanti delle Regie Navi Staffetta e Volturno, oltre a sei sottufficiali e marinai, aveva iniziato a risalire il corso del fiume Uebi Scebeli per esplorarlo e stabilire rapporti con le comunità locali. La reazione italiana fu violentissima, e una spedizione di 150 ascari eritrei bruciò tutti i villaggi lungo il fiume Uebi Scebeli, fino al luogo dell’eccidio.
Nello stesso periodo, a Lugh, sempre nell’interno del Paese, si verificarono attacchi di predoni abissini. L’anno dopo, persero la vita un altro esploratore italiano, Vittorio BOTTEGO, nello Scioà e il residente italiano a Merka, il Cav. TREVIS. Anche a questi delitti seguirono rappresaglie da parte italiana.
La nostra lotta contro la tratta degli schiavi – un altro modo dei Somali di ricavare ricchezza – era una delle cause di queste frequenti violenze, e nel 1902 la Regia Nave Governolo svolse una missione di presenza nel Sultanato dei Migiurtini, non solo per scoraggiare tali reazioni, ma anche per sradicare il traffico di armi e le azioni dei pirati. La nave fu poi affiancata dal Galileo, dal Caprera e dal Piemonte, che pattugliarono il Mar Rosso e la costa dell’attuale Arabia Saudita, dove più intensa era l’attività dei pirati.
Nel frattempo, era stata anche organizzata una squadriglia di piccole imbarcazioni a vela, i sambuchi, agli ordini del Tenente di Vascello GRABAU, per la repressione della pirateria nel nord della Somalia. Questi morì il 3 dicembre 1903, a bordo del sambuco Antilope, mentre bombardava la città di Durbo, che si era rifiutata di alzare la bandiera italiana.
I Migiurtini, però, non volevano sottomettersi all’Italia, tanto che nel 1909 la Regia Nave Volturno, comandata dal futuro violatore dei Dardanelli, Enrico MILLO, dovette bombardare Boreh, per lo stesso rifiuto di alzare la bandiera italiana.
In effetti, nel frattempo era divenuto palese che la Società FILONARDI non riusciva a controllare la situazione, e iniziò la presa di possesso diretta da parte dell’Italia, che si concretizzò nel 1905 nell’avvio dell’organizzazione del nuovo possedimento, e poi, nella proclamazione della Somalia Italiana, da parte del Parlamento, il 5 aprile 1908.
Ma il controllo italiano si limitava alla fascia costiera, e le difficoltà anche da quella parte non mancavano, malgrado i lauti esborsi di danaro a favore dei capi locali.
Come riferì nel 1910 il comandante della Regia Nave Puglia, in missione nella zona dei pirati migiurtini, “la condotta subdola, poco ossequiosa ai patti, o addirittura ostile e traditrice del Sultano Osman MAHAMUD aveva naturalmente determinato la sfiducia completa”[12] nei suoi confronti, da parte italiana. Oltretutto, pochi giorni prima della visita, un mercantile italiano, il Norman Isles, era stato attaccato a fucilate dalla costa.
Ci volle un nuovo trattato, firmato il 5 marzo 1910, affinché il Sultano accettasse la presenza di un Residente italiano, ma la situazione migliorò solo in apparenza.
Nel frattempo, gli incagli di mercantili continuavano, lungo la costa migiurtina: i rapporti delle Regie Navi riferiscono di un incaglio, nel 1902, di un mercantile tedesco, l’Asturia, e anni dopo di un mercantile giapponese non identificato.
Per porre termine a tali attività delittuose, nel 1923 fu infine decisa l’occupazione militare della regione e – finalmente – la costruzione di un faro adeguato, battezzato col nome di Francesco CRISPI, a Capo Guardafui, per porre fine a questo fenomeno. Inutile dire che il faro venne attaccato più volte, e una volta, il 25 novembre 1925 il personale di guardia venne massacrato.
Ma i Migiurtini non si piegavano al dominio italiano, tanto che le operazioni di conquista del territorio durarono quasi due anni, dall’ottobre 1925 alla fine di febbraio del 1927. In tale ambito, il 24 ottobre 1925 la Regia Nave Campania, per proteggere un proprio distaccamento inviato a terra dal fuoco nemico, bombardò Bargal (Bosaso).
Di fronte all’intensità della reazione migiurtina all’occupazione italiana, fu necessario appoggiare le navi stazionarie in Somalia con l’incrociatore corazzato San Giorgio, inviato dall’Italia per appoggiare le operazioni di conquista. Le navi, ora raggruppate in una Divisione, agli ordini dell’Ammiraglio Ugo CONZ, iniziarono una serie di pattugliamenti, con vari bombardamenti contro le bande dei ribelli migiurtini, sia in appoggio alle truppe di terra, sia per proteggere il faro CRISPI, che continuava a essere attaccato.
Con la conquista della Somalia settentrionale, e con la costruzione del faro CRISPI, veniva meno qualsiasi possibilità, per la popolazione locale, di compiere azioni di pirateria.
Da quanto è stato detto, si può notare le caratteristiche principali della passata pirateria somala, da alcuni studiosi definita “classica”: radicata nella povertà, essa ha fornito ricchezze insperate, che però hanno dato origine a lotte senza fine tra le tribù locali che si contendevano il monopolio di questo tipo di razzia.
Di conseguenza, il Paese, anziché prosperare, si è impoverito ulteriormente, a conferma del vecchio detto, secondo il quale chi combatte non coltiva. Vedremo che quanto avvenuto nel passato ha molte somiglianze con quanto avviene oggi.
La pirateria moderna in Somalia
Una nuova fase della pirateria somala ha avuto inizio alla fine del secolo scorso, dopo il collasso dello Stato somalo. Infatti, nel 1991, quando la dittatura di Siad BARRE finì bruscamente sotto il peso della crescente impopolarità del regime, una guerra civile ha sconvolto il Paese, e a nulla è valso l’intervento internazionale per porvi fine.
La Somalia, oggi, è piagata da continui rischi di scissione, dal terrorismo islamico, e soffre di conseguenza per una endemica carestia, cui si aggiungono attività illegali, come il contrabbando di armi, la produzione di una droga, il khat[13], molto popolare in Africa, e appunto la pirateria.
Mentre la guerra civile si intensificava nel centro e nel sud della Somalia, specie a causa della comparsa di movimenti integralisti islamici, ben radicati ai confini con il Kenia, più a nord i Migiurtini, trovatisi senza oppositori, avevano dichiarato la propria indipendenza nel 1998, creando lo Stato di Puntland.
Peraltro, già da alcuni anni essi avevano dato inizio a scorrerie contro i mercantili che transitavano nel Golfo di Aden. Grazie ai proventi ricavati in tale modo, ma anche grazie a sovvenzioni e appoggi forniti da sponsor esteri, i pirati sono stati in grado di dotarsi di imbarcazioni sempre più sofisticate.
Se a ciò si aggiunge il fatto che non vi erano problemi per reperire gli armamenti necessari, visto che ve ne era in abbondanza, a causa della guerra civile (prevalentemente mitra AK 47 e lancia-granate), i pirati del Puntland furono in grado di operare sempre più lontano dalle coste, attaccando all’inizio pescherecci stranieri, dediti alla pesca senza limiti e navi che scaricavano grandi quantità di rifiuti tossici provenienti da industrie europee.
Ben presto, però, essi si dedicarono anche ad attaccare navi in transito, specie quelle noleggiate dal World Food Program, un’Agenzia dipendente dall’ONU, per rubare i carichi di grano destinati alla popolazione di tutta la Somalia, per rivenderli ad alto prezzo.
Dato che la maggior parte dei mercantili attaccati batteva bandiere-ombra, gli armatori, in maggioranza greci, hanno prima preferito pagare i riscatti, senza nemmeno denunciare i sequestri, poi – man mano che gli oneri finanziari aumentavano – hanno costruito navi più grandi, facendo compiere loro il periplo dell’Africa; questo ha danneggiato i Paesi del Mediterraneo, e in particolare l’Egitto, la cui economia dipende pesantemente dai pedaggi di transito attraverso Suez.
Infine, gli armatori hanno cominciato a dotare le proprie navi di piccoli bunker corazzati, a protezione degli equipaggi, nonché a imbarcare gruppi di guardie armate, una prassi che continua ancor oggi.
Tutti questi attacchi, inevitabilmente, portarono a un deciso rialzo dei premi di assicurazione, ma fino all’estate 2008 l’Occidente aveva fatto poco per contrastare la pirateria, malgrado l’evidenza che questa fosse ampiamente sponsorizzata dall’esterno e avesse quindi potuto compiere il “salto di qualità” dal livello di criminalità costiera a quello di minaccia estesa ad ampie zone di mare.
Già nel 2005 il Capo di Stato Maggiore della Marina USA aveva proposto una grande coalizione, capace di riunire fino a mille navi per combattere il fenomeno della pirateria. L’Ammiraglio Mike MULLEN, allora Capo delle Operazioni Navali (CNO), era stato esplicito nell’affermare che egli:
“aveva discusso con i Capi delle Marine di tutto il mondo, più di 72 Nazioni, il concetto che io chiamo una Marina da 1.000 navi. Sarebbero 1.000 navi di Nazioni dalla simile mentalità, che opererebbero insieme per contrastare le sfide emergenti delle armi di distruzione di massa, del terrorismo, del contrabbando di droga e di armi, pirati, trafficanti di esseri umani e immigrazione. Queste sono sfide che tutti noi abbiamo e dobbiamo lavorare insieme per garantire che le vie del mare siano sicure”[14].
Ma, all’epoca egli non era riuscito a raccogliere un sufficiente consenso tra i Capi delle Marine mondiali. Bisognò quindi aspettare una risoluzione dell’ONU, nell’estate 2008, perché l’UE e la NATO avviassero operazioni – indipendenti tra loro – nell’Oceano Indiano. A partire da quell’anno, anche Russia, Cina, India e Giappone hanno inviato navi da guerra per proteggere i propri mercantili.
Parallelamente, gli Stati Uniti crearono una forza (TF 150) dedicata sia al contrasto delle armi di distruzione di massa, sia alla lotta contro la pirateria. In effetti, come nota un recente rapporto al Congresso USA, in tale anno gli attacchi avevano raggiunto il livello di 111, una cifra preoccupante per la sicurezza della navigazione mondiale.
Le operazioni ATALANTA, disposta dall’UE, e ALLIED PROVIDER/ALLIED PROTECTOR (poi sostituite dalla OCEAN SHIELD) della NATO hanno portato a una graduale riduzione del numero degli attacchi, tanto che, nel 2016, la NATO ha cessato le operazioni nell’area.
Va rilevato, però, che le iniziative multinazionali si sono limitate ad applicare solo una parte delle risoluzioni ONU, decidendo di agire solo sul mare, non volendo i governi occidentali attaccare direttamente i covi dei pirati, malgrado ciò sia autorizzato esplicitamente dall’ONU; oltretutto, sono state messe in atto solo misure di protezione indiretta delle navi, un sistema meno efficace della scorta ravvicinata. Neanche i plotoni imbarcati, siano essi militari o assoldati dagli armatori, hanno avuto effetti decisivi, anzi hanno creato problemi seri sul piano internazionale.
Il motivo di questa “freddezza” occidentale è dovuto al fatto che, ormai, la grande maggioranza dei mercantili batte bandiere-ombra, essendo iscritti nei registri navali della Liberia, di Panama, delle Isole Marshall, e così via, cioè di Stati che non pongono domande e si contentano di pochi soldi per registrare le navi. In questo modo gli armatori riescono a evadere tasse e contributi sociali, a scapito dell’economia dei propri Paesi di origine, che sono quindi comprensibilmente riluttanti a proteggerli.
L’esempio più chiaro dei danni provocati agli erari dalle “bandiere-ombra” è quello della Grecia: i suoi armatori posseggono ormai la più grande flotta mercantile mondiale, ma non pagano né le tasse né i contributi sociali in Patria. Per questo il Paese, la cui economia era largamente dipendente da questi introiti, versa oggi in gravi difficoltà economiche, non disponendo di un apparato industriale significativo.
La lotta contro la pirateria ha prodotto quindi anche un braccio di ferro tra i governi, che vorrebbero costringere gli armatori a tornare sotto le bandiere nazionali, a beneficio delle finanze pubbliche, e gli armatori, ovviamente recalcitranti. Va detto che, tra questi ultimi, solo gli armatori USA accettarono di far rientrare le loro navi sotto bandiera nazionale, durante la guerra Iraq-Iran (1980-88), per ottenere protezione contro gli attacchi da parte dei belligeranti, salvo poi a riprendere la “bandiera-ombra” alla fine del conflitto.
Una statistica, sia pure incompleta, ricavabile dai dati forniti dalle Nazioni Unite, ci mostra il numero di navi attaccate dai pirati, prima dell’inizio delle operazioni di contrasto:
2003 | 21 navi |
2004 | 10 navi |
2005 | 45 navi |
2006 | 20 navi |
2007 | 44 navi |
2008 | 111 navi |
Dopo l’inizio delle operazioni contro la pirateria, in numero degli attacchi è addirittura aumentato, indice che l’intervento delle Marine era avvenuto troppo tardi, quando i pirati disponevano ormai di mezzi e uomini in abbondanza, per poi calare gradualmente, grazie all’effetto combinato delle operazioni navali di contenimento e delle misure di auto-protezione raccomandate dall’International Maritime Organization (IMO).
Ma un effetto notevole, per ridurre il fenomeno, è derivato dal fatto che le forze di terra dell’Unione Africana hanno occupato i porti del Puntland, e i governanti locali sono stati incoraggiati a non fornire più appoggio ai pirati, mediante abbondanti aiuti finanziari, nonché il sostegno alla creazione di Forze dell’ordine, inclusa una Guardia Costiera somala.
In tale periodo il numeri degli attacchi, sempre secondo le stesse fonti, è impressionante, e indica che le azioni di contenimento della pirateria, agendo solamente sul mare per sventare gli attacchi, hanno un effetto solo parziale e soprattutto graduale, specie quando esse sono fatte partire in ritardo, dopo che la pirateria si è ben radicata:
2009 | 219 navi |
2010 | 219 navi |
2011 | 237 navi |
2012 | 75 navi |
2013 | 15 navi |
2014 | 11 navi |
2015 | 0 navi |
2016 | 2 navi |
2017 | 3 navi |
Per quanto riguarda la nazionalità delle navi attaccate, mentre per i pescherecci, la prevalenza è costituita da mezzi di varie Nazioni asiatiche, oltre ad alcuni spagnoli, i mercantili appartengono in maggioranza a “bandiere-ombra”, (poco meno dell’80%), seguiti da navi occidentali (circa il 20%).
Un caso strano, e oltremodo sospetto, è costituito dalla cattura dell’unico mercantile appartenente a uno Stato del Golfo Persico, il M/V Syrius Star, una super-petroliera (Very Large Crude Carrier – VLCC) di 318.000 tonnellate di stazza, carica di ben 2 milioni di barili di petrolio, di proprietà della compagnia saudita ARAMCO. La petroliera fu catturata il 15 novembre 2008, e tenuta all’ancora davanti alla città di Haradhere, visto che non poteva entrare in nessun porto somalo, fino al 9 gennaio 2009. Nessuna delle navi da guerra in zona, appartenenti alle varie operazioni, multinazionali, di coalizione o di singoli Paesi, si preoccupò di liberare l’equipaggio, e si attese che il riscatto (si disse ultra-miliardario) fosse pagato.
Tornando ai nostri giorni, come si vede dalle cifre, gli attacchi dei pirati sono ripresi, dopo il ritiro delle forze NATO, continuando sia pure sporadicamente. Esiste quindi il rischio che, con un’ulteriore diminuzione degli sforzi, da parte delle Marine, il fenomeno riprenda vigore.
Non va poi dimenticato che, oggi, la pirateria si sta espandendo in altre aree, specie nel Golfo di Guinea, ed è sempre più chiaro che essa è diventata un mezzo per danneggiare la ricchezza dell’Occidente costruita, secondo molti paesi del Terzo Mondo, a loro spese. Senza sponsor, infatti, difficilmente la pirateria somala avrebbe potuto raggiungere le dimensioni e i livelli di sequestri degli anni tra il 2008 e il 2011.
Non vi è dubbio, comunque, che la soluzione per far cessare la pirateria somala consiste nel riportare la Nazione a un livello di benessere almeno pari a quello di cui godeva prima del collasso del regime di Siad BARRE. In questo, l’UE sta compiendo sforzi notevoli, che si spera portino, col tempo, frutti positivi.
Ma il controllo da parte delle Marine, onde evitare tentazioni pericolose, dovrà inevitabilmente continuare, almeno per qualche anno, dopo l’avvenuta stabilizzazione del Paese: la storia insegna infatti, che quanto accade nel Puntland è spesso scollegato rispetto agli avvenimenti che si verificano più a Sud, nel Paese.
[1] United Nations Convention on the Law of the Sea (UNCLOS), signed in Montego Bay, on 10 December 1982, in United Nations Treaty Series, vol. 1833, p. 3.
[2] UNCLOS. Art. 101.
[3] Vds. Déclaration sur le Droit de la Mer, Paris, 30 mars 1856.
[4] M. HAJI INGIRIIS. The History of Somali Piracy: from Classical Piracy to Contemporary Piracy. In “The Northern Mariner” XXIII, n° 3, July 2013, pag. 240.
[5] Il nome del Capo deriva dal monito dei marinai portoghesi che, giunti davanti a quel promontorio era meglio “Guardare e fuggire”
[6] M. HAJI INGIRIIS. The History of Somali Piracy: from Classical Piracy to Contemporary Piracy, cit. pag. 254.
[7] Ibid, pag. 258.
[8] M. HAJI INGIRIIS. The History of Somali Piracy: from Classical Piracy to Contemporary Piracy, cit, pag. 258.
[9] F. SANFELICE di MONTEFORTE. I Savoia e il Mare. Ed. Rubbettino, 2009, pag. 152.
[10] G. PO e L. FERRANDO. L’Opera della Regia Marina in Eritrea e in Somalia. Ed. USMM, 1929, pag. 16.
[11] G. PO e L. FERRANDO. Op. cit. pag. 16.
[12] G. PO e L. FERRANDO. Op. cit. pag. 501.
[13] Il khat, chat o qat, è una foglia che basta masticare per ottenere effetti esilaranti. Viene prodotta nell’interno della Somalia, ma anche in Etiopia e in altri Paesi africani.
[14] D. UHLS. Realizing the 1000-Ship Navy. US Naval War College paper, 23 ottobre 2006, pag. 3.