Scarica il file in PDF – tesi messina APPROFONDIMENTI SUL TERRORISMO
L’EVOLUZIONE DEL TERRORISMO INTERNAZIONALE E DELLA NORMATIVA DI CONTRASTO
Alessandro Messina
(tesi Master in “Geopolitica della sicurezza”, Università degli Studi Niccolò Cusano UNICUSANO – a.a. 2018-2019 – relatore Prof. Laura Quadarella Sanfelice di Monteforte)
Introduzione
CAPITOLO 1 – L’evoluzione del terrorismo dalla metà del 1900.
1 – Il terrorismo nel XIX secolo e nella prima metà del XX secolo.
2 – La strategia terrorista degli anni ’60 e ’70.
3 – Gli eventi del 1979.
4 – Il finanziamento del terrorismo internazionale.
5 – 11 Settembre 2001.
6 – Connivenze tra Stati e terrorismo. L’invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan.
7 – Foreign Fighters.
8 – Terroristi “fai da te”.
CAPITOLO 2 – La normativa di contrasto della comunità internazionale.
1 – L’estradizione e il tentativo della Convenzione di Ginevra del 1937.
2 – Iniziative degli anni ’80 contro stati “non collaborativi”.
3 – Normativa di contrasto “settoriale”.
4 – La convenzione internazionale per la repressione del finanziamento del terrorismo, New York, 1999.
5 – Normativa O.N.U. e la normativa europea post 2001.
6 – Ruolo Nato e attuazione art.5 del Patto.
7 – I 4 Pilastri O.N.U. per la lotta al terrorismo.
8 – Normativa contro “Foreign Fighters” e “terroristi fai da te”.
CAPITOLO 3 – Lotta al terrorismo e Diritti Umani.
1 – Il rientro dei terroristi dai teatri di guerra.
2 – Guantánamo.
3 – Sicurezza e diritto alla privacy.
Conclusioni
INTRODUZIONE
Il terrorismo è un fenomeno politico, sociale e culturale dei più complessi tra quelli che hanno investito le società di ogni tempo.
Chiaramente, come ogni cosa, può essere osservato sotto differenti aspetti e ha vissuto varie evoluzioni, secondo il fine, i mezzi e il tipo di società a esso contemporanea che andava a colpire, sempre con l’intento di destabilizzare, anche se con sfaccettature differenti.
L’evoluzione del terrorismo internazionale comporta il contestuale mutamento della normativa di contrasto, la quale si sviluppa nel tempo sia in considerazione della trasformazione dei strumenti di offesa e dei fini terroristici, che del contesto geopolitico mondiale di riferimento.
I primi atti diretti al contrasto del fenomeno del terrorismo internazionale, sono stati posti in essere, inizialmente, dalle singole nazioni, senza alcuna sinergia tra i paesi interessati e senza il coordinamento delle rispettive legislazioni.
Successivamente, la comunità internazionale ha compreso più profondamente la necessità di una strategia condivisa, portata avanti nell’ambito dell’O.N.U. e delle altre organizzazioni che operano con rilevanza internazionale, in modo da rendere più ampie le aree di attuazione delle scelte effettuate e renderle il più possibile omogeneamente applicate.
L’aspetto dell’omogeneità normativa, rileva in particolar modo in sede di Unione Europea, poiché quest’ultima opera, o dovrebbe operare verso l’esterno delle sue frontiere come fronte unitario, per il tramite dell’Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza.
Al suo interno invece le scelte sono condivise e attuate con una discrezionalità che varia secondo lo strumento legislativo adottato, che può lasciare più o meno margini di discrezionalità al singolo paese membro.
Europa e O.N.U. in special modo, ognuno con le sue prerogative, dovrebbero relazionarsi tra loro, con le organizzazioni di rilevanza internazionale e con i paesi c.d. a rischio, al fine di agevolare lo sviluppo di una legislazione di contrasto volta alla piena ed effettiva collaborazione contro ogni atto terroristico, di qualsiasi tipo e con qualsiasi fine questo avvenga, in ogni parte del mondo.
Tuttavia il percorso che vedrebbe unite e coordinate le singole nazioni e la comunità internazionale nel suo insieme per la lotta al terrorismo, non è così semplice da intraprendere poiché molte sono le difficoltà affrontate e ancora da superare per giungere alla condivisione piena di obiettivi, metodi, politiche e, in fine, una legislazione condivisa e unitaria diretta a tal fine.
Per comprendere in maniera immediata la complessità dell’argomento, basta ricordare, a esempio, che da quando si è sentita l’esigenza condivisa di contrastare questo fenomeno, non sì è ancora giunti a una definizione condivisa dello stesso, proprio per le differenti sensibilità degli Stati al riguardo e il complesso significato del termine, in relazione alla sua concreta, reale ed effettiva attuazione.
Proseguendo, come accennato, per seguire l’evoluzione della legislazione internazionale, si vedrà come questa sia stata segnata dallo sviluppo delle tipologie di attentati, delle organizzazioni e soggetti che li hanno posti in essere.
Il percorso volto a reprimere tale fenomeno non è semplice e deve fare i conti con la contestuale evoluzione geopolitica in atto negli ultimi due secoli nel mondo, in particola modo in Europa e nel medio oriente.
Dei tanti eventi di terrorismo verificatesi nel tempo, ve ne sono alcuni che di certo hanno segnato una svolta, un innalzamento del livello e della capacità offensiva delle organizzazioni, come pure alcuni eventi internazionali apparentemente scollegati dal terrorismo hanno invece agevolato e rafforzato i legami tra differenti fazioni, prima tra loro non in relazione.
Si affronterà il tema “madre” dell’estradizione, poi la nascita dei primi accordi bilaterali, le iniziative successive alla nascita dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea, con le loro prerogative definitesi e ampliatesi nel tempo.
Saranno di aiuto le varie risoluzioni e convenzioni internazionali che hanno dato finalmente alla legislazione antiterroristica confini più ampi.
Non ultimo, in tempi più recenti, il coinvolgimento della NATO e l’attuazione dell’art. 5 del trattato che in riferimento ad attacchi armati verso una delle nazioni parte del trattato, determina che questo sarà considerato “un attacco verso tutte”, costituendo elemento di grande novità nella reazione al terrorismo internazionale, così come avvenuto successivamente agli attacchi dell’11 Settembre 2001.
Chiaramente non sarà presa in considerazione tutta l’ampia normativa internazionale prodotta, tutti gli accordi, le dichiarazioni e quant’altro, poiché impossibile e non necessario in questa sede.
Tuttavia sarà dato ampio risalto ad alcune delle risoluzioni O.N.U. che hanno segnato il percorso di condivisione e dato un forte impulso alla lotta al terrorismo internazionale, in particolar modo a partire dagli anni ’90 e con maggiore impulso dopo gli attentati dell’11 Settembre 2001, proprio perché, come detto, ci sono alcuni eventi e atti imprescindibili, che hanno segnato e dato una direzione agli eventi successivi.
In questo scritto considereremo quello che il percorso logico che abbiamo tracciato, renderà necessario approfondire perché alla base di quanto esposto e condizione per gli eventi e per le scelte successive che la comunità internazionale ha ritenuto necessario intraprendere.
Talune decisioni hanno dato esito positivo, mentre altre hanno avuto bisogno di un percorso di realizzazione più lungo e magari corretto con successivi accorgimenti, secondo la tematica, il contesto di riferimento e l’evoluzione dello stesso nel tempo.
Per considerare i risultati di un atto, che sia una convenzione, una risoluzione o altro, bisogna tener conto delle differenti sensibilità che vi sono all’interno di organizzazioni internazionali come l’O.N.U., a esempio, alla cui Assemblea Generale partecipano 193 Stati membri, di culture, tradizioni e storia completamente diverse, a volte opposte.
Anche il Consiglio di Sicurezza dell’O.N.U., composto da 5 membri permanenti (su 15 totali) Cina, U.S.A., Regno Unito, Francia e Russia, rappresenta, con la sua eterogeneità di rappresentanze, quanto possa essere complicato giungere a decisioni forti e condivise in ogni compito affidatogli dalla Carta delle Nazioni Unite.
Se consideriamo poi che ognuno dei membri permanenti ha il c.d. “diritto di veto”, la procedura diventa ancora più delicata e macchinosa.
Questo spiega per esempio perché non si sia giunti a una definizione giuridicamente riconosciuta di terrorismo internazionale e sulla quale si sta ancora lavorando.
CAPITOLO 1 – L’evoluzione del terrorismo dalla metà del 1900
1- Il terrorismo nel XIX secolo e nella prima metà del XX secolo.
Il terrorismo è un fenomeno che è sempre esistito, anche ai tempi dell’antica Roma, sotto forma di congiure contro gli imperatori e nelle società di tutti i tempi, in altre vesti e teorie, giustificato da presunti profili di idealismo o lotta per la liberazione dalla tirannia; lo si inquadra come forma criminale, terrorismo appunto, o come lotta per la libertà, secondo il punto di vista dell’osservatore.
Nel corso del tempo ha assunto configurazioni e modalità sempre diverse, ma soprattutto finalità differenti, sempre però strettamente contestualizzate e in connessione con il periodo in cui si andavano a manifestare.
Il primo evento che citiamo, ponendo l’attenzione sulla rilevanza internazionale del terrorismo, è l’attentato compiuto nel Settembre del 1854 ai danni di Napoleone III, poiché storicamente rilevante sotto due aspetti principalmente: in primo luogo rileva quale esempio classico di attentato, nella fattispecie di tipo dinamitardo, portato avanti come accadeva frequentemente in quel periodo storico, ai danni di Capi di Stato o di Governo, con il fine di far cadere un regime politico, sotto le vesti di lotta di liberazione e/o autodeterminazione di un territorio; in secondo luogo, poiché la fuga degli attentatori in Belgio, ha dato impulso alla nascita della futura cooperazione tra nazioni, iniziata con l’istituto giuridico dell’estradizione che andremo ad analizzare nel Capitolo 2 e che tutt’ora è citato e considerato nelle convenzioni internazionali in materia ed è oggetto di costante revisione nel tempo.
Il periodo a cavallo tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 è caratterizzato da attentati di matrice anarchica, tra i quali possiamo rilevare anche l’omicidio del Re d’Italia Umberto I compiuto da Arnaldo Bresci a Monza nel 1900.
Per poter inquadrare meglio quanto sia stato importante, storicamente rilevante e presente il fenomeno in quegli anni, bisogna ricordare che lo stesso Re, fu oggetto di altri due tentativi di regicidio, nel 1878 e nel 1897, sempre di matrice anarchica.
Altro attentato particolarmente rilevante è quello avvenuto nel 1934 a Marsiglia che causò la morte del Re Alessandro di Jugoslavia e del Ministro degli Esteri Francese Louis Barhou, per mano di Vlado Černozemski, appartenente all’Organizzazione Rivoluzionaria Interna Macedone.
L’obiettivo dell’organizzazione era l’indipendenza della Macedonia dalla Jugoslavia, effettivamente realizzatasi tramite il referendum del 08 Settembre del 1991.
L’evento appena citato conferma quanto accennato inizialmente a proposito dell’opinione sul terrorismo, che varia secondo il punto di vista di chi affronta l’analisi, nel senso che l’indipendenza della Macedonia, avvenuta a molti anni di distanza dall’episodio citato, offre l’opportunità di comprendere che a volte i metodi terroristici sono derive violente di istanze legittime e collettivamente sentite, portate avanti con metodi per taluni inevitabili e per altri invece semplicemente criminali.
In sostanza, il terrorismo di questi decenni, rileva per il suo aspetto internazionale in riferimento al coinvolgimento di istituzioni e/o personalità internazionalmente rilevanti, colpite anche al di fuori del territorio nazionale, coinvolgendo quindi popolazioni, paesi e infrastrutture al di fuori paese delle vittime e degli attentatori.
Manca, tuttavia, una regia comune tra le varie organizzazioni, una vera strategia e mancano, infine, obiettivi comuni, poiché ognuno ha visioni limitate alla propria sfera politica e ai propri obiettivi locali, o comunque almeno non si hanno collaborazioni rilevanti tra sigle di origine diversa, come d’altronde non si hanno ancora risposte univoche da parte della comunità internazionale.
2- La strategia terrorista degli anni ’60 e ’70.
Il fenomeno in argomento si è sviluppato ulteriormente nel corso nel ‘900, con peculiarità e tecniche molto differenti, seguendo e cogliendo, per così dire, lo sviluppo dei trasporti e dei mezzi di comunicazione che ha caratterizzato quegli anni e che ha avuto effetti positivi per la collettività, sfruttati tuttavia dalle organizzazioni terroristiche per dare vita ad atti sempre più eclatanti, di maggiore effetto e risonanza, diffondendo paura con strumenti ormai di uso corrente e irrinunciabile per tutti i cittadini.
Dalla seconda metà del 1900, inizia a divenire più chiaro quanto le strategie terroristiche, ancorché prive di una regia unica o di forti elementi di cooperazione, anticipino l’uso distorto di strumenti nuovi, usandoli come “megafono” delle loro azioni e allo stesso tempo per terrorizzare la comunità internazionale, anche rispetto allo stesso utilizzo di quel progresso, facendo mancare quella sicurezza che rende serena la società e le istituzioni che la governano.
In tal senso parliamo, in riferimento a questi anni, dei numerosi atti di pirateria aerea e poi navale, il sequestro di personalità, siano esse istituzionalmente rilevanti o semplicemente persone molto note e ancora gli attentati mediante l’invio di pacchi bomba.
Il caso della nave da crociera ”Achille Lauro”, battente bandiera italiana, ci ha riguardati da vicino[1].
La nave è stata dirottata a largo delle coste dell’Egitto, da un commando del Fronte per la Liberazione della Palestina, causando la morte di un cittadino statunitense, che tra l’altro, versava in condizioni di disabilità, a ulteriore, non necessaria, conferma dell’atrocità degli attentatori.
Tralasciando di raccontare la nota vicenda, in questa sede è opportuno rilevare quanto la sigla del commando che ha portato avanti l’azione, richiami la lotta per la “libertà”, a rimarcare, ancora una volta, il difficile confine tra lotta per i diritti/indipendenza e atti criminali.
Questo comporta una certa confusione nel riconoscere tali differenze, da parte di quei Stati che, più o meno chiaramente, abbracciano tali cause, le difendono o meglio, non condannano “senza se e senza ma” tali azioni criminali nelle opportune sedi internazionali, in ogni modo e sotto ogni forma si presentino.
Tornando alla rilevanza di questa tipologia di attentati, volti al dirottamento del traffico aereo o navale, bisogna considerare che “l’interesse della Comunità Interazionale per la sicurezza e il regolare svolgimento del traffico aereo e dall’altro, la pluralità di stati che sono interessati a ogni singolo dirottamento in relazione alla legge di bandiera dell’aereo, alla pluralità di spazi aerei che possono venire attraversati nel corso del volo, alla nazionalità dei dirottatori, dei membri dell’equipaggio e dei passeggeri”[2], sono i caratteri rilevanti di tale tipologia di terrorismo.
Le stesse peculiarità di un dirottamento aereo sopra descritte da Panzera, possono essere traslate rispetto a un dirottamento navale, come quello relativo al caso precedentemente citato, totalmente conforme per caratteristiche ed effetti.
Altra tipologia di attentati che hanno una grande risonanza e che caratterizzano la progressione degli atti terroristici, è quello del sequestro di personalità istituzionalmente rilevanti, come funzionari consolari, agenti diplomatici o persone che godono di un particolare status, quali gli appartenenti ai corpi diplomatici o persone che in qualche modo, per la carica o figura pubblica che rappresentano, sono oggetto di una protezione speciale.
Può essere citato per rilevanza storica, il caso dell’ambasciatore della Repubblica Federale tedesca, Von Spreti, in Guatemala, sequestrato nel 1969 e poi ucciso nel 1970 dai c.d. guerriglieri delle F.A.R. (Fuerzas Armadas Rebeldes)[3].
In questo caso è ancora più diretta la portata internazionale dell’atto che, pur non colpendo diffusamente una comunità, ma un singolo individuo e la sua sfera familiare, riverbera su “interessi tutelati dalle norme sulla protezione speciale degli agenti diplomatici e consolari ed alla normale cittadinanza straniera degli stessi […]”[4], riflettendo inequivocabilmente sulla sicurezza dello Stato e delle istituzioni, generando quindi, per via indiretta, insicurezza nel tessuto sociale, non solo a livello locale, trasmettendo una più diffusa sensazione di insicurezza.
Altri casi di sequestri di tipologia differente da quelli sopra citati, colpiscono soggetti che, pur non godendo di una protezione speciale per la loro carica istituzionale, riconosciuta dal diritto internazionale, rivestono particolare rilievo pubblico o comunque hanno un evidente risalto mediatico e possono conseguentemente fornire il riflesso che gli attentatori cercano nelle loro azioni.
Possono essere citati come eventuali obiettivi, persone con ruoli direttivi nelle multinazionali, banche, grandi enti o ancora missionari, medici o volontari di organizzazioni non governative o semplicemente persone famose del mondo dello spettacolo e così via, senza preclusione di alcuna categoria.
Importante per gli attentatori è solo la rilevanza internazionale del soggetto colpito o la rilevanza che il soggetto può avere anche solo successivamente al fatto di essere stato oggetto di attentato.
Si pensi in questo caso, ai missionari laici o religiosi, non fa differenza, di cui così poco si parla e si conosce del loro impegno quotidiano nelle zone più difficili e povere della terra che, una volta oggetto di attentati terroristici, improvvisamente entrano nelle cronache e nei servizi di informazione televisiva di tutto il mondo.
In questo caso si diffonde incertezza e paura verso il paese che ha ospitato le vittime del sequestro o dell’atto violento, scoraggiando investimenti, l’invio di aiuti e creando, ancora una volta, un clima di insicurezza e terrore generale nell’ambito della comunità territoriale, in virtù dei molteplici aspetti coinvolti, della collaborazione tra gli Stati e dello spostamento sempre più facile e veloce della popolazione mondiale.
In ultimo, quale frequente tecnica usata, vogliamo evidenziare l’avvelenamento di merci e l’invio dei c.d. pacchi bomba mediante il servizio postale, tra l’altro metodo ancora oggi purtroppo in uso anche in Italia, da parte di organizzazioni anarchiche operanti in special modo nel nord-ovest.
Di un evento di particolar rilievo si è reso responsabile nel 1972 l’organizzazione palestinese purtroppo molto nota denominata “Settembre nero”, che inviò lettere esplosive alle sedi diplomatiche di Israele in varie parti del mondo.
Altro metodo che ha creato molto allarme è stato l’avvelenamento di prodotti alimentari provenienti sempre da Israele.
L’efficacia non è stata assolutamente nel danno economico immediato arrecato alle esportazioni di merce israeliana, che sicuramente hanno subito una forte flessione almeno nel periodo a ridosso dell’evento.
Ancora una volta assume particolare peso il risvolto sociale, di paura che un simile atto produce e il fatto che questo possa ripetersi.
Gli attentatori ben conoscono il settore economico colpito e la difficoltà di controllare tutta la filiera degli scambi commerciali fino al consumatore finale, che può trovarsi in qualsiasi parte del mondo, data la diffusione ormai su larga scala dei commerci e dei prodotti alimentari, sempre più agevolmente conservabili e trasportabili.
Tuttavia in questi anni il danno economico e la destabilizzazione politica non sono ancora molto considerati dalle organizzazioni terroristiche quale scopo finale delle loro azioni, come invece rientrano oggi in una strategia molto più complessa volta a un vero e proprio indebolimento, potremmo dire annientamento, dell’Occidente.
Dei casi sopra brevemente ricordati, che rilevano molteplici tipologie di attentati verificatesi, senza voler scendere nello specifico dello sviluppo degli eventi, delle organizzazioni coinvolte e delle iniziative di contrasto (che analizzeremo nel capitolo successivo) rileva quanto “internazionale” siano diventati gli atti di terrorismo che coinvolgono sia nelle conseguenze che nello svolgimento delle azioni, anche di riflesso, sempre più stati, istituzioni, persone di molteplici nazionalità.
Tutto ciò offre una eco sempre più ampia a questi atti, compiuti o anche tentati, generando un allarme sociale oltre che politico e istituzionale sempre più grande e profondo nella società, le cui paure si diffondono tanto più velocemente quanto più i mezzi di comunicazione diventano efficienti e rapidi.
3- Gli eventi del 1979.
Il 1979 è un anno ritenuto fondamentale per tre eventi, su tutti, tra i molti verificatesi in quegli anni che hanno dato particolare impulso allo sviluppo del terrorismo internazionale, dandogli peculiarità diverse e totalmente nuove rispetto a quelle precedentemente note, specialmente rispetto all’univocità degli scopi e trasformando l’area medio-orientale nell’epicentro delle molteplici organizzazioni che, proprio in quel periodo, maturarono, se non punti di condivisione delle strategie, quantomeno un nemico unico, comune alle varie “anime” interne: l’Occidente e i valori che questo rappresentava e rappresenta tutt’oggi per loro.
Il primo di questi è l’invasione da parte dell’Unione Sovietica dell’Afghanistan, che ha avuto come conseguenza immediata il richiamo di molti musulmani a combattere e difendere la loro cultura dall’invasore e dalle difficoltà che questo avrebbe rappresentato per poter seguire e sviluppare le loro tradizioni.
Inoltre, notoriamente, gli aiuti ricevuti dalle forze afghane da paesi Occidentali per combattere l’avanzata e l’ampliamento del campo di influenza dell’U.R.S.S., si sono rilevati un’arma a doppio taglio che si è rivolta proprio contro chi ha incoraggiato tale resistenza armata.
Altro avvenimento fondamentale è la rivoluzione khomeinista in Iran, con la conseguente espulsione dello Scià, fortemente legato alla politica americana e che ha portato il paese, in precedenza filo-occidentale, ad abbracciare le cause e fare spesso da scudo alle organizzazioni islamiche integraliste.
Va detto però che l’andamento della rivoluzione fu fortemente condizionato dalla ritrovata libertà di azione dell’ayatollah Ruhallah Kohomeini che, “vissuto sotto stretta sorveglianza in Iraq, passò, nell’ottobre del 1978, a una situazione di relativa libertà in Francia” riuscendo ad assumere “il comando della componente islamica del movimento che osteggiava lo scià”[5].
In ultimo, la strage della Mecca, in Arabia Saudita, in cui morirono migliaia di persone.
Seppure gli attentatori avevano mire antiamericane e antioccidentali ed erano anch’essi di religione islamica, ci furono migliaia di vittime tra i fedeli stessi, tra gli insorti e anche tra le forze di polizia intervenute per sedare la rivolta.
Inoltre, alla liberazione della Mecca parteciparono forze speciali francesi che riuscirono definitivamente per riprendere il controllo della moschea, fornendo tuttavia al mondo islamico integralista la possibilità di collegare la morte di migliaia di persone all’invadenza dei paesi occidentali in cause interne al mondo arabo.
Yaroslav Trofimov, Capo Corrispondente degli Affari esteri presso il Wall Street Journal, per il quale si è occupato anche della cronaca estera fino al 1999, confermando quanto il 1979 sia stato fondamentale nello sviluppo moderno del terrorismo internazionale, definisce “l’occupazione della Grande Moschea, la prima operazione su vasta scala di un movimento jihadista internazionale in tempi moderni”[6], tanto che, come riporta ancora Trofimov, riprendendo una registrazione audio datata 2004 pubblicata sui siti della jihad, lo stesso Bin Laden dichiara che “gli uomini che hanno occupato la Mecca erano dei veri musulmani […] non avevano commesso alcun crimine e […] sono stati spietatamente uccisi”[7].
Tutto viene ricondotto dalla propaganda islamica, a una avversione del mondo verso l’Islam.
Questi eventi ebbero come conseguenza, nell’immediato, da parte di un certo mondo islamico, la nascita di un sentimento antioccidentale che maturò velocemente come vero e proprio antagonismo, come contrapposizione a una cultura prevaricatrice e imperialista da cui difendersi e se possibile da sopraffare.
Il mondo islamico integralista trovò finalmente una causa comune, riuscendo a internazionalizzare quello che precedentemente veniva sentito come problema locale, limitato al mondo arabo, ponendolo invece all’attenzione dell’intera Comunità Internazionale.
Effettivamente gli eventi citati sono collegati tra loro e con altri accadimenti come la guerra civile in Libano, che ha visto coinvolti diversi interessi di nazioni esterne (Giordania, Siria, Iran e Israele in particolar modo, ma anche europee) e che ha spianato la strada alla nascita di numerosi campi di addestramento per i fondamentalisti palestinesi dell’O.L.P. rifugiatesi proprio in quegli anni in Libano, espulsi dalla Giordania.
Queste ulteriori favorevoli condizioni per lo sviluppo delle organizzazioni terroristiche, hanno allarmato il vicino Israele tanto che nel 1982 decise l’invasione del Libano, dando ulteriore impulso alla lotta contro il c.d. “imperialismo” occidentale e ponendo proprio Israele quale obiettivo comune e più vicino, facilmente raggiungibile dagli attentatori, insieme chiaramente all’Occidente, legato e alleato dello stato israeliano.
4- Il finanziamento del terrorismo internazionale.
I gruppi terroristici, come ogni altra organizzazione legale o meno, hanno bisogno di finanziamenti per il sovvenzionamento delle loro attività, intese come progettazione ed esecuzione degli attentati, ma anche e soprattutto, specie nel mondo contemporaneo, per la propaganda e arruolamento di nuovi fedeli pronti a combattere per la causa e rendere noti gli atti compiuti in modo da enfatizzarne la crudeltà.
Altra spesa ingente, è il mantenimento della struttura e delle famiglie dei “martiri” deceduti per la causa comune, che comporta un notevole sforzo economico.
Proprio negli anni dal ’60 in poi si inizia a emergere più chiaramente l’aspetto economico che, anch’esso, ha avuto una evoluzione nel tempo come d’altronde ogni altro aspetto legato a questo fenomeno.
Prendendo il caso dei dirottamenti aerei questi avvenivano inizialmente, con il “mero fine di raggiungere uno Stato altrimenti irraggiungibile, o non agevolmente raggiungibile”[8] specialmente per quanto concerne l’aerea europea e caraibica.
Successivamente i dirottamenti di aeromobili o navi e i sequestri di persona, furono usati per porre all’attenzione dell’opinione pubblica determinate situazioni o crisi a livello locale e ritenute non adeguatamente considerate dalla comunità internazionale e dall’opinione pubblica.
Anche in questo caso non è, almeno inizialmente, la destabilizzazione o la volontà di creare terrore la finalità di chi compieva queste azioni, piuttosto la necessità di porre in risalto in maniera così forte alcune criticità a livello locale e la loro esasperazione.
Questo è stato comunque propedeutico alla nascita di azioni più estreme e violente, terroristiche.
Altre volte, invece, come il caso delle azioni poste in essere dai terroristi palestinesi che avevano come obiettivo il rilascio di detenuti, la finalità non è strettamente terroristica, seppure legata alla strategia della paura e sempre tesa a dimostrare la “capacità reattiva” e “offensiva” di tali gruppi.
Divenuti sempre più frequenti, gli eventi di tale portata sono stati sfruttati, oltre che per gli scopi di cui abbiamo parlato, anche per il sovvenzionamento delle organizzazioni tramite richieste di riscatto, al fine di ricavare fondi per attività sempre più complesse e costose.
Queste appena descritte sono state le prime forme di sovvenzionamento, che si sono sviluppate e affinate fino a diventare “occulte” e quindi molto più difficili da individuare ed eliminare, andando a coinvolgere settori economici e finanziari legali.
L’obiettivo di molte delle più importanti normative che sono state sviluppate nella lotta al terrorismo internazionale, infatti, sono dirette proprio a minare le basi economiche dei gruppi, sempre operando contestualmente anche negli altri settori, tra cui non ultimo quello sociale legato al reclutamento delle nuove leve.
Oggi possiamo compiutamente parlare di finanziamento del terrorismo, piuttosto che di sovvenzionamento, poiché il termine rende in modo più completo quanto le esigenze economiche sono aumentate in concomitanza con le maggiori capacità offensive di tali organizzazioni.
Anche la globalizzazione dei mercati e dell’economia ha influito sotto questo aspetto.
Le modalità di reperimento delle risorse monetarie sono complesse e strettamente connesse all’economia legale e alla finanza e si avvalgono di strumenti economici legittimi per riciclare o “pulire” (c.d. money loundering) denaro proveniente da attività o finanziamenti illeciti o al limite della legalità.
Queste procedure sono talmente articolate da riuscire a sfruttare le lacune del sistema globalizzato, come per esempio il caso dei “paradisi fiscali” o paesi che assicurano anonimato e/o segreto bancario a investitori, multinazionali e così via, dietro ai quali si celano le organizzazioni criminali di ogni tipo, anche tramite il sistema di società a “scatole cinesi”.
Inoltre vi sono alcuni stati che, sia nel passato, si pensi all’Afghanistan e all’Iraq, sia nel presente, in riferimento a paesi come l’Iran o paesi come i citati “paradisi fiscali” (che con le loro politiche finanziarie di tutela degli investitori, la bassissima tassazione e la scarsa persecuzione dei reati finanziari) agevolano o non ostacolano i flussi di denaro che per molteplici vie finiscono per sovvenzionare organizzazioni criminali di ogni genere.
Altri paesi ancora hanno avuto atteggiamenti equivoci nel tempo, passando da periodi storici in cui vi sono stati tentativi di collaborazione o quantomeno di dialogo diplomatico ad altri momenti in cui si è arrivati anche all’uso delle armi, come storicamente è stato l’atteggiamento della Libia di Gheddafi[9].
Di questo ampio e diversificato sistema si avvalgono le organizzazioni terroristiche più forti per accrescere la loro capacità d’azione e sostenere tutto complesso apparato organizzativo di cui hanno bisogno per i loro scopi.
5- 11 Settembre 2001.
L’attentato compiuto l’11 Settembre 2001 rivela, purtroppo, tutta la pazienza, la capacità organizzativa, la potenza e forza economica che le sigle del terrore, in questo caso Al-Qaeda, che era ed è una delle più efficienti e ramificate nel mondo, sono riuscite a raggiungere per immaginare e poi realizzare un atto criminale di tale portata.
L’aver pianificato e compiuto un attacco così complesso e lungo nella preparazione, mette in luce, dall’altra parte, tutte le falle del sistema antiterroristico americano e internazionale e, forse, ancor di più, evidenzia quanto sia stata sottovalutata sotto ogni aspetto la capacità d’azione che i gruppi fondamentalisti hanno maturato nel corso degli anni ’90, in cui, tra l’altro, non hanno mai dato la sensazione di essere vinti.
Oltre chiaramente l’elevatissimo numero di vittime che rende già di per sé la grandezza e l’atrocità dell’evento[10], bisogna immaginare lo sforzo organizzativo e la capacità di progettare, in clandestinità, un attentato così costoso, che impegna un’ampia gamma di attività che vanno dall’addestramento del personale, alla progettazione, alla pianificazione e gestione operativa, cioè l’effettiva realizzazione degli attacchi “sul campo”, il coordinamento degli attentatori durante l’azione e così via.
Tra l’altro, gli aerei partirono da aeroporti americani differenti e colpirono i rispettivi obbiettivi praticamente in simultanea per quanto concerne i due che hanno abbattuto le torri gemelle e circa mezz’ora dopo quello che ha colpito il Pentagono.
Il quarto e ultimo aereo precipitò dopo circa mezz’ora dall’ultimo attacco, senza colpire l’obiettivo prefissato, che avrebbe dovuto essere secondo le indagini successivamente svolte, la Casa Bianca, ma che, a causa della ribellione dei viaggiatori, non è stato portato a termine.
L’11 Settembre 2001 ha cambiato la storia recente e, seppure ha apparentemente compattato il mondo occidentale in solidarietà all’alleato americano, ha di contro avuto l’effetto, a causa anche della immediata reazione all’attacco[11], di marcare definitivamente una divisione del mondo, tra due sole categorie di società, distinte genericamente e in modo frettoloso e superficiale: la civiltà occidentale da una parte e il mondo islamico ed estremista dall’altra.
Questa distinzione così marcata e semplicistica è scaturita dalla paura per la storia del mondo islamico, poco conosciuto e di tradizioni e culture molto diverse da quelle Occidentali; dall’altra parte, la reazione militare e violenta verso i paesi ritenuti fiancheggiatori dei terroristi ha facilitato la propaganda estremista contro il mondo Occidentale, invasore e nemico dell’islam, determinando ancor di più la spaccatura tra Occidente e l’estremismo islamico.
Questa spaccatura in due del mondo era iniziata con gli eventi dei decenni precedenti e che abbiamo affrontato, ma riguardava soprattutto il mondo islamico estremista che aveva trovato in Israele e nel suo alleato americano in particolar modo, un nemico comune da combattere.
Era quindi il mondo islamico che si era compattato contro il nemico comune occidentale, mentre gran parte dell’Occidente rimaneva piuttosto indifferente o comunque non parte diretta di tale scontro, sentendone le problematiche e gli effetti solo in lontananza.
In Occidente il pericolo veniva sentito in particolar modo nei periodi immediatamente successivi agli attentati, ma non come una questione culturale e non come un pericolo quotidiano, costante, nascosto e sempre vicino a noi, come avviene oggi, seppure chiaramente se ne sentiva la crescente rilevanza.
Infatti il percorso è stato sempre in crescendo ed è andato evolvendo e intensificandosi dagli anni ’60 e ’70, attraverso gli eventi del 1979, fino ad arrivare alle moderne forme di terrorismo internazionale, che vedono addirittura “sdoganati” gli attentatori dalla formale appartenenza a una sigla terroristica, cosa precedentemente impensabile.
Nel corso di questi anni, tuttavia, non si è proposta e percorsa una via condivisibile per risolvere il problema a livello internazionale, trovando un accordo tra le parti coinvolte e isolare i radicalismi.
Gli effetti sociali degli attacchi dell’11 Settembre 2001, che hanno colpito dei simboli di modernità, efficienza, libertà e tutto ciò che più in generale rappresenta l’Occidente, quindi, sono andati oltre, generando paura e insicurezza addirittura all’interno del territorio americano, ritenuto una fortezza e facendo percepire in pericolo quei valori che sono fondamento della società americana e occidentale più in genere, facendo molti morti, creando panico e anche ingenti danni economici connessi a tali eventi.
In questo caso la società americana ha sentito molto vicino l’orrore delle numerose perdite di vite umane, come se causate da una guerra, tanto che molte testate giornalistiche del tempo associarono l’evento a una dichiarazione di guerra[12].
L’enorme portata e la gravità dell’evento, hanno fatto sì che tutte le nazioni “amiche” dell’America, si sono sentite a loro volta in pericolo e vulnerabili, non solo per quanto riguarda le istituzioni e obiettivi sensibili al di fuori dei confini nazionali, bensì anche all’interno del loro territorio in similitudine di quanto avvenuto per l’America, in particolar modo per quanto attiene l’Europa, che “ha dovuto improvvisamente capire che l’Occidente esiste davvero, se esiste nella mente dei suoi nemici […]”[13].
Allo stesso modo Eugenio Scalfari scrive, sempre nella stessa edizione di Atlantide, che “sarà la guerra contro un mostruoso terrorismo il quale però non è sentito come tale da un’altra parte rilevante del mondo”[14], poiché in alcuni paesi del medio oriente questo è un sentimento diffuso, specie nelle aree più povere del mondo.
6- Connivenze tra Stati e terrorismo. L’invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan.
Come detto, l’11 Settembre 2001 ha cambiato il corso della storia e delle relazioni internazionali, determinando da parte degli Stati Uniti la volontà di affermare fortemente la loro capacità di reazione e la loro decisione nel voler sconfiggere il terrorismo di matrice islamica e contemporaneamente di voler essere guida per tutte le democrazie.
Il punto è proprio analizzare quanto svolto fino a quel momento, le modifiche necessarie e, infine, progettare una strategia comune per il futuro, alla luce degli eventi occorsi e dell’evoluzione del terrorismo degli ultimi anni, delle sue radici e dei suoi fiancheggiatori, intesi come i così detti “stati canaglia”.
L’attenzione degli U.S.A. si è andata ponendo proprio sugli stati ritenuti ostili e tra gli storici, cioè Libia, Siria, Iran e Afghanistan, proprio quest’ultimo è stato individuato, tramite i servizi di intelligence, quale principale protettore, fiancheggiatore e finanziatore, di Al-Qaeda e il suo leader Osama Bin Laden.
La soluzione in questo caso è stata molto più radicale dello strumento delle sanzioni economiche quali tentativo “pacifico” di risoluzione di controversie, anche perché l’attacco subito dall’America imponeva una risposta estremamente forte e decisa, anche incalzato dalla insofferenza e paura della cittadinanza[15].
Inizialmente l’attacco ai talebani in sostegno dell’”Alleanza del Nord” che a questi si opponeva, venne portato avanti da U.S.A. e Inghilterra.
A questi si unirono poi altri paesi nell’operazione “Enduring Freedom”, sotto l’egida della NATO, che aveva l’obiettivo di agevolare la nascita di un governo democratico e cacciare definitivamente gli integralisti talebani.
Lo stesso avvenne pochi anni più tardi, nel 2003, rispetto al regime iracheno di Saddam Hussein, contro il quale per altre ragioni già nel 1991 vi era stato un intervento armato, sempre sotto la guida NATO.
In questo caso l’iniziativa militare venne intrapresa da America e Inghilterra con appoggio logistico dell’Italia che in un secondo momento inviò anche contingenti di terra, senza l’appoggio della NATO, che avvenne solo in un secondo momento con lo scopo di aiutare la stabilizzazione post bellica.
Come per l’Afghanistan, anche relativamente all’Iraq la paura era quella del fiancheggiamento delle organizzazioni terroristiche, poiché si è ritenuto che “qualsiasi gruppo che riesca a scagliare un simile attacco in un lasso così breve di tempo deve avere risorse ingentissime e una straordinaria capacità organizzativa” e, inoltre, sempre in considerazione della complessità dell’attacco, deve avere disponibilità di “un luogo sicuro, un rifugio, dove può preparare indisturbata azioni simili. Queste cose non si mettono a punto in un retrobottega”[16].
Vi è un’analogia interessante rispetto alla storia recente dei due paesi; cioè il fatto che entrambi i paesi nel corso degli anni ’80 sono stati sostenuti dagli U.S.A.: l’Afghanistan nel respingere l’invasione Sovietica e l’Iraq nella lunga guerra contro l’Iran e il conseguente ampliamento della zona d’influenza islamica e dell’U.R.S.S. che l’appoggiava.
Tuttavia per quanto concerne l’Iraq non furono mai trovate prove del collegamento tra il regime di Saddam Hussein e Osama Bin Laden.
Allo stesso modo non furono trovate prove neanche relativamente all’annosa questione delle armi di distruzione di massa o addirittura armi nucleari di cui il regime iracheno sarebbe stato in procinto di dotarsi, a partire anche successivamente alla prima guerra del golfo degli anni ‘90[17].
La soluzione militare è stata quindi nuova e più forte rispetto alle precedenti, limitate al livello commerciale che aveva aspetti di dubbia efficacia e che erano addirittura controproducenti rispetto allo sviluppo di un sentimento antioccidentale che non agevolava la distensione dei rapporti tra Stati e anzi veniva sfruttato per accentuare le tensioni da parte dei vari dittatori.
Tuttavia, come si vedrà, pur portando al rovesciamento del governo talebano e sicuramente indebolendo almeno momentaneamente Al-Qaeda, l’attacco non avrà risultati definitivi, non causerà il disgregamento dell’organizzazione che, anzi, rimane integralista anche riguardo al reclutamento di nuovi “fedeli” o nuovi gruppi armati11 e avrà nuova metamorfosi operativa, come pure cambierà il tipo di azioni perpetrate anche dalle altre organizzazioni.
Gli attacchi non saranno più condotti da miliziani nel tradizionale senso del termine, tuttavia si intensificherà la presenza e ramificazione sul territorio “nemico”, in particolar modo in Europa ma anche negli U.S.A. e si svilupperanno anzi nuove strategie altrettanto barbaramente efficaci.
7- Foreign Fighters.
I Foreign Fighters rappresentano l’evoluzione del terrorismo internazionale di matrice islamica degli ultimi venti anni e poiché circolano all’interno della società occidentale, sono, a oggi, la più grande minaccia, reale, nascosta e imprevedibile.
Innanzitutto bisogna dire che i Foreign Fighters sono giovani che abbracciano la causa e il terrorismo jihadista, combattendo nei vari scenari di guerra dove si uniscono alle organizzazioni presenti sul territorio.
Questi si esercitano in appositi e attrezzati campi di addestramento, una volta presenti soprattutto in Afghanistan ed entrano quindi in un contesto paramilitare, ricevendo un addestramento paragonabile a quello degli eserciti ordinari, diventando dei veri e propri combattenti preparati sotto ogni profilo per la loro “missione”.
Inoltre, sia durante l’addestramento che durante i combattimenti nei teatri di crisi questi giovani vengono con maggior facilità plasmati e permeati dalle teorie jihadiste, diventando ragazzi totalmente dipendenti e manovrati dai vertici dalle organizzazioni che ben sanno agire sulle ambizioni, disagi e frustrazioni di tali giovani.
Questi combattenti diventano per noi particolarmente pericolosi quando, per varie ragioni, come ad esempio la caduta dell’IS come “Stato” territorializzato, fanno rientro nelle terre di origine con il loro carico di odio e disagio per vivere in un luogo a loro ormai estraneo e avverso, ma anche con un addestramento e capacità operativa che li rendono freddi e capaci.
Esempio di azioni portate avanti da questo tipo di terroristi sono gli attacchi avvenuti a Parigi nel gennaio e novembre 2015 e all’aeroporto di Bruxelles nel 2016.
Inoltre, l’uso dei social network, di cui questi ragazzi sono molto pratici e la presenza ormai continua di cellulari con fotocamere durante le azioni, rende ogni attentato purtroppo ancora più efficace per quanto attiene gli effetti legati allo spargimento di paura, voluto dagli stessi attentatori e ampliato dai mezzi di propaganda delle organizzazioni che li manovrano.
Talvolta vengono pubblicati video in diretta sui social network, oppure sono rese pubbliche dichiarazioni fatte nei momenti immediatamente precedenti le azioni, dichiarando l’appartenenza a una organizzazione, vantando il gesto o dichiarando cosa si era in procinto di fare o ancora i motivi che spingono a tali atti.
Anche le fughe degli attentatori, come nel caso di Salah Abdeslam, che ha partecipato agli attentati di Parigi nel novembre 2015, poi catturato in Belgio nel marzo 2016, dopo circa 5 mesi di ricerche, hanno disseminato il terrore in tutta Europa, per la paura che questi soggetti così pericolosi potessero colpire ancora, imprevedibilmente, con ogni mezzo a disposizione, pur di continuare a spargere vittime, paura e morire da “martiri”.
Inoltre tali attacchi, compiuti da persone che hanno combattuto nei teatri di crisi, hanno viaggiato per rientrare nei paesi di origine e si sono spostati piuttosto agevolmente per preparare tali atti, sotto l’osservazione delle forze di polizia a cui erano noti, evidenziano ancora una volta la sensazione di difficoltà e permeabilità dei sistemi antiterrorismo e il difficile coordinamento delle polizie europee.
Bisogna infine ricordare, riguardo i Foreign Fighters, anche a proposito delle abilità a eludere i controlli di polizia, che nel compimento degli attentati sono sempre in contatto con l’organizzazione centrale, sia per la pianificazione che per il reperimento di armi e dei fondi necessari per lo sviluppo dell’attacco, pur avendo chiaramente una parte di autonomia.
Questa autonomia è dovuta da un lato agli aspetti prettamente pratici per il compimento dell’operazione e pianificazione dei dettagli, dall’altro perché alcuni di questi terroristi non sono semplici combattenti, ma integrati nella struttura anche con posizioni di rilievo, godono della fiducia della gerarchia che li dirige e hanno quel minimo di potere decisionale che li rende in parte autonomi[18].
8- Terroristi “fai da te”.
La presenza in territorio occidentale delle organizzazioni terroristiche è data anche dai così detti terroristi “fai da te”, che non vanno assolutamente sottovalutati per via del termine che, seppure rappresenta in pieno il fatto che siano terroristi “auto radicalizzati” e non veri e propri combattenti, potrebbe ingannare sulla loro pericolosità.
Un primo carattere di allarme è dovuto al fatto che sono giovani cittadini regolari, figli spesso di emigrati e che, tranne sporadici casi[19], non sono riusciti a integrarsi nei paesi dove vivono, non sentendosi accettati per le loro differenze culturali e religiose, vivendo con frustrazione il contrasto tra le loro origini e la cultura occidentale che li circonda ogni giorno, pur rimanendo cittadini a tutti gli effetti.
La difficoltà d’integrazione infatti, non toglie loro la possibilità di vivere nei rispettivi paesi come tutti gli altri, godendo di uguali possibilità e diritti, tra cui il potersi muovere liberamente (anche nell’ambito dell’Unione Europea per quei terroristi che hanno cittadinanza di uno dei paesi appartenenti o nell’area Schengen) e di non essere molto spesso soggetti a particolari sorveglianze o attenzioni da parte della polizia, se non in rari casi in cui la prevenzione, come è accaduto in Italia, è stata così efficiente da scovare, specie tramite il monitoraggio degli accessi sospetti su internet, i soggetti più deboli che si erano avvicinati pericolosamente al mondo jihadista.
Questi terroristi, contrariamente ai foreign fighters, non si recano nei teatri di crisi e non sono addestrati nei campi organizzati, piuttosto si radicalizzano tramite internet, leggendo riviste, comunicati della propaganda jihadista e tramite i numerosi video facilmente reperibili in rete dove è diffuso il proselitismo, l’ideologia, gli obiettivi e dove questi giovani in piena crisi di identità, vengono sedotti con l’idea di un mondo perfetto, in cui sono riconosciuti i loro diritti, dove poter essere perfettamente integrati e finalmente cittadini a tutti gli effetti.
Altro aspetto della pericolosità di questi terroristi, è che usano qualsiasi mezzo per colpire, non hanno bisogno di armi sofisticate o di una particolare progettazione dell’attentato, ma usano i video reperibili sulla rete per fabbricare ordigni rudimentali e pur sempre efficaci oppure armi bianche per colpire direttamente le proprie vittime.
In ogni caso, anche quando per qualsiasi motivo un attentato non risulta efficace come pensato o non riesce affatto, l’effetto “terroristico”, inteso come volontà di diffondere paura e insicurezza, è riuscito ugualmente, portando le popolazioni occidentali a sentire e “toccare con mano” il pericolo ovunque si intraveda una persona dall’aspetto, dall’abbigliamento o dal tratto arabo, accentuando la reciproca diffidenza e lo scontro “tra civiltà”.
I primi attentati attribuibili a questa tipologia di terroristi sono quelli avvenuti a Madrid nel 2004 e Londra nel 2005, attuati da ragazzi che avevano piena libertà di movimento e insospettabili, essendo sempre vissuti nei paesi colpiti.
Questi sono gli esempi di attentati più eclatanti, ma molti altri poi sono stati realizzati da terroristi non foreign fighters che poi si sono dichiarati ispirati da imam e leader delle organizzazioni terroristiche internazionali[20].
CAPITOLO 2 – La normativa di contrasto della comunità internazionale.
1 – L’estradizione e il tentativo della Convenzione di Ginevra del 1937.
L’estradizione è l’istituto giuridico di cooperazione internazionale “tramite il quale uno Stato consegna ad un altro Stato un individuo accusato o condannato per sottoporlo, rispettivamente, a processo (estradizione processuale) o all’esecuzione della pena”[21].
La definizione tecnica offerta da Cassese[22], lascia apparire tale procedura semplice e lineare, poiché collegata alla presunta commissione di un reato o all’esecuzione di una pena, il che trova tutti d’accordo sul fatto di collaborare al fine di assicurare alla giustizia criminali di ogni sorta.
Tuttavia come sempre quando si parla di terrorismo e cooperazione tra stati non tutto è facilmente inquadrabile come sembra e non è assolutamente di semplice attuazione.
Sicuramente l’estradizione rappresenta la presa di coscienza da parte delle nazioni della necessità di collaborare per fronteggiare i reati di terrorismo, non ancora identificati come internazionali ma dei quali le menti più lungimiranti hanno sicuramente potuto intuirne le conseguenze al di fuori dei confini nazionali e la futura proiezione internazionale.
Anche l’istituto dell’estradizione ha avuto un percorso lungo per arrivare a essere la forma di cooperazione e reciproco sostegno che oggi conosciamo e che pure non è ancora una procedura semplice e veloce (in considerazione della complessità dell’istituto giuridico chiaramente) che assicura il buon fine.
Infatti l’estradizione non era possibile per i reati ritenuti di natura politica e anche nei tempi recenti ha incontrato qualche difficoltà di interpretazione, tanto più che la stessa Costituzione italiana, all’art. 26 dispone che “l’estradizione del cittadino può essere consentita soltanto ove sia espressamente prevista dalle convenzioni internazionali. Non può in alcun caso essere ammessa per reati politici”[23].
Inoltre, l’art. 13 comma 1 del Codice Penale, afferma che “l’estradizione non è ammessa, se il fatto che forma oggetto della domanda di estradizione, non è preveduto come reato dalla legge italiana e dalla legge straniera, mentre al comma 2 lo stesso articolo precisa che “l’estradizione può essere concessa od offerta, anche per reati non preveduti nelle convenzioni internazionali, purché queste non ne facciano espresso divieto”[24].
Esempio di rilievo storico è la mancata estradizione di Celestino e Giulio Jaquin che compirono un attentato a Napoleone III nel 1854 e che successivamente si rifugiarono in Belgio, paese che non riconosceva l’estradizione per reati di natura politica.
A seguito di forti pressioni diplomatiche e anche per motivi strettamente tecnico-giuridici tale previsione legislativa fu integrata nel 1856 dalla c.d. “clausola belga” che prevedeva, sostanzialmente, che non possono essere ritenuti politici gli attentati rivolti contro capi di governo, disponendo testualmente che “ne sera pas réputé délit politique ni fait connexe à un semblable délit l’attentat contre la personne du chef d’un governement éntrager ou contre celle des membres de sa famille, lorsque cet attentat constitue soit le fait de meurtre, soit d’assassinat, soit d’empoisonnement”[25].
Antonio Panzera nel suo scritto titolato “La disciplina normativa sul terrorismo internazionale”, trattando le origini della normativa internazionale sul terrorismo, evidenzia i cardini della convenzione di Ginevra del 16 novembre 1937 che confermano la direzione presa di considerare finalità terroristiche, gli attentati contro i beni pubblici o destinati ad uso pubblico e i reati di pericolo comune.
La stessa Convenzione del 1937 e la Corte Penale Internazionale a cui avrebbero dovuto essere deferiti i soggetti autori di tali atti, pur non essendo entrate in vigore per difetto del numero di ratifiche necessarie, “rivestono particolare importanza, in quanto contengono un modello normativo poi recepito, con opportuni aggiustamenti, in varie convenzioni elaborate in epoca più recente, a seguito del manifestarsi di nuove forme di terrorismo internazionale”[26].
Tuttavia la Convenzione Europea di estradizione del 1957[27] non ha lo stesso slancio del tentativo fatto nel 1937, tanto che, pur formalizzando all’art.1, che “le Parti Contraenti si obbligano a estradarsi reciprocamente, secondo le regole e le condizioni stabilite negli articoli seguenti, gli individui perseguiti per un reato o ricercati per l’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza dalle autorità giudiziarie della Parte”, continua a tenere fuori dal campo di applicazione della convenzione il “reato politico”, pur sempre affermando che “l’attentato alla vita di un Capo di Stato o di un membro della sua famiglia non sarà considerato come reato politico” – art. 3[28].
La stessa linea seguiranno i molteplici accordi bilaterali sottoscritti fino agli anni più recenti in tal senso, tra l’altro spesso con le stesse formule della Convenzione prima richiamata, come nel caso dell’accordo bilaterale tra Italia e Argentina (rilevando il noto caso Priebke)[29].
La Convenzione europea per la repressione del terrorismo di Strasburgo del 1977, elenca e amplia rispetto alla Convenzione del 1957 i reati c.d. depoliticizzati, quali tipi di attentati non possono essere considerati politici, scremando così in modo sostanziale molti degli atti terroristici che per la loro natura venivano definiti politici e, conseguentemente, nono erano soggetti a estradizione.
Una delle critiche che viene mossa a questa Convenzione, è di non aver fornito una definizione di reato politico, limitandosi invece a “elencare una serie di reati che nella maggior parte dei casi sono opera dei terroristi – essendo limitate le ipotesi di commissione di tali reati da parte di non terroristi – o considerare determinati mezzi di esclusione i quali sembrano essere una “costante” di questo tipo di reati”[30].
2 – Iniziative degli anni ’80 contro stati “non collaborativi”.
Nel corso degli anni ’80, ma anche negli anni immediatamente precedenti e successivi, una delle più frequenti strategie usate contro gli Stati “non collaborativi”, quali la Libia e la Siria a esempio, ritenuti vicini alle organizzazioni terroristiche, è stata quella economica, sotto la veste del c.d. “embargo”.
Bisogna però da subito specificare che, anche se in forme molto più studiate, contestualizzate e meno aggressive nei confronti delle popolazioni, le sanzioni economiche sono ancora in uso quale strumento di indebolimento economico, ma anche politico, come vedremo, di paesi ritenuti non collaborativi o antagonisti.
L’embargo è quel “Provvedimento con cui uno stato o un gruppo di stati vieta l’esportazione di armi, munizioni e di qualsiasi prodotto che possa servire alle nazioni in guerra per prolungare il conflitto, o con cui, anche fuori da eventi bellici, delibera la sospensione di forniture di determinate merci per esercitare su una nazione pressioni o ritorsioni di natura politica: e. del grano, del petrolio […]”[31].
La definizione sopra citata offre un quadro chiaro del campo d’applicazione di questa forma di intervento, che, come si può facilmente intuire, è sempre in atto durante le guerre formalmente combattute, cioè con le armi, per non permettere all’avversario di rifornirsi di beni di prima necessità o materie prime per la costruzione e il rifornimento degli armamenti, nonché per ridurne la capacità industriale e di lavoro, con riverberi anche sull’occupazione nel settore bellico che, durante i periodi di conflitto, rimane l’unico in crescita e trainante per quanto attiene l’occupazione e l’economia in genere.
Allo stesso tempo l’embargo è stato applicato agli scambi commerciali anche nei periodi di pace, andando a colpire la compravendita dei beni di cui il paese cui è diretto aveva necessità, poiché non presenti o producibili in ambito nazionale, ma anche quelli di cui erano forti le esportazioni, ridimensionandone il volume delle vendite, con conseguenze sulla crescita economica del paese.
Parliamo sia di generi alimentari, come il grano, oppure utili per la fabbricazione di altri beni, o ancora per la produzione di energia come il petrolio o il carbone.
Per inquadrare nel suo complesso la soluzione “embargo”, bisogna pensare che l’aspetto economico è strettamente legato, oggi insieme a quello finanziario per come si è sviluppata l’economia mondiale, agli aspetti di convergenza e di collocazione politica internazionale.
Ogni forma di sanzione economica, infatti, ha riflessi anche sull’isolamento del paese cui sono dirette, con conseguente aumento delle difficoltà di trovare una soluzione e una via politica, non conflittuale, di risolvere i problemi e va a incidere sullo scacchiere politico mondiale.
Anche questo tipo di provvedimento ha conseguenze a livello di diplomazia internazionale, causando molto spesso una frattura tra paesi favorevoli e quelli invece che conservano buoni rapporti con il destinatario del provvedimento restrittivo.
Gli effetti delle sanzioni economiche sono direttamente riscontrabili a livello economico, ma rilevano anche per quanto attiene la tenuta sociale del paese, poiché andando a colpire direttamente o indirettamente le necessità primarie della popolazione, questa riversa le proprie insoddisfazioni sul governo del paese stesso, o almeno questo si è sempre ritenuto dovesse accadere in questi contesti.
Tuttavia la storia ci ha consegnato testimonianze totalmente diverse.
Da una parte i regimi totalitari come quelli cui si accennava inizialmente, su tutti Libia e Siria, hanno fatto leva proprio sulle sanzioni economiche per demonizzare le democrazie occidentali, U.S.A. in primis e colpevolizzarle per le gravi crisi affrontate.
Dall’altra parte gli oppositori interni, spesso facendo forza sull’isolamento internazionale e sull’appoggio politico e a volte anche militare delle forze internazionali, hanno cercato di opporsi ai regimi che in quel momento sembravano indebolirsi.
Tra le prime nazioni colpite da questo tipo di provvedimento a livello internazionale troviamo Sud Africa, Iraq, la ex-Jugoslavia e la Somalia, per le note vicende legate a guerre civili, apartheid e diritti umani degli anni ’80 e primi anni ‘90.
Nel nostro caso portiamo quale esempio la Libia per vicinanza e per le vicende storiche che nel corso del 1900 fino agli anni 2000 l’hanno vista protagonista anche nei rapporti con l’Italia, dai tempi della colonizzazione del 1911 passando per l’indipendenza del 1951 e la nazionalizzazione delle strutture economiche fondamentali avvenuta nel 1970, che ha colpito fortemente gli ex coloni italiani stabilitisi in Libia e rimasti anche dopo la fine del secondo conflitto mondiale, nonché le grandi società petrolifere italiane.
La risoluzione 748 del 1992 del Consiglio di Sicurezza dell’O.N.U. del 31 marzo 1992[32], ha disposto una serie di sanzioni nei confronti della Libia[33] riconoscendo e sancendo che il regime avesse fornito appoggio alle organizzazioni terroristiche e rilevando il mancato impegno nell’eliminare le forme di terrorismo che trovano sostegno nel paese.
Tale risoluzione propone scelte mirate all’accennato isolamento del paese, vietando qualsiasi contatto aereo con la Libia, se non per riconosciute motivazioni umanitarie, quali trasporto di medicinali e beni per l’assistenza sanitaria, al fine di vietare la fornitura di armi o di materiali per la costruzione di armamenti, conseguentemente anche consulenze e servizi di ogni sorta inerenti attività militari.
Altro punto da evidenziare è stato il divieto posto alla possibilità di fornire rifugio a terroristi in qualche modo collegati con il regime Libico, in modo da ridurre la possibilità che questi trovino paesi disposti a creare crisi diplomatiche e assumere atteggiamenti in aperto contrasto con la comunità internazionale, per dare ricovero a criminali in fuga e non permettere che questi potessero in qualche modo poi raggiungere la Libia e trovare riparo dalla giustizia.
Inoltre la risoluzione pone dei limiti temporali all’aggiornamento della situazione per verificare anche gli effetti della decisione stessa e impone di condividere prontamente eventuali violazioni o situazioni di rilievo, a conferma dell’importanza data al sistema di collaborazione tra Stati e quanto la soluzione del problema del terrorismo internazionale passasse, e passa tutt’oggi, dall’isolamento delle organizzazioni stesse e da una piena cooperazione internazionale, che in quegli anni si andava sempre più affermando.
Sempre per quanto attiene l’aspetto delle forniture militari, in analogia a quanto detto, il Consiglio di Sicurezza dell’O.N.U. con la risoluzione 687 del 1991 ha affermato la necessità di verificare il programma di smaltimento delle armi nucleari, la distruzione del programma di produzione di armi biologiche e dei missili con gittata superiore a 150 km da parte del regime iracheno e permettere l’ingresso degli ispettori delle agenzie internazionali, verificando anche il divieto di forniture in tal senso da parte di paesi terzi.
Anche in questo caso, a fattor comune con quanto avvenuto per la Libia e negli altri provvedimenti di specie, venne congelata qualsiasi transazioni economica o finanziaria che abbia aspetti collegati con la produzione di armi per le quali è stato sancito il divieto, nel tentativo di bloccare di fatto tutta la catena economica collegata al rifornimento di materiali, strutture e servizi eventualmente utili a tale scopo.
3 – Normativa di contrasto “settoriale”.
Contestualmente alla formula delle sanzioni economiche dirette a indebolire i paesi ostili, dalla seconda metà del ‘900 è andata sviluppandosi una serie di convenzioni internazionali volte a reprimere il fenomeno terroristico, considerando le tipologie di attentati di volta in volta posti in essere, studiando soluzioni specifiche.
Una di queste è la Convenzione per la repressione della cattura illecita di aeromobili, adottata all’Aja il 16 Dicembre 1970, diretta a reprimere lo specifico fenomeno che proprio negli anni immediatamente precedenti aveva assunto un rilievo e una frequenza che ha costretto la comunità internazionale a studiare specifiche soluzioni in materia.
Tuttavia i gruppi terroristici, come ormai noto, cercano forme nuove di attentati, sempre più sensazionali e imprevedibili, facendo si che una volta creata una normativa ad hoc per una determinata tipologia, ci si trovava ad affrontare già nuove forme di minacce.
Anche l’International Convention for the Suppression of Terrorism Bombings del 15 Dicembre 1997 adottata dall’Assemblea Generale dell’O.N.U. è diretta a reprimere gli attentati dinamitardi, cercando di coordinare le attività di repressione in materia a livello internazionale.
Questi e altri, tuttavia, rimangono tentativi settoriali, che tendono ad affrontare il terrorismo in modo parziale, come si trattasse di un fenomeno statico, mentre le sue caratteristiche sono opposte.
Il terrorismo ha molteplici aspetti e varia anche nel suo ampio panorama di attori che lo caratterizzano e che, tra l’altro, spesso attraversano periodi di frizioni al loro interno, come anche è in continua evoluzione per le forme in cui si palesano le azioni, il cui dinamismo supera la lungimiranza dell’azione di contrasto adottata e che si trova a rincorrere le iniziative di queste organizzazioni.
La nota comune a queste convenzioni è il forte richiamo alla cooperazione internazionale, che si rinviene anche oggi nelle contemporanee risoluzioni ONU e nella normativa europea, nel quale ambito sicuramente la componente di condivisione è più riscontrabile per via dell’omogeneità territoriale e politica, almeno in questo campo, come vedremo più avanti.
In questo caso il punto focale risiede nell’importanza della piena e fattiva collaborazione e aggiornamento dei trattati/convenzioni e normative in materia perché queste non risultino più inadeguate e inapplicabili, evitando di ricorrere a nuovi strumenti, aggiornando e integrando piuttosto quelli già esistenti e in uso.
Tale aspetto è riscontrabile anche nel fatto che le convenzioni sono spesso aperte, nel senso che lasciano la possibilità ad altri stati non firmatari al momento della stipula, di poter entrare in un momento successivo, in modo da ampliare la platea dei paesi cooperanti e rafforzare il fronte collaborativo così da rendere più efficiente ogni iniziativa presa[34].
Possiamo dire, in conclusione, che seguendo l’iter e le argomentazioni delle convenzioni in materia di lotta al terrorismo sviluppatesi dagli anni ’70 agli anni ’90, possiamo contestualmente delineare lo sviluppo della strategia terroristica internazionale negli stessi anni, nonché, andando ad elencare gli Stati firmatari delle singole convenzioni, i cambiamenti verificatesi nello scenario politico mondiale.
4 – La convenzione internazionale per la repressione del finanziamento del terrorismo, New York, 1999.
In questo paragrafo parleremo di una delle convenzioni maggiormente importanti, poiché si fonda sull’intuizione di quanto sia importante “tagliare i fondi” alle organizzazioni terroristiche e quanto altresì il controllo del flussi economici e finanziari sia indispensabile, per salvaguardare l’economia, della quale si servono, attraverso artefici finanziari, le organizzazioni criminali che ne ricavano denaro per le attività illecite e alle quali fanno confluire anche il denaro provento di economia illecita.
Infatti, contestualmente all’evoluzione degli attentati divenuti sempre più articolati e di risalto mediatico, si è cercato di minare le basi economico-finanziarie delle sigle terroristiche, considerato che proprio da quelle risorse deriva la loro capacità di azione, tanto che la convenzione in argomento, “considerando che il finanziamento del terrorismo è argomento che preoccupa profondamente l’intera comunità internazionale”, sottolinea che “il numero e la gravità degli atti di terrorismo internazionale sono in funzione delle risorse finanziarie che i terroristi possono ottenere”[35].
La conferma di quanto la parte economico finanziaria sia fondamentale è data da quanto avvenuto l’11 Settembre 2001 in America e di cui abbiamo già parlato, riguardo alle risorse necessarie per pianificare e realizzare un attentato così complesso.
Quanto detto nel paragrafo dedicato torna utile a comprendere le basi di questa convenzione, che pure è antecedente al 2001.
La convezione internazionale per la repressione del finanziamento al terrorismo, firmata a New York nel 1999 è fondamentale in tal senso perché pone delle innovazioni davvero decise in tema, equilibrando la possibilità di intervento con le garanzie a tutela di ognuno.
Innanzitutto, essendo ormai individuata già in quel periodo quale preponderante la matrice di estremismo islamico per gli attentati più violenti, nel preambolo viene richiesto agli Stati di prendere provvedimenti per “prevenire e impedire con adeguati mezzi interni, il finanziamento di terroristi o di organizzazioni terroristiche, che abbia luogo sia direttamente che indirettamente per il tramite di organizzazioni aventi anche, o che pretendono di avere, uno scopo di beneficienza, culturale e sociale”, o che comunque, continua il testo, siano implicate “nel traffico illecito di armi, il traffico di stupefacenti e l’estorsione di fondi […] in vista di finanziare attività terroristiche […].
Chiaramente si intende far emergere le attività illecite legate al terrorismo e nascoste sotto forma di attività culturali e sociali, come possono essere quelle religiose o anche non strettamente religiose, ma sociali, legate ai luoghi di culto.
Al successivo articolo 2 si specifica che non solo il compiere taluni atti è considerato illecito, ma compie reato “anche chi tenti di commettere un reato” tra quelli elencati, includendovi chi vi è complice, chi organizza e chi contribuisce in modo “deliberato”, cioè mirando ad agevolare le attività illecite e sia a conoscenza delle intenzioni del gruppo per cui si è collaborato.
All’articolo 12 inoltre è opportuno rilevare che gli Stati che hanno ratificato la convenzione “non possono invocare il segreto bancario per rifiutare di evadere una domanda di assistenza giudiziaria”, proprio per non creare delle ombre e dei salvagente alle indagini su reati di terrorismo.
Viene anche specificato che “la parte richiedente non comunica né utilizza le informazioni o gli elementi di prova forniti dalla parte richiesta per investigazioni, procedimenti penali o procedimenti giudiziari diversi da quelli indicati nella richiesta, senza il consenso preliminare della parte richiesta”, facendo capire che la tutela del segreto bancario non è compromessa, non potendo usare eventuali elementi emersi per altre indagini, ancorché penali.
Allo stesso tempo tuttavia, l’unicità del trattamento riservato al segreto bancario in tema di terrorismo, evidenzia ancora una volta quanto il tema del finanziamento delle organizzazioni sia fondamentale.
Ultima disposizione che vale assolutamente la pena di sottolineare è quella data dall’articolo 18, che impone agli Stati sottoscrittori di adottare “regolamenti che vietino l’apertura di conti di cui il titolare o il beneficiario non siano identificati o identificabili […] o, nel caso trattasi di società giuridiche, opportune “misure per verificare l’esistenza e la strutture giuridica del cliente, facendosi rilasciare da un registro pubblico o privato […] le informazioni sulla sua forma giuridica, sul suo indirizzo, sui suoi dirigenti e sulle disposizioni che regolano il potere di impegnare la persona giuridica”, in modo da poter sempre risalire all’origine delle transazioni finanziarie[36] e ai titolari d’impresa.
5 – Normativa O.N.U. e la normativa europea post 2001.
L’Organizzazione delle Nazioni Unite svolge chiaramente un ruolo primario nella lotta al terrorismo e a tutto ciò che è connesso, essendo l’organizzazione internazionale che rappresenta più Stati al mondo e con il passare del tempo il ruolo è diventato sempre più centrale e importante per coinvolgere e relazionarsi con tutti gli attori coinvolti.
L’organizzazione ha vissuto momenti diversi dalla sua nascita nel 1945, alternando periodi in cui la sua azione è stata meno efficace ad altri in cui gli interventi dei “caschi blu” ha avuto successo e ha portato nuova fiducia verso il ruolo di questa fondamentale struttura di riconosciuta rilevanza mondiale.
Altra fase importante è stata vissuta dopo gli eventi dell’11 Settembre 2001, rappresentata in particolar modo dalle risoluzioni approvate dal Consiglio di Sicurezza nei giorni immediatamente successivi agli attacchi e che rilevano sia per la solidarietà chiaramente espressa all’America, che per il richiamo all’unità nella lotta al terrorismo internazionale.
La risoluzione 1368 del 12 Settembre 2001, nel preambolo, riconosce il diritto all’autodifesa individuale o collettiva (intendendosi chiaramente non come individuo ma come Stato o Stati, come si intuisce da quanto di seguito) “in accordance with the Charter”[37], anticipando quello che sarà poi l’attuazione del art.5 del trattato della NATO (North Atlantic Treaty Organization), che vedremo nel prossimo capitolo.
Inoltre nella risoluzione viene stressato il richiamo alla cooperazione per la cattura non solo dei terroristi ma anche dei loro fiancheggiatori in genere, riferendosi anche a coloro che, magari non riconducibili direttamente alle organizzazioni, servono comunque da supporto logistico e operano nell’anonimato.
Successivamente la risoluzione 1373 del 28 Settembre 2001, che ancora una volta non include nessuna definizione di terrorismo per lasciarne ai singoli stati la determinazione nella legislazione nazionale, ricorda al paragrafo 1 quanto sia fondamentale la prevenzione e soppressione del finanziamento al terrorismo, seguendo l’iniziativa intrapresa dalla Convenzione stipulata per la specifica materia nel 1999 a New York[38].
Al successivo art. 2, che sembra riferito proprio ai paesi fiancheggiatori (quali l’Afghanistan, che sarà poi il primo a essere colpito dalla reazione militare) chiede ai paesi di astenersi dal fornire ogni tipo di supporto – “refrain from providing any form of support”, attivo o passivo a coloro che sono coinvolti in atti di terrorismo o che si impegnano nel reclutamento dei sostenitori e di non garantire luoghi sicuri – “deny safe heaven” – ai soggetti coinvolti in tali attività, nonché di rafforzare il controllo congiunto delle frontiere e porre particolare attenzione alla concessione dello stato di rifugiato.
Con questa risoluzione inoltre viene istituito un comitato composto da tutti i membri del Consiglio di Sicurezza per verificare l’attuazione di quanto disposto, dando delle scadenze e la possibilità di avvalersi di esperti in materia.
L’attività dell’ONU si intreccia con la produzione normativa Europea, che tuttavia è facilitata per l’omogeneità degli attori coinvolti e delle normative interne ai singoli Stati, sicuramente più facilmente armonizzabili.
L’Atto Unico Europeo, nel capitolo dedicato alle “disposizioni sulla cooperazione in materia di politica estera” infatti stabilisce, all’art.30 sub. 2. a), che “le Alte parti contraenti s’impegnano ad informarsi reciprocamente e a consultarsi in merito a ogni problema di politica estera di interesse generale, per assicurare che la loro influenza congiunta si eserciti nel modo più efficace […][39].
Ancora, nello stesso articolo, al sub. 6. a) i concetti di cooperazione vengono estesi alla politica di sicurezza, che nel nostro caso è strettamente legata alla politica estera, poiché la sinergia di entrambe è indispensabile per dare univocità e completezza all’azione di contrasto.
Naturalmente non sono solo questi gli ambiti che interessano la lotta al terrorismo internazionale, ma vi sono altri fattori come la politica sociale, la possibilità di integrazione, la creazione di posti di lavoro e l’istruzione a esempio, che aiutano a creare i presupposti fondamentali per una società aperta, accogliente e rispettosa delle diversità, di qualsiasi genere esse siano.
Tornando alle politiche europee di lotta al terrorismo, bisogna necessariamente parlare della Convenzione del Consiglio d’Europa per la prevenzione del terrorismo, stipulata a Varsavia nel 2005, la quale vincola gli Stati sottoscrittori alla cooperazione in materia di prevenzione, “pubblica provocazione per commettere reati di terrorismo”[40], reclutamento e addestramento ai fini terroristici.
Uno spunto interessante è dato dall’art. 3 – politiche nazionali di prevenzione, dove si parla di sviluppare e migliorare la cooperazione per una “migliore protezione fisica delle persone e delle infrastrutture” e di un “migliore addestramento e migliori piani di coordinamento per le emergenze civili”.
Questi aspetti sono maturati proprio in virtù delle esperienze dovute ai precedenti attacchi, su tutti come sempre quelli del 2001 in America, ma anche ai successivi attentati alla metro di Londra e alle ferrovie di Madrid, che hanno oggettivamente trovato impreparato sia il sistema di prevenzione, ma anche quello di intervento successivo, nonostante l’impiego di tutti i mezzi possibili e il grande impegno personale degli operatori intervenuti.
Sempre nello stesso articolo, rileva l’importanza che ciascuna parte promuova “la tolleranza e incoraggi il dialogo interreligioso e interculturale”, evidenziando quanto sia fondamentale anche l’aspetto di crescita sociale e culturale nella lotta a fenomeni criminali basati su intolleranze religiose o culturali in genere.
L’Europa ha infatti disposto un piano di azione su più livelli[41], che vanno dal controllo delle frontiere esterne, che ha visto la nascita dell’Agenzia Europea di Guardia di Frontiera e Costiera, per il controllo delle frontiere terrestri e marittime, l’incremento delle verifiche e indagini sui foreign fighters, anche tramite la nascita del Codice di Prenotazione (per i voli da e per l’Unione Europea, che identifica il viaggiatore, le modalità di pagamento, date del viaggio, itinerario, in modo da far emergere eventuali anomalie) e prevenire le radicalizzazioni.
Rientra naturalmente nei fondamentali di questo piano di azione, anche la lotta al finanziamento al terrorismo internazionale, tramite più stringenti normative anti riciclaggio e confisca dei beni sequestrati alle organizzazioni, essendo, come detto, la parte economico-finanziaria di rilievo sempre maggiore per ogni organizzazione, che abbia scopi legittimi o illegittimi.
6 – Ruolo Nato e attuazione art.5 del Patto.
La NATO è un’organizzazione istituita nel secondo dopoguerra, nel 1949, con l’accordo siglato a Washington da parte di 12 paesi fondatori[42], con l’intento di contrastare eventuali minacce, al tempo portate principalmente dall’URSS nei confronti delle democrazie europee, più esposte a eventuali attacchi della superpotenza Sovietica.
Prima di arrivare a trattare il ruolo attuale di questa organizzazione, bisogna dire che questo si è molto evoluto nel tempo contestualmente ai cambiamenti della situazione geopolitica mondiale e, in particolare, anche quella europea, che dagli anni ’50 ad oggi è radicalmente diversa.
Nei primi decenni dalla creazione infatti la NATO ha avuto un ruolo molto misurato e cauto, limitandosi a “separare i contendenti mediante uno schermo di forze, in genere poco armate, in modo da prevenire gli scontri tra opposte fazioni”[43].
Brevemente, possiamo dire che dalla nascita alla caduta del muro di Berlino, ha avuto funzioni sostanzialmente di dissuasione nei confronti dell’URSS dal provocare una guerra, che infatti veniva chiamata “fredda” proprio perché i due “blocchi” non si sono mai realmente affrontati sul piano militare, ma hanno mantenuto costantemente una “pace armata” che in definitiva è riuscita sempre ad evitare che la situazione precipitasse[44].
Successivamente alla fine della “guerra fredda”, agli inizi degli anni ’90[45], è iniziata una fase militarmente più operativa, che ha visto la NATO impegnata nei paesi Balcani dell’ex Yugoslavia dal 1995 al 2004, quale forza di pace e stabilizzazione dell’area, fortemente sconvolta da anni di guerra civile.
Sempre in quegli anni, con le stesse finalità e nella stessa area geografica, ha operato in Kosovo[46].
Successivamente, dal 2001 ad oggi, è stata presente con diverse missioni in Afghanistan, sotto l’egida dell’ONU, dopo il rovesciamento del regime talebano e dando supporto alle forze dell’Alleanza del Nord che lottavano contro il regime di Kabul[47].
E’ proprio questo il momento in cui, diversamente a quanto in precedenza avvenuto, è stata richiamata l’attuazione dell’art 5 del trattato istitutivo[48] a seguito degli attentati dell’11 Settembre 2001 avvenuti negli Stati Uniti d’America.
Alla base del trattato c’è la reciproca assistenza in caso una parte membro del trattato sia oggetto di “attacco armato”, considerando quest’ultimo come diretto contro tutti gli alleati e legittimando le azioni di “difesa, individuale o collettiva”, riconosciute dall’art 51 dello Statuto delle Nazioni Unite[49] nei modi che si riterranno opportuni e necessari “ivi compreso l’uso della forza armata”.
Per l’attuazione dell’art.5 del trattato della NATO, ritorniamo alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite n. 1368 del 12 Settembre 2001, che abbiamo in parte affrontato nel paragrafo precedente e che attiene la reciproca difesa dei membri NATO.
La pur breve risoluzione, oltre le dichiarazioni di cooperazione, condanna degli attentati di ogni forma e di ogni matrice, riconosce il diritto individuale e collettivo degli Stati alla legittima difesa[50], legittimando di fatto la reazione militare contro il regime afghano dei talebani, ritenuto fiancheggiatore, finanziatore e connivente con l’organizzazione di Bin Laden che aveva programmato e attuato gli attentati del 2001 e che ha avuto modo, come detto, di creare quella rete di legami economici, finanziari indispensabili per un gruppo criminale così vasto e ramificato.
Inoltre sempre in Afghanistan si trovavano molti dei campi di addestramento dei militanti di Al-Qaeda, protetti dal regime e al riparo dai controlli delle intelligence dei paesi Occidentali.
Il punto sarebbe individuare quale possa essere considerato un “attacco” verso uno dei membri del trattato.
Chiaramente l’interpretazione è stata nel senso di considerare quanto avvenuto in America nel 2001 alla stregua di un attacco militare, in virtù del numero delle vittime civili provocate, della portata e della gravità dell’evento.
In questo caso tuttavia, non trattandosi di una guerra formale, di un attacco protratto da una nazione verso un’altra, rimane più complicato individuare a chi rivolgere l’offensiva militare, o meglio da chi difendersi e contro chi attuare la “legittima difesa”, come previsto dal richiamato art.5 del trattato NATO.
Tuttavia il regime talebano è stato ritenuto storicamente vicino alle organizzazioni terroristiche internazionali e a Bin Laden in particolar modo, cosa che è stata negata chiaramente dall’Afghanistan nell’immediatezza degli eventi.
Il regime però ha sempre mostrato atteggiamenti ambigui o di sostegno potremmo dire, verso le organizzazioni terroristiche di matrice islamica, anche in considerazione della durezza del regime, del suo integralismo nell’interpretazione della dottrina islamica all’interno del paese e per quello che rappresenta un sistema politico sociale così repressivo come quello che ha governato l’Afghanistan fino alla caduta dei talebani.
D’altronde le guerre combattute come si conosce la seconda guerra mondiale o la guerra in Vietnam, non esistono più anche perché non esistono più i blocchi in contrapposizione come era negli anni della guerra fredda.
Piuttosto si sta attraversando una fase di scontro tra modi di vivere, scontro che potremmo definire culturale e che non individua più un gruppo di nazioni contro un altro e quindi anche le norme che potevano essere facilmente interpretate secondo la pre-esistente situazione geopolitica, oggi necessitano di nuove forme di legittimazione per essere legittimare le iniziative ritenute necessarie.
7 – I 4 Pilastri O.N.U. per la lotta al terrorismo.
Al fine di elaborare un quadro più attuale della lotta al terrorismo, nel 2006 l’ONU ha elaborato una complessa strategia, ampliando l’insieme delle attività poste in essere dai paesi impegnati nell’arginare ed eliminare questo così grave e annoso problema, coinvolgendo maggiormente le varie agenzie internazionali e dando centralità alla prevenzione del fenomeno, non inteso come prevenzione dell’fatto/atto terroristico, ma la prevenzione della formazione di derive terroristiche.
Tale strategia, approvata con risoluzione dell’Assemblea Generale della Nazioni Unite n.60/288 del 2006[51], si compone di 4 pilastri[52] che pongono le basi, appunto, per una visione globale della lotta contro il terrorismo e dalla lettura dei quali possiamo subito intuire la direzione del testo verso principi di prevenzione, cioè porre in essere tutte quelle condizioni che anticipano e precludono la nascita di sentimenti di vendetta da parte delle persone in difficoltà, che opportunamente manipolate dai terroristi sfociano dalla protesta all’adesione alla soluzione terroristica.
Tale strategia deriva dall’analisi approfondita del fenomeno, delle sue origini, delle scelte che la comunità internazionale ha portato avanti nel corso degli anni e delle differenti “fasi” affrontate, cercando di delineare una visione più completa, legata anche a fattori apparentemente non in stretta connessione con il terrorismo, che tuttavia lo alimentano e ne costituiscono di volta in volta nuova linfa.
Notando nel testo il frequentissimo richiamo alla cooperazione tra le nazioni, al ruolo guida dell’ONU, alla collaborazione tra le varie agenzie internazionali, da quelle che si occupano di trasporti, dei diritti umani, a quelle sull’energia atomica, senza tralasciare la Banca Mondiale, e il Fondo Monetario Internazionale e molte altre ancora, appare evidente il fine di cercare una più stretta sinergia tra tutti i soggetti impegnati al fine di isolare in ogni settore, i comportamenti, i paesi o le organizzazioni che hanno atteggiamenti equivoci in tal senso.
Lo scopo di questa stretta collaborazione, oltre quello di arginare la capacità organizzativa delle sigle terroristiche, è di creare iniziative mirate allo sviluppo e la crescita di quei paesi in difficoltà economica, umanitaria o sconvolte da guerre civili, che tentano di avviare un percorso democratico e di lotta a tutte le forme di crimine e violenza, accedendo a quelle forme di sostegno umanitario, economico, politico e anche militare per il mantenimento della pace che possono fornire le richiamate agenzie che cooperano con l’ONU proprio a questo scopo.
Chiaramente la cooperazione non è stata stabilita solo nel 2006 al solo fine di sconfiggere il terrorismo, ma è sempre stato uno dei cardini dell’azione delle Nazioni Unite.
Il salto di qualità che si è cercato, sta nel cercare la cooperazione tra agenzie che hanno almeno apparentemente scopi differenti, nel comprendere quindi che il terrorismo è un fenomeno che deve essere affrontato globalmente, di certo con normative per intercettare le organizzazioni criminali, eliminarne il finanziamento, isolare gli Stati con atteggiamenti equivoci, ma anche andando a operare nel sociale, riducendo le disparità, nel rispetto dei diritti umani e riconoscendo diritti anche a quei soggetti che si sono macchiati di crimini, rimarcando così la differenza tra democrazia e criminalità.
Questa è la chiave, continuare ad affrontare il terrorismo internazionale in maniera diretta, ma contestualmente eliminare quelle situazioni che possono generare adesione a tali comportamenti criminali, a causa di condizioni di vita non soddisfacenti, specie nelle aree depresse economicamente e socialmente arretrate e spesso in guerra dove manca una guida politica sana, che possono facilmente dar adito ad atteggiamenti che valicano la legittima protesta, ma di antagonismo al mondo occidentale, identificato quale detentore del benessere a discapito dei meno fortunati e agiati.
A tal proposito è opportuno osservare che un capitolo della strategia complessiva viene titolato “Measures to ensure respect for human rights for all and the rule of law as the fundamental basis of the fight against terrorism”[53], proprio a conferma di quanto sopra rispetto alla rilevanza dei diritti umani e di quanto il diritto sia fondamentale per non permettere alle sigle criminali di trovare terreno fertile per la loro propaganda e alimentare l’odio verso l’Europa, l’America e i loro alleati.
L’aver affermato così decisamente il valore dei diritti umani, assume importanza e deve essere interpretato non solo in senso stretto verso quelle forme estreme di violazioni dei diritti quali la tortura o la riduzione in schiavitù a esempio, che spesso caratterizzano purtroppo le zone colpite da guerre civili o sotto il controllo di regimi totalitari, ma anche verso diritti che sono ormai essenziali e verso cui è indispensabile adoperarsi perché vengano riconosciuti e tutelati, quali il diritto alla salute, alle cure mediche, l’accesso all’acqua potabile e così via.
8 – Normativa contro “Foreign Fighters” e “terroristi fai da te”.
La direzione presa con la strategia indicata nei “4 pilastri”, va anche e soprattutto, in direzione della lotta e prevenzione dei fenomeni quali i “terroristi fai da te” e i “foreign fighters”, ritenendo possibile tentare di recuperare soggetti che, per aspetti e percorsi diversi, vivono “fuori” dalla società e non se ne sentono riconosciuti, per questo viene tracciata una politica sociale di inclusione e rispetto dei diritti umani in ogni situazione e rispetto a ogni crimine, compresi quelli atroci di terrorismo.
La lotta al problema specifico dei “foreign fighters” e dei “terroristi fai” da te si è comunque sviluppata, anche dopo il 2006, cercando soluzioni specifiche ad un problema con caratteristiche peculiari all’interno del problema più grande e generico che è il terrorismo.
Infatti questo “modus operandi” si è sviluppato all’interno della strategia terrorista, ma non può essere incluso e trattato come il classico caso dei jihadisti addestrati nei campi afghani, dove ricevono l’addestramento militare e vivono il proselitismo religioso, come abbiamo detto nel paragrafo dedicato.
Il caso dei “foreign fighters” e dei “terroristi fai da te” deve essere studiato e combattuto attraverso specifiche risoluzioni in continuità e in attuazione dei principi generali espressi nei 4 pilastri, con iniziative tese anche a una maggiore collaborazioni tra organizzazioni impegnate nella lotta al terrorismo internazionale e la società civile.
La risoluzione 2178 del 2014 del Consiglio di Sicurezza ONU[54], ribadendo, con una frase di poche righe, che il fenomeno terroristico non può essere associato a nessuna religione, nazionalità o civiltà, afferma in modo chiaro che non esiste contrapposizione tra mondi e modi di vivere, non c’è contrapposizione tra Occidente e Medio Oriente, tra Islam e resto del mondo.
Nella stessa risoluzione viene recepito e affermato che il terrorismo non può essere sconfitto con le sole azioni militari o di polizia, ma è necessaria una visione più ampia che coinvolga tutte le forze impegnate e gli aspetti rilevanti da aggredire.
Tra l’altro quanto teorizzato nei 4 pilastri viene frequentemente citato nelle risoluzioni tese a combattere in special modo il fenomeno dei “terroristi fai da te” e dei “foreign fighters”, quale conferma della soluzione di continuità della direzione intrapresa di un approccio omnicomprensivo.
Continuando, viene sottolineata l’importanza di avere sufficienti informazioni dalle compagnie aeree rispetto ai dati personali dei passeggeri, in modo da ricollegare gli spostamenti dei soggetti sotto osservazione e poter efficientemente controllare le tratte più sensibili, quelle cioè da e per i territori maggiormente interessati dal fenomeno terroristico.
Infine bisogna rilevare che i “foreign fighters”, ma possiamo aggiungere tranquillamente i “terroristi fai da te”, vengono riconosciuti come una delle principali minacce all’Occidente e uno dei più pericolosi ed efficienti modi di colpire che usano le sigle terroristiche, sfruttandone l’imprevedibilità e la manovrabilità.
Inoltre, per quanto attiene i “terroristi fai da te” in particolar modo, essendo spesso sconosciuti alla giustizia e vivendo nella legalità, anche se ai margini della società, possono essere scoperti solo monitorando gli accessi ai siti della jihad o i luoghi di culto, attraverso i quali avviene la radicalizzazione di questi soggetti.
Sulla stessa scia la risoluzione 2354 del 2017 sempre del Consiglio di Sicurezza ONU[55], ribadisce gli stessi concetti aggiornandone le argomentazioni secondo gli avvenimenti intercorsi, aggiungendo un nuovo spunto relativo all’importanza del ruolo dei media, della società civile e delle associazioni religiose e laiche nel prevenire con la cultura del dialogo e della tolleranza, eventuali derive integraliste e violente di persone in difficoltà.
Le associazioni civili vengono responsabilizzate diventando parte integrante della lotta al terrorismo, specialmente per quanto attiene la tipologia di terroristi di cui stiamo parlando, proprio perché questi vivono la società e l’associazionismo, anzi vorrebbero viverlo ma se ne sentono esclusi.
Alle associazioni viene chiesto appunto di “includere”, “accettare” e richiamare in ogni campo la tolleranza come valore fondamentale, in modo da agevolare il recupero e il reinserimento di tali soggetti.
La risoluzione 2396 del 2017 del Consiglio di Sicurezza ONU[56] richiama espressamente il rientro dai teatri di guerra, quali l’Islamic State, dei “foreign fighters” e contestualmente alle citate politiche sociali di inclusione, sollecita un maggior controllo delle frontiere dei paesi di ritorno di queste persone, in modo da controllarne le attività poiché alcuni di loro potrebbero continuare le loro azioni nei paesi di origine, come purtroppo avvenuto in molti casi.
La linea di azione e contrasto diventa quindi su due livelli di cui uno sicuramente il progetto inclusivo e di recupero, senza togliere importanza e energie alla prevenzione e ai controlli di polizia, sia alle frontiere che di monitoraggio dei siti e delle associazioni ritenute più a rischio di infiltrazioni terroristiche.
CAPITOLO 3 – Lotta al terrorismo e Diritti Umani.
1 – Il rientro dei terroristi dai teatri di guerra.
Affrontando il tema dei “terroristi fai da te” e dei “foreign fighters” abbiamo anticipato alcuni concetti legati al loro particolare passato e la loro situazioni di disagio nelle società e nei paesi di origine.
Tuttavia mentre per i “terroristi fai da te” potrebbe essere più semplice il percorso di reinserimento nella società e superare la deriva criminale, a causa della loro auto radicalizzazione e dei loro scarsi contatti diretti con le organizzazioni terroristiche e i teatri di guerra, un discorso diverso deve essere fatto per i “foreign fighters”.
Questi ragazzi aspirano a un cambio di vita per il quale accettano di affrontare la morte e vivono la guerra nell’illusione di un mondo perfetto sotto l’egida del califfato, vivendo in prima persona gli orrori della guerra, della morte e tutti i disagi connessi, ai quali non possono rimanere indifferenti anche una volta terminate le operazioni militari.
Vivono i bombardamenti dell’occidente e le morti tra i civili sotto il loro controllo e questo li rende molto più radicalizzati, convinti e decisi a opporsi con ogni mezzo al mondo Occidentale imperialista.
Taluni quando raggiungono i teatri di guerra si accorgono degli orrori e delle violenze commesse o tollerate dalle guide religiose, spirituali e dai loro seguaci anche contro la loro stessa gente e vedono il loro sogno svanire, rimanendo tuttavia intrappolati in una situazione da cui è difficilissimo svincolarsi, anche per la diffidenza ormai generata verso di loro nel paese di origine che, giustamente, vede il ritorno come un potenziale pericolo, prima che come un sincero pentimento.
Altri giovani, una volta sconfitto l’IS e terminata l’esperienza e il sogno dello Stato Islamico, rientrando nei loro paesi di origine dopo aver vissuto anni di guerra e aver visto la morte con gli occhi, sentendosi ancora più estranei a casa loro, ancor più di prima della partenza per i teatri di guerra.
Recuperare questi soggetti è ancora più difficile, potremmo dire che è una missione tutt’altro che facile da superare per la quale comunque vale la pena di impegnarsi e nella quale direzione vanno gli sforzi fatti negli ultimi anni dalle organizzazioni internazionali, bisogna dire soprattutto verso la prevenzione della radicalizzazione, che è sicuramente compito più facile e più utile sia ai singoli soggetti che vivono il disagio personalmente e che potrebbero riappropriarsi della propria vita, che alla società nel suo complesso, che ritrova una parte di se stessa.
2 – Guantánamo.
Fino al 2002 Guantánamo è stata esclusivamente una base navale americana in territorio cubano, nell’omonima baia, situata nel nord est dell’isola di Cuba.
Nel Gennaio del 2002, sotto la Presidenza di George W. Bush all’interno della base è stato aperta un complesso detentivo dedicato ai presunti terroristi catturati a seguito degli attentati del Settembre 2001 e alla lotta intrapresa contro il terrorismo internazionale, specialmente contro Bin Laden e Al Qaeda, che a quel tempo era l’organizzazione più forte e stabile esistente.
La struttura è divenuta famosa perché al centro di un dibattito internazionale sulla sua liceità, per le forme e condizioni di detenzione e le garanzie fornite ai detenuti.
Guantánamo è oggetto quindi di numerose contestazioni, quali le basi giuridiche su cui è fondata la carcerazione dei detenuti, la mancanza di garanzie legali e quindi la impossibilità di avvalersi di un avvocato a tutela dei propri interessi e diritti fondamentali.
Il tema è quindi fortemente legato alla strada tracciata dai c.d. “4 pilastri”, specie per quanto attiene la parte riservata ai diritti dell’uomo e anche al rientro dei terroristi nei paesi di origine, sia dai teatri di guerra che al termine dei periodi di detenzione.
In questo momento non vogliamo scendere nella difficile diatriba sullo stato giuridico dei detenuti, le contestazioni mosse riguardano la detenzione al di fuori di ogni norma giuridica, del diritto internazionale e dei diritti umani, alle quali l’amministrazione americana contrappone la riconosciuta specialità dei detenuti e la ferocia dei crimini commessi, che giustificherebbe un simile trattamento al di fuori dei canoni del diritto comunemente riconosciuti.
Le motivazioni addotte dall’America consentirebbero, ancor prima di processare e condannare i soggetti, la presunzione di colpevolezza e quindi la detenzione preventiva, solo sulla base delle prove raccolte, senza alcun contradditorio processuale, consentendo anche di interrogare i detenuti, sempre senza garanzie legali.
Nel corso degli anni ci sono stati tentativi di chiusura del comprensorio, per quanto attiene la parte dedicata alla detenzione e nel 2006 il Presidente USA Barack Obama firmò l’ordine di chiusura che tuttavia non venne mai attuato, anche se nel corso degli anni il numero dei detenuti è notevolmente diminuito.
Tale struttura detentiva è un grande problema di legalità che comporta numerose conseguenze nella legittimazione dell’azione contro il terrorismo portata avanti dall’America in particolar modo, con conseguenze sia a livello sociale interno agli Stati Uniti, che nell’opinione pubblica internazionale e sicuramente nei paesi islamici che fanno leva anche su tali derive autoritarie e in contrasto con i principi base del diritto umanitario per contestare e screditare l’azione Americana e dei paesi alleati.
Guantánamo è strettamente legata al problema del rispetto dei diritti umani anche e soprattutto da parte dei paesi Occidentali, impegnati nella lotta al terrorismo, che è lotta di civiltà, non solo rispetto al tema della detenzione, ma anche del comportamento delle Forze Armate nei teatri di guerra, durante le operazioni antiterrorismo di ogni genere, nei territori occupati o controllati dalle organizzazioni terroristiche.
Anche rispetto alla detenzione, cattura e interrogatorio dei terroristi stessi, non si dovrebbe prescindere dalle norme generalmente riconosciute, rispetto a ogni essere umano indipendentemente dai crimini di cui si è macchiato, poiché uno Stato democratico e forte non dovrebbe temere di giudicare con le dovute garanzie ogni tipo di criminale e ogni tipo di reato, con la dovuta severità e trattamento rispetto alla pericolosità del soggetto, ma sempre con il rispetto dovuto alla persona.
Possiamo citare con molta coerenza sul tema, una osservazione di Ezio Mauro secondo cui gli Stati democratici hanno l’obbligo di reagire quanto sono attaccati, “Ma insieme a questo obbligo, le democrazie ne hanno un altro: quello di reagire rimanendo se stesse, senza venir meno ai loro principi e ai loro valori, nemmeno davanti alle minacce”[57].
3 – Sicurezza e diritto alla privacy.
Il tema della sicurezza, prevenzione e tutela dei cittadini è oggi messo anche in stretta relazione con il diritto alla privacy.
Il diritto alla privacy è inoltre sempre più sentito da parte della cittadinanza e di giorno in giorno più centrale nel dibattito quotidiano, alla luce delle moderne forme di comunicazione (quali i social network e internet in genere) che in tempo reale ci relazionano con il mondo intero, con sempre meno filtri e difficili regole da applicare, riducendo fortemente la sfera della nostra vita privata e ampliando di contro la parte di vita che viene resa di pubblico dominio, a volte con il nostro consenso esplicito, a volte meno consapevolmente.
Anche in tema di sicurezza conseguentemente, la privacy viene compressa a favore di controlli maggiormente incisivi, puntuali, costanti e anche diffusi, per prevenire reati di terrorismo in special modo e controllare i movimenti delle persone ritenute sospette ma anche per la tutela generale dei cittadini.
Possiamo immaginare la mole enorme di dati che viene raccolta e quale dispendioso lavoro di riscontro di informazioni, siano esse bancarie, traffico telefonico o dati, spostamenti o intercettazioni ambientali e telefoniche, senza contare le immagini registrate dalle telecamere che ormai sono fortemente presenti in tutte le città del mondo[58].
Tutta questa serie di dati rientrano tra quelli protetti dalla privacy e oltre che la collettività in generale, interessano il singolo individuo e cittadino che vede la sua sfera di vita provata fortemente ridotta a favore della “sicurezza generale”.
Non solo per quanto sopra descritto, ma anche rispetto a semplici operazioni legate alla vita quotidiana e al tempo libero, come l’emissione di un biglietto areo, l’acquisto di un ticket per la partecipazione ad un concerto o un evento pubblico che non sia in una piazza (che comunque sarebbe sorvegliata da molteplici telecamere) ai prelievi bancomat, il pagamento tramite pos dei caselli autostradali.
Tutti queste attività lasciano le nostre impronte ovunque e descrivono il nostro modo di vivere, cosa ci piace, come trascorriamo il nostro tempo libero e parlano addirittura dei nostri gusti e preferenze (emissione on line di ogni tipo di biglietto per concerti musicali, teatro cinema e quant’altro).
Talvolta non siamo noi, coscientemente, a concedere tale libertà rispetto all’accesso ai nostri dati, poiché anche per poter accedere ad alcuni semplici servizi spesso viene chiesto di poter trattare i dati personali e trasmetterli a terzi, tanto che poi avviene di fatto la dispersione e la diffusione dei dati e la difficile individuazione del responsabile del trattamento e tutela degli stessi.
Inoltre tanto è maggiore la quantità di dati da gestire tanto più sarà difficile garantire la tutela e la corretta gestione degli stessi.
Sicuramente molti di noi sono ben disposti a cedere parte della propria privacy per la tutela della sicurezza generale, ma fino a che punto questo non rende la nostra vita eccessivamente esposta ad altri tipi di crimini, quali truffe informatiche o accesso a dati riservati per fini commerciali o diversi da quelli per cui sono stati autorizzati e soprattutto quanto conta per noi ancora non essere continuamente “spiati” e monitorati?!
In tutte le cose bisogna necessariamente trovare un equilibrio, infatti Rodotà sottolinea che “i mali della democrazia si curano rispettando le regole della democrazia”[59], che in questo caso potrebbe essere tradotto come un rispetto dei diritti dei singoli anche se il fine è proprio la loro tutela.
L’equilibrio tra privacy e sicurezza è stato totalmente scardinato dalla lotta al terrorismo in particolar modo da quando in fenomeno terroristico non è più legato alle grandi organizzazioni internazionali che avevano base nei paesi fiancheggiatori quali Afghanistan, Iran, Iraq e così via.
In questo senso il fenomeno dei “terroristi fai da te” e dei “foreign fighters” ha fortemente accelerato la necessità di controllare strettamente il territorio proprio per il fatto che gli attentatori nascono e crescono in Occidente, o rientrano in Occidente dai teatri di guerra e possono colpire in qualsiasi momento.
Il possesso della cittadinanza Europea o Americana offre loro una sorte di protezione, specialmente per quanto attiene la libertà di spostamento, poiché godono di tutte le giuste tutele e garanzie al pari dei loro concittadini, possono spostarsi e vivere come ogni altro.
Il monitoraggio e l’accesso ad alcuni siti e ad alcuni luoghi di culto ritenuti sensibili serve sicuramente da campanello d’allarme, da cui si avviano una serie di attività di polizia volte a verificare la reale pericolosità e l’eventuale percorso di radicalizzazione intrapreso dal soggetto, di cui si disconosce la pericolosità e il momento in cui diverrà effettivamente pericoloso o e se deciderà veramente di compiere atti terroristici[60].
Tuttavia per monitorare alcuni presunti o possibili terroristi, si controllano movimenti, interessi, gusti e vita quotidiana di una moltitudine di persone ignare di essere oggetto di un controllo così stringente.
Queste persone, pur non avendo nulla da nascondere e non temendo nulla dagli esiti dei controlli di polizia, sono continuamente sotto osservazione e oggetto di controlli sulla sfera così strettamente privata e personale, che se pure questo potesse eventualmente essere utile ai fini di sicurezza generale, può risultare sproporzionato rispetto all’invasione quotidiana così profonda nella vita privata di ogni cittadino.
CONCLUSIONI
Nel testo si è cercato di porre in luce i momenti storicamente rilevanti, che hanno generato una svolta nell’azione terroristica e nella normativa di contrasto, momenti che hanno segnato e tracciato il percorso successivo nella lunga lotta fra terrorismo e antiterrorismo.
In questa sede non si è ritenuto di dover approfondire le motivazioni che di volta in volta hanno acceso le varie fasi e iniziative terroristiche, perché ciò necessiterebbe di uno studio specifico delle origini del fenomeno.
In tal caso si sarebbero dovute indagare le motivazioni storiche, culturali e geopolitiche che originano i conflitti sociali che sfociano poi negli atti di terrorismo che, se pur riconducibili ad apparenti temi di indipendenza, autodeterminazione dei popoli e libertà, necessitano di una analisi specifica e non rientrano direttamente nella tematica trattata, già di per sé piuttosto ampia e variegata, come speriamo di aver messo in luce.
Bisogna anche tenere a mente che il terrorismo internazionale in ogni epoca storica è stato caratterizzato da una forte contestualizzazione al quadro regionale di riferimento, se non tanto per le modalità operative, sicuramente per le rivendicazioni avanzate dalle varie sigle citate nel corso dell’approfondimento.
Solo oggi infatti, potremmo parlare di globalizzazione del terrorismo perché due sigle su tutte (I.S. e Al Qaeda) hanno occupato la scena mondiale e riescono a colpire in ogni angolo del globo o direttamente o tramite loro affiliati e sono quelle più fortemente temute e combattute dalla comunità interazionale.
Allo stesso modo, riguardo la produzione normativa di contrasto, si è proceduto ad una analisi degli atti di maggior interesse che hanno dato una svolta all’azione antiterrorismo, offrendo legislazioni più stringenti, a volte riuscendo a incentivare lo scambio informativo e la collaborazione tra gli Stati, altre volte offrendo strumenti nuovi per incidere nella lotta al terrorismo.
In questo senso, approfittando degli scritti di studiosi del tema, del valore dei loro pensieri e delle argomentazioni di forte capacità persuasiva, di cui talvolta ci siamo avvalsi riportandone fedelmente la trascrizione, abbiamo ampliato le argomentazioni sui temi trattati di volta in volta, cercando di comprendere da dove nascevano tali esigenze normative e la direzione di politica che indicavano.
Tali autorevoli considerazioni, ci hanno permesso di estendere l’orizzonte strettamente legato alla parte normativa, per rendere lo scritto più ampio e comporre un quadro generale maggiormente completo, legando i “fatti” di terrorismo alla legislazione di contrasto, non tralasciando di individuare il contesto sociale e geopolitico di riferimento, pur non approfondendo nel particolare.
Si è, in sostanza, cercato di tracciare un percorso parallelo tra evoluzione del terrorismo internazionale e l’evoluzione della normativa di contrasto, seguendo gli sviluppi storici che certamente hanno condizionato gli eventi successivi determinando una situazione geopolitica internazionale sempre in evoluzione.
Come facilmente intuibile tuttavia, gli strumenti legislativi in generale e la comunità internazionale, come abbiamo visto, non possono avere un quadro generale della direzione in cui certi eventi portano la storia e non sempre sono in grado di prevenire talune situazioni e criticità causate da tali atti.
La guerra vinta contro IS a esempio, ha fatto emergere il caso attualissimo degli apolidi, quali sono i foreign fighters di rientro dai teatri di guerra, dei loro figli nati sotto il regime IS, nati cioè in uno Stato ora non più esistente e che contestualmente hanno perso la cittadinanza di origine che gli è stata molto spesso revocata.
La condizione di queste persone richiama anche problemi legati ai diritti dell’uomo ed emerge che quindi il problema è ampissimo e coinvolge settori diversi che però vanno tenuti presenti e coordinati nell’affrontare in senso completo e risolutivo il problema del terrorismo, che pur sempre un fenomeno umano e come tale deve essere approcciato.
Soltanto il protrarsi e l’acuirsi di alcune situazioni permettono poi di affrontale in modo più chiaro e pertinente, anche perché bisogna sempre tenere in mente che si tratta di un fenomeno storico sempre in evoluzione e di difficile repressione proprio per il suo carattere di continuo sviluppo, trasformazione e adattamento alle società e alle problematiche contemporanee, che di volta in volta vengono sfruttate per rinnovare la prosopopea e il fanatismo delle organizzazioni criminali terroristiche.
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Nota 23
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Nota 41
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Nota 56
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[1] Sul tema, Antonio Cassese, Il caso Achille Lauro: terrorismo, politica e diritto nella comunità internazionale, Editori riuniti, Roma, 1987.
[2] Antonio Panzera, La disciplina normativa sul terrorismo internazionale in Europa e terrorismo internazionale. Analisi giuridica del fenomeno e Convenzioni internazionali, Natalino Ronzetti (a cura di) Franco Angeli, Milano, 1990, pag.11.
[3] Sul tema, Ryszard Kapuscinski, Perché è morto Karl Von Spreti. Guatemala 1970. Il Margine, Trento, 2010.
[4] Antonio Panzera, La disciplina normativa sul terrorismo internazionale in Europa e terrorismo internazionale. Analisi giuridica del fenomeno e Convenzioni internazionali, Natalino Ronzetti (a cura di) Franco Angeli, Milano, 1990, pag.12.
[5] Yaroslav Trofimov, L’assedio della Mecca. La rivolta dimenticata, la nascita di Al Qaeda e la genesi del terrore, Universale Storica Newton, The Doubleday Broadway Publishing Group – a Random House Division, New York, 2007 pag. 66.
[6] Yaroslav Trofimov, L’assedio della Mecca. La rivolta dimenticata, la nascita di Al Qaeda e la genesi del terrore, Universale Storica Newton, The Doubleday Broadway Publishing Group – a Random House Division, New York, 2007 pag. 19.
[7] Yaroslav Trofimov, L’assedio della Mecca. La rivolta dimenticata, la nascita di Al Qaeda e la genesi del terrore, Universale Storica Newton, The Doubleday Broadway Publishing Group – a Random House Division, New York, 2007 pag. 260.
[8] Antonio Filippo Panzera, Attività terroristiche e diritto internazionale, Jovine, Napoli, 1978, pag. 46.
[9] “Operazione El Dorado Canyon” è il nome in codice che fu attribuito al bombardamento della Libia che gli Stati Uniti d’America eseguirono il 15 aprile 1986 in rappresaglia dell’attentato in una discoteca di Berlino avvenuto il 5 aprile dello stesso anno. L’Attacco americano fu deciso in maniera univoca senza il coordinamento e la condivisione nelle sedi internazionali. L’Assemblea Generale dell’O.N.U. infatti, al fine di prendere le distanze e condannare il bombardamento americano, approvò la risoluzione 41/38 del 1986, nella quale ha riaffermato la necessità di redimere diplomaticamente le controversie internazionali e l’indipendenza dei popoli nelle scelte dei governi. Nella risoluzione ha anche condannato l’attacco poiché mina la pace e la sicurezza della regione mediterranea. Allo stesso tempo la risoluzione dissuade gli U.S.A. da compiere altri atti simili e intima agli Stati di non collaborare nell’uso delle armi. Inoltre viene legittimata la richiesta di risarcimento della Libia per i danni materiali e le perdite umane dovute all’attacco militare. Questa decisione dell’Assemblea Generale, pur non giustificando affatto l’attentato di Berlino e neppure quelli all’aeroporto di Roma e Vienna dell’anno precedente, rende evidente lo stato di contrasto interno e la mancanza di cooperazione e di fiducia nelle soluzioni comuni studiate nelle sedi legittime, che poi sfociano in iniziative unilaterali, non condivise e non condivisibili a posteriori.
[10] L’evento ha causato la more di 2.996 persone e il ferimento di oltre 6.000 – www.wikipedia.it.
[11] La reazione che è seguita agli attacchi è stata l’invasione americana dell’Afghanistan. Vale la pena ricordare le parole del presidente in carica George W. Bush che “in un primo e breve discorso alla nazione (registrato alla Barksdale Air Force Base) dichiara e rassicura: «La libertà stessa è stata attaccata stamattina da codardi senza volto. E la libertà sarà difesa»” – www.treccani.it.
[12] Alcuni titoli di testate giornalistiche conosciute in tutto il mondo: The New York Times: “U.S. Attacked”; The Guardian: “a declaration of war”; Corriere della Sera: “attacco all’America e alla civiltà” – www.focus.it.
[13] Editoriale di Ezio Mauro, 11 Settembre 2001 – 2011 su rivista Atlantide edito da “La Repubblica”.
[14] Eugenio Scalfari, 11 Settembre 2001 – 2011 su rivista Atlantide edito da “La Repubblica”, pag. 52.
[15] Eugenio Scalfari, 11 Settembre 2001 – 2011 su rivista Atlantide edito da “La Repubblica”, pag. 52, scrive infatti, con grande intuito, che la macchina da guerra americana “scatterà e nessuno può fermarla né contenerla, perché è il popolo americano che la vuole, convinto di compiere un atto di giustizia in nome proprio e in nome di tutto il mondo civile”.
[16] Henry Kissinger, 11 Settembre 2001 – 2011 intervista su rivista Atlantide edito da “La Repubblica”, pag. 48.
[17] La risoluzione n.1441 del 2002 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, richiamando le precedenti decisioni relative alla prima guerra del golfo, richiama l’Iraq al rispetto delle restrizioni cui era obbligato in termini di produzioni di armi e cooperazione con gli organismi internazionali per il controllo, verifica e ispezione ai siti di produzione, definendo l’atto formale del Consiglio “[…] a final opportunity to comply with its disarmament obligations under relevant resolutions of the Council” – https://www.un.org.
11 Laura Quadarella Sanfelice di Monteforte , Perché ci attaccano, Al Qaeda, l’Islamic State, e il terrorismo “fai da te”, Aracne, Roma, 2017, pag 119. “[…] AQ è da sempre molto più “rigida” su tutti i piani: nell’interpretazione dottrinaria, nelle caratteristiche che un gruppo deve avere per poter essere considerato gruppo affiliato e utilizzare dunque il marchio Al Qaeda, persino nelle caratteristiche che devono esser proprie dei singoli jihadisti […]”.
[18] Laura Quadarella Sanfelice di Monteforte , Perché ci attaccano, Al Qaeda, l’Islamic State, e il terrorismo “fai da te”, Aracne, Roma, 2017, pag. 78. A tal proposito, a titolo di esempio, il “fallito attentato sul volo Amsterdam-Detroit del Natale 2009, in cui un ricco giovane nigeriano tentò di provocare uno squarcio nella carlinga dell’aereo facendo esplodere quelle che dalla stampa vennero rinominate “mutande bomba””.
[19] Quale l’esempio, quanto riportato nella nota 18 in merito al fallito attentato sul volo Amsterdam-Detroit del Natale 2009, tentato da un giovane cittadino nigeriano.
[20] Possiamo ricordare a titolo di esempio, sui purtroppo numerosi attacchi verificatesi: gli episodi avvenuti in Germania nel 2015 quando un diciassettenne di origine afghana o pakistana ha colpito i passeggeri di un treno con un ascia e quando un profugo di origine siriana si fece esplodere davanti un ristorante causando la morte di molte persone; sempre nel 2015 in Francia quando due terroristi entrarono in una chiesa a Saint-Etienne-du-Rouvary uccidendo il prete e un fedele; nello stesso anno in Francia un giovane terrorista alla guida di un T.I.R. in una zona pedonale uccise molte persone.
[21] Sabino Cassese, Dizionario di Diritto Pubblico, Volume III Dott. A. Giuffrè editore, Milano, 2006, pag. 2360 e seguenti
[22] Altre definizioni fornite da altrettanto autorevoli fonti sono sulla stessa linea. Il dizionario Treccani definisce l’estradizione, la “procedura con cui uno stato, per lo più in base ad accordi internazionali bilaterali, consegna a uno stato estero un individuo che si trovi nel proprio territorio e contro il quale sia stata intentata un’azione penale o sia stata pronunciata una condanna da un tribunale dello stato richiedente, al fine di rendere possibile l’esecuzione della sentenza di condanna o lo svolgimento del processo in presenza dell’imputato” – http://www.treccani.it.
[23] http://www.cortecostituzionale.it
[24] Quattro Codici, BARTOLINI Francesco, ALIBRANDI Luigi, PIERMARIA Corso, Casa Editrice la Tribuna, Piacenza, 2013.
[25] Antonio Filippo Panzera, Attività terroristiche e diritto internazionale, Jovine, Napoli, 1978, pag. 9.
[26] Antonio Panzera, La disciplina normativa sul terrorismo internazionale in Europa e terrorismo internazionale. Analisi giuridica del fenomeno e Convenzioni internazionali, Natalino Ronzetti (a cura di) Franco Angeli, Milano, 1990, pag.10.
[27] Convenzione Europea di estradizione, firmata a Parigi il 13 Dicembre 1957 e resa esecutiva in Italia il 04.11.1963.
[28] Convenzione Europea di estradizione; art.3 comma 1: “L’estradizione non sarà concessa, se il reato, per il quale essa è domandata, è considerato dalla Parte richiesta come un reato politico o come un fatto connesso a un siffatto reato”.
Art.3 comma 2: “La stessa regola sarà applicata, se la Parte richiesta ha motivi seri per credere che la domanda d’estradizione motivata con un reato di diritto comune è stata presentata con lo scopo di perseguire o di punire un individuo per considerazioni di razza, di religione, di nazionalità o di opinioni politiche o che la condizione di questo individuo arrischi di essere aggravata per l’uno o l’altro di questi motivi”.
[29] Convenzione di estradizione con l’Argentina, firmata a Roma 9 dicembre 1987, Mario Pisani in Codice delle Convenzioni di estradizione e di assistenza giudiziaria in materia penale II edizione, Giuffrè, Milano, 1993, pag. 15. La Convenzione all’art. 5 (reati politici) comma 1, dispone che “l’estradizione non sarà concessa se il reato per il quale l’estradizione è richiesta è considerato dalla Parte richiesta reato politico”.
[30] Maria Riccarda Marchetti, Istituzioni europee e lotta al terrorismo, CEDAM, Padova, 1986 pag. 20.
[31]http//www.treccani.it
[32] https://undocs.org/S/RES/748(1992)
[33] La Libia già era stata oggetto di raid aerei da parte degli U.S.A. a seguito delle presunte implicazioni del regime nell’attentato alla discoteca di Berlino nel 1986.
[34] La convenzione internazionale per la repressione della cattura illecita di aeromobili all’art. 13 prevede specificatamente che “dopo il 31 Dicembre 1970, la convenzione è aperta alla firma di tutti gli Stati a Washington, Londa e Mosca. Qualsiasi Stato che non abbia firmato la convenzione prima dell’entrata in vigore conformemente al paragrafo 3 del presente articolo può aderirvi in qualsiasi momento”.
[35] Convenzione internazionale per la repressione del finanziamento del terrorismo – preambolo, 9° e 10° capoverso.
[36] Nell’ultimo capoverso del par. 1 art. 18 della convenzione in parola, viene inoltre disposto che le istituzioni finanziarie “conservino per almeno cinque anni, tutti gli elementi necessari che si riferiscono alle operazioni interne e internazionali”, poiché per la preparazione di taluni attentati sono necessari anche anni e le indagini sul tema sono continue al fine di interrompere i flussi di denaro verso le organizzazioni, anche nei momenti in cui le cellule sembrano dormienti.
[37] Testualmente: “recognizing the inherent right of individual or collective self-defence in accordance with the Charter” – https://www.un.org/counterterrorism/ctitf/en/sres1368-2001.
[38] Risoluzione 1373 (2001). Art.1 a) “prevent and suppress the financial acts”; art. 1 c) “freeze without delay founds and other financial assets or economic resources of persons who commit, or attempt to commit, terrorists act partecipate in or facilitate the commission of terrorists act […] – https://www.un.org/counterterrorism/ctitf/en/search/node/1373.
[39] https://www.europarl.europa.eu/about-parliament/it/in-the-past/the-parliament-and-the-treaties/single-european-act
[40] L’art. 5 evidenzia che ai fini convenzione si intende pubblica provocazione per commettere reati di terrorismo, “la divulgazione di un messaggio con l’intento di incitare la commissione di un reato di terrorismo, qualora tale comportamento […] crei il rischio che uno o più reati di questo tipo possano essere perpetrati”. Si noti che non viene specificata la forma del messaggio in questione, non potendo prevedere nuove forme di comunicazione nel futuro che possano essere usate dai terroristi per tale scopo – https://www.coe.int/it/web/conventions/full-list/.
[41] Pubblicato sul sito istituzionale del Parlamento Europeo il 22.03.2018 e in continuo aggiornamento secondo le mutevoli esigenze o iniziative di rilievo – https://www.europarl.europa.eu/portal/it.
[42] I paesi fondatori del trattato sono: Belgio, Canada, Danimarca, Francia, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito e Stati Uniti – www.wikipedia.it.
[43] Ferdinando Sanfelice di Monteforte, Laura Quadarella Sanfelice di Monteforte, Due secoli di stabilizzazione, Aracne, Roma, 2015, pag. 16.
[44] In tal senso, giova ricordare rapidamente alcuni episodi che hanno messo a dura prova la pace nel periodo della guerra fredda: la Guerra di Corea del 1950, quando l’Unione Sovietica appoggiò l’invasione da parte della Corea del Nord della parte Sud, che terminò solo dopo la morte di Stalin nel 1953 e determinò nuovi confini nell’area; la rivoluzione Ungherese del 1956, repressa violentemente con l’invasione Sovietica del paese; il caso della “Baia dei porci” avvenuto nel 1961 con l’intento da parte degli USA di rovesciare il regime di Fidel Castro, appoggiato dagli URSS; ancora l’invasione della Cecoslovacchia da parte dell’Unione Sovietica a seguito della liberalizzazione iniziata nel paese e nota come “Primavera di Praga”. Ma molte furono anche le tensioni dovute ai reciproci tentativi di influenzare la vita politica di paesi satelliti delle due potenze mondiali.
[45] Dopo la disgregazione dell’Unione Sovietica, che diventa Confederazione Stati Indipendenti, inizia l’ampliamento delle forze aderenti al trattato NATO, con l’adesione di paesi precedentemente parte del Patto di Varsavia.
[46] Sul sito ufficiale della NATO sono rilevabili le missioni svolte e quelle in atto nel mondo – https://www.nato.int/.
[47] Sempre sul sito NATO sono rilevabili le missioni antiterrorismo e di stabilizzazione delle aree di crisi di cui si occupa l’organizzazione nei vari paesi del mondo – https://www.nato.int/.
[48] Articolo 5 trattato istitutivo della NATO: “Le parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse in Europa o nell’America settentrionale sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti, e di conseguenza convengono che se un tale attacco si producesse, ciascuna di esse, nell’esercizio del diritto di legittima difesa, individuale o collettiva, riconosciuto dall’art. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti così attaccate intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’uso della forza armata, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella regione dell’Atlantico settentrionale. Ogni attacco armato di questo genere e tutte le misure prese in conseguenza di esso saranno immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza. Queste misure termineranno allorché il Consiglio di Sicurezza avrà preso le misure necessarie per ristabilire e mantenere la pace e la sicurezza internazionali” https://www.nato.int/.
[49] Articolo 51 Statuto Nazioni Unite: “nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Le misure prese da Membri nell’esercizio di questo diritto di autotutela sono immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza e non pregiudicano in alcun modo il potere e il compito spettanti, secondo il presente Statuto, al Consiglio di Sicurezza, di intraprendere in qualsiasi momento quell’azione che esso ritenga necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale” – https://www.unric.org/it/.
[50] cfr nota 37.
[51] Sul sito è rinvenibile la risoluzione dell’Assemblea Generale in versione integrale – https://www.un.org/en/.
[52] Consultabile sul sito ONU in versione schematizzata, in cui è riportata la parte della risoluzione 60/288 del 2006 relativa ai quattro pilastri. I quattro pilastri sono: 1. Esaminare le condizioni che favoriscono la diffusione del terrorismo; 2. Misure per prevenire e combattere il terrorismo; 3. Misure mirate a rendere gli Stati capaci di prevenire e combattere il terrorismo e per rafforzare il ruolo del sistema delle Nazioni Unite in materia; 4. Misure volte a garantire il rispetto dei diritti umani per tutti e lo Stato di diritto come base fondamentale della lotta contro il terrorismo – https://www.un.org/en/.
[53] Cfr. nota 52
[57] Ezio Mauro, Editoriale su Atlantide, “La Repubblica” 11 Settembre 2001 – 2011.
[58] “Una persona che si muove nel centro di Roma viene ripreso mediamente 200 volte al giorno” – Stefano Rodotà, Intervista su privacy e sicurezza, Poalo Conte (a cura di) Laterza Editori, 2005, pag.73.
[59] Stefano Rodotà, Intervista su privacy e sicurezza, Poalo Conte (a cura di) Laterza Editori, 2005, pag.95.
[60] La stessa citata Convenzione Europea per la prevenzione del terrorismo intitola l’art.8 “irrilevanza dell’effettiva commissione di un reato di terrorismo”, specificando che “affinché un atto costituisca reato ai sensi degli articoli da 5 a 7 della presente convenzione, non è necessario che un reato di terrorismo sia effettivamente commesso”.