Scarica il file in PDF – le possibili sarajevo che spaventano il mondo- luglio 2021- Sanfelice
LE STRATEGIE DELLE GRANDI POTENZE
E LE AREE DI CRISI:
le possibili Sarajevo che spaventano il mondo
Amm. Sq. Ferdinando SANFELICE di MONTEFORTE
Introduzione
La visita del Presidente Biden in Europa ha incluso una serie di riunioni di vertice. Anzitutto vi è stato il G7 di Carbis Bay in Cornovaglia, ospitato dal governo britannico, che ha sanzionato la conversione USA ai problemi ambientali, un armistizio economico tra Stati Uniti e Unione Europea, con la sospensione dei dazi e il congelamento delle dispute, nonché la promessa di collaborazione per mitigare gli effetti della pandemia, fornendo anche un sostanziale aiuto ai Paesi poveri. Il G7, poi, ha puntato l’indice sulla concorrenza economica cinese, e sulla necessità di contenere l’espansionismo, non solo commerciale, di Pechino e l’aggressività di Mosca.
Subito dopo il G7, si è avuto il vertice della NATO, in cui sono stati ribaditi i contrasti con Russia e Cina, classificate come “Autocrazie ostili” e quindi pericolose. Nel comunicato finale, in particolare, è stato dichiarato che “le azioni aggressive della Russia sono una minaccia per la sicurezza euro-atlantica”[1].
Ma la rassegna dei pericoli che corre l’Occidente non è finita lì. La NATO, infatti, ha ricordato che “il terrorismo in tutte le sue forme e manifestazioni rimane una minaccia persistente per tutti noi. Attori statuali e non-statuali sfidano l’ordine internazionale basato su regole, e cercano di indebolire la democrazia nel mondo. L’instabilità al di là delle nostre frontiere contribuisce anche alla migrazione irregolare e al traffico di esseri umani. La crescente influenza, e le politiche internazionali della Cina possono presentare sfide che dobbiamo affrontare insieme in quanto Alleanza. Ci impegneremo con la Cina nell’ottica di difendere gli interessi securitari dell’Alleanza”[2].
Questa panoramica, tracciata dall’Alleanza, copre un po’ tutte le sfide, i pericoli e le minacce da affrontare nei prossimi anni, e non a caso le stesse note sono risuonate nelle sale del Justus Lipsius, l’edificio principale dell’Unione Europea, dove, inoltre, l’armistizio commerciale tra le due sponde dell’Atlantico è stato sanzionato, con la soddisfazione di tutti.
In sintesi, da questa serie di riunioni di vertice emerge chiaramente un fatto: gli Stati Uniti intendono puntare sull’appoggio europeo per condurre il difficile gioco trilaterale con le altre due Grandi Potenze, e hanno ricevuto risposte rassicuranti, almeno in via preliminare.
Questo rinnovato interesse degli Stati Uniti per una collaborazione con l’Europa è anche la conferma che il tentativo, compiuto dalla precedente Amministrazione USA, di creare legami con la Russia, a scapito dell’Europa, era stato un sostanziale fallimento. Il risultato, infatti, era stato l’isolamento degli USA rispetto ai propri “Alleati Naturali”, mentre, allo stesso tempo, la Russia si era sentita libera di riprendere la sua strategia revisionista, approfittandone per espandersi a spese dell’Ucraina.
La rinascita delle teorie realiste
Guardando a questi eventi, da un punto di vista più generale, quanto è emerso sembra mostrare che alcune tendenze, preannunciate dai teorici delle relazioni internazionali, si stiano consolidando. La conferma è venuta proprio dal Presidente USA, quando, come si è visto, ha cercato di ottenere la solidarietà degli altri membri del gruppo, per contenere le “autocrazie”, cioè la Russia, e la stessa Cina, considerate potenze espansioniste, ottenendo un consenso, sia pure riluttante.
Se qualcuno aveva finora dubitato del fatto che viviamo in un mondo multipolare, ne ha avuto piena conferma. Ma non c’è solo questo: nell’attuale momento storico, caratterizzato dalla diminuita influenza delle ideologie sulla politica – almeno nel Nord del pianeta – diventa plausibile anche l’affermazione che le relazioni internazionali siano sempre meno influenzate dal paradigma dello scontro di civiltà, come avvenuto fino a pochi anni or sono, specie dopo che l’Occidente ha trovato un modus vivendi con una parte della Galassia Islamica.
Non inganni la dichiarazione, contenuta nel già citato comunicato finale del vertice NATO, circa i pericoli corsi dalla democrazia nel mondo: essendo nata come Alleanza difensiva, la NATO non può neanche pensare di imporla manu militari. Si è trattato, infatti, solo di una nota marginale, nell’ambito di un comunicato di oltre 20 pagine, evidentemente a fini interni degli Stati Uniti, senza che vi fosse alcuna elaborazione successiva, con annesso programma d’azione.
I paradigmi delle teorie realiste, quindi, appaiono i meglio adeguati a consentirci di intravedere gli sviluppi futuri. Siamo perciò in una situazione che, pur con sostanziali differenze, pare ricalcare il gioco, oltremodo pragmatico, di relazioni multipolari, detto del “Concerto delle Potenze”, come avveniva ai tempi di Bismark.
Proprio l’illustre statista tedesco del XIX secolo è, infatti, il modello dei teorici di questa tendenza, la cui convinzione è che il sistema dei rapporti internazionali sia caratterizzato da un notevole grado di anarchia, in assenza di un “giudice-arbitro” autorevole, almeno a livello delle cosiddette Grandi Potenze.
Queste ultime, incuranti delle regole stabilite nei consessi internazionali (pur accettate anche da loro), cercano di accrescere il proprio potere a danno alle altre, fino auspicabilmente a diventare “egemoni” almeno nella propria regione. Per ottenere questo, in sintesi, ogni “Grande del Mondo” tenderà a “difendere l’equilibrio di potenza, quando all’orizzonte si vedono cambiamenti a favore di altri Stati, e cercherà di ostacolarlo quando la direzione del cambiamento è in proprio favore”[3].
Per influenzare, poi, gli eventi nelle altre parti del globo, ogni Grande Potenza cercherà di fare in modo che, nelle altre regioni del mondo, vi sia più di una Nazione preminente, in modo che non vi sia un potenziale egemone regionale e che la competizione tra queste Nazioni, cha aspirano al dominio della loro regione, riduca la loro capacità di influire sugli affari internazionali.
In nome di cosa, secondo i teorici realisti, si svolge questa competizione, ricca di colpi bassi, che possono moltiplicarsi fino a degenerare in una guerra tra Nazioni? La principale preoccupazione, secondo questi studiosi, è “la sopravvivenza”, intesa come il “mantenimento della propria integrità territoriale e l’autonomia del proprio ordine politico interno”[4]. Subito dopo viene il desiderio di ritagliarsi una fetta, la più grande possibile, del potere mondiale, per garantire al proprio popolo un benessere e una sicurezza sempre maggiori.
Proprio la parola “sicurezza”, sempre più usata ai giorni nostri nei comunicati ufficiali, cela delle complicazioni non da poco: anzitutto, la sicurezza è una sensazione, e il sentirsi collettivamente insicuri, anche se a torto, porta a compiere scelte irrazionali, come avvenne per la Gran Bretagna, nel XIX secolo, quando la paura di un’invasione dall’Europa spinse a costruire una serie di fortilizi costieri, presto soprannominati “Palmerston follies” (le follie di Palmerston), dal nome del Primo Ministro dell’epoca.
C’era in verità un precedente, a tale costosissima impresa, il che dimostra che, in Gran Bretagna, la ricerca della sicurezza era una preoccupazione viva da tempo: infatti, durante il periodo delle guerre contro Napoleone, erano state costruite ben 140 torri costiere, note come “Martello Towers”[5], per consentire l’avvistamento di flotte nemiche in avvicinamento alla costa britannica e costituire una prima linea di difesa litoranea. È ben vero che, al di là della Manica, la Grande Armée si stava preparando, apparentemente, a invadere l’isola, ma alcuni decenni dopo, il governo Palmerston non poteva certo invocare un tale pericolo imminente.
Viene poi il fatto che, più si sta bene, maggiori sono le esigenze di sicurezza, il cui perseguimento diventa un obiettivo sempre più ambizioso. Lo vediamo nei comportamenti quotidiani di tanti individui, e lo stesso accade per le Grandi Potenze. Infine, bisogna ammettere che, quanto maggiore è la sicurezza che creiamo intorno a noi, tanto più grave sarà l’instabilità intorno alla nostra “zona sicura”: l’esempio dei missili antimissili USA in Polonia, con le conseguenti reazioni del governo di Mosca, ne è solo l’ultimo esempio.
Perseguire i fini di accrescimento della sicurezza, non è comunque facile, dato che i governi di ogni Grande Potenza, a fronte della dinamica degli eventi mondiali, non conoscono fino in fondo le intenzioni dei propri concorrenti, e sono quindi animati da sospetto nei loro confronti. Ancora peggio: quando uno dei concorrenti appare particolarmente aggressivo, la paura si affaccia perentoria.
Anche se tutti gli studiosi ammettono che i governi sono tendenzialmente animati dalla razionalità, va detto che non tutti riescono a contenere le spinte provenienti dalle proprie opinioni pubbliche, quando reagiscono agli eventi del mondo.
Se è vero, infatti, quanto Mackinder notava, affermando che “l’attuale equilibrio di potenza politica è, naturalmente, il prodotto, da un lato, delle situazioni geografiche, sia economiche sia strategiche, e, dall’altro lato, del rapporto numerico, virilità (sic!), equipaggiamento e organizzazione delle popolazioni in competizione”[6], va ammesso che i fattori immateriali, come i sentimenti forti (l’odio, la cupidigia, e la stessa paura), esercitano una grande influenza sulle opinioni pubbliche, la cui pressione sui governanti non può essere sottovalutata.
Anche i contenziosi tra Nazioni minori sono un pericolo per il “Grande”, dato che questi potrebbe rischiare di rimanere impegolato in qualche conflitto senza fine, indebolendosi. Non mancano, nella Storia, esempi in questo senso e il pericolo che una richiesta di aiuto, da parte di uno Stato piccolo verso un Grande porti ad ostilità di dimensioni continentali non va sottovalutato.
Oltre alla paura, un altro motore potente dell’azione di governo, sul piano dei sentimenti forti, è il revanscismo, un termine coniato nel 1870, e che indica un: “programma, movimento e più in generale atteggiamento nazionalistico ispirato all’idea di r. («rivincita»), inteso cioè al recupero, eventualmente con una nuova guerra, del territorio e del prestigio perduti in seguito alla sconfitta in una guerra precedente”[7].
Il revanscismo, talvolta detto revisionismo, è stato per secoli la molla che ha spesso sconvolto gli equilibri di potenza nel mondo. Per ricordare solo i casi di revanscismo del XIX secolo, si può iniziare con Napoleone III, che fu eletto Presidente della Repubblica francese, prima di auto-proclamarsi Imperatore, promettendo di rendere di nuovo grande la Francia, ridotta a Potenza di secondo rango dal Congresso di Vienna. Dopo di lui, a causa della sconfitta del 1870-71, ci fu il movimento “boulangista”, un termine derivato dal cognome del suo esponente più importante, il generale Georges Boulanger, il paladino della rivincita francese nei confronti della Germania. Anche dopo la sua tragica morte – il generale, sconfitto politicamente e condannato per tradimento, si suicidò – l’espressione “la linea blu dei Vosgi” (i monti che delimitano l’Alsazia e la Lorena, diventate in quegli anni province tedesche), citata dal generale come l’obiettivo supremo da riconquistare, divenne un’espressione sempre più usata dal governo francese, per motivare l’opinione pubblica.
Ci vollero decenni prima che questo sogno si realizzasse, agevolato dalle rovinose mire espansionistiche della Germania di Guglielmo II, che portarono alla Grande Guerra. Nel novembre 1918, dopo quasi cinque anni di guerra senza limiti, la Germania fu costretta a chiedere un armistizio, e a firmare un Trattato di Pace dalle clausole estremamente onerose, tra le quali, appunto, la restituzione alla Francia dell’Alsazia e della Lorena, diventate province tedesche nel 1871.
Ma il revanscismo è, spesso, contagioso: fu proprio la rabbia del popolo tedesco contro queste misure, che portò al potere il Nazismo e il suo leader, Adolf Hitler, eletto a stragrande maggioranza in base a un programma revanscista. Se gli sconfitti nutrivano risentimenti, questo fenomeno contagiò anche i vincitori di quella guerra, per gli scarsi risultati ottenuti, dopo tanti sacrifici vittoriosi. La retorica tutta italiana della “Vittoria dimezzata” è l’esempio classico di come anche un vincitore si possa sentire frustrato nel vedere i propri alleati ritagliarsi una fetta della torta maggiore della propria.
Arrivando ai giorni nostri, sentiamo echi di revanscismo nelle dichiarazioni della leadership cinese, quando parla del “secolo delle umiliazioni”, “un elemento costante che, in maniera più o meno manifesta, compare di continuo nella attualità cinese”[8].
Il termine si riferisce, in modo esplicito, al periodo, durato poco più di un “secolo, che va dalla prima guerra dell’Oppio (1839-1842) alla nascita della Repubblica popolare cinese, fatto di shock culturali, traumi, umiliazioni, devastazioni, smembramenti territoriali”[9], causati dall’espansionismo europeo.
Arrivando a tempi a noi più vicini, dobbiamo rilevare che anche in Russia il revanscismo sta prendendo piede. Malgrado le dichiarazioni dei governi di Mosca, sulla volontà di assicurarsi un ambiente stabile, favorevole allo sviluppo economico, le iniziative russe in difesa dei compatrioti rimasti tagliati fuori dal Paese, per effetto dell’implosione dell’ex Unione Sovietica – contro la Georgia nel 2008 e contro l’Ucraina, in Crimea nel 2014 e nel Donbass subito dopo – hanno sinistre assonanze con l’espansione tedesca nel periodo nazista, tesa appunto a recuperare i territori abitati da connazionali, e persi per effetto del Trattato di Versailles del 1919.
Malgrado si ammetta, come già ricordato, che i governi sono in generale razionali e compiano quindi calcoli accurati per determinare le probabilità di successo, va tuttavia ribadito che l’influenza su di essi, esercitata da fattori immateriali, come la paura, il revanscismo (e l’avidità) può portarli a commettere errori fatali per le sorti del loro Paese. Non a caso, gran parte dei leader che, nel passato, hanno messo in atto politiche revansciste, come Napoleone III e Hitler, hanno portato il loro Paese alla rovina.
Altrettanto si può dire Guglielmo II e persino del grande Napoleone, che hanno praticato un espansionismo ad oltranza, fino a superare le proprie capacità di controllo e di conservazione. Le loro epopee, subito seguite da dolorose eclissi, sono la dimostrazione della validità degli insegnamenti della Strategia, che ribadiscono la necessità di non superare mai il “punto culminante dell’offensiva”[10]. Essere moderati dopo la vittoria, in sintesi, è la prova decisiva di saggezza, per un governo. Si pensi, ad esempio alla differenza tra due Presidenti USA, Bush padre, che evitò di invadere l’Iraq, e Bush figlio, che invece volle conquistare tale Nazione, finendo impegolato in una guerriglia senza fine.
Oltretutto, nell’era nucleare, che stiamo vivendo, gli eccessi di volontà espansionista potrebbero, purtroppo, portare alla fine della nostra civiltà, rendendo il nostro pianeta una distesa desolata sulla quale i pochi sopravvissuti vagherebbero in cerca del poco cibo disponibile. Non a caso, negli anni 1960, circolò l’espressione, attribuita – a torto – al generale americano Curtis le May, di “Bombardare il nemico finché non torni all’Età della Pietra”[11]. Questa espressione, anche se apocrifa, ben descrive le conseguenze più spaventose di un uso reale dell’arma nucleare.
Tutti pensano alla crisi di Cuba, come il momento critico, in cui si rischiò uno scontro nucleare, ma pochi sanno, a tal proposito, che il mondo è stato ancora più vicino allo stesso tipo di tragedia almeno una volta, durante la crisi dell’Ussuri tra URSS e Cina, nel 1967-69. Solo i buoni uffici del governo di Washington evitarono una guerra nucleare tra le due Potenze.
Quando si parla di errori di calcolo, la mente torna al dramma di Sarajevo, l’attentato terrorista del 1914 che portò alla morte dell’erede al trono dell’Austria-Ungheria, l’Arciduca Francesco Ferdinando, e di sua moglie, e causò lo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Che quella guerra abbia distrutto la preminenza mondiale dell’Europa è cosa ormai nota, ma ci volle un’altra guerra mondiale, dal 1939 al 1945 perché le Potenze comprendessero che in una lotta all’ultimo sangue tra Grandi Potenze ambedue i contendenti si distruggono a vicenda, lasciando spazio ad altre Potenze emergenti.
Per questo, il termine “Sarajevo” è diventato il sinonimo di una guerra, scatenata da un atto terroristico, capace di distruggere ambedue i contendenti.
“Giganti dai piedi d’argilla” o “Concerto delle Potenze”?
Premesso quanto sopra, l’incontro bilaterale tra il Presidente USA, Biden, e quello della Federazione Russa, Putin, al di là dei risultati pratici – che si spera abbia prodotto, in termini di azioni concrete – ha fatto nascere in alcuni la nostalgia per i “bei tempi andati” del Concerto delle Potenze, che erano in continuo contatto tra loro, e si riunivano ogni tanto per appianare i contenziosi, ridurre l’entità dei conflitti e trovare un modus vivendi che garantisse lo sviluppo dei rispettivi popoli.
Va detto, a onor del vero, che quel sistema di relazioni internazionali si rivelò estremamente faticoso da portare avanti, specie quando si verificò un brusco aumento della tensione internazionale, dovuta alle crescenti rivalità tra Grandi Potenze, tutte desiderose di costruirsi un proprio impero coloniale.
Si può affermare che il punto di non ritorno di tale sistema di relazioni internazionali fu la Guerra Boera, quando la Gran Bretagna riuscì ad annullare l’influenza tedesca sulle due Repubbliche del Transvaal e dell’Orange, le cui risorse di metalli preziosi erano appetite sia dal governo di Berlino, sia da quello di Londra. Da allora, la discesa verso l’olocausto della Prima Guerra Mondiale fu lenta, ma continua.
Tornando ai nostri giorni, il principale “difetto” dell’incontro Biden-Putin è stato l’assenza del leader cinese, Xi Jinping, un fatto tale da far sorgere il sospetto che la Cina fosse l’oggetto di un patto segreto russo-americano a danno di Pechino.
Non a caso, alla vigilia dell’incontro, il portavoce del Ministero degli Esteri, Zhao Lijian, ha tenuto a precisare ai media che “L’amicizia di Pechino con Mosca è indissolubile”, aggiungendo: “ricordo a coloro che cercano di infilare un cuneo tra Cina e Russia, che qualsiasi tentativo di interrompere i legami è destinato a fallire. I due Paesi sono uniti”[12]. Tale precisazione è apparsa come un tentativo di mettere le mani avanti, e ha fatto pensare, appunto, che a Pechino vi fosse il timore che Mosca stesse vendendo la Cina “per 30 denari”.
Tutta questa fibrillazione, oltre a confermare che il sospetto regna sovrano nei rapporti tra le Grandi Potenze, come sostengono le teorie realiste, mostra anche come le Grandi Potenze siano poco sicure di loro stesse e si sentano dei “Giganti dai piedi d’argilla” e sospettino l’una dell’altra. È bene quindi esaminare, sia pure in breve, quali siano le vulnerabilità che le capitali di questi tre Grandi del mondo avvertono e quali siano i possibili sviluppi, nella situazione mondiale, che le preoccupano.
Iniziando con gli Stati Uniti, va ricordato che il governo di Washington stenta a ridurre il proprio debito pubblico, cresciuto fino ad oltre il 120% del PIL. L’aspetto più grave è che una parte di questo debito pubblico – compresa tra il 10% e il 20%, secondo le stime – è stata sottoscritta dal governo cinese, il che rende gli USA poco credibili, quando fanno la voce grossa con Pechino.
Inoltre, l’egemonia regionale degli USA, vale a dire la capacità di influenzare gli eventi nel continente americano, viene ridotta sempre più da due fattori. Anzitutto c’è la penetrazione, sempre più spinta, di Cina e Russia, che forniscono assistenza a sempre più Nazioni del Centro e Sud America. Questa penetrazione, iniziata con Cuba nel 1959, oggi comprende anche il Venezuela, l’Equador e il Nicaragua. L’altro fattore, che influenza negativamente l’egemonia USA nel continente, è la diffusione di due fenomeni, l’immigrazione di massa e il commercio illegale di droga, che invade a fiumi il Paese.
Non a caso, già nel 2012, uno studioso americano, Andrew Bacevich, osservò: “mentre gli USA sono profondamente focalizzati sull’Afghanistan e sul Grande Medio Oriente, un massiccio fallimento di uno Stato si sta sviluppando proprio alla sua frontiera meridionale, con implicazioni di gran lunga più profonde per il futuro prossimo e distante dell’America, della sua società e della potenza americana. Cosa abbiamo ottenuto nel Medio Oriente con tutti i nostri interventi dal 1980? Perché non sistemare, invece, il Messico? Quanto saremmo diventati prosperi se avessimo investito in Messico tutte quelle somme, capacità e innovazioni che sono andate in Iraq e in Afghanistan?”[13].
Queste osservazioni, anni dopo, sono servite come giustificazione al tentativo, non riuscito, dell’Amministrazione Trump, teso a concentrare gli sforzi economici e militari per riguadagnare influenza e potere nel continente americano, al grido – molto indicativo – di “Make America great again”, un’indiretta ammissione di quanto la capacità USA di influire sugli eventi mondiali fosse fortemente diminuita, rispetto al passato.
Se Washington piange, Mosca certo non ride. La Federazione Russa, le cui dimensioni si sono quasi dimezzate, rispetto a quelle dell’Unione Sovietica, ha impiegato poco meno di venti anni per ristrutturare la propria economia, e ridare un livello di benessere pur minimo alla propria popolazione.
La perdita di territori, specie al Sud, ha sempre più caratterizzato il Paese come un luogo dominato dal freddo e dal buio invernale. Inoltre, l’assenza di confini naturali ha aumentato – come accade fin da tempi remoti – il senso di insicurezza dei suoi governanti, spingendoli a praticare un’espansione in tutte le direzioni, in modo da assicurarsi zone-cuscinetto, di separazione dalle minacce.
In Asia, in particolare, questa espansione russa, iniziata nel XIX secolo, e proseguita fino all’inizio del secolo scorso, fu un’avventura a tratti entusiasmante, che si concluse però con la sconfitta nella guerra contro il Giappone, le cui conseguenze psicologiche furono ben maggiori delle piccole perdite territoriali subite.
Oggi, rimane nella popolazione russa l’amarezza per la sconfitta nella Guerra Fredda, e per le perdite territoriali, che hanno incentivato la perenne insicurezza, comune a tutte le potenze continentali, che non possono usare il “potere d’arresto dell’acqua”[14] per ridurre le minacce provenienti da oltre mare.
Dato, poi, che la principale fonte di entrate dello Stato russo è costituita dagli idrocarburi – petrolio e gas – estratti dal proprio territorio, l’oscillazione dei loro prezzi rende precario qualsiasi piano di sviluppo, che può essere paragonato alla costruzione di una casa su sabbie mobili. Non meravigli, quindi, che la Russia sia animata da un sentimento collettivo di rivalsa nei confronti dei propri concorrenti, e che oggi sia la principale minaccia all’equilibrio europeo per le sue pretese di riconquiste territoriali.
Se, nel 2008, l’occupazione di due piccole enclave in Georgia, l’Abkazia e l’Ossezia del Sud, fu vissuta dall’Occidente, tutto sommato, senza un allarme particolare, la successiva occupazione della Crimea, unita alla “guerra per procura” nel Donbass e all’attivismo cibernetico degli Hacker russi, sta spingendo l’Occidente a guardare con sempre maggior sospetto alla leadership del Cremlino, quale principale fonte di possibili conflitti violenti.
Rimane da considerare la Cina, l’unica Grande Potenza con un bilancio attivo, con un tasso di crescita del PIL che, malgrado le recenti traversie dovute alla pandemia, rimane positivo e ben al di sopra di quelli del Paesi occidentali. Dietro questa facciata, però, si celano la frequente instabilità interna, specie nelle zone abitate da popolazioni di etnia diversa dalla Han (maggioritaria), le turbolenze ai confini occidentali e nord-orientali, e il desiderio di conquistare il dominio dei mari circostanti, in dispregio di ogni regola internazionale.
Questo attivismo cinese in campo marittimo, che non si vedeva dal XV secolo, è anch’esso una manifestazione della perenne insicurezza del governo di Pechino. L’aver definito, come proprie “linee di difesa”, due catene di isole – peraltro non soggette alla propria sovranità – ha spinto il governo cinese a occupare due interi arcipelaghi, quello delle Spratly e quello delle Paracel, composti da isolette disabitate, quasi degli scogli affioranti dal mare, posti in vicinanza di altre Nazioni e, come se non bastasse, ad affermare il proprio dominio sull’intero Mar Cinese Meridionale, lungo la linea detta dei “nove punti”, che lo ingloba totalmente.
Fatto ancora più grave, il governo di Pechino da un lato sta minacciando sempre più spesso di occupare l’isola di Formosa, un alleato che gli Stati Uniti non possono abbandonare, e dall’altro, più a nord, sfrutta la carenza di manodopera della Siberia Orientale russa, per invadere “pacificamente” quel territorio – posseduto dalla Cina da tempi immemorabili, fino al 1858 – in modo da creare una situazione che porti, nei tempi lunghi, alla sua progressiva assimilazione.
Ma le possibilità per la Cina di diventare un egemone regionale sono frustrate dalla “Grande Potenza Povera”, come si è autodefinita, anni fa, l’India. Malgrado l’enorme disparità di mezzi, l’India contende alla Cina il possesso di due aree fondamentali per ambedue i Paesi: la prima è la zona dell’Himalaya, da dove provengono tutti i fiumi dell’Asia, sia quelli indiani, con il Gange in prima linea, sia quelli cinesi. Nel controllo di quest’area strategica, la Cina ha compiuto notevoli progressi, con la conquista della regione dell’Aksai-Chin e dell’Arunachal Pradesh. Invece, l’appoggio di Pechino alla rivoluzione in Nepal, che ha portato al potere un partito d’ispirazione maoista, è stata un’operazione che le ha consentito di esercitare un’influenza sulla regione solo per un breve periodo. Anche se maoisti, i governanti del Nepal non hanno dimenticato i principi della geo-strategia, che impone al loro Paese di non appiattirsi sulle posizioni di uno solo tra i due potenti e pericolosi vicini, l’India e, appunto, la Cina!
Ancora peggio vanno, per la Cina, le cose nella seconda area di attrito, e precisamente l’Oceano Indiano. La dipendenza cinese dalle importazioni di idrocarburi del Golfo Persico, insieme alla necessità di sostenere la massiccia penetrazione del continente africano, condotta tramite imprese nazionali, rende il governo di Pechino molto interessato a mantenervi una presenza stabile.
La dichiarazione di un funzionario cinese, secondo il quale “l’Oceano indiano non è l’oceano dell’India”[15], puntualmente riportata dalla stampa indiana, ha reso il governo di Nuova Delhi consapevole delle mire cinesi, tanto che, in risposta alla creazione di una base navale cinese a Gibuti, l’India ha militarizzato le isole Andamane e Nicobare, che si affacciano sull’uscita occidentale dello Stretto di Malacca, dominandolo.
Il governo indiano, quindi, possiede i mezzi per mettere in difficoltà la Cina, privandola delle risorse energetiche di cui avrebbe bisogno, in caso di conflitto. Non a caso, tra i progetti che la Cina prevede di realizzare nell’ambito dell’OBOR (One Belt, One Road), altrimenti nota come “Nuova Via della Seta”, è stato inserito il taglio dell’Istmo di Kra, per evitare lo Stretto di Malacca.
Non esistono, però, solo i tre Grandi, gli Stati Uniti, la Russia e la Cina, quali arbitri dei destini del mondo: nel gioco intervengono – come si è visto nel caso dell’India – anche altri attori di primaria importanza. Tra questi spicca l’Unione Europea, anche se, come osservò a suo tempo il Commissario UE Emma Bonino, l’Europa rischia di essere “un gigante economico, un nano politico e un verme militare”[16]. La capacità di imporre sanzioni economiche, come praticato nei confronti della Russia, in risposta all’invasione della Crimea, e l’imposizione di restrizioni all’esportazione di tecnologia nei confronti della Cina mostrano che, malgrado la propria debolezza strutturale, l’Unione Europea è anch’essa in grado di incidere sugli eventi nel mondo.
La migliore dimostrazione di questa capacità è data dal fatto che, da tempo, l’UE si è fatta paladina della salvaguardia dell’ambiente, facendo di questo tema uno dei propri cavalli di battaglia, malgrado le Grandi Potenze, all’inizio, abbiano reagito con malcelato fastidio a tali sollecitazioni. La loro recente conversione al rispetto dell’ambiente non può che essere considerato un grande successo dell’Unione. Rimane, però, la debolezza dell’UE sia nel campo della politica estera, per la scarsa concordia tra i Paesi Membri, sia in quello militare, ancora da razionalizzare sulla base di una visione a livello continentale.
Ma nel mondo agiscono anche entità e attori che non soddisfano ai criteri di Potenza, intesa come prerogativa di alcuni “Stati westfaliani”. Ci sono i piccoli Paesi, in grado di creare situazioni di crisi, provocando i vicini, creando crisi difficili da disinnescare. Ad essi si aggiungono i numerosi potentati economici, criminali e ideologici, tra i quali spiccano i cosiddetti gruppi terroristici. Tutte queste entità sono in grado di complicare il quadro generale, creando situazioni tali da far scatenare conflitti tra le Potenze.
In generale, vale quanto detto, oltre un secolo fa, da Mackinder “Ogni esplosione di forze sociali, invece di dissiparsi in un’area circostante di spazi ignoti e di caos barbarico, (oggi) si riverbera in modo tagliente dalle parti più lontane del globo, e gli elementi deboli dell’organismo politico ed economico mondiale ne saranno distrutti di conseguenza”[17].
Non possiamo, quindi, trascurare le contese che si svolgono in parti lontane del mondo, perché vi saranno, presto o tardi, ripercussioni anche per noi. Basti pensare che anche un incidente fortuito, come l’incaglio della portacontainer Evergiven, che ha provocato il blocco temporaneo del Canale di Suez, ha avuto un effetto negativo non da poco sui traffici marittimi in tutto il mondo, durato vari giorni.
Come evidenziava, infatti, Mackinder, i conflitti e gli incidenti, oggi ancor più rispetto al passato, sono come un’onda che attraversa interi oceani e si frange sulle coste dall’altro capo della Terra. Non dobbiamo dimenticare questa realtà.
La contesa per le zone di influenza
In questo panorama frastagliato di giganti dai piedi d’argilla, potenze emergenti e ambiziose, revanscismi e attori non statuali, spesso illegali, criminali o terroristi, tutti intenti a conquistare potere a spese altrui, è necessario cercare in quali aree del mondo è più probabile che si creino incidenti difficili da contenere, e quindi capaci di causare guerre devastanti, fino al rischio di ricorso all’arma nucleare.
In questa ricerca, che per forza di cose non potrà mai essere completa, vanno considerati alcuni fattori permanenti, che influenzano la condotta di tutti questi attori.
Il primo è il già citato “potere d’arresto dell’acqua”[18], noto da secoli, tanto che Mahan, parlando di Napoleone, notava che il suo “potere cessava, come quello di alcuni maghi, quando raggiungeva l’acqua”[19]. A parte il rischio nucleare, quindi, le Potenze marittime sono al sicuro dal rischio di invasione, da parte di eventuali nemici.
Altrettanto, però, è vero del “potere terrestre”. Infatti, si può parlare di un vero e proprio “potere di logoramento della terra”, nei confronti di chi tenti di dominarla dal mare. Già nel XIX secolo, Jomini osservava che “gli sbarchi sono una tra le operazioni della guerra che si vedono più raramente e che si possono considerare nel numero di quelle più difficili, quando esse si svolgono in presenza di un nemico ben preparato”[20].
Oggi, con i mezzi attuali e con il Potere Aereo è possibile colpire la terra dal mare anche in profondità, ma il suo dominio, che presuppone il controllo del territorio, richiede un numero di militari e di mezzi enormi, da rifornire continuamente, e questo, per una Potenza Marittima, è un’operazione estremamente costosa.
Anche se è vero che la maggior parte della popolazione mondiale vive non lontano dalle coste, nel cosiddetto “Rimland” (terra sul bordo), penetrare in un continente, dal mare o da terra è un’impresa difficile e onerosa. Nel tentativo di invadere l’immenso territorio russo tanto Napoleone quanto Hitler sono usciti sconfitti.
In definitiva, osservava Mackinder, “il potere terrestre rimane ancora, ed eventi recenti ne hanno di nuovo aumentato la rilevanza”[21], aggiungendo, a titolo di esempio, “lo sconvolgimento dell’equilibrio di potere in favore degli Stati-cerniera (quelli dell’Eurasia), permetterebbe l’uso delle vaste risorse continentali, e l’impero del mondo sarebbe quindi in vista. Ciò accadrebbe se la Germania si alleasse con la Russia”[22].
Se si mette a confronto tale affermazione con la “dimenticanza” di Francia e Gran Bretagna, che nel 1939 dichiararono guerra alla Germania, perché aveva invaso la Polonia, chiudendo gli occhi di fronte alla contemporanea invasione di quel Paese da Est, da parte dell’Armata Rossa, si vedrà quanto Mackinder abbia influenzato il pensiero strategico di Parigi e Londra.
In sintesi, le potenze marittime e le potenze continentali hanno difficoltà a distruggersi a vicenda, fatto salvo l’uso del nucleare, che decreterebbe la loro fine non solo come potenze, ma anche come Nazioni. Nessun grande del mondo vuole perdere il proprio status, e quindi non si arrischia a giocarsi la propria posizione nel mondo “in una mano di poker”.
Se consideriamo quindi questi fattori, vediamo che le tre Grandi Potenze – una delle quali (gli USA) è marittima, mentre le altre due (Russia e Cina) sono continentali -possono infliggersi dei danni anche gravi, ma non distruggersi a vicenda. La lotta tra di loro, quindi, avrà sempre uno scopo limitato, e dovrà far ricorso a mezzi e approcci diversi da quelli classici, per non creare situazioni di conflittualità irreversibili.
Questo spiega il sempre più frequente ricorso ad approcci di “Guerra Ibrida”, con un uso limitato della forza militare, rispetto al ricorso a quella economica, comunicativa, cibernetica e così via, utili per incrementare la propria rilevanza, senza peraltro creare danni irreparabili. Si tratta, in effetti, di forme di guerra limitata, miranti a guadagnare potenza, ma non a eliminare del tutto l’avversario.
Il pericolo maggiore è costituito, invece, dagli attori secondari, tra i quali serpeggia la paura di perdere la propria esistenza, a causa di conflitti con i vicini, e questo li porta spesso a compiere atti pericolosi per la stabilità mondiale, che potrebbero trascinare le Grandi Potenze in una lotta senza limiti.
Non a caso, in queste circostanze, si parla di “una Sarajevo”, con riferimento all’attentato al Principe Ereditario d’Austria-Ungheria, sponsorizzato dalla Serbia: una Nazione piccola che, provocando una Grande Potenza, portò l’intera Europa alla rovina, per mancanza di volontà, da parte delle altre Nazioni, di spegnere l’incendio sul nascere.
Premesso quanto sopra, andando a esaminare le aree di possibile attrito, la probabilità che una crisi locale possa degenerare in un conflitto tra le Grandi Potenze è massima dove si sovrappongono le rispettive “aree di influenza”, siano esse storicamente consolidate o, quanto meno, oggetto di desiderio da parte di una di esse.
Questa situazione di pericolo non è nuova, ed è stata, in passato, oggetto di attenzione da parte degli Statisti più lungimiranti, che hanno cercato di prevenirla. L’esempio storico più interessante, in questo senso, è stato il tentativo di accordo tra i Grandi, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, siglato per delimitare le aree di rispettiva influenza, proprio per prevenire ulteriori conflitti, che avrebbero messo i vincitori l’uno contro l’altro.
Il 9 ottobre 1944, Churchill incontrò Stalin a Mosca, per concordare l’equilibrio di potenza in “Europa Orientale e i principi che avrebbero dominato la situazione post-bellica”[23]. Il Primo Ministro britannico propose che l’URSS avesse “il novanta per cento in Romania, noi [inglesi e statunitensi] il novanta per cento in Grecia, e che avessimo un’influenza dello stesso peso, ossia del cinquanta per cento, ciascuno, in Jugoslavia”[24].
In un foglietto che fu passato a Stalin, per consolidare questa situazione, vi era pure la concessione del 75% di influenza dell’URSS in Bulgaria, e il 50% in Ungheria. Come raccontò Churchill, Stalin “prese una matita blu, fece un grosso segno su di esso e ce lo ripassò”[25]. Questo accordo ufficioso fu sostanzialmente rispettato da parte del dittatore sovietico, con la notevole eccezione del finanziamento della sovversione in Grecia, che fu preda di una guerra civile durata ben due anni. Secondo alcuni, si trattò solo di una prova per saggiare la determinazione occidentale.
Oggi, un accordo simile, atto a delimitare le rispettive aree di influenza tra i tre Grandi sarebbe il modo migliore per ridurre la tensione nel mondo, anche se un tale atto è oggettivamente più difficile tra tre interlocutori, piuttosto che tra due di essi.
Questa è, in sintesi, la complicazione principale di ogni sistema multipolare: la difficoltà di creare un “Direttorio a tre” che sia efficace.
Le possibili Sarajevo
Vediamo ora quali sono le aree in cui due o più Potenze cercano di stabilire un’influenza duratura, a spese di altre, privandole di una simile capacità di influenzare gli eventi regionali.
Vi è anzitutto l’Europa Orientale. L’implosione dell’Unione Sovietica ha fatto emergere il risentimento di quasi tutte le Nazioni un tempo soggette all’influenza di Mosca. Quasi tutti gli Stati di quest’area, infatti, sono oggi i più acerrimi nemici del Cremlino, a causa dei soprusi patiti, e fanno di tutto per tenere a bada il loro pericoloso vicino, anche causando crisi per il modo con cui vengono trattate le comunità russofone rimaste al loro interno. Per garantirsi dal pericolo di invasione, questi Stati hanno aderito in massa prima alla NATO e quindi all’Unione Europea.
La Russia, d’altro canto, vede queste perdite territoriali come uno smacco, e cerca di riconquistare più territorio possibile, come si è visto in Georgia, in Crimea e nel Donbass. Soprattutto i tre Stati Baltici – Estonia, Lettonia e Lituania – si sentono costantemente in pericolo, tanto da richiedere una presenza costante di forze alleate, a garanzia della loro sopravvivenza.
Questo timore, però, è condiviso da altri Stati balcanici, che hanno avanzato analoghe richieste, per ottenere una presenza di forze alleate nel loro territorio, con la funzione che un tempo era chiamata “trip wire” (filo d’inciampo). Un’eventuale invasione, infatti, coinvolgerebbe queste forze, e di riflesso le Nazioni che le hanno dispiegate.
Si è visto, nelle crisi della ex Jugoslavia e del Kossovo, quanto Mosca tenesse a non perdere influenza in quelle aree, appoggiando i pochi Stati dell’area a lei favorevoli, pur dovendo, poi, accettare compromessi non sempre favorevoli ai suoi protetti.
Viene poi il Caucaso, con il suo sbocco anatolico, dove il gioco è ancora più complesso. Nell’area, la Georgia è fortemente filo-occidentale, anche a causa delle perdite territoriali subite nel 2008. Inoltre, non si è ancora riusciti a sanare il conflitto senza fine tra l’Armenia e l’Azerbaijan per la provincia del Nagorno-Karabakh, un’area che non trova mai pace. Infine, come è stato ricordato, il conflitto tra Ucraina e Russia, che dura ormai da molti anni, ha portato vantaggi a Mosca, che si è appropriata della Crimea e del Donbass, sia pure al prezzo di un raffreddamento sostanziale dei rapporti con l’Occidente.
In sintesi, la Russia aspira a ricrearsi una dimensione meridionale, il più possibile vicina ai “mari caldi”, e dimostra, nel perseguimento di tale fine, un’aggressività a dir poco preoccupante.
Viene subito dopo un’altra crisi vicina a noi, dai contorni non perfettamente definiti, perché riguarda i giochi di potenza nel Mediterraneo. Le Grandi Potenze sembrano comparire solo quali comprimari. In realtà tutte e tre cercano di influenzare gli eventi in quello che i Tedeschi chiamano, a ragione, Mittelmeer (Mare di mezzo), agendo il più possibile tramite terzi. Non c’è bisogno di ricorrere alla geo-strategia, secondo la quale il bacino in cui ci troviamo è al centro della cosiddetta “Isola del Mondo”, per giustificare questo interesse, non sempre gradito dai Paesi litoranei, verso il nostro bacino.
Nel Mediterraneo Orientale, in particolare, lo scontro per le risorse dei fondali marini si somma alla crisi infinita della Siria, dove i Grandi arrivano, bombardano, e se ne vanno, lasciando ai loro proconsoli il compito di proseguire la lotta, con l’aggravante che questa ha anche un lato confessionale, interno alla Galassia islamica, tra i Sunniti e gli Sciiti.
Tutti i Paesi vicini, infatti, ne sono coinvolti: il Libano fatica sotto il peso dell’ennesima ondata di rifugiati, un fenomeno ricorrente per quel piccolo Paese; Israele riesce a farsi rispettare puntando il dito su nemici lontani, e tenendosi buoni i Sunniti vicini, in modo da far finire in secondo piano l’altra crisi perenne, quella palestinese; l’Egitto sembra immobile, ma piano piano sta esercitando un’influenza sempre maggiore sulla Cirenaica, a dispetto della Turchia, altro Paese che tenta di avvicinarsi, come potere, al livello che una volta fu proprio degli Ottomani.
Come poi diceva Mackinder, nel 1904, e quindi in epoca non sospetta, “il confine meridionale dell’Europa era ed è il Sahara, piuttosto che il Mediterraneo”[26] e la crisi dei migranti lo ha confermato ancora una volta. Stabilizzare i Paesi posti immediatamente a Sud del deserto è quindi un tentativo coerente con gli altri sforzi compiuti da chi vuole stabilizzare il Mediterraneo. In definitiva, la crisi del Mediterraneo è quella più complicata da risolvere, dato il numero fin troppo elevato di aspiranti protagonisti.
Un breve discorso, quindi, lo merita l’Africa sub-sahariana, che da secoli è una regione soggetta a invasioni, prima dai mercanti di schiavi, poi dalle Potenze coloniali. Oggi è terreno di una competizione, senza esclusione di colpi, tra le Grandi Potenze, tutte desiderose di accaparrarsi una fetta delle sue notevoli ricchezze. Nella confusione generale, dovuta a questa concorrenza feroce, i gruppi terroristi di matrice islamica si sono impiantati nelle zone più impervie, subito a Sud del Sahara, e minacciano di dominarle.
Cambiando continente, l’Asia non si trova in una situazione migliore. I termini della contesa tra gli Stati Uniti e la Cina sono stati già citati, e riguardano tutte le isole prospicienti l’ex Celeste Impero, da questi considerate come parte integrante della propria linea di difesa. Oltre a questo contenzioso, non si può trascurare la volontà cinese, anche questa citata, di appropriarsi dell’intero Mar Cinese Meridionale.
Questa serie di contenziosi ha spinto gli Stati Uniti, determinati a non far cadere queste aree sotto l’influenza di Pechino, a stabilire come base avanzata delle proprie forze navali Singapore, un’ulteriore minaccia per la Cina di blocco delle forniture di idrocarburi provenienti dal Golfo Persico.
L’amicizia tra Mosca e Pechino, tanto conclamata in questi giorni, come si è notato più sopra, cela in realtà un ulteriore e più grave motivo di conflitto tra queste due Potenze: per ora messo in frigorifero, ma che può sempre tornare in superficie. La Siberia Orientale, infatti, è un antico possedimento cinese, che viene rivendicato da Pechino come una tra le perdite più gravi subite a causa dei “Trattati Ineguali”, appunto nel corso del “Secolo delle Umiliazioni”. Nel 1967-68 si giunse – come ricordato – sulla soglia di un conflitto nucleare, e non si può escludere che tale contesa si riaccenda, sia per la strisciante immigrazione dal sud verso quei territori, con la scusa della mancanza di manodopera russa, sia per il sempre più disperato bisogno, da parte del governo di Pechino, di materie prime di cui la Siberia è ricchissima.
Conclusione
Le riflessioni che scaturiscono da questa panoramica sono numerose. Anzitutto vi è la constatazione che viviamo in un sistema multipolare, intrinsecamente più complicato di ogni altro sistema, e dominato da Potenze che non sentono più il bisogno di ammantarsi di attraenti ideologie per espandersi: lo fanno e basta, anche a costo di provocare disastri.
In questa situazione, i Paesi più piccoli non si trovano meglio, rispetto a quando dovevano scegliere tra le due Superpotenze, durante la Guerra Fredda: siamo in un mondo nel quale vale la prima parte dell’antico proverbio italiano “dagli amici mi guardi Iddio, che ai nemici penso io”. In effetti, molti governi non hanno capito che non possono più limitarsi a svolgere, nell’ambito dei sistemi di cui fanno parte, un ruolo supplementare, ma devono possedere capacità militari ed economiche per sbrogliarsela da soli in alcune difficili circostanze.
Va notato poi come, in questa anarchia, se non si trova un Paese abile nella mediazione, in grado di applicare il classico metodo risolutore, quello per intenderci del dialogo e dell’interdipendenza, le tre Grandi Potenze non creeranno mai un canale di comunicazione tra di loro, simile alla ormai storica “Linea Rossa” dei tempi della Guerra Fredda.
Senza questa capacità di confrontarsi e mettersi d’accordo, prima o poi una delle tre Potenze, d’iniziativa o spinta da una provocazione locale, nello stile dell’attentato di Sarajevo, compirà atti che uno o più concorrenti giudicheranno intollerabili. Questo, anche se potrebbe non degenerare in uno scontro nucleare, segnerebbe la fine del mondo attuale, il cui benessere è strettamente legato all’interdipendenza economica e al commercio internazionale.
L’ideale sarebbe quello di trovare un emulo di Churchill, il quale con realismo e lungimiranza, convincesse le Potenze a non superare determinati limiti, concordati in precedenza, nel loro tentativo di espandere le proprie zone di influenza.
Per ora, i tre Grandi si limitano a perseguire le cosiddette “Strategie dallo scopo limitato” fatte di dispetti, provocazioni e piccole prevaricazioni. A loro, però, si affianca una moltitudine di attori, i più pericolosi dei quali sono gli estremisti violenti e i terroristi, che perseguono scopi totalizzanti, mediante una guerra senza limiti, malgrado non dispongano di mezzi decisivi. L’efficacia della loro azione è visibile, ad esempio, nella crisi siriana, diventata appunto ingestibile da quando questi attori sono entrati in gioco; l’Africa sub-sahariana, l’oggetto più recente delle loro indesiderate attenzioni, sta diventando il teatro di uno scontro cruento tra questi gruppi, simili a un’Idra a mille teste, e l’Occidente.
Viviamo quindi in un mondo che cammina pericolosamente sul ciglio di un abisso. L’importante è rimanere con la testa fredda e con il cuore caldo. Capire i problemi e fare di tutto per prevenirli, aprendo canali di comunicazione tra i Grandi e i piccoli, e avendo cura, soprattutto, di incrementare sempre l’interdipendenza.
Non a caso, quando si parla dell’importanza di queste connessioni culturali, economiche e industriali tra Potenze, che sono il miglior rimedio conosciuto per alleviare le tensioni internazionali, si cita, da una parte, l’intuizione del Presidente Kennedy, che cercò di far sottoscrivere agli alleati degli USA una “Dichiarazione di Interdipendenza”[27] e dall’altra la città di Togliattigrad e la fabbrica delle auto di progetto occidentale (la prima fu l’ormai mitica FIAT 124). L’Italia ha svolto, e può svolgere, il ruolo di ponte tra i contendenti, e se si impegnerà a fondo, con pazienza e perseveranza, come ha già fatto più volte nel passato, potrà ritagliarsi un ruolo rilevante nel turbolento panorama mondiale, contribuendo a mantenerlo nell’attuale, pur precario, equilibrio.
[1] NATO Brussels Summit 2021 Communiqué. Para 3.
[2] Ibid.
[3] J. MEARSHEIMER. The Tragedy of Great Power politics. Ed. W. W. Norton & Co, 2014, pag. 3.
[4] J. MEARSHEIMER. Op. cit. pag. 31.
[5] Le “Martello Towers” presero il nome dalla torre genovese di Mortella, in Corsica, che resistette a lungo ai bombardamenti inglesi nel 1794.
[6] H. J. MACKINDER. The Geographical Pivot of History, The Geographical Journal, April 1904, pag. 437.
[7] TRECCANI. Dizionario della Storia. Ed. 2011.
[8] N. MASTROLLA. Il secolo delle umiliazioni e la questione della legittimità del Partito comunista cinese. CeMISS Instant Study, 22 maggio 2021, pag. 1
[9] Ibid.
[10] C. von CLAUSEWITZ. Della Guerra. Arnoldo Mondadori, 1970, vol. II, pp. 704-705.
[11] Va detto che, in anni successivi, il generale le May negò la paternità di tale frase, dichiarando che si riferiva alla “capacità USA di farlo, e non aveva mai proposto di mettere in pratica una tale azione”.
[12] Frase riportata dal TG Com 24 il 15 giugno 2021 e dalla CNN il 17 giugno successivo.
[13] A. BACEVICH, in R. KAPLAN, The revenge of Geography. Ed. Random House, 2012, pagg. 324-325.
[14] J. MEARSHEIMER. Op. cit. pag. 41.
[15] Vds. Indian Defence News, December 7, 2016.
[16] La Repubblica, 23 gennaio 1999.
[17] H.J. MACKINDER. Op. cit, pag. 422.
[18] J. MEARSHEIMER. Op. cit. pag. 41.
[19] A.T. MAHAN. The Influence of Sea Power upon the French Revolution and Empire. Sampson Low, Marston, Searle & Rivington, 1892, Vol. II, pag. 279.
[20] A.H. JOMINI. Précis de l’Art de la Guerre (1855). Ed. Ivrea 1994, pag. 266.
[21] H. J. MACKINDER. Op. cit. pag. 433.
[22] Ibid. pag. 436.
[23] W.W. ROSTOW. Gli Stati Uniti nell’arena mondiale. Società Editrice Il Mulino, 1960, pag. 145.
[24] Ibid.
[25] Ibid.
[26] H. J. MACKINDER. Op. cit, pagg. 428-429.
[27] Vds. A. CAGIATI. Evoluzione dell’Alleanza Atlantica verso un ampliato e rafforzato Occidente. Ed. Francoangeli, 2009, pg. 294.