scarica il file in pdf – Scenari di guerra ibrida- febbraio 2020- sanfelice
SCENARI DI GUERRA IBRIDA NEL MEDITERRANEO ALLARGATO
Amm. Sq. Ferdinando SANFELICE di MONTEFORTE
Introduzione
Quando la politica, con la sua perenne capacità inventiva, conia neologismi in campo strategico, per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica, è necessario che questi termini siano sottoposti al vaglio degli analisti, affinché li esaminino per trovare, se necessario e possibile, una loro definizione circoscritta e precisa. Lo stesso accade quando i politici attribuiscono nuovi significati a termini già in uso; anche in questo caso è necessario che gli studiosi intervengano, ogni tanto, per richiamare alla memoria il loro significato reale.
E’ il caso del termine “guerra”, che nel linguaggio dei politici e dei media – ma anche in quello quotidiano – ha assunto nel tempo significati sempre nuovi e diversi. La “guerra al terrore, alle pandemie”, eccetera, sono diventate espressioni di uso comune, tanto da far dimenticare che questa parola, concettualmente e linguisticamente, indica un fatto ben definito e, dalla fine del XIX secolo, gradualmente ingabbiato, entro limiti sempre più precisi, da numerose convenzioni internazionali.
Infatti, stando al Diritto Internazionale, il termine “guerra” riguarda esclusivamente una lotta tra Stati sovrani, che si devono scambiare per tempo dichiarazioni formali e, una volta iniziato il conflitto, sono obbligati ad attenersi a regole di comportamento umanitario ben precise.
Questa definizione stretta e rigorosa merita di essere tenuta in considerazione, dato che esiste il pericolo che l’uso allargato del termine “Guerra” favorisca il tentativo di evadere dalle costrizioni che la delimitano, in modo da trovare nuovi modi per colpire l’avversario, senza dover sottostare alle limitazioni imposte dal Diritto Internazionale, specie quello umanitario.
Quest’osservazione sulla crescente multiformità dei conflitti, e sul tentativo di evadere le limitazioni umanitarie, ci porta a un neologismo oggi di moda, “la guerra asimmetrica”, coniato negli USA nel 2005, e diventato di uso comune fin dal 2014, quando la dichiarazione finale del Vertice NATO in Galles lo citò espressamente. Da allora, molti, tra studiosi e Organizzazioni Internazionali, si sono sbizzarriti nel cercare una definizione comune, senza peraltro trovarne una che sia generalmente accettata.
Infatti, mentre tutti sono d’accordo sul fatto che la “guerra ibrida comprende un insieme di misure convenzionali e non convenzionali, attuate in modo sinergico e miranti a colpire i punti deboli di un avversario”, la NATO considera che l’uso della forza sia una delle misure essenziali affinché si possa parlare di “guerra ibrida”, mentre l’UE, insieme alla maggioranza dei “think tank”, sono convinti che, per parlare di una “Guerra Ibrida” in atto, non sia necessario il ricorso all’uso delle armi.
Da queste definizioni e da questo dibattito si traggono due conclusioni. Innanzitutto che, secondo l’UE e parte dei “think thank”, la forza non sarebbe più un mezzo indispensabile per abbattere un avversario, che può essere costretto a cedere alla volontà del nemico da queste misure a carattere vario. I provvedimenti USA, che fecero crollare il valore della sterlina per fermare l’attacco a Suez del 1956, da parte di Francia e Gran Bretagna, sono un esempio tipico di come si possa agire in modo efficace per influenzare gli eventi, senza usare la forza.
La “guerra ibrida”, quindi, rientrerebbe nel novero delle “strategie indirette”, a suo tempo teorizzate da LIDDELL HART[1], miranti a un progressivo indebolimento di un avversario troppo forte da affrontare a viso aperto.
La seconda conclusione, sulla quale, invece, concordano tutti, è che queste definizioni chiariscono come l’uso di una sola misura di “guerra ibrida” non possa essere ritenuto sufficiente per considerare che sia in atto un conflitto tra due attori, siano essi Stati o attori non statuali: solo se si noti che l’avversario attua più misure contemporaneamente e in modo coordinato, si potrà parlare di “guerra ibrida” vera e propria.
I fattori permanenti del Mediterraneo Allargato
Il primo fattore permanente da considerare è ben illustrato dall’osservazione, fatta nel recente passato da uno storico francese, Fernand BRAUDEL, che disse: “la complicità della Geografia e della Storia ha creato una frontiera intermedia di coste e di isole che, da nord a sud, divide il mare in due universi ostili. Provate a tracciarla, da Corfù e dal Canale di Otranto, fino alla Sicilia e alle coste dell’attuale Tunisia: a Est siete in Oriente e a Ovest in Occidente.”[2]
Le Nazioni europee hanno lottato per oltre un millennio, con gli Arabi, prima, e con i loro eredi Ottomani dopo, per il predominio del Mediterraneo, e questa realtà storica è ben radicata nel DNA dei popoli mediterranei dalle due parti di questa frontiera invisibile concepita da BRAUDEL.
Anche se, nella storia, non sono mancati periodi di collaborazione e di amicizia, bisogna, infatti, riconoscere che questi sono stati brevi, e si sono alternati con fasi ben più lunghe di conflitto, di razzie e di atrocità che hanno lasciato un segno difficile da cancellare. Se non si ricorda questa lunghissima lotta, non si può comprendere perché le Potenze dell’Intesa, e in particolare Francia e Gran Bretagna, attuarono alla fine della Prima Guerra Mondiale la “Strategia dello Spezzatino”, più nota come “Accordo Sykes-Picot”, per eliminare definitivamente la minaccia da secoli incombente sull’Europa, proveniente dalla “Galassia Islamica”.
Appunto, l’implosione della “Galassia Islamica”, che si manifesta sia con la lotta sempre più violenta tra i due gruppi principali che la compongono, quello Sunnita e quello Sciita, sia con la disputa, a tratti feroce, da parte di ogni attore all’interno dei due gruppi che la compongono, per il predominio sugli altri, è il primo fattore da considerare.
Finora avevamo assistito, all’interno dell’anima sunnita dell’Islam, alla lotta senza quartiere tra moderati e integralisti, tra laici e confessionali, oltre che a numerosi tentativi, da parte di qualcuno, ad autoproclamarsi “Califfo”, per costruire quella “Grande Arabia” sognata ormai da più di un secolo, e a soggiogare gli altri con il prestigio della carica, la cui valenza religiosa supera quella di governo. Ora si sta assistendo anche alla rinascita crescente della storica rivalità tra Egitto e Turchia, due Nazioni che furono impegnate periodicamente in lotte senza quartiere, fino alla metà del XIX secolo, nel tentativo di conquistare la leadership del mondo sunnita.
Anche se apparentemente quest’insieme di lotte intestine dovrebbe allentare la tensione tra le due parti contrapposte del Mediterraneo, in realtà l’Occidente è sempre più coinvolto dai contendenti islamici, che ci chiedono aiuto o, ritenendoci la causa dei loro guai, ci procurano danni e dolore, seguendo una strategia di “guerra senza limiti”. Proprio la loro debolezza, conseguente alla loro frammentazione, ha portato, quindi, gli attori più avveduti della galassia islamica a fare ricorso sempre più di frequente ad atti di “guerra ibrida”.
Il secondo fattore permanente da ricordare è l’intromissione di Potenze non litoranee nelle questioni del Mediterraneo. Va premesso che ogni intromissione di terzi in un’area del mondo è possibile solo quando esista un “Vuoto di Potenza”: la Strategia, come la Fisica, aborre il vuoto, che viene riempito prontamente da chi sia in grado di farlo. Questo accadde nel Mediterraneo, dopo lo spostamento dei traffici marittimi dal Mediterraneo all’Atlantico, in conseguenza della scoperta di nuove vie marittime, atte a compensare la chiusura della “Via della Seta” da parte degli Ottomani, e continua ancor oggi.
Furono, infatti, gli Olandesi, nel 1672, a entrare per primi nel Mediterraneo con la loro flotta, in soccorso agli Spagnoli. Dopo di loro, arrivarono gli Inglesi, seguiti poi, alla fine del XVIII secolo dagli Americani, dalla Russia e dalla Germania. Addirittura, nel 1928, in piena crisi post-bellica della Repubblica tedesca di Weimar, la Marina Tedesca teorizzò la necessità, per il loro Paese, di avere una presenza permanente nel Mediterraneo, quale presupposto per acquisire di nuovo lo “status” di potenza mondiale. Fu proprio la Marina Tedesca, tra l’altro, a usare il termine efficacissimo, “Mittelmeer” (Mare di mezzo), per descrivere l’ubicazione centrale del Mediterraneo tra l’Eurasia e l’Africa, e quindi evidenziare la sua importanza strategica.
Il periodo di dominazione più lungo nel Mediterraneo fu quello Inglese, nel secolo XIX, che assicurava al governo di Londra un monopolio dei traffici, e notevoli profitti al nascente Impero Britannico. La Gran Bretagna, però, aveva iniziato, già nel XVIII secolo, a vedere il Mediterraneo soprattutto come la via più breve per accedere alle ricchezze dell’Asia, come del resto NAPOLEONE aveva capito in quegli anni. Per questo, la Gran Bretagna si assicurò una serie di basi intermedie, che partivano da Gibilterra, e proseguivano con Malta, Cipro e Alessandria, ancor prima dell’apertura del Canale di Suez.
Per gli Stati Uniti, pur non ancora all’apice della loro potenza, il Mediterraneo era fonte di prosperità nei commerci: la presenza delle loro forze navali iniziò alla fine del XVIII secolo, ed è man mano aumentata. Durante la Guerra Fredda, poi, il Mediterraneo divenne, per gli USA, la via di comunicazione per il rifornimento e il rinforzo dei tre fronti meridionali della NATO (Italia, Grecia e Turchia) minacciati dall’Unione Sovietica.
Ora gli Stati Uniti vedono il Mediterraneo come il “campo di battaglia” sia per contenere i concorrenti attuali, come la Russia, sia per evitare una possibile ascesa della “Galassia Islamica”, il cui potere economico supera quello politico-militare. In un mondo ormai multipolare, gli Stati Uniti vogliono, infatti, limitare il numero degli “Attori-chiave”, e per questo agiscono al fine di mantenere debole il mondo islamico, frenandone il revanscismo e mantenendo uno stato di divisione, e di debolezza, tra i suoi attori principali.
La Russia, fin dai tempi degli Zar, e poi durante il periodo dell’Unione Sovietica, ha sempre visto il Mediterraneo come lo sbocco naturale della propria economia, che consentiva alle loro navi l’accesso agli oceani, e per questo ha cercato di avere una presenza costante in questo mare, oltre ad assicurarsi alleati in grado di renderla stabile. Naturalmente, l’URSS ha più volte tentato di estromettere gli Stati Uniti dal Mediterraneo, durante la Guerra Fredda, minacciando di colpire la VI Flotta USA, in modo da acquisire un dominio pressoché incontrastato nel bacino.
La presenza, sia pur saltuaria, di potenze come il Giappone e, ora, la Cina, è poi la conferma ultima di quanto sia importante, sotto il profilo geo-strategico e commerciale, il Mediterraneo per tutte le economie su scala globale.
Di conseguenza, nel Mediterraneo si nota, da molto tempo, l’applicazione di strategie profondamente divergenti, da parte dei vari attori: solo l’Europa mira a stabilizzare il bacino; per gli altri, nel perseguimento dei loro fini, il Mediterraneo è un luogo di affermazione del proprio prestigio e della propria prosperità. La debolezza dell’Europa fa sì che siano le strategie delle Potenze non litoranee a influire maggiormente sugli eventi del bacino.
L’Europa, però, ha anche un altro problema, quello della scarsa solidarietà tra gli Stati che la compongono. Questo difetto è presente nella storia del Mediterraneo da secoli: un esempio per tutti è dato dalla Francia, che si alleava periodicamente all’Impero Ottomano per battere la Spagna. Questa scarsa solidarietà, che sembrava scomparsa con la Guerra Fredda e con la costruzione dell’Europa, si è di nuovo manifestata, in modi non certo sottili.
Le rivalità tra Europei aumentano l’impatto che le altre Potenze possono avere sugli eventi del Mediterraneo, costruendo con alcuni di loro alleanze variabili, da dimenticare appena non servono più. Dice un proverbio: “Tra i due litiganti il terzo gode” e questo è ciò che accade da noi, per effetto della competizione selvaggia tra Paesi europei.
Questa discordia, che mostra il risorgere di un antico fenomeno, per gli effetti negativi che comporta, va considerata il terzo fattore permanente della situazione mediterranea.
L’ultima considerazione da fare, a proposito dei fattori di situazione del Mediterraneo, è che non si ha solo una divergenza tra le strategie attuate dai vari attori – quelli litoranei e quelli esterni – ma anche il fenomeno, ben più grave, di alcuni che perseguono strategie di annientamento, mentre altri, specie quelli occidentali, mettono in pratica “Strategie dallo scopo limitato”, tendenti ad acquisire vantaggi sull’avversario o su un concorrente, senza distruggerli. Questi ultimi, quindi, rischiano di essere colpiti duramente dai primi, se non si prepareranno a fronteggiarli in modo adeguato, per scoraggiarli o bloccarli.
Le misure di guerra ibrida. L’arma economica
Nel parlare di misure di guerra ibrida bisogna anzitutto tener presente che la fantasia umana, unita alla capacità di individuare il punto debole dell’avversario, è tale che ogni tentativo di elencazione sarà per forza di cose incompleto. Esistono tuttavia alcune misure storicamente applicate più di frequente, e di queste è opportuno vedere l’applicabilità alla situazione del Mediterraneo.
La prima misura di “Guerra Ibrida” è appunto la cosiddetta “arma economica”, nelle sue varie forme, tra cui si possono citare l’embargo, l’imposizione di dazi o di standard, le restrizioni finanziarie, la negazione di beni e tecnologie, il cosiddetto dumping – la vendita sottocosto di beni in eccesso per far crollare il mercato – o il finanziamento e il rifornimento di armi a una parte in lotta, a sfavore dell’altra.
Il Mediterraneo ha già vissuto, alcuni anni fa[3], un lungo periodo d’imposizione dell’embargo – anche noto come “Blocco Navale” – nei confronti di Paesi balcanici che si stavano macchiando di crimini contro l’umanità, in dispregio delle decisioni dell’ONU. In alcuni casi l’embargo decretato era totale (con l’eccezione di cibo e articoli sanitari), più spesso è stato selettivo, teso com’era a impedire l’afflusso di armamenti in grandi quantità nelle aree di crisi.
L’esempio più indicativo della sua efficacia è dato dalla confisca di un carico di armi contenute in circa 160 container, in fondo alla stiva di un mercantile, che ne portava 800, durante il blocco all’ex Jugoslavia. L’effetto dell’embargo, quindi, era duplice: da un lato costringeva le navi che volevano contrabbandare armi a nasconderle in fondo al carico, riducendone quindi la quantità per singolo viaggio, e dall’altro, anche se altre armi potevano arrivare ai contendenti via terra, si trattava di frazioni di un singolo container, portato da un camion, e quindi insufficienti a consentire un incremento delle azioni di guerra.
Inutile ricordare che questa misura, che può essere attuata solo mediante un blocco navale, può essere messa in atto solo da Nazioni dotate di Marine da guerra in grado di operare in acque alturiere.
L’imposizione di dazi è una misura, valida nel breve termine, che conviene solo a coloro la cui bilancia degli scambi commerciali sia in deficit. Ogni dazio, però, comporta ritorsioni simili, con la conseguenza di attenuare, se non annullare, l’effetto di tali misure. Nel lungo termine, poi, i dazi comportano una perdita di competitività per le industrie della Nazione che li impone, con la conseguenza della loro uscita dal mercato. Anche l’imposizione di standard, specie da parte di Organizzazioni multinazionali, per aumentare l’interoperabilità tra i loro membri, può essere vista da terzi come una limitazione grave alle esportazioni di questi ultimi.
Più difficile da risolvere è la competizione per le risorse naturali: anche il Mediterraneo, specie nella sua parte orientale, è diventato il teatro di un contenzioso per le Zone Economiche Esclusive (ZEE), con accordi-fantasma tra attori vari e dispute che vedono l’uso della forza, da parte di alcuni Paesi, per proteggere i propri interessi. L’azione della Turchia nelle acque di Cipro e i contenziosi tra Paesi del Nord-Africa per la delimitazione delle rispettive ZEE, ne sono l’esempio più recente. Solo i negoziati, lunghi ed estenuanti, possono portare a soluzioni durevoli, ma è necessaria molta buona volontà delle parti coinvolte, cosa non sempre ottenibile.
La negazione di risorse è un altro metodo impiegato, fin dalla seconda metà del XX secolo, per piegare la volontà dell’avversario. Molti ricordano il blocco del petrolio, deciso dai Paesi arabi dopo la “Guerra del Kippur” del 1973, un’azione che però non produsse i risultati sperati da chi aveva attuato la misura. Oggi, l’Europa, molto vulnerabile a questo tipo di azioni, ha diversificato grandemente le proprie fonti di approvvigionamento, oltre a puntare sempre più sulle energie rinnovabili, un indice che la negazione di risorse può essere ammortizzata, sia pure nei tempi lunghi.
Più efficace è la negazione di tecnologie, specie se applicata alle industrie produttrici di materiale bellico: in tal modo è possibile impedire a un Paese di creare armamenti tali da sconvolgere un equilibrio preesistente. L’esempio è dato dalla negazione di tecnologie nucleari e missilistiche ai Paesi del Medio Oriente, attuata dai Paesi occidentali durante la Guerra Fredda, anche se in alcuni casi il ricorso, da parte dei primi, ai Paesi del Patto di Varsavia permise la disponibilità di armi, sia pure di precisione insufficiente. Questo dimostra che, in effetti, la negazione di tecnologie è efficace solo quando non vi sia alcuna soluzione alternativa all’acquisto di queste capacità dai Paesi che le negano.
Il metodo meno efficace di tutti, poiché il fattore tempo gioca contro, è il dumping, usato negli anni 1970 dall’URSS per danneggiare sia l’industria siderurgica occidentale, sia i trasporti marittimi dell’Occidente. Nel breve termine il metodo funzionò, causando una grave crisi, ma la flessibilità dell’economia di mercato riuscì, sia pure con difficoltà, a compensare il danno, e alla fine l’URSS si trovò con un deficit irrimediabile.
Il metodo che funziona spesso è l’uso strategico del denaro. Si può anzitutto finanziare uno tra due concorrenti, oppure una parte in conflitto, piuttosto che un’altra. I finanziamenti dall’URSS ai Paesi del Nord-Africa, durante la Guerra Fredda, era un esempio probante di questo modo per influenzare gli eventi. Sull’uso dei cambi (o della borsa) per danneggiare altri si è già accennato, quando si è parlato della Crisi di Suez nel 1956: questo è possibile in molti casi, ma solo da parte di chi possegga grandi ricchezze. Viene infine la sponsorizzazione di terroristi, guerriglieri o semplicemente di uomini o partiti di un’altra Nazione, anch’esso un metodo largamente usato.
La condizione, però, in tutti questi casi è che si sia in grado di finanziare la parte che possiede il massimo potenziale di vittoria, altrimenti le enormi somme devolute vanno in fumo, senza che si ottengano risultati.
Per questo l’uso dell’arma economica è meno semplice di quanto sembri. Non a caso, uno studioso sovietico degli anni 1920, riferendosi alle misure di guerra economica adottate dalla Germania durante la Prima Guerra Mondiale, affermò: “Le spade economiche sono a doppio taglio, e spesso infliggono le stesse ferite a coloro che le impugnano, come le causano al nemico. Peraltro, dobbiamo ricordare che non sempre saremo in grado di evitare operazioni sul fronte economico, in quanto gli attacchi nemici devono avere una risposta mediante misure appropriate”[4].
La Sponsorizzazione della Sovversione (terrorismo, traffico di droga, tratta degli esseri umani, pirateria)
Si è visto prima che, per danneggiare un avversario con metodi indiretti, una via spesso usata nella storia è la sponsorizzazione di attori che tentano di sovvertire un governo, un insieme di Paesi o addirittura l’economia mondiale. I campi di applicazione sono numerosi, ma vale la pena di considerarli singolarmente.
Primo tra tutti, per il notevole impatto che produce sull’opinione pubblica, è il terrorismo. Laddove vi siano nuclei di estremisti, convinti di dover agire fino all’estremo sacrificio per cambiare radicalmente un governo, un regime o un insieme di Stati, è possibile procurar loro armi, soldi e rifugio, in modo da alimentare una catena di attentati, che consentano allo sponsor di conseguire i propri fini.
Naturalmente, è necessaria una coincidenza di obiettivi tra quelli delle cellule terroristiche e dello sponsor, altrimenti quest’ultimo è raggirato, e i risultati saranno profondamente diversi da quelli da lui voluti.
Mentre il terrorismo è, per sua natura, elitario ed elitista, il cosiddetto “estremismo violento”[5], che si differenzia dal terrorismo, in quanto coinvolge fette di popolazione più ampie, secondo una relativamente recente definizione adottata dall’ONU, è un altro metodo, più costoso, per destabilizzare un Paese che si vuole colpire.
Aumentando la scala delle rivolte contro un ordine avversato, si arriva alla guerriglia, arma tipica di una frazione consistente di un popolo che vuole abbattere un regime odiato, spesso imposto dall’esterno. Per lo più, la guerriglia è un metodo che punta al logoramento dell’avversario, mediante una serie di “punture di spillo”, piccoli atti di guerra condotti contro le forze nemiche, spesso occupanti stranieri, fino a negar loro il successo e indurli a lasciare il Paese. L’esempio della guerriglia in Algeria, per liberarsi del dominio francese, è ancora vivo del ricordo di molti.
Anche l’uso strategico della droga, per indebolire un popolo e piegarlo, è un metodo utilizzato già nel passato. Lo usò la Gran Bretagna nel XIX secolo, per indebolire la Cina, imponendole l’importazione di oppio, ed è stato usato da alcune fazioni in Afghanistan, per contrastare le invasioni. Oggi l’afflusso di droga dall’America e dall’Africa verso l’Europa è un fenomeno le cui implicazioni strategiche ci sfuggono. Affinché questo metodo sia efficace, è necessario che, nella Nazione da colpire, vi sia da un lato chi cerchi di arricchirsi rapidamente e, dall’altro un ampio desiderio di “sballo” tra la popolazione dello Stato che si vuole indebolire.
Vi è quindi lo sfruttamento dell’immigrazione clandestina, un effetto della conflittualità in alcune parti del mondo. Dobbiamo capire che, come disse uno studioso, “un’esplosione demografica in una parte del globo e un’esplosione della tecnologia in un’altra non è una buona ricetta per un ordine internazionale stabile”[6]. Le guerre, insieme alle repressioni interne a un Paese, lo impoveriscono e inducono parte della popolazione a emigrare, per sfuggire alle carestie e alla povertà. Stando al più recente rapporto dell’Agenzia per i Rifugiati dell’ONU, i rifugiati, a causa della crescente conflittualità mondiale, hanno raggiunto l’impressionante cifra di 70,8 milioni di persone[7], prevalentemente nel Sud del mondo.
Da anni, molti governi di quest’ultima parte del pianeta hanno sfruttato questo fenomeno, favorendo l’immigrazione clandestina verso i Paesi ricchi, al fine di costringere le Nazioni del Nord a cedere alla loro volontà.
Naturalmente, i Paesi ricchi più vicini al confine con le zone disastrate sono i più bersagliati da questo fenomeno: non è quindi un mistero che l’Italia, la Grecia e la Penisola Iberica siano, in Europa, i più colpiti, mentre un analogo fenomeno, nel continente americano, interessa gli Stati Uniti.
Viene quindi la pirateria, nata già nell’Antichità come metodo per arricchirsi predando il commercio marittimo, e ora diventata un mezzo per sconvolgere il commercio intercontinentale. L’effetto che essa produce è, oggi, il cambiamento delle rotte commerciali, che devono attraversare mari dove tale minaccia non sia presente, per essere redditizie. Quando, poi, si noti un’abbondante disponibilità per i pirati di mezzi d’attacco, come si è visto nell’oceano Indiano, si può essere sicuri che, dietro di loro, vi sono sponsor, in grado di consentire ai primi di ampliare il raggio d’azione, e quindi il loro impatto sul commercio.
L’uso conflittuale dell’informatica
Viene quindi l’uso dell’informatica, per le “Cyber Wars” (Guerre Cibernetiche). Inizialmente, i due settori di attività informatica malevola riguardavano la criminalità finanziaria e lo spionaggio, ma la sua diffusione in tutti i settori della vita umana ha indotto alcuni Stati ad ampliare il raggio di queste azioni, in modo da paralizzare un intero Paese (l’Estonia nel 2006) o distruggere impianti industriali (Iran, 2010). Queste azioni malevole posseggono due vantaggi: il primo è l’anonimato, dato che è molto difficile individuare l’originatore degli attacchi informatici, e il secondo è la potenziale letalità, se un grande impianto industriale, specie una centrale elettrica, viene attaccato.
Non va dimenticato, poi, che anche la diplomazia internazionale è un’arma potente, che agisce per “negazione”, facendo fallire progetti non graditi (l’esempio è l’opposizione tedesca alla riforestazione italiana negli anni 1930), oppure incrementando il numero di Paesi partecipanti a un progetto, fino a renderlo ingovernabile, oppure, ancora, creando organizzazioni in concorrenza tra loro.
L’uso o la sponsorizzazione della forza
Gli armamenti concessi a Paesi terzi sono, poi, un’arma potente, perché possono influenzare la loro adesione a un gruppo di Nazioni anziché a un altro. Durante la Guerra Fredda, ambedue le “superpotenze”, USA e URSS, fecero un largo impiego di tale mezzo per attrarre nella loro orbita i cosiddetti “Paesi del Terzo Mondo”.
Un metodo non certo irrilevante è, ancor oggi, l’uso della forza per risolvere le dispute internazionali. Naturalmente, pochi sono i Paesi che intendono violare apertamente la Carta dell’ONU, che rende legittimo l’uso della forza solo in caso di auto-difesa. Di massima, quindi, le azioni offensive rientrano nelle cosiddette “proxy wars” (Guerre per Procura), e fanno largo uso di volontari e mercenari. Sul piano difensivo, invece, la forza è stata usata di frequente per stabilizzare un focolaio di conflitto. In questo caso, l’esperienza insegna che la forza non è sufficiente da sola, ma va sostenuta da altre azioni sul piano economico, politico e assistenziale.
L’impiego di forze militari è anche un potente mezzo per migliorare le relazioni con altri Paesi: il “Soccorso Umanitario”, ad esempio, si è rivelato determinante, quale segno di solidarietà, nei confronti di altri Paesi, creando legami che prima non esistevano: il soccorso umanitario, da parte della Grecia e di altre Nazioni occidentali, dopo il terremoto che colpì il Bosforo, nel 1999, ebbe come conseguenza un miglioramento, purtroppo solo temporaneo, delle relazioni tra Grecia e Turchia, da anni impegnate in dispute sulle aree di mare del mar Egeo.
Un metodo di stabilizzazione delle aree dove i conflitti sono più sanguinosi è anche rappresentato dalla creazione di “non-conflict zones” (aree di non-conflitto). La creazione di “aree franche”, in cui non avvengano combattimenti, fornisce alle popolazioni la possibilità di rifugio, oltre a evitare atti di guerra dagli effetti dirompenti. L’azione dell’Italia, che ha creato una “zona franca” intorno all’ex diga di SADDAM, in Iraq, dislocando forze dall’armamento potente, è un esempio da seguire per il futuro.
L’informazione (o propaganda)
Non va dimenticato, infine, il potere dell’informazione. Grazie alla diffusione globale di notizie è possibile oggi convincere, sviare, danneggiare non solo singoli individui, ma intere Nazioni. Anche questo metodo, però, è spesso un’arma a doppio taglio: se le parole non sono seguite da atti coerenti, si verifica il cosiddetto “effetto boomerang”, e l’informatore perde credibilità.
Se si consideri, ad esempio, l’azione di propaganda svolta dallo Stato Islamico (IS) per mobilitare i giovani estremisti europei, specie quelli di origine islamica, e indurli a combattere contro l’Occidente, si ha l’idea di quanto la propaganda sia efficace, per sovvertire un odiato avversario.
Anche la campagna d’informazione, da parte dell’Occidente, sui diritti umani, specie quelli delle donne, ha un impatto non trascurabile, specie in aree in cui queste ultime soffrono per una loro discriminazione: l’Arabia Saudita, ad esempio, sta vivendo una profonda trasformazione sociale, per effetto di queste campagne d’informazione.
Conclusione
La “Guerra Ibrida” è, finora, una possibilità da paventare, piuttosto che una realtà amara. Essa, comunque, consente di colpire l’avversario in modo indiretto, o almeno occulto, e si presta quindi alle azioni che i Paesi possono intraprendere per influenzare gli eventi a loro favore, senza rischiare troppo: non a caso, come si è visto, nell’area del Mediterraneo Allargato sono numerosi i casi di adozione dell’una o dell’altra di queste misure.
Preoccupa, soprattutto, la divergente strategia perseguita dai vari attori, sia quelli litoranei, sia quelli esterni al Mediterraneo Allargato, non solo perché rende sempre più difficile una stabilizzazione dell’area, ma anche perché il livello sempre più elevato di violenza, usata da alcuni attori, trova le Nazioni occidentali impreparate, in quanto si fidano eccessivamente del potere della diplomazia disarmata.
Il mondo globalizzato e multipolare, nel quale viviamo, è fin troppo permeabile all’anarchia e alla lotta tra estremi opposti. Non a caso il Mediterraneo, il “Mittelmeer” dei Tedeschi, posto com’è al centro di tre continenti, è il teatro più vulnerabile a queste lotte, sempre più accanite.
Infine, non va trascurato il rischio che, tra le varie potenze, si abbia un “effetto Sarajevo”, con dispute che sfuggono di mano, per l’imprudenza di alcuni attori, causando conflitti senza limiti, con la rovina definitiva delle Nazioni del bacino.
In conclusione, il Mediterraneo è sempre più un terreno di scontro, favorito dalle rivalità, siano esse latenti o palesi, che si ripetono senza sosta nella sua storia, da oltre un millennio. La pacificazione di quest’area non è solo un obiettivo da conseguire, ma è anche una necessità per trasformare questo bacino, posto al centro di tre continenti, in un lago di pace.
[1] B. LIDDELL HART. Strategy. 1954.
[2] F. BRAUDEL. Il Mediterraneo. Ed. Bompiani, 1998, pag. 12.
[3] Negli anni Novanta dello scorso secolo.
[4] A.A.SVECHIN, Strategy, East View Publications, 1992, pagg. 109-110.
[5] ONU.Plan of Action to Prevent Violent Extremism.Doc. del 24 dicembre 2015.
[6] P. KENNEDY. Preparing for the Twenty- first Century, Vintage Books, 1994, pag. 331.
[7] UNHCR.Global Trends.Forced Displacements in 2018.