Scarica il file in PDF – La Turchia e il complesso equilibrio geopolitico nel Mediterraneo Orientale-Marco Marino-aprile 2021
La Turchia e il complesso equilibrio geopolitico
nel Mediterraneo Orientale
Marco Marino
- Potenze regionali in evoluzione
L’attuale complessità che contraddistingue la situazione geopolitica dell’area del Mediterraneo Orientale necessita di un’analisi che non può prescindere dal tener presente alcuni elementi politici essenziali e determinanti per lo stato evolutivo dei Paesi che affacciano sul Mar di Levante. La scala di analisi da applicare in questo studio può far riferimento alla definizione di quadrante, in quanto l’area non include una sola specifica regione, ma d’altra parte non si tratta affatto di un territorio molto più ampio e allo stesso tempo omogeneo sotto determinati aspetti, tale da essere definito macroregione.[1]
Inoltre, sembra che, a differenza di altre situazioni storiche passate, l’autocontrollo e la volontà di mantenere immutato lo status quo non facciano parte della realtà in oggetto, quanto, piuttosto, si evidenzia una certa ciclicità nella ricerca del dominio da parte di alcuni Stati, talvolta con interessi contrapposti, a determinare un equilibrio sostanziale, tutt’altro che stabile.
È tuttavia opportuno definire questo ampio scenario come un “equilibrio di potenza” nella sua accezione più moderna: la teoria dell’equilibrio di potenza riferisce alle azioni che uno o più Stati intraprendono per limitare le possibilità di arrivare al dominio di una singola potenza su tutti gli altri attori dell’area: ciò si realizza attraverso accordi internazionali volti ad equilibrare le entità in gioco.[2]
Nel caso in analisi, tale situazione è data dall’impossibilità di un singolo Stato del quadrante di costruire un’egemonia di qualche tipo nei confronti di potenze minori dell’area. Infatti, per motivazioni diverse, allo stato attuale tutti i Paesi del Mediterraneo orientale ergono alleanze e contrapposizioni al fine di tutelare interessi politici ed economici di breve o medio termine.
Più in generale, per porre dei limiti agli egemoni potenziali, si possono identificare due tattiche molto differenti, storicamente utilizzate dalle grandi potenze: una è l’external balancing, l’altra è il buckpassing (scaricabarile). L’intersezione della struttura sistemica e della geografia gioca un ruolo cruciale nel determinare quale strategia adottino le potenze. Nel confronto con un potenziale egemone, secondo Mearsheimer, il buckpassing sarà sempre la strategia preferita. In altri termini, ogni volta che la situazione lo permetta, qualsiasi potenza proverà ad evitare di scontrarsi direttamente con un altro potenziale egemone, preferendo scaricare le proprie responsabilità e facendo quindi in modo che sia un’altra grande potenza a confrontarsi con l’egemone potenziale, delegando di conseguenza i costi da sopportare per l’eliminazione del pericolo che questi pone.
Un rischio evidente connesso a questa strategia è che nessuno si assuma la responsabilità e che non vi sia un’effettiva limitazione dell’egemone; ma in uno scenario come quello del Mediterraneo orientale, in cui si è storicamente rivelato impossibile tenere separate azioni e conseguenze per la molteplicità di stakeholders (locali e non), sembra piuttosto improbabile tale passività.
A tal proposito, il modello di Mearsheimer dimostra altresì la maggiore facilità di realizzazione di una strategia di buckpassing per una grande potenza insulare che per una continentale, grazie alla protezione del potere frenante dell’acqua: potrebbe essere definita come un off-shore balancing. Un esempio nella storia mondiale del quadrante è il riferimento al sistema delle città-stato greche, seppur evidenziando che i greci operavano in un più ampio sistema mediterraneo che includeva la Persia, la quale, dopo aver tentato senza successo di conquistare i greci, si era decisa ad adottare la posizione di un offshore balancer e, nel corso delle guerre del Peloponneso, aveva sviluppato una strategia di logoramento, ben definita da Mearsheimer come bait and bleed[3] (adesca e svena).
Oggi, in un contesto geopolitico iper-dinamico e iper-connesso come quello del Mediterraneo orientale, dove tra l’altro non vi è alcuna potenza insulare, e anzi ognuno degli Stati facenti parte del quadrante ha nei propri confini terrestri delle “aree calde”, risulta anacronistico e, in ogni caso, materialmente impossibile, attribuire a una potenza regionale l’applicazione semplicistica di una classica strategia come quelle presentate in precedenza. Lo sviluppo di alleanze, principalmente dal punto di vista degli investimenti economici, si evolve di pari passo con le opportunità derivanti da congiunture internazionali e con le criticità trasversali relative alla sicurezza. Per questo motivo può essere corretto parlare di un multipolarismo di quadrante, all’interno di un più ampio multipolarismo mondiale.
In questa complessità si possono così identificare differenti tipologie di Stati, di cui in seguito si andranno ad analizzare più nel dettaglio alcuni aspetti, principalmente in rapporto alle scelte geopolitiche: Turchia, Israele ed Egitto, classificabili come potenze regionali con un ruolo da protagonisti; altri Stati del quadrante non ascrivibili al ruolo presente o futuro di leader, ma che subiscono in qualche modo conseguenze politiche ed economiche da decisioni e azioni dei primi; e, infine, Stati territorialmente distanti da quelli considerati, con interessi e influenze rilevanti per la geopolitica dell’area.
- La Turchia autoritaria nel Mediterraneo orientale
Lo Stato dell’area del Mediterraneo orientale il cui inquadramento geopolitico solleva i quesiti strategicamente più rilevanti, soprattutto dal punto di vista economico-sociale, è attualmente la Turchia: in primo luogo per l’incerta evoluzione politico-governativa, e alla luce delle numerose contraddizioni interne (la crescente islamizzazione, una crescita demografica, le variazioni nelle alleanze economiche e militari), ma anche per la sua posizione storicamente ibrida, quale membro della N.A.T.O. che pur provando in passato un avvicinamento all’U.E., ha spesso assunto una posizione distante dai valori occidentali.
Sicuramente la figura di Erdogan (dal 2003 Primo ministro e dal 2014 ad oggi Presidente) è lo specchio dell’evoluzione politica in Turchia. Dai negoziati per l’adesione all’Unione Europea a un costante processo di arretramento della democrazia turca, passando per il controverso referendum per il cambio della forma di governo, da repubblica parlamentare a presidenziale, si è verificata una progressiva crescita dell’autoritarismo che tuttora si riflette non solo nella politica interna ma anche nelle strategie geopolitiche verso i vicini.
Analizzando più nel dettaglio gli anni in cui ha finora ricoperto la carica di Presidente turco, Erdogan si è reso protagonista di un processo di ripresa di tradizioni dell’antico impero ottomano, adoperando delle politiche contro la libertà di stampa (154esimo su 180 Paesi per libertà di stampa secondo il 2020 World Press Freedom Index della ONG Reporters Without Borders), sostenendo il negazionismo del genocidio armeno e aprendo in questa e in altre occasioni un’aperta polemica contro l’Europa, generando quindi forte imbarazzo per le organizzazioni internazionali come la N.A.T.O. della quale la Turchia è membro.
Il tentativo di colpo di Stato militare del 2016, fallito e brutalmente represso, con conseguente dichiarazione dello Stato di emergenza per i successivi due anni, non ha fatto altro che inasprire l’autoritarismo del governo.
D’altra parte, il rapido processo che ha visto ridurre la democrazia della Turchia fornisce una prospettiva con effetti radicalizzanti che hanno già innescato insicurezza politica e un conseguente indebolimento delle istituzioni. L’ombra di un progetto ideologico islamista revisionista ha provocato insicurezza aggravata anche dal punto di vista sociale; ma proprio per questo, a lungo termine, il consolidamento di un regime autoritario stabile appare improbabile, riducendo i possibili scenari per il futuro della Turchia a un autoritarismo debole e contestato o a un’ulteriore escalation di conflitti e instabilità. Si può intendere debole o fragile un regime che non sia consolidato come democratico o autoritario, e le cui caratteristiche fondamentali siano fortemente, e a volte violentemente, contestate attraverso lotte egemoniche per strappare il controllo delle istituzioni e rimodellarle. Gran parte della trasformazione politica della Turchia dalla fine degli anni 2000 è avvenuta di fatto in questa zona grigia di fragilità. Mentre prima della metà del 2015 era ancora possibile etichettarla come una democrazia imperfetta o illiberale, gli sviluppi successivi alle elezioni del giugno 2015 e al tentativo di colpo di stato del luglio 2016 hanno cambiato le condizioni. Nel loro insieme, i punti di svolta tracciano una chiara traiettoria, almeno dal 2011, verso la personalizzazione del potere esecutivo, l’indebolimento dei controlli democratici e la concorrenza elettorale meno libera ed equa, l’imposizione di vincoli più severi alla libertà di espressione e alle libertà civili, e l’uso crescente della capacità coercitiva dello stato di opprimere varie forme di dissenso, violento e non violento. Questa è la traiettoria di un governo sempre più autoritario che opera in un ambiente sempre più insicuro, ma che non rappresenta in alcun modo un regime consolidato.
Nonostante il fallito colpo di Stato, il tentativo ha fornito al presidente Erdogan il pretesto e gli strumenti per la repressione sull’opposizione attraverso un governo personale, l’immagine iper-propagandata di un leader onnipotente e onnipresente che smentisce l’istituzionalizzazione di un sistema politico, e un’ideologia che gode del dominio dello Stato e dell’egemonia nella società. In realtà però, la Turchia dopo il fallito colpo di Stato è un Paese in profonda crisi. La combinazione di conservatorismo sociale e neoliberismo, una volta vista come la ricetta della storia di successo della Turchia sotto il partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), ora può essere considerato come l’elemento costitutivo dell’attuale autoritarismo populista.[4]
La politica della Turchia verso il nuovo Medio Oriente riflette un certo grado di continuità in termini di visione del governo dell’AKP, ma include anche cambiamenti nel modo in cui questo viene implementato in un contesto geopolitico nel vicinato della Turchia. Per quanto riguarda i fattori interni, ci sono stati chiari cambiamenti nelle alleanze AKP e nella politica interna. Non è semplice capire se c’è stato un cambiamento nello stesso AKP,[5] o se i veri colori e le ambizioni siano semplicemente emersi una volta che il partito ha consolidato il potere soprattutto nei confronti dei centri di potere tradizionali come i militari e la burocrazia.[6]
L’AKP nello scorso decennio ha lasciato le sue precedenti alleanze prima con i liberali e poi con il movimento politico curdo. Dopo il fallito colpo di stato militare nel 2016, ha formato l’Alleanza popolare con l’ultranazionalista MHP (Nationalist Movement Party) e trasformando il sistema politico in presidenziale con ampi poteri. Questi sviluppi non hanno solo reso la Turchia più militarista e con una politica estera a somma zero, ma ha anche contribuito a consolidare la nuova alleanza nazionalista tra AKP e MHP. Insomma, la descrizione di una Turchia isolata circondata da nemici e alleati tradizionali inaffidabili, mescolata con la propaganda di una campagna internazionale mirata specificamente contro il presidente Erdogan, è diventata il pilastro principale della nuova politica estera turca. Questa narrazione somiglia quella degli anni ’90 e si basa almeno in parte su una risurrezione di vecchie paure e animosità che risalgono in particolare il discorso dei “Nemici” della Turchia, i quali cercano di far rivivere il Trattato di Sèvres del 1920, che aveva imposto la partizione della Turchia moderna in diversi protettorati, inclusa la creazione di uno Stato curdo, sulla scia della Prima Guerra Mondiale. È anche in questo contesto che il presidente Erdogan ha recentemente definito la politica della Turchia nel Mediterraneo orientale come il “capovolgimento di Sèvres”.[7]
Mentre nel primo decennio degli anni 2000 la Turchia si è concentrata sulle opportunità nella regione attraverso l’uso di soft power, interdipendenza economica e soft balancing, nel post 2011 con l’identificazione di maggiori minacce, si è avviata a maggiore propensione ad utilizzare mezzi militari per affrontarle, entrando a far parte della polarizzazione regionale.
Si evidenzia quindi la natura mutevole dell’impegno della Turchia nel quadrante dopo le rivolte arabe e soprattutto dopo il 2016, a causa dell’evoluzione del contesto geostrategico. Il punto di vista dell’élite politica in Turchia cambia in conseguenza del cambiamento delle condizioni di sicurezza nella regione, alla percezione di minacce e opportunità e alle prime risposte ad esse.
Le rivolte arabe del 2010-2011 hanno rappresentato un importante punto di svolta per l’intera complessa area. In termini geostrategici, la Turchia si trova in una regione piena di guerre civili, di intensificazione della violenza nonché di interventi militari da parte di potenze regionali e attori internazionali: conflitti multistrato e complessi in cui Stati e attori non statali si sono impegnati in una miriade di mutevoli alleanze. Inoltre, questo periodo è coinciso con il periodo in cui le tradizionali alleanze della Turchia con gli Stati Uniti e l’UE si sono indebolite. D’altra parte, a livello nazionale, la politica mediorientale perseguita dal partito di governo è stata contrastata dallo stop al processo di pace curdo (2014-2015) e dalle crescenti preoccupazioni per la sicurezza del regime, soprattutto dopo il tentativo fallito di colpo di stato nel luglio 2016.
In questo contesto strategico, sullo sfondo si può osservare che l’uso frequente del potere militare, l’assunzione di rischi e un’inclinazione ad assumere posizioni isolate[8] (elementi costitutivi della “nuova politica estera” turca) sono diventati il mezzo preferito per proteggere i propri interessi, ridefinendo il ruolo nei confronti di partner e avversari e, allo stesso tempo, mantenendo la sicurezza del regime e le alleanze a livello nazionale. Pertanto, la nuova dottrina di politica estera dell’AKP è un prodotto di cambiamenti che avvengono sia in ottica geostrategica, sia, parallelamente, a livello nazionale.
Si può affermare che la nuova politica della Turchia in Medio Oriente sia stata accompagnata da un cambiamento dottrinale. La dottrina alla base della politica precedente era stata fornita da Ahmet Davutoglu, che aveva prestato servizio nei governi dell’AKP in diversi ruoli, inizialmente come capo consigliere politico del primo ministro dal 2002 al 2009, poi ministro degli esteri dal 2009 al 2014, e infine come primo ministro dal 2014 al 2016. Eppure, dopo che un gruppo di anonimi sostenitori del partito ha pubblicato una dura critica a Davutoglu e alle sue politiche online con il titolo “The Pelican File”,[9] Davutoglu si è dimesso nel maggio 2016.
La rimozione di Davutoglu ha aperto la strada a coloro che incolpano Erdogan di fallimenti in politica estera e che sono a favore del ripristino di una dottrina di politica estera dominante, e del crescente populismo nazionalista. Questa nuova dottrina non solo è diventata la ragione per i cambiamenti ma anche la sua giustificazione. Basata sugli scritti di personaggi politici vicini a Erdogan e accademici vicini all’AKP, questa nuova dottrina dichiara l’emergere di un nuovo ordine globale multipolare che richiede alla Turchia di ridefinire il suo posto agendo in modo indipendente. L’AKP ha percepito le trasformazioni nella struttura globale e regionale sia come opportunità che come vincolo per la Turchia, credendo di non poter semplicemente fare affidamento sulle alleanze tradizionali per perseguire il proprio interesse nazionale. Ibrahim Kalin, uno dei principali consiglieri e portavoce del governo di Erdogan, sosteneva di non poter ridurre il mondo alle dipendenze degli Stati Uniti e dell’Europa, e che quindi fosse necessario evitare di rimanere vincolati alle loro condizioni.[10]
Del resto, l’alleanza della Turchia con la N.A.T.O. non ha convinto gli Stati Uniti e la Francia a non cooperare con il PYD (Partito dell’Unione Democratica curda) né con il YPG (Unità di Protezione Popolare) in Siria. Questo si è tradotto nel non cercare di armonizzare le politiche in Medio Oriente con gli Stati Uniti o l’UE, come si era tentato di fare all’inizio degli anni 2000 (con l’eccezione del rifiuto di Ankara di sostenere l’invasione dell’Iraq guidata dagli Stati Uniti nel 2003). Allo stesso modo, Burhaneddin Duran, un accademico che dirige il think tank filogovernativo SETA e siede nel Consiglio di Presidenza per la Sicurezza e la Politica Estera, ha affermato che sebbene la Turchia si sia recentemente allineata alla Russia su molte questioni, questo non impedisce alla Turchia di criticare la Russia sulla Siria, o su Idlib in particolare.[11] È interessante notare che, sebbene il governo dell’AKP ufficialmente non abbia incolpato la Russia per gli attacchi militari contro i soldati turchi a Idlib, opinionisti vicini al governo hanno criticato la politica russa in Siria. Nonostante la stretta collaborazione con la Russia su alcuni problemi e il successo di Mosca e Ankara nel gestire le loro differenze e quindi suddividendo la loro concorrenza legata alla Siria, permane la sfiducia reciproca ed è frequente l’emergere di crisi, in un modo simile alle relazioni Turchia-USA, (sebbene ogni volta vengano in qualche modo risolte).
Il bilanciamento tra gli Stati Uniti e la Russia è quindi diventato uno degli aspetti più importanti del Medio Oriente turco e della politica del Mediterraneo orientale. Questa realtà è diventata un tema costante per chi è vicino al governo dell’AKP. Più specificamente, la Turchia può cooperare con uno qualsiasi di questi attori globali in base ai suoi interessi, ma nessuna di queste relazioni viene considerata fissa. La Turchia, secondo questo punto di vista, non fa affidamento sulle istituzioni internazionali, su un blocco di Stati né su suoi alleati tradizionali, preferendo invece alleanze mutevoli.
Oltre all’incerto contesto globale, l’AKP sottolinea che il contesto regionale presenta anche nuove minacce per le quali sempre più Paesi sono desiderosi di utilizzare mezzi militari al fine di risolvere le rivalità, innescando facilmente nuovi conflitti ed esacerbando quelli vecchi. In un tale ambiente, la Turchia dovrebbe adottare strategie solide per affrontare le minacce. Duran, ad esempio, ha sostenuto che quei politici che chiedono alla Turchia di tornare alle sue vecchie politiche di soft power stanno infatti operando secondo false intese che risalgono all’era della rivolta pre-araba, chiedendo alla Turchia di essere “dipendente e passiva”[12] nelle sue decisioni di politica estera. Pertanto, le élite politiche dell’AKP sostengono che solo ora, con l’attuazione di una nuova dottrina della politica estera, la Turchia sia diventata più autonoma e indipendente. Secondo il Presidente Erdogan, l’indipendenza della Turchia nella sua politica estera si manifesta non chiedendo il permesso ad altri nell’avvio di operazioni per la propria sicurezza.[13] Anche il titolo del numero speciale dell’inverno 2019 della rivista di politica estera Insight Turkey, pubblicato dal think tank filogovernativo SETA, in questo senso è abbastanza esplicito: “La nuova politica estera turca: una ricerca di autonomia”.[14]
L’AKP spiega così il cambiamento nella politica della Turchia in Medio Oriente principalmente come risposta ai cambiamenti strutturali, sia regionali che globali. La politica del Medio Oriente dopo le rivolte arabe si è effettivamente trasformata in modo significativo, presentando sfide importanti per tutti gli attori. Tuttavia, sarebbe inadeguato spiegare questo fenomeno basandosi esclusivamente su tali fattori strutturali. Queste scelte sono state ampiamente influenzate dalle visioni del mondo e anche dalle considerazioni di politica interna. Come scritto da Michael Barnett analizzando la politica estera di Israele, la base culturale presente per una politica estera deve avere come elemento principale il realismo.[15] Il modo in cui l’AKP ha risposto ai cambiamenti geopolitici nella regione è stato fortemente influenzato dall’interpretazione delle opportunità e dalle sfide che questi sviluppi hanno presentato. Queste scelte sono state chiare in tre casi: sostenendo i movimenti dei Fratelli Musulmani ovunque, compresa la Siria dove erano particolarmente deboli; continuando ad avere relazioni problematiche con l’Egitto dopo il colpo di Stato del 2013; e coinvolgendo la Turchia nella crisi del Qatar.
C’è infine da sottolineare, dal punto di vista geostrategico militare, un nuovo concetto chiamato Mavi Vatan (la Patria Blu), che si riferisce all’estensione del calcolo geopolitico della Turchia alle acque circostanti e in alto mare intorno alla penisola anatolica. Le crescenti capacità di guerra navale e di proiezione di potenza in acque blu, sposate al concetto di Mavi Vatan, hanno portato le élite politico-militari turche a considerare la Marina un attivo elemento della diplomazia di Ankara.[16]
Il concetto di Mavi Vatan (Patria blu), che ha determinato un’inversione di tendenza nella politica estera turca in questo inizio di decennio, rappresenta contemporaneamente un taglio ed un meccanismo di continuità con la dottrina della Stratejik Derinlik (Profondità strategica) teorizzata dall’ex consigliere politico, ex ministro degli Esteri ed ex primo ministro Davutoglu. Il piano di ammodernamento della Marina Militare Turca risponde proprio a questo bisogno di recuperare una dimensione marittima del Paese. Il controllo e la conquista del mare diventano perciò un obiettivo fondamentale per la prosecuzione del disegno geopolitico di Ankara, ampliando la propria area d’operazioni all’intero bacino dell’ex Mare Nostrum. Secondo Gurdeniz, la dottrina della “Patria blu” corrisponde alla “diplomazia delle trivelle e delle navi da guerra” e ricerca “il ritorno della Turchia al mare, l’unione tra Anatolia e Mediterraneo orientale” per garantire “i propri diritti nel Mediterraneo”. La prova di forza a Cipro, la negoziazione della nuova ZEE turco-libica estesa a danno della Grecia, l’opposizione a qualunque negoziato greco-egiziano sui rispettivi confini marittimi, le tensioni turco-greche al largo di Kastellorizo e la “conquista” di Misurata sono tutti tasselli di un’unica grande strategia che punta a tirare fuori, nel più breve tempo possibile, la Turchia dalle difficoltà della politica anatolica per inseguire il proprio destino marittimo.[17]
- I partner israeliani: un contrappeso alla Turchia
I principi della dottrina strategica e le strette relazioni tra la Turchia e il vicino Medio Oriente hanno avuto il loro impatto anche sulle relazioni turco-israeliane. La politica estera turca nei confronti di Israele è stata strettamente legata all’entusiasmo per il suo collegamento con l’occidente.
Il governo dell’AKP e la dottrina strategica turca sono stati a lungo filoccidentali, in particolare vicini agli Stati Uniti. Le decisioni di politica estera nell’epoca del progetto Greater Middle East, come l’invio di truppe in Libano, il trasporto di messaggi da Washington in Iraq, in Siria, e in particolare ad Hamas, sono state tutte parallele alle iniziative americane. Pertanto, mentre cresceva l’entusiasmo della Turchia nei confronti della connessione occidentale nell’era dell’AKP, le sue relazioni con Israele non hanno subito sconvolgimenti importanti, sebbene ci fossero tensioni più superficiali nella sfera politica.
Il continuo sviluppo positivo dei legami strategici della Turchia con lo Stato di Israele metteva in luce una pragmatica valutazione degli interessi nazionali della Turchia, più di qualsiasi sentimento pan-islamico diffuso tra la base di alcuni suoi sostenitori, diventando il fattore chiave nella formulazione delle relazioni con gli altri Paesi, in particolare con Israele. Infatti, Murat Mercan, un membro fondatore dell’AKP e uno dei suoi principali portavoce, spiegò che il governo dell’AKP avrebbe voluto mantenere gli stretti legami con Israele perché finché il rapporto tra i due Paesi fosse stato reciprocamente vantaggioso, non vi sarebbe stato alcun motivo per deviare il corso delle relazioni. Mercan ha anche denunciato l’antisemitismo sostenendo che le persone che vivono nei Paesi islamici dovrebbero essere in grado di considerare gli ebrei senza pregiudizi, aggiungendo che l’antisemitismo danneggia tutti i popoli dell’area.[18]
L’allora Ministro degli Esteri Abdullah Gul, nel suo discorso alla riunione congiunta dell’American Turkish Society e del Comitato Nazionale della politica estera americana, seguendo linee simili, aveva sottolineato che la Turchia beneficiasse dei rapporti tradizionalmente buoni con entrambe le parti nel conflitto arabo-israeliano, avendo molto da offrire al processo di pace, e sottolineando il desiderio di cooperare con gli Stati Uniti e gli altri Stati occidentali per contribuire a ottenere un risultato duraturo di pace e stabilità nella regione. Infine, diverse occasioni è stata evidenziata l’importanza attribuita alla tradizionale relazione con Israele, definita come “cooperazione tra le due democrazie della regione” che determina importanti implicazioni per la pace e la stabilità.[19]
Tuttavia, in seguito sono emerse tensioni crescenti tra Israele e il governo turco, motivabili dal desiderio di Erdogan di avvicinarsi ai palestinesi ed agli sciiti. Alcuni episodi come la dichiarazione di Erdogan che descriveva l’uccisione dello sceicco Yassin, leader di Hamas, come “terrorismo di Stato”, o gli incidenti della “Freedom Flotilla” (di cui facevano parte l’imbarcazione MV Mavi Marmara e 380 persone di nazionalità turca), derivanti dal tentativo di violare il blocco di Gaza per il trasporto di aiuti umanitari e di altre merci, e dal conseguente abbordaggio dell’esercito israeliano con l’uccisione di otto attivisti turchi, hanno avuto effetti negativi sulle relazioni israelo-turche. Il rifiuto alle richieste di Olmert e Sharon di visitare la Turchia per incontrare Erdogan e curare le relazioni esterne ha aumentato ulteriormente la tensione. Inoltre, anche la crescita della presenza di Israele nel nord dell’Iraq e l’accusa verso gli israeliani di un addestramento militare e di intelligence ai peshmerg curdi ha aumentato le tensioni.[20] Per questo motivo, secondo il pensiero dell’AKP, è Israele stessa ad aver portato a un bivio la partnership strategica turco-israeliana nel nord dell’Iraq.[21]
Sebbene ci fosse tensione nelle relazioni tra i due Paesi, la cooperazione a diversi livelli è continuata. Innanzitutto, il commercio bilaterale ha continuato a crescere. Progetti di ricerca e sviluppo nel settore privato e nell’industria oltre alla cooperazione scientifica hanno facilitato la creazione di una ricerca comune e di un fondo per sviluppo e finanziamenti.
La Turchia negli anni seguenti ha continuato il suo coinvolgimento attivo negli sforzi per porre fine al ciclo di violenza israelo-palestinese, per raggiungere una soluzione globale del conflitto arabo-israeliano, offrendo aiuto nel perseguire la “Road Map” multilaterale per la pace.
In ogni caso, le relazioni economiche hanno continuato a crescere nonostante le tensioni in campo politico. Le aziende turche hanno operato nel rinnovo della ferrovia Gerusalemme-Tel Aviv, mentre il trend delle imprese israeliane che lavorano in Turchia si è mantenuto in costante crescita. Bisogna però analizzare il perché della scelta del governo di Erdogan di riparare in diverse occasioni le fratture con Israele. Il motivo principale è dovuto al rischio di alienare contemporaneamente Israele e Stati Uniti, con cui le relazioni erano già state tese in passato. Anche l’idea di giocare un ruolo più attivo nella regione, in qualità di mediatore tra Israele e la Siria, sembra avere un peso rilevante.
In molte aree, le relazioni bilaterali hanno continuato a crescere durante l’era dell’AKP, come per il progetto dell’Anatolia Sud-Orientale (in turco “Guneydogu Anadolu Projesi” -GAP) costituito da un complesso di 22 dighe sui fiumi Tigri ed Eufrate in territorio turco, per alimentare 19 centrali idroelettriche. Un altro grande affare è un contratto tra l’israeliana Dorad Energies Ltd. e la turca Zorlu Holding per la costruzione di tre centrali a gas naturale in Israele.[22]
Per approfondire il ruolo di Israele negli affari del Mediterraneo orientale, però, oltre alle relazioni passate e future con la Turchia, bisogna guardare più a occidente, analizzando le dinamiche della sua partecipazione al partenariato con Cipro e la Grecia. È necessario quindi valutare il carattere e gli obiettivi del partenariato israelo-cipriota-greco (ed egiziano) con il contesto di sfondo che ha portato alle attuali relazioni regionali nel Mediterraneo orientale, esaminando le prospettive di questa cooperazione multipartitica e di mutua esclusività, alla luce di future relazioni turco-israeliane.
La posizione geopolitica di Israele nella regione può essere indirettamente analizzata attraverso la monografia dell’ex Primo Ministro turco Davutoglu: “Profondità strategica: Posizione internazionale della Turchia”[23], in cui si esponeva una visione della posizione internazionale della Turchia collegata alla situazione attuale nel Mediterraneo orientale e nel più ampio Medio Oriente. Tra l’altro, Davutoglu ha sostenuto che le relazioni strategiche della Turchia con Israele negli anni hanno favorito Israele alienando la Turchia dai suoi vicini arabi, un’implicazione che richiedeva la rimodulazione della politica turca nel Medio Oriente, con l’obiettivo di salvare il Paese dall’immagine passiva che presentava nelle sue relazioni con Israele.[24]
Quindi, al fine di comprendere e valutare le relazioni internazionali contemporanee nel Mediterraneo orientale, e la posizione di Israele in particolare, bisogna tenere conto dell’evoluzione della politica estera turca dall’inizio degli anni 2000, fin dal suo bisogno percepito di prendere le distanze da Israele, principalmente per le sue relazioni con gli stati del Mediterraneo orientale, in particolare Cipro e Grecia. In primo luogo, bisogna identificare il contesto storico e geopolitico degli attuali affari mediterranei orientali in combinazione con la politica estera turca; inoltre è da valutare il carattere e gli obiettivi dello sviluppo nella cooperazione Israele-Cipro-Grecia; infine, è possibile inquadrare il futuro della nuova partnership e la posizione di Israele alla luce delle relazioni turco-israeliane. Sebbene l’antagonismo geopolitico caratterizzi sempre il gioco nel Mediterraneo orientale, le relazioni regionali non possono essere considerate come esclusive nel lungo periodo. A prescindere da eventuali cambiamenti nell’ambiente geopolitico, Israele ha molto da guadagnare da legami sostenibili con Cipro e la Grecia, e questo sta per costituire una nuova era nella politica estera di Gerusalemme.
Più in generale, le dinamiche geopolitiche odierne nel Mediterraneo orientale sono guidate da tre fattori principali: la storia di cattive relazioni politiche della Turchia con la Grecia e Cipro; il graduale deterioramento delle relazioni turco-israeliane, in particolare dopo il 2008; e la scoperta degli idrocarburi in zone economiche esclusive (ZEE) di Cipro e Israele. Indiscutibilmente, le controversie politiche tra Turchia e Grecia nel corso degli anni (ad esempio la rivendicazione greco-cipriota per l’autodeterminazione, le minoranze nazionali, la delimitazione di aree marittime nell’Egeo, ecc.) e il problema di Cipro (in particolare l’invasione e occupazione turca nel 1974 del nord dell’isola) hanno plasmato, in larga misura, i modelli di amicizia e opposizione della regione. Grecia e Repubblica di Cipro, dati i loro stretti legami politici, culturali ed etnici, hanno sviluppato una cooperazione diplomatica in coordinamento verso le loro relazioni problematiche con la Turchia. La natura di questa relazione bilaterale è cambiata poco nel tempo ed è quindi una componente importante dell’attuale situazione geopolitica nel Mediterraneo orientale.
Da parte sua, Israele non era stato un partner tradizionale di Grecia e Cipro poiché nel corso degli anni i due Paesi sono stati più vicini al mondo arabo. D’altra parte, la Turchia è stata il primo Paese musulmano a riconoscere lo Stato di Israele; anche se la Turchia e Israele hanno mantenuto un rapporto segreto dal 1948,[25] si sono ritrovati a formare una cooperazione strategica nel 1996. C’è da dire che il rapporto speciale era stabilito dal più importante alleato in Medio Oriente, ovvero gli Stati Uniti, attraverso una linea definita da due elementi: i miglioramenti in ambito arabo-israeliano per un processo di pace nei primi anni ’90, e le percezioni reciproche delle minacce alla sicurezza, in particolare verso la Siria. I promettenti accordi di Oslo[26] avevano alleviato, almeno temporaneamente, la principale causa di attrito tra Israele e Turchia.[27]
Inoltre, la Siria, come forte sostenitore palestinese, e allo stesso tempo come minaccia alla sicurezza per l’integrità del territorio turco attraverso il suo sostegno ai militanti-secessionisti del PKK, era inizialmente diventata un’importante forza trainante verso l’avvicinamento turco-israeliano.[28] Tuttavia questa dinamica è stata invertita quando Damasco alla fine si è conformata alle richieste di Ankara sulla questione del PKK.[29]
Così, i principali catalizzatori che hanno dato origine e tenuto insieme il legame Turchia-Israele non sono più stati saldi, e questa congiuntura geopolitica ha coinciso con l’ascesa al potere del Partito per la giustizia e lo sviluppo (AKP) in Turchia, caratterizzato da un’ideologia politica islamica (turca) che aspirava a portare la Turchia alla guida della geopolitica dell’area, quindi in rottura con la tradizione, e soprattutto con l’establishment politico-militare kemalista isolazionista.[30]
Quando l’AKP ha iniziato a dominare la vita politica interna, la sua ideologia divenne allineata con il processo decisionale e il carattere revisionista della politica estera turca è diventata più evidente. Questa modifica ha consentito all’AKP di implementare politiche descritte da Davutoglu riguardo a Israele e al resto della regione. Lo stop della partnership turco-israeliana da parte della Turchia ha avuto poi un effetto di tipo ideologico e pragmatico, derivante dal fatto che la dissociazione da Israele avrebbe permesso di approfondire i rapporti con il mondo arabo perseguendo una politica estera più indipendente.
Così dal 2011 Israele stava affrontando significativi problemi politici con la Turchia e divenne più isolato in una regione già ostile e instabile, soprattutto dopo lo scoppio delle rivolte della Primavera araba.[31] Nel frattempo, con la scoperta da parte di Israele di quantità significative di riserve di gas naturale nei giacimenti di Tamar e Leviathan, gli idrocarburi sono diventati un’altra questione importante che ha richiesto la riconfigurazione delle relazioni regionali di Israele.
In quel momento, Cipro, che ha avviato il proprio programma di esplorazione di idrocarburi nel 2011, si è seduto al tavolo geopolitico sollevando temi di sicurezza e partnership energetiche. Per Israele, Cipro, e di conseguenza la Grecia, si è avviata una condivisione di problemi di sicurezza simili ed interessi a una potenziale cooperazione energetica. Dopo tutto, circa il 90% del commercio estero di Israele viene effettuato tramite il Mar Mediterraneo, rendendo la libertà di navigazione in quest’area fondamentale per il benessere economico dello Stato.[32]
In questo contesto geopolitico di cooperazione Israele-Cipro-Grecia, è iniziata a svilupparsi più recentemente un’altra partnership tra Cipro, Grecia ed Egitto a partire dal presidente Al-Sisi, parallelamente al deterioramento delle relazioni del Cairo con la Turchia dopo la cacciata del Fratellanza musulmana dal potere: uno sviluppo fortemente criticato da Ankara. I due partenariati trilaterali sono stati poi ulteriormente rafforzati da accordi su varie questioni politiche, economiche, energetiche e militari.[33]
È evidente che oggi c’è un nuovo insieme di percezioni e convergenze di interessi che potrebbero incidere sugli equilibri di potere del Mediterraneo orientale. Sebbene ci siano molti vantaggi che possono derivarne di queste relazioni in via di sviluppo, il collante che le tiene insieme è la Turchia. Le sue proiezioni di potere e i suoi sforzi per imporre la sua egemonia sulla regione hanno naturalmente prodotto un’opposizione. Cipro e la Grecia hanno unito le forze con Israele e l’Egitto, dando vita a un polo geopolitico opposto che contraddice gli obiettivi della politica estera turca. Per la Repubblica di Cipro, i partenariati emergenti costituiscono anche un modo per ottenere sostegno internazionale per i suoi sforzi volti a risolvere l’annoso problema con la zona nord, occupata dal 1974 dalla Turchia (autoproclamatasi Repubblica Turca di Cipro del Nord).
Per questo la Turchia da anni incontra ostacoli nel raggiungimento di almeno due dei suoi obiettivi energetici strategici: emergere come hub energetico regionale e diventare un fornitore di energia del mercato europeo. Per quanto riguarda il primo, Ankara ha affermato che dal 6 al 7% della fornitura mondiale di petrolio transiterà in Turchia e che Ceyhan diventerà un importante hub energetico, e il più grande terminale di uscita del petrolio nel Mediterraneo orientale. Il terminal di Ceyhan è già stato progettato per ricevere petrolio greggio di diversi Paesi. Le stesse aspirazioni valgono per il gas naturale. Ma intanto c’è la percezione che la spaccatura tra Turchia ed Egitto sia molto personale e riguardi l’inimicizia tra Erdogan e Al-Sisi: questo rende la loro cooperazione (energetica) un problema ancora più difficile da risolvere, mentre allo stesso tempo implica che se uno di questi leader lasci la scena politica, la Turchia e l’Egitto potrebbero riparare le fratture.
Ovviamente l’Unione Europea considera ancora la Turchia un fornitore di energia alternativa alla Russia.[34] E mentre l’approvvigionamento energetico dell’Europa dalla Turchia e dal resto dei Paesi del Mediterraneo orientale non si esclude necessariamente a vicenda, il potenziale dell’hub energetico turco diminuisce quando il gas cipriota e israeliano non vi partecipano. In questa luce si può quindi capire come la nuova situazione geopolitica nel Mediterraneo orientale, e in particolare il partenariato Israele-Cipro con la Grecia, pongono ostacoli alla politica estera turca senza che ciò, tuttavia, implichi necessariamente che la Turchia sia completamente isolata.
Il partenariato Israele-Cipro-Grecia ha un grande potenziale, ma il suo carattere e gli obiettivi nel lungo periodo sono in molti modi legati alle decisioni di politica estera di Israele e alle sue relazioni con la Turchia. Tralasciando l’insieme di benefici energetici ed economici che derivano dal rapporto trilaterale, per Cipro e la Grecia è importante avere Israele al loro fianco come sostegno per trattare con la Turchia. Questa dinamica, tuttavia, potrebbe non essere sostenibile in quanto il divario tra Turchia e Israele accresce.[35]
Da questa prospettiva, il partenariato trilaterale funziona, almeno per Cipro e la Grecia, come contrappeso strategico alla Turchia. Quindi si può presumere che un riavvicinamento turco-israeliano e il rapporto Israele-Cipro-Grecia siano reciprocamente esclusivi; tuttavia, Israele apprezza i vantaggi strategici delle sue relazioni con Cipro e la Grecia e, a condizione che esista la necessaria volontà politica, è persino aperta a un’evoluzione della partnership verso una più solida cooperazione strategica. Allo stesso tempo, nel tentativo di mantenere una politica estera regionale multidimensionale, prova a tenere le sue relazioni con la Turchia, Cipro e la Grecia indipendenti l’una dall’altra, per massimizzare i benefici: sia la vicinanza geografica che le prospettive energetiche potrebbero contribuire a un futuro di interessi comuni. Inoltre, il fatto che la cooperazione multilivello tra Israele, Cipro e Grecia non debba affrontare alcuna opposizione significativa da parte degli Stati arabi o di grandi potenze crea un ambiente ancora più favorevole. Sfide relativamente minori possono attendersi dalla questione palestinese, dal Libano e dall’Iran: la disputa marittima tra Israele e Libano è una questione in cui l’Iran potrebbe avere un certo interesse, che preoccupa Israele sul potenziale sabotaggio delle sue piattaforme offshore da parte di delegati iraniani, nonostante ufficialmente l’argomento sia al di fuori della competenza di Teheran.[36]
In effetti, quindi, la politica estera turca ha favorito il ravvicinamento e la cooperazione tra Israele, Cipro e Grecia, e successivamente Egitto. La nuova partnership, che funge da contrappeso regionale al potere relativo della Turchia, si estende anche a settori significativi di cooperazione come l’energia, l’economia e la sicurezza. Tuttavia, il futuro della partnership può cambiare all’eventualità di una riconciliazione turco-israeliana.
- L’Egitto in ricostruzione
Nonostante la sua lunga eredità di guida e influenze nel mondo arabo, l’Egitto è diventato intanto un attore secondario in Medio Oriente e nel Mediterraneo orientale, ritirandosi mentre altre potenze regionali avanzano. Negli ultimi anni, la sua politica estera è stata caratterizzata da quella che possiamo chiamare “diplomazia passiva”; in uno stato di ricerca di sicurezza guidata solo dalle preoccupazioni interne lasciando un peso secondario agli interessi esterni e al rafforzamento della sua influenza a livello regionale. Sebbene sia avvenuto il rovesciamento della Fratellanza Musulmana nel 2013, l’Egitto ha cercato di stabilizzare la sua situazione economica concentrandosi sul contenimento dei pericoli islamici. Questa visione ristretta ha privato l’Egitto della sua influenza cruciale nel gioco del potere in Medio Oriente.
Questa passività potrebbe essere spiegata da molti fattori correlati, quali: il ruolo regionale di basso profilo che il regime di Mubarak aveva scelto di svolgere nell’arco di tre decenni; l’instabilità in casa dopo la rivoluzione popolare e i successivi disordini; il crescente conflitto nella regione e le sempre maggiori vulnerabilità interne. Tuttavia, le crescenti insicurezze che circondano l’Egitto lo spingono a utilizzare le sue risorse storiche e geostrategiche per svolgere un ruolo più attivo nei conflitti regionali, specialmente in Siria e Libia, poiché i conflitti in questi Paesi influenzano direttamente la sicurezza nazionale dell’Egitto. Questo lascia due possibili scenari per l’Egitto: continuare il suo approccio passivo, aumentando la propria vulnerabilità alle altre potenze regionali; o intraprendere una diplomazia più attiva, che miri a massimizzare gli interessi e le garanzie nazionali e riducendo al minimo le minacce regionali.
Nessuno di questi due scenari è inevitabile. Tuttavia, ci vuole una visione chiara e una strategia ben organizzata per garantire la presenza dell’Egitto nella prossima mappa del Medio Oriente. Inoltre, molti altri fattori contribuiscono a questi scenari, come la natura dell’ordine mondiale multipolare; le contraddizioni dei poteri regionali e la stabilità politica ed economica.
Dopo aver rovesciato il regime della fratellanza musulmana, ci si aspettava che il nuovo regime rivoluzionasse la politica egiziana verso un ruolo più attivo e indipendente e che traducesse le potenzialità geostrategiche in un potere più influente, in conformità con le premesse della sua sicurezza nazionale per impegnarsi nella sicurezza dei vicini Stati arabi. Invece, il regime è stato influenzato dalle reazioni della comunità mondiale: ci si è chiesto se questo cambio di regime fosse dovuto ad un’azione popolare legale, ma antidemocratica, o a un colpo di stato militare. Di conseguenza, gli obiettivi principali della diplomazia egiziana in quella fase iniziale erano l’acquisizione della legittimità mondiale per il regime appena istituito e per contrastare le accuse propagate dalla rete internazionale dei Fratelli Musulmani e dai loro sponsor in Turchia sul cambio di regime.[37]
In misura maggiore, la diplomazia egiziana è riuscita a raggiungere questi due obiettivi[38]; entro la fine del 2013, l’Egitto ha riconquistato i suoi seggi nell’Unione africana e il suo nuovo regime è stato ampiamente accettato da tutti i governi occidentali, inclusi gli Stati Uniti e l’UE, oltre al precedente sostegno che aveva ottenuto dal governo della Russia, dei Paesi arabi e in particolare dal Consiglio di Cooperazione del Golfo. Tuttavia, questo successo non si è trasformato in una visione solida alla base della politica estera del nuovo regime, che (con l’unica eccezione dell’interesse nell’espansione verso la Libia a ovest) ha scelto di subordinare la propria diplomazia alle dinamiche di politica interna, caratterizzata da polarizzazione, incertezza e lotte.[39]
Le principali preoccupazioni interne che hanno pesantemente influenzato la diplomazia egiziana in Medio Oriente sono state due. Innanzitutto, la lotta per il potere tra lo Stato e gli islamisti: mentre la maggior parte dei movimenti islamisti in Medio Oriente ha sostenuto i Fratelli Musulmani che condannano la loro rimozione dal potere,[40] il regime li ha percepiti come parte del gruppo terroristico. Inoltre, si è imposta la necessità della ripresa economica per stabilizzare lo Stato: i successivi disordini politici hanno reso la condizione economica molto critica. Di conseguenza, il nuovo regime ha cercato assistenza economica per evitare le conseguenze politiche delle turbolenze economiche. Dopo che il presidente Al-Sisi è subentrato nel giugno 2014, l’Egitto ha cercato di espandere la base della cooperazione economica con le potenze internazionali diverse dai Paesi del golfo attraverso la diplomazia economica da Giappone e Cina a Francia e Germania.
Relativamente a questa politica, in risposta alle critiche internazionali sul rovesciamento del precedente regime e sulle violazioni dei diritti umani, l’Egitto ha stretto un’alleanza strategica con la Russia per alleviare le pressioni occidentali e ottenere più sostegno internazionale.[41] Sebbene le visite reciproche pagate sia dal presidente Al-Sisi che da Putin siano state accolte calorosamente dai media come parte di una nuova fase negli orientamenti strategici dell’Egitto verso il potere non occidentale, è diventato chiaro che queste relazioni fossero di portata limitata e limitate alla cooperazione militare e di sicurezza.
Negli ultimi tre anni, il prodotto della diplomazia egiziana in Medio Oriente è stato definito dall’interazione di due elementi determinanti. L’Egitto non è riuscito a sviluppare una strategia globale che rifletta gli interessi di base nella regione; piuttosto il suo comportamento nei confronti di ogni singola questione differisce a seconda degli attori nazionali, mostrando inefficacia e passività. Questi elementi sono stati evidenti nell’atteggiamento dell’Egitto nei confronti di questioni principali in Siria, Libia e Gaza.
Il regime di Al-Sisi si è mostrato più conservatore nei confronti del conflitto in Siria, cercando una via di mezzo per fare pressione sugli islamisti dell’opposizione siriana e placare i suoi nuovi partner: Mosca, principale sostenitore di Assad e Riyadh, principale sponsor jihadista oltre alla Turchia.[42] L’Egitto ha quindi interrotto il suo aperto sostegno all’opposizione siriana, non riuscendo però a riprendere le relazioni diplomatiche con Damasco. Il Cairo, tuttavia ha cercato di delineare una posizione indipendente, provando a favorire l’opposizione internazionalmente riconosciuta e sostenuta da Turchia, Arabia Saudita e Qatar. Ma questo tentativo non ha raggiunto i suoi obiettivi da quando l’Egitto ha inquadrato lo scopo dell’influenza turca in Siria nel non unificare l’opposizione.
Inoltre, ha dichiarato il suo sostegno all’intervento militare russo contro i jihadisti, compresi quelli sostenuti dai sauditi alla fine di settembre 2015,[43] nonostante la sua posizione costante di rifiuto per l’intervento militare in Siria. Pertanto, l’Egitto nella guerra in Siria oscilla ancora tra le posizioni dei suoi partner e nemici, in particolare la Turchia e i Fratelli Musulmani.
Per quanto riguarda la situazione libica, l’Egitto si è opposto alla presa del potere degli islamisti a Tripoli e ha dichiarato apertamente legittimo il suo sostegno a Tobruk. Inoltre, ha sostenuto la campagna militare comandata dall’ex generale di Gheddafi, Khalifa Haftar. La diplomazia egiziana ha cercato di mobilitare la comunità internazionale per intervenire in Libia contro il gruppo terroristico, per ripristinare il governo legittimo e per porre fine al caos della sicurezza in Libia; tuttavia, questi sforzi sono falliti a causa dell’opposizione saudita e occidentale a qualsiasi intervento militare in Libia.[44] Questo fallimento ha spinto l’Egitto ad aumentare il suo sostegno al governo Tobruk e alle sue forze armate e ad appoggiare la soluzione dell’accordo di governo.[45]
Più recentemente, l’Egitto ha ripreso il centro della scena trovando spazi nella fase di dialogo attorno alla crisi libica provando a guadagnare un ruolo centrale. Per lungo tempo le relazioni tra Il Cairo e Tripoli sono state ai minimi termini, con l’Egitto che ha sostenuto le ambizioni di Haftar, uomo forte della Cirenaica, che ha provato a rovesciare il governo GNA che l’Onu aveva costruito e instaurato cinque anni fa nella capitale libica. Ma successivamente Al-Sisi ha pensato a un compito di primo mediatore, facendo da cornice geopolitica al lancio dell’iniziativa di dialogo del presidente del parlamento HoR del governo di Tobruk, Agila Saleh, che aveva provato a sganciarsi dal link con Haftar. L’iniziativa chiamata “la proposta del Cairo” ha avuto seguito e considerazione tra la Comunità internazionale: la roadmap di Saleh aveva già ridato lustro all’Egitto, che tra gli sponsor di Haftar è il più direttamente interessato alla Libia e alla Cirenaica (per continuità geografica e connessioni) ma che per certi periodi ha giocato un ruolo quasi di secondo piano dietro a Emirati Arabi e Russia. L’instabilità lungo uno dei suoi confini, soprattutto se legata alla presenza turca in Tripolitania, per l’Egitto è una condizione insostenibile.[46]
Infine, per quanto riguarda la situazione a Gaza, il regime di Al-Sisi considerava Hamas un gruppo terroristico, accusandolo di molti disordini e cospirazioni contro la sicurezza nazionale dell’Egitto. La ragione principale di questa posizione aggressiva sono stati i forti legami ideologici e organizzativi tra Hamas e i fratelli musulmani in Egitto. Dopo il conflitto del 2014 tra Israele e il movimento islamista, l’Egitto ha cercato di tornare al suo ruolo naturale di mediatore tra Hamas e Israele. Tuttavia, questo ruolo è stato criticato poiché c’è stata una trasformazione verso la posizione di mediatore interessato.[47] Dopo il conflitto, il governo ha preso di mira i tunnel tra Gaza e il Sinai per esercitare maggiori pressioni su Hamas; così facendo, l’Egitto ha cessato di svolgere il suo ruolo normale tra le fazioni palestinesi e Israele, stabilizzandosi in una posizione ancora vaga.
Gli atteggiamenti egiziani verso la diplomazia mediorientale non hanno quindi lasciato la “zona grigia”.[48] Tuttavia, l’Egitto dovrà, a breve e lungo termine, cambiare questo atteggiamento verso un approccio più attivo, efficace e positivo, principalmente stabilendo un programma chiaro. Il cambiamento dell’atteggiamento della politica estera egiziana può iniziare con la formulazione di una chiara strategia riguardante il ruolo mondiale e regionale dell’Egitto.
La politica estera nazionale dovrebbe rappresentare gli interessi nazionali dello Stato sulle persone, in primo luogo; il che significa che non può essere politicizzata e affidata alle ristrette esigenze immediate e alla percezione del regime al potere. Di conseguenza, la depoliticizzazione della politica estera aiuterebbe l’Egitto a fissare un obiettivo oggettivo che vada oltre la lotta interna per il potere ed eviti l’orientamento populista all’interno della società e del regime.
Pertanto, questa politica dovrebbe essere sicuramente associata ai requisiti della sicurezza nazionale, utilizzando la diplomazia come uno strumento per raggiungere e massimizzare la sicurezza dello Stato. Quindi bisognerebbe basare queste scelte su meticolose valutazioni delle minacce che delineano l’ambiente di sicurezza nella regione interessata, i rischi e le opportunità dello Stato, le priorità e gli strumenti di sicurezza.
Tutti questi elementi, se valutati e coinvolti in armonia, possono indirizzare la politica estera egiziana nella regione verso un giusto sbocco, al fine di uscire dalla passività e tornare ad avere un ruolo rilevante negli equilibri di potere del quadrante del Mediterraneo orientale, in modo da preservare i suoi interessi a lungo termine.
È inoltre fondamentale bilanciare il processo decisionale: il bilanciamento del processo decisionale di politica estera è un rimedio al problema delle contraddizioni che riflettono le incongruenze all’interno delle istituzioni politiche e di sicurezza dello Stato. Il problema principale nella politica estera egiziana riguardo alle questioni mediorientali è che le contraddizioni tra le agenzie interessate non sono risolte e la sicurezza è sopravvalutata; il che significa che gli apparati di sicurezza hanno un ruolo egemonico nel definire gli atteggiamenti di politica estera nei confronti degli stati e dei conflitti del Medio Oriente.[49]
In tal modo, la ricostruzione della politica estera egiziana richiederebbe una riduzione della centralità della sicurezza, mitigando le contraddizioni attraverso l’inclusione di istituzioni diverse dagli stakeholder tradizionali (la Presidenza, il Ministero degli Esteri e le agenzie di sicurezza) come il parlamento, diplomazie non ufficiali e organizzazioni della società civile. Inoltre, il Consiglio nazionale per la difesa (NDC) può svolgere un ruolo cruciale nel creare un atteggiamento di politica estera più coerente. Ricostituita nel febbraio 2014, questa agenzia nazionale[50] è composta dal Primo Ministro, dal capo del parlamento, dai Ministri della Difesa, degli Affari Esteri, delle Finanze e degli Interni insieme al capo dell’intelligence, capo di Stato Maggiore militare, capi della marina e dell’aeronautica, ed è diretto dal Presidente. Come agenzia civile-militare, la sua funzione principale è quella di formulare la politica di difesa e gli obiettivi politico-militari dello Stato e di coordinarli con i ministeri specializzati in particolare degli affari esteri. Attivando il ruolo di questo consiglio, la politica estera può fornire una visione coerente sia ai responsabili politici che agli attuatori.
Un ulteriore punto di svolta può derivare dal rimescolare le alleanze, che inizialmente strette in seguito al colpo di Stato del 2013, ora pongono vincoli alla sua politica estera per alcune questioni del Medio Oriente, dati i disaccordi ad esempio in Siria e Yemen. Queste alleanze si erano basate su convenienze temporanee o avversari comuni: i Paesi occidentali per la Russia e i Fratelli Musulmani per il Consiglio di Cooperazione del Golfo.[51] Mentre l’Egitto ha cercato di consolidare queste relazioni al fine di garantire assistenza economica militare e per resistere alle pressioni delle potenze occidentali in materia di democrazia e diritti umani, è stato in grado di trasformarle in alleanze vincolanti e non ne è stato il principale beneficiario.[52]
Queste sfide possono posticipare il potenziale cambiamento nella politica estera egiziana a breve termine; ma trasformare l’atteggiamento di politica estera egiziana in un atteggiamento più attivo e concreto è un requisito essenziale per sostenere la sicurezza nazionale egiziana a medio e lungo termine. Questo processo dovrebbe iniziare immediatamente e gradualmente con lo sviluppo di una strategia verso l’estero e di sicurezza nazionale che rompa con passività, confusione e contraddizione.
La creazione di una nuova strategia nel campo delle relazioni internazionali è fortemente associata alla stabilità politica ed economica interna; e soprattutto allo stato delle cose all’interno delle istituzioni del sistema politico. L’Egitto può iniziare la trasformazione dalla riforma delle istituzioni dello Stato e raggiungere una vera stabilità attraverso riconciliazione nazionale che includa tutte le fazioni e partiti su base nazionale e costituzionale, delineando una vera tabella di marcia per la ripresa economica.
- Instabilità tra attori secondari del quadrante e ambizioni esterne
- In Siria e Libia tra U.S.A. e Russia
Le rivolte arabe inizialmente hanno aumentato le speranze turche verso le possibilità di estendere l’influenza nella regione. Dopo tutto, la Turchia, e in particolare il primo ministro Erdogan, aveva guadagnato una certa popolarità verso la “strada araba” per qualche tempo, e lo stesso AKP aveva legami e affinità con il movimento dei Fratelli Musulmani che era ben organizzato nelle rivolte di opposizione in molti Paesi arabi. Per questo si sperava in un’espansione della partecipazione, con una governance più democratica nel mondo arabo, che avrebbe significato l’ascesa al potere di governi dai legami più stretti con la Turchia. Il governo era pronto a sostenere le rivolte in generale e poi la transizione in Paesi come l’Egitto attraverso aiuti economici, trasferimento di competenze e sostegno politico. Dopo l’elezione del candidato dei Fratelli Musulmani Muhammed Morsi a presidente dell’Egitto, con la Turchia si è iniziato a parlare di stabilire una partnership strategica,[53] qualcosa che non era mai stato possibile prima e se realizzato avrebbe potuto cambiare gli equilibri del potere nel quadrante in modo importante. Quindi le aspettative della Turchia sul suo futuro ruolo attivo in una regione in trasformazione erano piuttosto alte.
Tuttavia, divenne presto chiaro che, piuttosto che portare a una trasformazione verso governi più democratici e partecipativi, le rivolte (con l’eccezione della Tunisia) avrebbero portato all’imposizione di governi autoritari o peggio ancora alle guerre civili in Siria e Libia, innescando allo stesso tempo interventi esterni e intensificando la concorrenza tra le potenze regionali. Questi sviluppi post-rivolta hanno messo in luce i limiti della Turchia nella sua ricerca di leadership regionale e nella sua capacità di influenzare gli eventi a suo piacimento.
Soprattutto dopo il crollo del 2013 del presidente Morsi in Egitto e la rapida evoluzione della rivolta siriana in una guerra civile prolungata che coinvolge potenze regionali ed extra-regionali, le élite della politica turca hanno iniziato a percepire gli sviluppi in Mediterraneo orientale come in gran parte presentanti nuove minacce alla sicurezza nazionale e alle aspirazioni regionali della Turchia. L’instabilità lungo il confine turco con la Siria (e l’Iraq), compresi i numerosi attacchi terroristici e il conseguente massiccio flusso di rifugiati non hanno migliorato la situazione. Negli anni la Turchia è stata coinvolta direttamente, anche militarmente, nelle guerre civili in corso in Siria e Libia. Di conseguenza, la nuova politica della Turchia in Medio Oriente ha cominciato a mostrare le seguenti caratteristiche: maggiore percezione delle minacce alla sicurezza nazionale; inserimento nella polarizzazione geopolitica della regione e impegno in una competizione a somma zero con altre potenze regionali; maggiore uso del potere militare, con assunzione di comportamenti più rischiosi; e preferenza per azioni unilaterali, con una certa riluttanza a fare affidamento alle alleanze tradizionali, bilanciando una politica tra le maggiori potenze attraverso la ricerca di autonomia.
Sono da considerare di fondamentale interesse gli sviluppi in Siria, che condivide con la Turchia un confine lungo oltre 800 km. Nei primi anni della crisi siriana, l’obiettivo principale della Turchia era il rovesciamento del regime di Bashar al-Assad e così Ankara si è impegnata a organizzare e sostenere politicamente e militarmente le forze di opposizione. Tuttavia, soprattutto dopo il 2016, le priorità strategiche della Turchia in Siria sono cambiate. La dichiarazione di un “sistema democratico federale” chiamato Rojava dal gruppo curdo siriano, il Partito dell’Unione Democratica (PYD) e i suoi alleati nel nord della Siria nel marzo 2016[54] hanno portato a un cambiamento nella politica turca. La Turchia era già preoccupata del consolidamento del controllo da parte del PYD sulla popolazione curda, e dell’eliminazione dei gruppi curdi suoi rivali in Siria già nel 2012. Funzionari dell’AKP si lamentavano pubblicamente del PYD (partito dell’unione democratica) in Kurdistan e dei suoi legami con il Partito dei lavoratori (PKK) della Turchia, minacciando di usare la forza se necessario. A quel tempo l’obiettivo del governo era principalmente quello di convincere i suoi alleati della N.A.T.O., in particolare gli Stati Uniti, per sostenere l’idea della Turchia di creare una zona cuscinetto lungo il confine.[55]
Ciò che ha reso le cose più complicate per la Turchia è stato che il PYD e il suo gruppo di armate, le Unità di protezione popolare (YPG), era diventato il principale alleato statunitense ed europeo nella guerra contro il cosiddetto Stato Islamico in Iraq e Siria (ISIS), combattendo sul campo come parte della ”guerra surrogata” del presidente degli Stati Uniti Barack Obama.[56] Come risultato di questa cooperazione, il PYD/YPG è stato in grado di espandere il proprio controllo oltre le tre enclavi curde nel nord della Siria al confine con la Turchia, vale a dire Afrin e Kobane nella provincia di Aleppo e Jazira nella provincia di Hassakeh, per le quali il PYD/YPG aveva già dichiarato l’esistenza di “amministrazioni autonome”. Tra queste, anche la regione Rojava, annunciata nel marzo 2016 ed estesa ulteriormente, comprendendo poi aree di più recente acquisizione, principalmente arabe e turkmene, che il YPG aveva sottratto all’ISIS.
Il governo di Erdogan, percependo questi sviluppi come una minaccia diretta alla sicurezza nazionale turca, aveva definito come priorità numero uno della sua politica nel quadrante il contrasto alle aspirazioni del PYD nel nord della Siria.[57] Inoltre la Turchia è stata influenzata anche dal referendum sull’indipendenza indetto dal governo regionale del Kurdistan (KRG) in Iraq nel settembre 2017. Questi sviluppi sembravano indicare una crescita del movimento per la ricerca curda di autonomia e indipendenza politica, nonostante sullo sfondo ci fosse il fallimento dei colloqui di pace tra Turchia e PKK nel 2015 e la conseguente priorità della questione curda a livello nazionale in Turchia. Da lì, e in modo simile agli anni ’90, la politica della Turchia nelle sue immediate vicinanze è stata guidata principalmente dalla questione curda.
La politica della Turchia verso tutto il Medio Oriente è cambiata quindi in risposta alle trasformazioni strutturali globali e regionali, nonché a causa dei cambiamenti sulla scena politica interna. Fino al 2011 la Turchia ha dato la priorità al soft power e all’economia e alla politica impegni nella regione. Tuttavia, più recentemente e soprattutto dal 2016 Ankara ha iniziato a usare sempre più il potere militare per perseguire i suoi obiettivi. Questo è stato, in particolare, il caso della Siria, dove i militari turchi hanno lanciato diverse operazioni quando Ankara ha iniziato a percepire minacce dirette alla sicurezza dei suoi cittadini.
La Turchia ha condotto quattro operazioni militari in Siria negli ultimi quattro anni e due nel nord dell’Iraq dal maggio 2019, ha firmato un accordo di cooperazione per una delimitazione marittima e militare con il Governo di Accordo Nazionale riconosciuto dalle Nazioni Unite (GNA) in Libia.
Lo sviluppo delle relazioni turco-russe ha permesso alla Turchia di lanciare la sua prima operazione militare, Operazione Euphrates Shield, nell’agosto 2016, con l’obiettivo di respingere le forze curde e dell’ISIS dal confine e quindi formare un cuneo tra i curdi siriani per impedire qualsiasi collegamento territoriale tra le province di Afrin e Kobane, garantendo così la continuità territoriale del Rojava. Questa è stata seguita da un’altra operazione militare, l’operazione del gennaio 2018 Olive Branch, questa volta contro Afrin, che il governo sosteneva fosse diventata fonte di oltre 700 attacchi contro la Turchia.[58] Infine, nell’ottobre 2019 dopo negoziati con Washington, la Turchia ha avviato un’altra operazione militare, Operazione Peace Spring, nel nord-est della Siria. Tutte queste operazioni militari miravano a prevenire l’emergere di una regione curda autonoma nel nord della Siria. Mentre le operazioni militari turche sono riuscite a prevenire un controllo del PYD nell’area contigua oltre il suo confine, non potevano raggiungere la piena estensione di quella zona cuscinetto pianificata. In effetti, né gli Stati Uniti né la Russia sembravano essere disposti e capaci di rispondere alle richieste della Turchia di operare per un ritiro completo del YPG.[59]
Parallelamente, sempre nell’ottobre 2019, il governo ha avviato un’operazione militare nel nord dell’Iraq all’inseguimento del PKK, dove attacchi aerei hanno preso di mira aree nella regione dell’Hakurk. Ciò è stato possibile quando Ankara ed Erbil hanno iniziato un riavvicinamento, dopo un periodo di raffreddamento delle relazioni dovuto al referendum sull’indipendenza del KRG (Governo Regionale del Kurdistan iracheno) a settembre 2017. A metà giugno 2020, la Turchia ha lanciato anche un’estesa campagna militare di terra e di aria, le operazioni Claw Eagle e Claw Tiger, nel nord dell’Iraq, in particolare nelle montagne Qandil, nel distretto di Sinjar e Makhmur, contro il PKK.
In un gioco di bilanciamento tra gli Stati Uniti, suo tradizionale alleato, e la Russia in Siria, e con i cambiamenti nell’impegno degli Stati Uniti nella regione e la crescita del ruolo della Russia, la Turchia è arrivata a compiere un complesso atto di equilibrio tra i due Stati. Il governo dell’AKP, anche se diffidente verso entrambe le parti e consapevole della forte divergenza di interessi su alcune questioni, ha cercato di trovare un equilibrio sulla Siria così come in Libia.
La Turchia è stata infatti recentemente coinvolta nella guerra civile in Libia. Come parte della sua concorrenza con l’asse saudita-emiratino, la Turchia stava già sostenendo il governo di unità nazionale libico (GNA) riconosciuto dall’ONU contro le forze allineate con l’esercito nazionale libico di Haftar, sostenuto da Emirati Arabi Uniti, Egitto, Arabia Saudita, Russia e Francia. Ma l’interesse della Turchia per la guerra civile libica è cresciuto parallelamente alla crescita del Mediterraneo orientale come punto focale importante per la politica estera e di sicurezza turca, in particolare per l’incrocio tra la politica energetica, i diritti di sovranità marittima, e i vecchi problemi come la questione di Cipro che hanno fatto di quest’area un nuovo hotspot geopolitico.
Negli ultimi anni, Ankara è stata turbata dagli sviluppi in materia di energia e sicurezza nel Mediterraneo orientale, centro di una sfida tra i diritti della Turchia e dei turco-ciprioti e gli sforzi per il loro contenimento in particolare da parte di Israele, dei greco-ciprioti, della Grecia e dell’Egitto.[60] Con la decisione di adottare una politica proattiva contro questi sviluppi piuttosto che di reazione agli eventi, come perseguito in precedenza, il governo dell’AKP ha firmato un memorandum d’intesa sulla delimitazione delle aree di giurisdizione marittima nel Mediterraneo tra la Turchia e il governo di unità nazionale libico, guidato da Al-Sarraj a Tripoli. A questo è seguito un accordo sulla sicurezza che ha reso possibile il dispiegamento di personale dell’esercito turco in Libia.[61] Il supporto militare della Turchia ha spostato gli equilibri di potere in Libia e ha aiutato il governo di Al-Sarraj a respingere l’avanzata delle forze del generale Haftar.
Nel frattempo, è aumentata la possibilità di un’escalation militare nella regione, dato l’inizio di esplorazioni di gas naturale nel Mediterraneo orientale da parte di navi della marina turca, in particolare nelle acque contestate al largo di Cipro. Inoltre, perseguendo la sua politica nel Mediterraneo orientale e con la partecipazione nel conflitto libico, la Turchia si è opposta agli Stati Uniti e all’UE, in particolare Francia, e Russia.
Molti elementi della nuova politica estera turca in Medio Oriente possono così sintetizzarsi in pronte soluzioni militari, impegno in comportamenti rischiosi e unilateralismo.
Un altro esempio di comportamento rischioso si è verificato più di recente, all’inizio del 2020, a Idlib in Siria, dove era stata creata una zona di de-escalation di un accordo del 17 settembre 2018 tra Russia e Turchia a Sochi, che stabiliva dodici avamposti turchi di osservazione nella zona. Per la Turchia, Idlib è importante per due ragioni principali. In primo luogo, come parte delle sue aspirazioni ad essere una potenza regionale; più recentemente a causa della sua percezione della minaccia nei confronti della Siria e de curdi siriani, il governo dell’AKP vuole avere voce in capitolo sul futuro della Siria quando e se si arriverà a una soluzione politica in cui risulterà l’unica potenza che abbia sostenuto l’opposizione siriana. Alla fine del 2019, Idlib era diventato l’ultimo rifugio sicuro in Siria per la miriade di forze di opposizione che combattono il regime di Assad e i suoi alleati. Il governo dell’AKP voleva che la situazione a Idlib rimanesse tale fino a quando non si fosse arrivati a una soluzione politica della crisi siriana. In secondo luogo, Ankara voleva impedire un’altra ondata di rifugiati che attraverserebbe il confine se gli attacchi del regime siriano continuassero. Gli sviluppi metterebbero il governo in una posizione difficile, a causa dell’aumento della pressione interna per limitare i nuovi arrivi e garantire il ritorno di almeno alcuni dei 3,5 milioni di rifugiati siriani attualmente in Turchia. Questi obiettivi contrappongono la Turchia ai suoi partner di Astana, Russia e Iran, e dimostrano come l’interpretazione degli accordi di Sochi della Turchia differiva da quella dei sostenitori del regime di Assad in Siria. Mentre la Turchia ha percepito l’accordo come uno status quo fino a quando non verrà raggiunta una soluzione politica alla crisi siriana, la Russia lo ha visto come una soluzione provvisoria fino a quando il regime di Assad non riconsoliderà finalmente il suo controllo.
Dopo aver ristabilito il controllo su gran parte della Siria, il regime di Assad con l’aiuto dei suoi alleati russi e iraniani ha cominciato ad avanzare verso nord-ovest nella seconda metà del 2019. La situazione in via di sviluppo a Idlib ha portato a una drammatica escalation quando il 27 febbraio 2020 attacchi aerei hanno ucciso 33 soldati turchi. In risposta, la Turchia ha immediatamente lanciato un’incursione militare a Idlib (operazione Spring Shield). Questo l’offensiva si è conclusa con un cessate il fuoco firmato a Mosca tra la Turchia e la Russia, in una serie di accordi denominati “protocolli aggiuntivi” all’accordo di Sochi del 5 marzo 2020. Al centro dei protocolli aggiuntivi c’è la ridefinizione della linea di battaglia della posizione attuale e la creazione di una zona cuscinetto di 6 km su entrambi i lati dell’autostrada M4 molto contestata, che sarebbe pattugliata congiuntamente dai turchi e forze russe. L’accordo ha posto fine temporaneamente all’escalation.
Parallelamente a questo attivismo militare, l’investimento della Turchia nel suo settore della difesa è aumentato notevolmente negli ultimi anni. L’industria della difesa turca, in termini sia di ricerca e sviluppo che di produzione, è stata supportata dal governo, che la considera parte del progetto per raggiungere l’autonomia.[62] Inoltre, secondo la Presidenza delle industrie della difesa, che riporta direttamente all’ufficio del Presidente nel nuovo sistema presidenziale, La Turchia ha iniziato ad esportare circa un terzo della sua produzione.[63]
La nuova politica della Turchia in Medio Oriente si è così sviluppata nel contesto di un crescente rapporto problematico con i suoi alleati tradizionali. Le relazioni Turchia-UE erano già ferme da tempo e si svolgevano principalmente all’interno del contesto dell’accordo sui rifugiati del 2016 e dei continui legami economici. L’Unione Europea ha continuato a criticare la Turchia per essere scivolata verso l’autoritarismo, mentre il governo dell’AKP ha scelto sempre più di ignorare l’UE e si è concentrato sulle sue relazioni con i singoli Stati dell’UE che hanno fluttuato in base alle considerazioni della realpolitik del tempo. Più significativamente per la politica mediorientale della Turchia, la politica di Ankara è anche diventata sempre più divergente con quella di Washington. La Turchia non è riuscita convincere gli Stati Uniti a tagliare il loro sostegno e la cooperazione con il PYD,[64] e quindi ha affrontato la realtà di un’entità curda sostenuta dagli Stati Uniti con legami con il PKK lungo il suo confine meridionale. L’AKP era già destabilizzato dall’indifferenza degli Stati Uniti per la lotta della Turchia contro la rete gulenista, accusata di aver organizzato il tentativo di colpo di stato nel luglio 2016. Dal loro punto di vista, gli Stati Uniti sono stati lenti ad esprimere sostegno e il governo turco non è riuscito a estradare Fethullah Gulen, un religioso con ampi legami nell’esercito, nella magistratura e nella burocrazia turca, residente in Pennsylvania.[65] Ciò ha contribuito ulteriormente alla mancanza di fiducia da parte dell’AKP nei confronti degli Stati Uniti.
Tuttavia, il governo dell’AKP era consapevole della necessità di continuare la cooperazione con gli Stati Uniti per quanto (e quando) possibile. Pertanto, la Turchia sperava che aderendo più attivamente alla coalizione guidata dagli Stati Uniti contro l’ISIS e consentendo l’uso da parte degli Stati Uniti della base aerea turca di Incirlik, non solo potesse affrontare la crescente minaccia dell’ISIS al suo confine e in Turchia, ma anche aumentare il suo margine di manovra in Siria. Allo stesso modo, i circoli dell’AKP hanno continuato a fare riferimento a un rapporto speciale tra il presidente Erdogan e il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che speravano potesse aiutare in alcuni dei problemi che stavano affrontando, in particolare in Siria.[66]
Nel frattempo, dopo il 2016 l’AKP ha sviluppato relazioni più strette con la Russia. Ciò è stato considerato cruciale dopo l’intervento militare diretto della Russia nel conflitto siriano nel 2015, che per la prima volta ha dato il sopravvento nella guerra civile al regime. Subito dopo l’intervento militare russo in Siria, tuttavia, le relazioni tra Mosca e Ankara si sono notevolmente deteriorate. Ben presto i bombardamenti russi iniziarono a colpire anche zone di confine con l’opposizione siriana appoggiata dalla Turchia, che alla fine portarono all’abbattimento di un bombardiere russo da parte di un F-16 turco il 24 novembre 2015. Di conseguenza, le relazioni Turchia-Russia sono precipitate. Oltre al taglio dei legami economici e turistici, Mosca ha avviato a politica di impegno con i gruppi curdi in Siria e nella stessa Turchia, che ha ulteriormente contribuito alla percezione della minaccia da parte del governo turco.[67]
Consapevole del ruolo cruciale della Russia in Siria, e desideroso di trovare un equilibrio con gli Stati Uniti, l’AKP ha risposto all’ambiente geostrategico emergente tentando di sviluppare migliori relazioni con Mosca nonostante tutto. Per l’abbattimento del jet russo sono stati incolpati i gulenisti, accusati di aver tentato di creare una spaccatura tra Turchia e Russia. Inoltre, per la Russia, ciò ha fornito l’opportunità di creare una spaccatura tra la Turchia e gli alleati della N.A.T.O., principalmente gli Stati Uniti, nonché di bilanciare l’alleanza con l’Iran in Siria. In questo modo è stata anche fornita alla Turchia l’opportunità di usare la Russia come bilanciatore per realizzare gli interessi in Siria.[68] Il risultato è stato la creazione del processo di Astana tra Russia, Turchia e Iran, così come il vertice dei leader di Sochi, in cui si è provato a coordinare le politiche di questi Paesi in Siria. Il processo è stato rafforzato da frequenti incontri e telefonate a livello di leadership tra Turchia e Russia. Eppure, alla fine, l’AKP è sempre stato consapevole dei limiti di questa partnership, dato che le relazioni tra i due Paesi ha continuato ad essere caratterizzata da interessi divergenti e con uno sfondo di sfiducia reciproca.[69]
Così, in particolare nel tentativo di raggiungere i suoi obiettivi in Siria, la Turchia è diventata parte di un difficile gioco di bilanciamento tra Stati Uniti e Russia. Ciò ha permesso alla Turchia di impegnarsi in operazioni militari nella Siria settentrionale per stabilire una zona sicura, ma allo stesso tempo si è inserita in una posizione pericolosa nella quale può essere usata da entrambe le parti per la loro lotta reciproca. Soprattutto con l’escalation della concorrenza tra Stati Uniti e Russia in Mediterraneo, la politica di bilanciamento della Turchia diventa quindi ancora più difficile.
- Le relazioni turche con l’asse iraniano e saudita
La Turchia è stata impegnata in un’intensa competizione sia con l’asse guidato dall’Iran che con il blocco Arabia saudita-Emirati Arabi Uniti (EAU) in tutta la regione. Di conseguenza, la politica della Turchia sul nuovo Medio Oriente è caratterizzata da una maggiore percezione delle minacce, una competizione a somma zero con altre potenze regionali ricorrendo in modo crescente all’uso della forza militare, una politica del rischio calcolato e la preferenza per un’azione unilaterale.
È possibile osservare che, prima delle rivolte arabe, il governo turco dell’AKP era attento a coltivare le relazioni con tutti gli attori regionali riluttanti a far parte della principale rivalità nella regione tra Arabia Saudita e Iran. Strategie assertive di tutte le potenze regionali dopo le rivolte arabe, tuttavia, hanno portato a un’intensa competizione tra loro per il potere e l’influenza e, questa volta, anche la Turchia ha preso parte alla polarizzazione regionale. La sponsorizzazione turca dei movimenti dei Fratelli Musulmani nella regione, e la sua ricerca di un ruolo egemonico regionale hanno portato a un deterioramento delle relazioni con l’asse guidato dai sauditi,[70] che comprende principalmente Emirati Arabi Uniti ed Egitto. La competizione si gioca tra l’asse saudita-emirati e la Turchia in diverse parti della regione, ma in particolare nelle guerre civili in Libia e Siria, e per quanto riguarda la cooperazione Turchia-Qatar nel Golfo.[71]
Mentre la concorrenza della Turchia con l’asse saudita-emiratino si è allargata all’intera regione, la sua lotta con l’Iran, leader di un altro polo, è stata limitata in Siria e in una certa misura in Iraq. In Siria, Ankara e Teheran hanno sostenuto rispettivamente l’opposizione e il regime. Tuttavia, non hanno lasciato che la concorrenza in Siria si traducesse una ripartizione totale dei legami esistenti. In seguito, nel periodo successivo al 2016, sono emerse nuove aree di contesa. L’Iran ha assunto una posizione contraria alle operazioni dell’esercito turco in Siria, mentre la Turchia è stata turbata dal crescente attivismo dell’Iran con le sue milizie a sostegno del regime nelle zone vicine alla Turchia.
Tuttavia, nonostante questi problemi, i due Paesi sono entrati a far parte del processo di Astana avviato dalla Russia nel dicembre 2016 e il relativo meccanismo di vertici di leadership, oltre al processo di Sochi, che mirava a coordinare le relazioni tra le tre potenze in Siria.
Anche in Iraq, nonostante l’esistenza di divergenti interessi e una competizione per l’influenza, i due Paesi sono riusciti a evitare direttamente e confronto aperto. La Turchia ha considerato la decisione dell’amministrazione Trump del ritiro nel maggio 2018 dal piano d’azione globale congiunto e dall’accordo sul nucleare iraniano come un passaggio sfavorevole, e ha continuato il suo dialogo con l’Iran, anche se i due Paesi si sono trovati faccia a faccia militarmente sul campo a Idlib in Siria nel 2020.
Le relazioni della Turchia con l’Iran sono proseguite lungo il vecchio percorso di concorrenza e cooperazione, e quindi non si è trasformato in un gioco a somma zero come era il caso dei rapporti della Turchia con l’asse saudita-emirati. Tuttavia, parallelamente agli sviluppi sul terreno in Siria, le tensioni con l’Iran sono recentemente aumentate di nuovo intorno a Idlib nel 2020.
Nel complesso, quindi, la Turchia è rimasta impegnata facendo concorrenza ai due maggiori blocchi di potere della regione. L’unico Paese con cui la Turchia ha sviluppato legami più stretti durante questo periodo è stato il Qatar. I due Paesi hanno sostenuto i movimenti dei Fratelli Musulmani nella regione in seguito alle rivolte arabe. La base militare turca in Qatar, nata nel 2015 più come gesto altamente simbolico che altro, si è notevolmente ampliata dopo la crisi del Qatar del 2017, quando l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e altri Stati del Golfo hanno posto il Qatar sotto un embargo politico e commerciale per il suo sostegno ai partiti dei Fratelli Musulmani e ai rapporti con Iran. Questa crisi ha portato a un miglioramento generale delle relazioni militari tra il Qatar e la Turchia, comprese visite ufficiali, espansione degli investimenti nell’industria della difesa, e un addestramento congiunto per esercitazioni militari.[72] L’intensificarsi delle relazioni tra Turchia e Qatar ha però contribuito ad aumentare la percezione delle minacce in Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti per quanto riguarda le politiche turche in tutto il quadrante, così che la Turchia si è ritrovata bloccata in un dilemma di sicurezza durante questo periodo.
In altre parole, in linea con i cambiamenti nella politica generale della Turchia in Medio Oriente, anche le relazioni della Turchia con il Golfo si sono quindi trasformate negli ultimi anni. Nel primo decennio degli anni 2000, come parte del suo attivismo in Medio Oriente, il governo dell’AKP ha sviluppato rapporti economici, strategici e politici con i singoli stati del Golfo, in particolare Arabia Saudita, così come con il Consiglio di cooperazione del Golfo (GCC) nel suo insieme. Dopo le rivolte arabe, cominciarono ad emergere divergenze tra le posizioni della Turchia e dell’Arabia Saudita, ma questo non ha inizialmente portato al deterioramento delle relazioni bilaterali.[73] Successivamente, il governo dell’AKP ha dichiarato il suo sostegno all’intervento saudita in Yemen a pochi giorni dall’inizio dell’operazione. Anche Erdogan sembrava schierarsi apertamente nella rivalità saudita-iraniana, criticando il ruolo iraniano in espansione nella regione.[74] Soprattutto nel 2016, i contatti tra Turchia e Arabia Saudita si sono intensificati. Oltre alle visite reciproche a livello di leadership, i due Paesi hanno istituito un Consiglio di cooperazione strategica e hanno sottolineato la cooperazione e il coordinamento per la situazione in Siria, in particolare contro Iran e Isis. Una serie di attività hanno intensificato le relazioni tra i due Stati: il principe ereditario Mohammed bin Nayef ha visitato la Turchia per due volte in sei mesi; il GCC ha designato il movimento di Gulen come organizzazione terroristica; il Dialogo sulla Sicurezza con il GCC si è riunito a Riad e ha approvato una dichiarazione di 38 punti che sostiene legami economici e militari più forti ed esprime sostegno per l’attuale regime turco, attraverso un impegno condiviso per le integrità territoriali e la determinazione a partecipare alla lotta contro il terrorismo.[75]
In seguito, il tour del Golfo di Erdogan nel 2017, con visita di Arabia Saudita, Qatar e Bahrain, è stato oggetto di propaganda da parte del governo dell’AKP come un altro esempio di solidarietà intra-regionale,[76] con focus sugli sviluppi in Siria e sull’ulteriore sviluppo delle relazioni economiche. Tuttavia, dopo la visita, i rapporti tra Ankara e Riyadh hanno cominciato a deteriorarsi rapidamente proprio a causa della crisi del Qatar scoppiata nel giugno 2017. Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti hanno presentato un elenco di 13 punti di richieste al Qatar, una delle quali era la chiusura della base militare turca e il blocco delle operazioni militari congiunte all’interno del Qatar. La risposta turca alla crisi è stata quella di rafforzare i suoi legami con il Qatar potenziando le forze armate e le relazioni economiche. Da allora l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti hanno iniziato a criticare pubblicamente i legami del governo dell’AKP con i Fratelli Musulmani e a ritrarre la Turchia come forza distruttiva nella regione.[77] La brutale uccisione del giornalista saudita Jamal Khashoggi nel consolato saudita a Istanbul ha portato a un ulteriore deterioramento delle relazioni, in quanto la Turchia ha affermato che l’omicidio era stato pianificato dai massimi livelli in Arabia Saudita. Pertanto, nel contesto attuale, anche il Golfo è entrato a far parte della competizione geostrategica che vede Turchia e Qatar da un lato, e Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti dall’altro.
In questo contesto, le strette relazioni dell’amministrazione Trump con l’asse EAU-Sauditi sono state viste con preoccupazione da Ankara. La proposta degli Stati Uniti per una Alleanza Strategica del Medio Oriente, la cosiddetta NATO araba, è stata percepita in questa luce. L’AKP si è opposta a tale alleanza anche perché prendeva di mira l’Iran, per il suo rapporto complesso con questo Paese, da un lato altamente competitivo ma dall’altro con elementi cooperativi. Recentemente sia l’Iran che la Russia hanno avanzato le loro proposte per la sicurezza regionale nel Golfo. L’iniziativa dell’Iran di una “Coalition for HOPE”, con l’obiettivo di escludere tutte le potenze extra-regionali e raggiungere la normalizzazione tra L’Iran e gli stati arabi del Golfo attraverso il rispetto dei principi di Westfalia, mirava direttamente a porre fine alla rivalità tra l’Iran e il blocco guidato dai sauditi, oltre che a rivelarsi una risposta alla proposta degli Stati Uniti.
Il concetto russo di sicurezza per il Golfo, dall’altra parte, potrebbe basarsi su una normalizzazione del quadro di sicurezza regionale con attori esterni che svolgono il ruolo di garante. È interessante notare che non ci sono state risposte ufficiali da parte del governo dell’AKP a queste proposte. Ciò probabilmente perché la Turchia non si è mai trovata al centro di questo quadro, il quale invece si concentra principalmente sull’affrontare la rivalità tra Arabia Saudita e Iran, vista da Stati Uniti e Russia come una delle principali fonti di instabilità nella regione. Eppure, dal punto di vista della Turchia, tutti i conflitti e le rivalità nella regione sono diventati interrelati e un “approccio globale” alla sicurezza regionale che affronti solo la rivalità tra Arabia Saudita e Iran non solo non porterebbe stabilità alla regione, ma non risolverebbe i problemi della Turchia legati alla sua sicurezza nazionale e alla sua rivalità con l’asse saudita-EAU-Egitto.
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