Scarica il file in PDF – tesi mollicone APPROFONDIMENTI SUL TERRORISMO
IL RADICALISMO DI MATRICE ISLAMICA:
MINACCIA ATTUALE DALLE RADICI SECOLARI
Fabrizio Mollicone
(tesi Master in “Analista del Medio Oriente”, Università degli Studi Niccolò Cusano UNICUSANO – a.a. 2018-2019 – relatore Prof. Laura Quadarella Sanfelice di Monteforte)
1 Radicalismo islamico
2.1 Processi di radicalizzazione in Europa
2.2 Radicalizzazione ed estremismo in Kosovo
2.3 La situazione nel Regno Unito.
3 Il contrasto alla radicalizzazione in Tunisia
Conclusioni
Bibliografia
- RADICALISMO ISLAMICO
Scopo di questo primo capitolo del mio elaborato, sarà cercare di fornire una visione globale del radicalismo/fondamentalismo islamico in epoca attuale, partendo dalle sue origini e dai personaggi carismatici che hanno contribuito alla sua nascita e sviluppo.
Obiettivo non secondario sarà analizzare il fenomeno da una prospettiva sociologica, che possa dare risposta ai quesiti per cui esso abbia trovato terreno fertile nel quadro storico attuale con gli sviluppi, non ultimo la nascita dell’autoproclamato Stato Islamico, che nel corso del tempo ha assunto varie denominazioni tra cui ISIS[1] – ISIL[2] – IS[3], ma che per una più comoda fruizione del testo d’ora in poi indicheremo come DAESH[4] (adattamento di Daiish), il cui prodotto tutti ormai conosciamo.
E’ prioritario ritengo, da una parte definire il concetto di radicalismo/fondamentalismo islamico, dall’altra quello di soggetto radicalizzato, o fondamentalista. Premettendo che il radicalismo è un fattore riscontrabile in qualsiasi religione (Cristianesimo incluso), quando si parla di Islam, esso può essere sostanzialmente suddiviso in due tipologie:
- radicalismo islamico politico, in base a cui si ritiene gli Stati musulmani debbano tornare ai princìpi della religione, in modo da poter combattere l’egemonia occidentale, instaurando dei governi islamici propedeutici alla fondazione di un Califfato;
- radicalismo islamico religioso, che ha lo scopo di combattere l’influsso occidentale nella sfera morale, imponendo l’abbandono dei costumi corrotti ed il rispetto dei princìpi dell’Islam.
Al fine di dissipare da subito eventuali dubbi interpretativi nel lettore, occorre specificare che l’Islam in senso lato è da considerarsi una religione di pace e portatrice di un paritetico messaggio nei confronti di altri credo religiosi. Allo stesso modo esso non va inteso quale sovrastruttura sociale che stabilisce in maniera totalizzante i dettami sociali e politici a cui ogni musulmano debba sottostare per essere considerato degno; tale aspetto, come vedremo tra poco, va ricondotto esclusivamente alle frange estremiste più radicali che, fattore primario, rappresentano una minima parte della popolazione musulmana mondiale.
Allo stesso modo, di contro, il termine fondamentalismo islamico si inquadra nel principio in base a cui il Testo Sacro, nel caso di specie il Corano[5], che contiene il verbo rivelato da Dio ad un suo Messaggero, sia portatore della Verità non solo circa il destino della salvezza di tutto il genere umano, ma anche dei princìpi della società nella sua interezza, e vada perciò inteso letteralmente, senza altre chiavi interpretative[6].
Secondo la visione distorta del fondamentalista, il Corano non è solo tracciatore del rapporto Uomo-Dio, ma porta in dote anche le regole basilari a cui attenersi negli aspetti terreni, in particolare nel campo politico, economico e sociale. All’interno del Corano sono poi presenti le Hadith (aneddoti) del profeta Maometto, eredità da egli tramandata con queste parole durante il suo ultimo pellegrinaggio: “Io vi lascio due cose, il Corano ed il mio esempio: se vi atterrete ad essi non vi perderete mai”.
Il fine ultimo del fondamentalismo islamico è dunque il ritorno ai primi tempi dell’Islam, considerati una sorta di “Età dell’oro”, teso perciò a ricreare le condizioni in cui, nel VII secolo d.C., vissero il Profeta Muhammad[7] ed i suoi Compagni. Espressioni attuali e calzanti di ciò sono senz’altro due correnti a cui si ispirano i fondamentalisti, ovvero Salafismo e Wahabismo.
Come fatto per l’Islam, anche nel caso del Salafismo va posta una precisazione a premessa; esso infatti, ha rappresentato nel tempo e lo è tuttora, l’ideologia della maggioranza dei terroristi islamisti, in quanto fornisce una giustificazione morale per le azioni violente da loro compiute. E’ altresì evidente che il Salafismo, pur non essendone la precisa incarnazione, fornisce un quadro ideologico all’interno del quale il ricorso a strumenti terroristici non è da escludersi a priori.
Ciò, tuttavia, non significa che l’adozione di una posizione salafita esiga l’uso della violenza o l’attuazione di attività terroristiche; la stragrande maggioranza di coloro che seguono l’ideologia salafita non pone in essere azioni violente, motivo per il quale accettare l’equazione Salafismo = Terrorismo, sarebbe quanto di più sbagliato potessimo fare.
Se è vero infatti che le organizzazioni terroristiche che hanno operato in Occidente si sono sempre richiamate all’ideologia salafita, o comunque all’integralismo islamico, è altrettanto corretto affermare che il Salafismo storicamente non è sempre stato contrapposto all’Occidente, al contrario è stato spesso collegato ad un movimento di riforma del mondo islamico che propugnava una sua messa al passo con l’Occidente stesso.
In tale ottica non va poi sottovalutato l’asse della monarchia wahabita saudita con gli USA nell’area mediorientale, senza dimenticare le vere e proprie alleanze strette con l’Occidente in chiave anticomunista[8].
Il radicalismo, del resto, è una estremizzazione teorica e pratica che strumentalizza concetti religiosi per scopi politici; fini di organizzazioni quali al-Qaida e Daesh, a ben vedere, vanno contro i precetti dell’Islam, in quanto scatenanti una guerra intestina (fitna) tra gli stessi musulmani, fortemente condannata nel Corano, al pari dell’uso indiscriminato della violenza, spesso utilizzato in totale antitesi con il messaggio del Testo Sacro[9].
Il Salafismo ad oggi, può essere definito nel suo complesso come un habitat socioculturale, un insieme di correnti neo-fondamentaliste che propugnano il passaggio al jihadismo e la violenza, particolarmente diffusa tra i giovani immigrati delle grandi periferie europee.
Esso può essere suddiviso in tre grandi categorie[10]:
- una prima “litteralista”, legata ad una lettura rigidamente ortodossa del Corano, la cui prima ed unica preoccupazione è quella di vivere in stretta simbiosi con le sue prescrizioni, aspirando ad una migrazione (egira) verso quei Paesi più vicini a tale idea di religiosità;
- una seconda, intesa come “movimento di risveglio” volto ad islamizzare le proteste in varie parti del mondo ove sia presente una comunità musulmana, e nate a seguito dell’occupazione americana di suolo islamico;
- una terza, più strettamente jihadista, involucro intellettuale del terrorismo e degli attentati suicidi, che considera il jihad offensivo l’unica cosa che conta.
Tornando dunque alle radici ideologiche[11] del Salafismo, esse sono antiche e profonde, e rimandano alla persona di Ibn Hanbal[12], che ha introdotto la parola Salafiyya (dall’arabo Salaf, antenato) il quale può essere definito quale primo vero riferimento per tutti i fondamentalisti del mondo islamico. Questa corrente propugna un ritorno integrale alle origini, alla purezza dell’insegnamento dell’Islam non contaminato con le tradizioni dei vari popoli e purificato dalle influenze occidentali, espressioni del Cristianesimo, corruzione e laicismo, e sinonimo della negazione della legge divina. Essa si fonda in sostanza sulla convinzione che ogni buon musulmano debba vivere secondo la tradizione delle prime tre generazioni[13] (VII-VIII secolo):
- i “Compagni” di Maometto;
- i “Seguaci”, ovvero la generazione successiva a quella del Profeta;
- la terza generazione, ovvero “coloro che vengono dopo i Seguaci”, esempio di virtù religiosa.
Una prima interconnessione tra corrente salafita e gruppi terroristici di matrice islamica, nonché conferma indiretta di quanto sopra scritto, deriva dall’atto di fondazione dell’organizzazione algerina Gruppo Salafita per la predicazione ed il combattimento[14]: “Primo, il nostro dogma è il dogma dei Salaf, tra cui i compagni del Profeta, coloro che lo hanno seguito e quelli che sono venuti dopo di loro, tutti guidati da Mohammad, il primo tra gli antenati ed il messaggero della retta guida”.
Il Salafismo, nato all’interno dell’Islam sunnita, trascende dal concetto di nazionalismo in quanto le regole dell’Islam, secondo il pensiero dei suoi seguaci, non devono essere calate in una realtà nazionale piuttosto che in un’altra, al contrario valgono per tutti: la causa dell’Islam è la causa dell’umanità intera e l’unica reale scriminante è l’essere Muslim (credente) o Kafir (non credente).
Strettamente connesso a ciò, si sostanzia il concetto di a-territorialità, legato a doppio filo da una parte alla necessità di ricreare la Umma (comunità) in cui ogni musulmano possa sentirsi protetto e parte integrante, dall’altra alla creazione di un Califfato transnazionale basato sulla Sharia[15]. All’interno del Salafismo, oltre alla corrente religiosa che propugna la rigida interpretazione del Corano e della Sunna, è presente il concetto di critica nei confronti dei governanti dei Paesi musulmani asserviti all’Occidente (Salafismo politico), suo obiettivo è la conquista del potere tale da consentire una progressiva islamizzazione della società.
Quando si parla di Salafismo inteso come ritorno alle origini ai tempi di Maometto, è tuttavia necessaria una precisazione in merito.
Il fondamentalismo, in quanto tale, non è mai un recupero della tradizione religiosa, ciò in quanto i suoi attori, sovente gruppi terroristici, hanno di volta in volta bisogno di crearne una fruibile ai propri scopi, dunque in continuo mutamento.
In questo quadro assume centrale importanza il concetto di tempo in una accezione di eterno presente, essenziale nell’ideologia radicale islamica. Esso è infatti la prova tangibile della decadenza, del manifestarsi di una perdita di una purezza invece presente ai tempi del Profeta Muhammad. Parimenti esso ben delinea il contesto attuale in cui è in atto lo sforzo per ovviare al declino a cui si sta assistendo, ponendo dunque in essere un processo ripetitivo in cui si susseguono ascesa – caduta – risollevamento.
Parallelo al concetto di tempo, al ritorno ad un passato tradito, si innesta a mio parere una tematica di natura ben nota in psicologia, ovvero l’appartenenza ingroup, o meno, outgroup alla comunità dei fedeli[16]. L’appartenenza ad essa implica l’adesione ad una determinata forma ed idea di religiosità ed un progressivo processo di passivizzazione della società, aspetto preminente dell’agire radicale, che assume il ruolo di decisore ed al contempo di controllore, portando ad una sua totale politicizzazione.
Rivisitata in termini generali quella che è l’ideologia alla base del radicalismo islamico, reputo non meno importante, anche alla luce della storia recente, volgere lo sguardo ad un esame di quelli che sono i soggetti che spesso si sono fatti portatori di questi valori.
Detto dunque di Ibn Hanbal, un altro uomo certamente di primo livello nella storia dell’evoluzione fondamentalista risponde al nome di Ibn Taymiyya, nato ad Harran (Turchia) nel 1263. Vissuto in un periodo storico postumo alle invasioni crociate ed all’occupazione mongola, egli era convinto del fatto che il Califfo dovesse essere arabo e non riteneva degni gli amministratori mongoli, in quanto convertiti. Unico rimedio, secondo Ibn Taymiyya, sarebbe stato il Jihad[17], percorso naturale ed indispensabile per riacquisire l’indipendenza e la prosperità. Non meno centrale ed essenziale nel credo di Ibn Taymiyya, era un ritorno al Salafismo tramite l’applicazione della Sunna e della Sharia, eliminando dall’Islam le tradizioni laiche e moderne.
Fu proprio lui ad affermare che il jihad fosse il sesto pilastro dell’Islam, e chi non pregava, consumasse alcool e praticasse tradizioni eretiche, doveva essere dichiarato Kafir.
Venendo ai giorni nostri tuttavia, vi è un caso in cui i musulmani sono autorizzati a riservare l’espressione della propria fede in una sfera intima, ed è quella in cui essi si trovino in un Paese non islamico in condizione di minoranza discriminata; in tal caso il musulmano è autorizzato a ricorrere alla Taqiya[18], ovvero la dissimulazione della fede e delle sue cerimonialità liturgiche.
Particolare interesse ha suscitato in me questa tecnica che, come avremo modo di trattare più in profondità nel secondo capitolo, è spesso utilizzata dalle cellule terroristiche di matrice islamica attive in Paesi occidentali. Ciò al fine di non attirare l’attenzione delle locali Forze dell’Ordine ed Agenzie di Sicurezza, rendendo assai difficile l’infiltrazione al loro interno di agenti o, paradossalmente, di giovani radicalizzati occidentali che, spesso smaniosi di rendere manifesto il loro cambiamento, altro non farebbero che attirare l’attenzione degli Organi di Polizia su di sé, e sui soggetti eventualmente contattati. Senza dilungarsi oltremodo su questa tematica, è bene sottolineare come, al contrario, Islam non sia sempre sinonimo di fondamentalismo.
Si pensi al caso del primo jihadista italiano, il genovese Giuliano Ibrahim Delnevo[19] che, prima di raggiungere la Siria grazie al possibile aiuto di un facilitatore conosciuto probabilmente su suolo turco, è stato più volte allontanato da alcuni centri islamici della città ligure, proprio in virtù delle sue posizioni radicali.
Senza voler convertire questo lavoro in un saggio su Daesh, i richiami ai prima accennati principi di a-territorialità ed Umma islamica, a mio modo di vedere, sono molto ricorrenti nei proclami di Daesh; si pensi ad esempio a quelli lanciati dai suoi combattenti i quali, nel 2014, inneggiando all’istituzione del Califfato islamico, rimuovevano idealmente e fisicamente (figura 1) i confini che dividevano gli Stati di Iraq e Siria[20].
A rafforzare questo concetto sono d’aiuto le parole pronunciate dallo stesso autoproclamato Califfo, Abu Bakr al-Baghdadi, che in un discorso tenuto il 29 giugno 2014 presso la moschea al-Nourj di Mosul, così si esprimeva: “Questa avanzata benedetta non avrà fine sino a quando non avremo piantato l’ultimo chiodo nella bara della cospirazione di Sykes-Picot”.
Reputo di fondamentale importanza questo passaggio in quanto, seppur differito nel tempo, esso è diretta conseguenza dell’espansione coloniale delle potenze occidentali che portò, il 16 maggio 1916, alla ratifica dell’omonimo accordo tra Governo britannico e francese, così denominato in onore dei due diplomatici che lo portarono a termine.
Figura 1 – Un mezzo di Daesh attraversa il varco creato in coincidenza del “dissolto” confine siro-iracheno, un combattente sventola la bandiera dell’autoproclamato Califfato, giugno 2014.
Esso segnò, secondo la visione radicale, la divisione dell’ex impero ottomano ad opera dei miscredenti crociati, che nello spartirsi le rispettive aree d’influenza, non tennero in alcun conto l’eterogeneità della popolazione che in esse viveva.
Sykes-Picot, altresì, è stato il simbolo della separazione obtorto collo della grande comunità dei credenti all’interno di confini fittizi, contrapponendoli (i credenti) gli uni agli altri in un climax ascendente di odio verso l’Occidente.
L’avversione allo stile di vita occidentale tuttavia, non ha impedito ad Abu Bakr al-Baghdadi ed ai militanti di Daesh di ricorrere sovente, peraltro con effetti lusinghieri come vedremo nel secondo capitolo, all’uso di strumenti e potenzialità ad esso connesse, particolarmente sviluppati in Occidente, quali il web e lo storytelling nei social network (Rocket Chat, VKontakte, Facebok, Twitter, Telegram etc.), asset perfetti per diffondere la propaganda radicale e reclutare così migliaia di giovani combattenti da tutto il pianeta.
In realtà, a ben vedere, questo concetto non si scontra con quanto sostenuto dalla corrente salafita politica la quale, nonostante il richiamo ad un ritorno al passato, ha sempre incitato i musulmani ad utilizzare sia la scienza, sia la tecnologia a proprio favore.
Come detto, per i Sunniti militanti nei gruppi radicali non esistono Stati, ma solo la Umma, ovvero l’unione di tutti i Musulmani che seguono la Sunna[21]; è utile di conseguenza evidenziare come nelle mappe di Daesh si sia arrivati ad indicare anche il Nord Africa, la Spagna ed i vicini Balcani (figura 2) quali territori di futura potenziale espansione.
Figura 2 – Progetto aree di colonizzazione di Daesh nel 2014 (https://www.express.co.uk).
La creazione di uno Stato islamico dunque, scevro da divisioni territoriali imposte dall’Occidente, è il simbolo di un agognato ritorno agli insegnamenti del Profeta dopo quattordici secoli di devianza e corruzione.
Quando si parla di correnti radicali inoltre, occorre porre l’attenzione su quella che può essere definita una costola del Salafismo: il Wahabismo.
Suo padre putativo è stato il teologo islamico Muhammad Ibn Abd Al Wahhab (1703-1791). Egli era un proibizionista, condannava aspramente il sufismo[22] e lo sciismo[23], dichiaratamente avverso alla libertà della donna, ad alcool, fumo ed alle tradizioni non arabe.
E’ facile, per deduzione, comprendere come il wahabismo, potente fattore di radicalizzazione ed emblema ad hoc del fondamentalismo, insista su un’interpretazione letterale del Corano, assimilabile ad un sistema socio-politico che reprime le libertà civili e di pensiero.
Il movimento, dalle sue origini, ha avuto quale main focus la purificazione dell’Islam sunnita da ciò che non è autenticamente islamico, rifiutando qualsiasi pratica politeistica o che ponga un intermediario tra uomo e Dio, rifacendosi ad una rigida interpretazione dei Testi Sacri. Proprio in virtù di ciò tuttavia, in netta contrapposizione con quello che è il reale messaggio di pace dell’Islam, viene posto una volta ancora l’accento sul concetto di creazione di una tradizione distorta ad hoc fruibile ai propri scopi.
Scopo di questi movimenti è porre la Legge coranica a base e fondamento della società; chi detiene il potere, infatti, governa sotto la legge di Dio e non può disattenderla. Nemmeno il processo di modernizzazione di essa può giustificare un compromesso tra la “Verità” e la realtà in divenire, e questa forma di neo-fondamentalismo null’altro è che espressione sociale delle fratture che si sono aperte nei processi di sviluppo che le classi dirigenti hanno imposto alle loro società, cercando di imitare il modello occidentale.
L’obiettivo dei Wahabiti è costringere tutti a seguire i veri insegnamenti dell’Islam, chi non si adegua è un Jahili (ignorante). Questo principio tuttavia ha subìto alcune eccezioni proprio nella città siriana di Raqqa, roccaforte e capitale del Califfato dal gennaio 2014 al 17 ottobre 2017, dove i pochi Cristiani che hanno deciso di rimanere[24], hanno potuto salvare le loro vite tramite il pagamento della Jizya (sino a 250 dollari al mese), grazie all’accordo trovato con emissari dell’autoproclamato Califfo Abu Bakr al-Baghdadi.
Già vigente dal periodo islamico classico sino al XIX secolo, essa era una imposta di compensazione versata da coloro che non facevano parte della Umma islamica, e che venivano così protetti e garantiti nei loro diritti essenziali.
Sarebbe tuttavia riduttivo ed erroneo parlare di radicalismo/fondamentalismo islamico basandosi sulla sola esperienza di Daesh, con le sue ultime sacche di resistenza di combattenti asserragliate nella città di Baghouz, in queste ultime settimane impegnate in sanguinosi scontri (in cui ha peraltro trovato la morte il trentatreenne italiano Lorenzo Orsetti), con le forze curdo-siriane appoggiate per via aerea dagli americani, culminati con la resa definitiva del 23 marzo 2019, che di fatto toglie l’ultimo lembo di terra rimasto sotto il controllo dell’autoproclamato Califfato.
Nell’approfondire il tema neo-fondamentalismo più ad ampio raggio, è necessario notare come tra i fattori che hanno contribuito alla crescita esponenziale di consenso nei movimenti radicali, vi sia stato il già accennato indebolimento politico dei progetti laici di modernizzazione della società islamiche.
Il neo-fondamentalismo rappresenta solo l’ultima ondata di un lungo processo di risveglio dell’Islam nella storia moderna, che può essere suddiviso in tre fasi principali[25]:
– prima fase (1730-1830): movimenti di risveglio religioso in aree periferiche (Arabia Saudita, Nigeria) in nome del ritorno alla purezza dei caratteri originari della Città del Profeta e della Legge coranica;
– seconda fase (1830-1960): movimenti riformisti che, al contrario, si sforzano di conciliare Islam e modernità, come il Movimento dei Giovani Turchi, primo esempio di Stato laico nel mondo musulmano, passando per le riforme attuate da Nasser nell’Egitto degli anni Sessanta;
– terza fase (1980-epoca attuale): nascita di movimenti neo-fondamentalisti ispirati ad un modello organizzativo simile a quello creato in Egitto nel 1929 da Hasan al-Banna e chiamato Associazione dei Fratelli Musulmani, fortemente caratterizzato da un sentimento di condanna nei confronti del processo di occidentalizzazione dell’Egitto di quell’epoca, dovuto all’occupazione britannica.
In epoca moderna tuttavia, l’anno che ha decretato un salto di qualità sostanziale del fondamentalismo islamico è il 1979. Teatro di ciò è stata la Repubblica Islamica dell’Iran[26] ove ebbe luogo l’omonima Rivoluzione.
Fu proprio l’ayatollah Khomeini[27], fervente sostenitore di un Islam rigoroso, a definire l’America il “Gande Satana”, con quest’ultimo termine inteso nel significato di tentatore. Intento dell’ayatollah era mostrare al mondo intero come fosse possibile dare vita ad un modello di Stato che incarnasse la legge di Dio, con i Guardiani di Dio a preservarla, dunque una forma moderna di organizzazione (lo Stato per l’appunto) che rispecchiasse però la perfetta corrispondenza con la Parola rivelata e tramandata dalla Legge coranica.
Figura 3 – Oriana Fallaci intervista l’ayatollah Ruhollah Khomeini. Qom (Iran), settembre 1979.
L’Occidente, infatti, simbolo di benessere economico e modernità, veniva e viene tuttora considerato come una tentazione in grado di deviare dalla via indicata da Allah.
Esso, in senso lato è il “male”, egoismo eretto a sistema, immoralità e prostituzione eretti a principi morali; è necessario dunque contrapporgli un ritorno integrale al Corano, la purificazione da ogni influsso occidentale[28].
Un elemento oggettivo che non ho potuto non notare, sebbene si parli di epoche e contesti sociali diversi è come, a fronte di un rifiuto tout court del modello corruttore occidentale, Khomeini come al-Baghdadi, non abbia mai rinunciato alla tecnologia da esso importata, prova ne sia il breve stralcio a seguire, dell’intervista[29] (figura 3) che lo vide così rispondere alla giornalista italiana Oriana Fallaci:
“[…] Perché queste sono le cose buone dell’Occidente. E non ne abbiamo paura e le usiamo. Noi non temiamo la vostra scienza e la vostra tecnologia, temiamo le vostre idee e i vostri costumi. Il che significa che vi temiamo politicamente, socialmente. E vogliamo che il Paese sia nostro, vogliamo che non interferiate più nella nostra politica e nella nostra economia e nelle nostre usanze e nelle nostre faccende. E d’ora in avanti andremo contro chiunque ci proverà […]”.
Il radicalismo di matrice islamica tuttavia, non è fenomeno da confinare limitatamente alle coordinate spazio-temporali approfondite sinora.
In tal senso, vale la pena almeno accennare brevemente ad altre due organizzazioni islamiste, particolarmente attive in Palestina ed Egitto da diversi decenni, laddove entrambe si richiamano al dovere di fedeltà ai valori islamici tradizionali: stiamo parlando di Hamas[30] e dei Fratelli Musulmani[31].
La prima, storicamente alleata dei Fratelli Musulmani, è nata nel 1987 come movimento politico di ispirazione musulmana sunnita, con il preciso scopo di liberare la Palestina dall’occupazione israeliana e fondare uno stato islamista in Cisgiordania e nella striscia di Gaza; dopo aver vinto nel 2006 le elezioni legislative palestinesi, ha posto sotto il proprio controllo l’intera Striscia di Gaza.
A partire dall’anno successivo il Movimento ha iniziato ad introdurre diversi princìpi ispiratori della legge islamica quali ad esempio divieto di consumare alcolici, o ancora il divieto per le donne di camminare accompagnate da altri uomini se non il proprio marito o parenti stretti, servendosi di un apposito corpo di “polizia morale”[32], concetto questo che trova simile applicazione nella Hibsah, il corpo della polizia religiosa creato ai suoi albori da Daesh nella località di Raqqa (Siria)[33].
Il Movimento, nella sua perenne lotta contro lo Stato israeliano, ha sovente ricevuto aiuti sotto forma di armamenti da parte della Repubblica islamica dell’Iran, e l’accostamento che propongo tra Hamas e radicalismo islamico è tutt’altro che casuale. Il lancio di razzi registrato nelle ultime ore di marzo 2019 in direzione di Tel Aviv, potrebbe aver paradossalmente segnato la strada per un’inattesa riappacificazione tra le due parti, con il Premier israeliano Benjamin Netanyahu che, anziché scatenare un’offensiva nella “Striscia”, parrebbe intenzionato a riversare fiumi di denaro per favorire progetti di sviluppo a favore della popolazione palestinese presente nell’area.
Ciò allo scopo di portare Hamas dalla propria parte e scongiurare il rafforzamento dell’asse tra quest’ultimo e l’Iran, ipotesi che di contro sancirebbe quasi certamente l’apertura di un nuovo “fronte sud” proprio con l’Iran, che nella regione può già contare sull’appoggio del gruppo terrorista “Jihad islamica”[34].
Quanto all’Associazione dei Fratelli Musulmani, essa nasce nel 1928, da subito caratterizzata da un approccio di tipo politico all’Islam; a partire dagli anni Ottanta ha esteso la propria area d’influenza in tutti i Paesi islamici, collaborando anche con gruppi violenti e terroristici con il chiaro obiettivo di una riconquista a favore dell’Islam di tutti i territori che in passato sono stati arabi.
Essi sono considerati a buon diritto l’epicentro ideologico e storico della svolta attivista dell’islamismo radicale, in virtù del loro programma che prevede la pratica islamica non come mero culto, bensì come una totalità in cui si ha uno Stato islamico quando esso coincida in tutto e per tutto con la comunità dei perfetti credenti. I suoi precetti non a caso sono: “Dio è il nostro programma, il Corano è la nostra Costituzione, il Profeta il nostro leader, il combattimento sulla via di Dio la nostra strada, la morte per la gloria di Dio la più grande delle nostre aspirazioni”. Uno dei primi ideologi di spessore dell’organizzazione fu senz’altro Sayyid Qutb[35], autore dell’opera “Le pietre miliari sulla via”, considerata apripista per il moderno Islam politico di orientamento fondamentalista.
Il suo intento era di abbattere, mediante la lotta armata, i governi considerati miscredenti ed apostati, per la realizzazione di uno Stato islamico. L’organizzazione è tornata agli onori delle cronache nel 2011, anno in cui si è assistito alle furiose proteste di piazza Tahrir ed al fenomeno delle cosiddette “Primavere arabe”[36] a causa delle quali furono quattro i Capi di Stato a cadere: Zine El-Abidine Ben Ali in Tunisia, Hosni Mubarak in Egitto, Mu’ammar Gheddafi in Libia, nel 2012, Ali Abdullah Saleh in Yemen nel 2012.
Muhammad Badi, leader del movimento in quel periodo, fedele alla dottrina fondante del movimento, era convinto sostenitore del fatto che il jihad fosse un obbligo individuale per ogni musulmano al fine di giungere alla diffusione ed affermazione di una lettura radicale ed estremista della religione islamica.
Molto radicati all’interno della società egiziana, approfittando del vuoto di rappresentanza dei vari movimenti di contestazione, i Fratelli Musulmani dapprima ottennero il 47% dei consensi alle consultazioni per il rinnovo del Parlamento (novembre 2011 – febbraio 2012), confermandosi poi alle elezioni presidenziali del giugno 2012 con la vincita alla Presidenza della Repubblica di Mohamed Morsi. Una volta salita al potere tuttavia, la Fratellanza non ha saputo trasformarsi da movimento di contestazione in classe dirigente, e la maggior parte dei suoi rappresentanti è stata arrestata.
Dalla cancellazione di ogni forma di innovazione e progresso, uniti ad un ideale di società chiusa come quello propugnato dal Salafismo, sono nati nel corso del tempo, ultimo in ordine temporale il già citato Daesh dell’autoproclamato Califfo Abu Bakr al-Baghdadi, diversi altri movimenti di matrice politico-religiosa.
Questi ultimi rappresentano la principale minaccia terroristica, poiché la religione viene intesa come vera e propria ideologia, accompagnata da militanza aggressiva e sopraffazione.
Un approfondito studio del 2016 a cura del Dipartimento di Stato U.S.A.[37], ha evidenziato come nel mondo vi siano circa sessanta organizzazioni terroristiche.
Di esse circa quarantadue sono ricollegabili a fini di matrice politico-religiosa e la quasi totalità di esse sono di stampo jihadista[38]; solo per citare alcuni nomi vale la pena ricordare la nigeriana Boko Haram[39] e la somala Al-Shabaab[40] i cui terroristi si sono resi artefici il 23 marzo 2019 di un attacco al Ministero del Lavoro con sede in Mogadiscio, provocando undici vittime tra le quali lo stesso vice Ministro somalo.
Non vi è dubbio che le derive ideologiche di cui questi gruppi sono intrisi, ed i processi di radicalizzazione in atto anche in Occidente in questi ultimi anni, saranno punti focali nella lotta sempre più serrata al terrorismo di matrice islamica.
Questo argomento, tuttavia, e le problematiche da esso scaturenti, saranno oggetto di approfondita trattazione nel prossimo capitolo.
2.1 PROCESSI DI RADICALIZZAZIONE IN EUROPA
Dopo aver affrontato nel primo capitolo il concetto di radicalismo islamico ed i suoi riverberi nel contesto mediorientale, la mia ricerca continua con l’analisi dei modelli più aderenti e funzionali alla comprensione dei processi che hanno portato ad una massiccia radicalizzazione di giovani immigrati ed occidentali, di cosiddetta seconda generazione.
Mio particolare intento sarà quello di approfondire la tematica inerente i processi radicalizzazione nelle seconde generazioni in senso lato ad alcune realtà europee con un occhio vigile anche all’area balcanica, e con particolare attenzione poi a quanto sta avvenendo in una delle maggiori potenze economico-militari europee ed occidentali: la Gran Bretagna.
Per approcciarmi a questa tematica ho scelto una delle definizioni che reputo più adatte e vicine al mio pensiero, essa chiama in causa il pensiero di Farhad Khosrokhavar[41], storico di lunga data, impegnato da oltre trent’anni sui temi della radicalizzazione.
“La radicalizzazione avviene quando una traiettoria personale interagisce con un ambiente favorevole e una particolare contingenza storico-politica”[42].
Egli, in un’intervista[43] rilasciata alla rivista di geopolitica francese Diploweb, descrive quali siano, in base ai suoi studi, le leve caratterizzanti la jihad in Occidente, con uno sguardo particolarmente attento allo scenario francese.
Khosrokhavar parte innanzitutto da una suddivisione in classi dei soggetti, per lo più giovani, che si avvicinano agli ambienti radicali, citando da una parte gli immigrati musulmani appartenenti alle classi sociali più modeste, dall’altro coloro che rappresentano le classi medie in cui si evidenzia una buona percentuale di convertiti all’Islam.
Richiamando il concetto di comunità già visto nel primo capitolo, il sociologo persiano indica la creazione di una Neo-umma il mezzo tramite il quale questi giovani, pur con parabole di vita diverse, si avvicinano al jihadismo e di fatto si amalgamano tra di loro.
Quanto alla prima categoria citata, la molla scatenante è, come del resto facilmente intuibile, l’umiliazione/esclusione sociale che spinge questi ragazzi alla microcriminalità, schiudendo loro le porte del mondo carcerario, con quest’ultimo a rappresentare sino ad ora, in varie realtà europee, uno dei nervi scoperti nella gestione e contenimento del fenomeno radicalizzazione da parte delle istituzioni.
In relazione al tema dell’umiliazione poi, lo studioso non ha mancato di porre in evidenza anche lo specifico caso tedesco in cui i giovani immigrati di seconda generazione vengono soprannominati “Pass Deutsche”, ovvero Tedeschi solo sul passaporto, e non nella realtà.
Essi, come ad esempio i giovani algerini delle banlieues transalpine, non sentendosi realmente né cittadini del Paese da cui i loro genitori si sono distaccati, né del Paese che attualmente li ospita, spesso confinati nei quartieri più degradati delle città, sono quelli più emotivamente e socialmente esposti al rischio radicalizzazione.
L’Islam radicale, prosegue Khosrokhavar nell’intervista, consente loro di uscire da questo senso di indegnità morale ed invertire la prospettiva che essi hanno della società, maturando l’idea del “voi mi disprezzate, ora io sono degno e anche più degno di voi”.
Quanto ai giovani convertiti delle classi medie invece, la realtà carceraria è ad essi per la maggioranza sconosciuta, ed il senso di umiliazione presente nelle menti dei giovani immigrati, si va sostituendo con la presa di coscienza di un modello di vita occidentale basato sull’egoismo, individualismo, frutto di una società fredda ed oramai priva di alcun senso di appartenenza, sovente in forte contrapposizione con la loro volontà di impegnarsi in qualche attività dai connotati “umanitari” e ritornare ad un modello utopico ove la solidarietà costituiva il cemento della società, in modo dunque da poter lenire il senso di forte incertezza nei confronti del futuro.
Daesh, per l’appunto, ha offerto alle giovani generazioni tutto ciò, ha proposto ad essi una utopia, la creazione di quella già citata Umma, vista come l’ideale di una società solida.
Un punto in particolare mi trova particolarmente concorde con l’analisi fornita da Khosrokhavar, nella misura in cui egli colloca Daesh in una sorta di figura paterna sostitutiva che, con i connotati tipici del salafismo politico, detta le regole sulla base delle quali fondare la propria esistenza, e in ambito religioso, e in ambito sociale, colmando dunque il vuoto di una società, perlomeno quella occidentale, ove la figura paterna è stata quasi totalmente detronizzata.
Egli, peraltro, osserva che tra gli jihadisti di nuova generazione è alta la percentuale di coloro che sono cresciuti in una famiglia monoparentale dove la figura del padre è assente, come lo è altrettanto tra coloro che hanno poi deciso di andare a combattere in Siria o compiere azioni terroristiche isolate: i fratelli Kouchi[44] ed Amedy Coulibaly[45] ne sono stati la prova tangibile nel recente passato.
Il comune denominatore che ha permesso a Daesh di riunire sotto di sé giovani con idee indistintamente di estrema destra e di estrema sinistra, è stato senz’altro il rigetto categorico di una convinzione occidentale: la visione di uguaglianza tra uomo e donna.
L’analisi fornita dal direttore dell’Osservatorio delle radicalizzazioni si allarga poi anche ad ulteriori realtà nazionali europee chiamando in causa, oltre alle banlieues parigine ed alla Germania, anche altri centri nevralgici del nostro continente, quali la capitale danese Copenaghen e Londra, teatro di analoghi processi di marginalizzazione ed esclusione sociale.
In particolare la capitale britannica viene indicata come il simbolo di un fenomeno (Islamistan) afferente una nuova tipologia di comunità ove i musulmani immigrati, per lo più appartenenti alla classe media e maggiori rappresentanti in intere aree urbane, costituiscono da un lato uno sbarramento al jihadismo, dall’altro creano pericolose quanto vere e proprie società parallele fatte di enclavi inserite in un modello che vuole ergersi ad universale[46].
Sulla base di quanto ho sino ad ora acquisito grazie a questa ricerca, è mia ferma convinzione che le Forze di Polizia e le istituzioni in genere operanti nelle grandi realtà urbane italiane, benché queste ancora lontane dai livelli di altre megalopoli europee – grazie anche alle politiche poste in essere dal Viminale e relative al contenimento delle ondate di rifugiati, smistati per lo più in piccoli centri – dovranno ben presto approcciarsi con sempre maggiore acume a contesti sociali in cui, fermo restando l’infima percentuale di potenziali radicalizzati musulmani e/o convertiti rispetto alla popolazione totale, la creazione di vere e proprie aree ghetto (a titolo d’esempio il quartiere San Siro a Milano o Barriera Milano a Torino) potranno essere fonte di problematiche similari, da affrontarsi sia sotto un profilo di intelligence, ma nondimeno tamponate alla radice con idonee politiche di integrazione sociale.
Proseguendo in questa trattazione, è bene rimarcare che individuare un quadro preciso ed unitario dei vari processi mentali e sociali che hanno portato in questi ultimi anni alla radicalizzazione di migliaia di giovani musulmani ed occidentali, non è compito facile.
Le cause possono essere svariate, partendo da fattori di natura psicologica, passando dal percorso di vita che ognuno di questi individui ha alle spalle, terminando con l’analisi delle condizioni socio-ambientali in cui essi sono cresciuti e vissuti. La principale scriminante, ad ogni modo, può ritenersi l’assenza del fattore economico quale unica ragione in quanto, come documentato da un approfondimento pubblicato su “The Guardian[47]” sulla base dei dati forniti da Rami Abdulrahman[48], la retribuzione di un radicalizzato che decida di diventare combattente di Daesh, è nel tempo diminuita (sino ad arrivare a 200 dollari al mese) e grandemente inferiore a quella che lo stesso giovane potrebbe ottenere nel Paese occidentale di provenienza, a fronte peraltro di una possibilità di morire drammaticamente più alta.
Proseguendo in questa mia ricerca sullo specifico fenomeno, ho in particolar modo fatto tesoro delle analisi di due studiosi transalpini, portatori di idee non di rado radicalmente opposte tra loro e, proprio in ragione di ciò, ancor più meritevoli della nostra attenzione in quanto utili a fornirci una pluralità di visioni in merito.
Il primo dei due è Gilles Kepel[49], uno dei massimi specialisti di Islam e mondo arabo, egli è fermamente convinto che da diversi decenni sia in corso un processo di “radicalizzazione dell’Islam”.
Una delle chiavi di lettura funzionali alla comprensione del suo pensiero sul radicalismo islamico e relativi processi di radicalizzazione, è senza dubbio uno dei suoi ultimi libri, pubblicato a cavallo tra il 2015 ed il 2016, dal titolo: Terreur dans l’hexagone. Genese du jihad francais[50].
Il primo capitolo dell’opera, intitolato 13 novembre 2015, data nefasta che riporta alla mente i tragici accadimenti del teatro Bataclan, è emblematico della sfumatura sociologica che l’autore vuole conferire alla sua opera, animato com’è dalla volontà di analizzare cosa si sia inceppato nel processo di integrazione dei giovani attentatori, con in testa il belga Salah Abdeslam[51] affiliato a Daesh, figli dell’immigrazione nordafricana approdata in Francia e Belgio, al punto da farli diventare un nucleo a sé stante di terroristi formatosi in seno ad uno degli stessi Paesi che li ha accolti: la Francia.
Kepel argomenta la propria tesi partendo dalla fine degli anni Settanta, con la vittoria conseguita dai Talebani nella guerra in Afghanistan in difesa del Dar al Islam[52] invaso dai Russi, proseguendo poi sino ad arrivare agli inizi di dicembre 1983, giorni in cui una moltitudine di cittadini francesi di origine algerina, diedero vita alla “Marcia per l’uguaglianza e contro il razzismo” ribattezzata in senso dispregiativo dai quotidiani francesi “Marche des beurs” (figura 4), termine per indicare i figli degli immigrati magrebini.
Figura 4 – Una fase della “Marcia per l’uguaglianza e contro il razzismo” giunta a Parigi il 03 dicembre 1983.
Essa, partita dai quartieri settentrionali di Marsiglia durante il mese di ottobre e giunta a Parigi il 03 dicembre[53], ebbe quale scopo principale la consegna di una lista di rivendicazioni volte a favorire una più attiva partecipazione dei cittadini francesi di origine algerina alla vita politica del Paese.
Vi è un elemento paradossale in questa vicenda, in quanto il destinatario di detta lista era il Presidente delle Repubblica Francois Mitterand il quale alcuni decenni prima, e precisamente nel 1954 mentre rivestiva la carica di Ministro dell’Interno quando l’Algeria era ancora una colonia francese, durante gli scontri che infuriavano in Nord Africa non esitò a dichiarare che: “l’unico negoziato possibile è la guerra”. Ebbene, la marcia in questione, secondo Kepel, segnò un punto di svolta epocale in quanto segnale dell’avvento sulla scena politica francese di una nuova generazione dai connotati etnici ben definiti, che si era fatta portatrice di richieste oggettivamente in linea con i princìpi della Repubblica.
Terza ed ultima fase inizia dall’anno 2005, simbolo degli scontri nelle banlieues parigine ed il contestuale emergere di una cosiddetta terza generazione di musulmani francesi tra i quali iniziava a fare sempre più proseliti una ideologia salafita di tipo radicale.
In tale contesto, che lo studioso ritiene essere la terza ondata del jihadismo[54], egli sottolinea anche la criticità venutasi a determinare a causa, da una parte dalla totale assenza di sbocchi politici e sociali per i giovani delle periferie unita alla denuncia da parte di questi ultimi di una crescente islamofobia (stime del 2018 hanno quantificato i musulmani francesi in 5,6 milioni circa, quasi il 9% del totale), dall’altra la radicalizzazione del messaggio di natura repressiva dell’allora Presidente Sarkozy, in carica dal 2007 al 2012, che fece proprie alcune posizioni del Front National (FN) auspicanti una “pulizia dei quartieri”.
Il 2005 è anche l‘anno in cui, ricorda Kepel nella sua analisi, vede la luce la pubblicazione di un manifesto online dal nome “Appello alla resistenza islamica mondiale”[55] da parte dell’ingegnere siro-spagnolo Mustafa Setmariam Nasar, meglio noto come Abu Musab al-Suri. Esso in sostanza rappresenta una sorta di enciclopedia di circa 1600 pagine del jihadismo militante che traccia un bilancio storico del secolo passato e propone, quale strategia futura, il passaggio da una organizzazione di tipo piramidale ad un jihadismo di prossimità con struttura reticolare e cellule dormienti, composta da giovani radicalizzati, allo scopo di spostare il nucleo del conflitto dagli Stati Uniti d’America all’Europa, considerata ventre molle della civiltà occidentale.
A mio parere, il cambio di rotta appena citato trova forti riscontri e similitudini nel passaggio storico da al-Qaida, che tramite il suo leader Osama Bin Laden propugnava la lotta nei confronti del nemico lontano tramite la tv satellitare, a Daesh che è bene ricordare, nato da una costola di al-Qaida in Iraq, con soventi richiami ai lone wolves sparsi per l’Europa per mezzo dei social network, aveva ed ha quale scopo principale portare la jihad nelle case dei miscredenti occidentali.
In contrapposizione alle idee di Kepel, troviamo come anticipato un suo connazionale, il politologo Olivier Roy[56], il quale ha cercato di identificare il profilo degli jihadisti con riferimento ad un periodo temporale che abbraccia l’ultimo ventennio.
Egli, da parte sua, risoluto nel ritenere più appropriato parlare di una islamizzazione del radicalismo[57], suddivide sostanzialmente gli jihadisti in tre categorie, affermando che circa il 60% siano giovani di seconda generazione[58], suddividendo poi la restante fetta in convertiti (25%) e terze generazioni (15%).
Egli identifica lo jihadista con la figura di un giovane di seconda generazione, immerso in contesti di microcriminalità e privo della benché minima educazione religiosa, che si sottopone ad un velocissimo processo di radicalizzazione che, come sottolineato anche in altri studi, non si materializza nelle moschee dalle quali spesso gli elementi più radicali vengono allontanati, bensì in gruppi ristretti di amici, in carcere, o ancora sul web.
Nell’ambito della sua ricerca tuttavia, incentrata sulla realtà transalpina, in antitesi a quanto ipotizzabile e come il sottoscritto stesso riteneva sino ad ora, egli evidenzia come l’avvento di posizioni radicali non sia da porre in sistematica relazione con la frustrazione della popolazione musulmana in Europa o con il malessere dilagante nelle cosiddette banlieues, enormi agglomerati urbani ai margini di Parigi e dei maggiori centri francesi, create agli inizi degli anni Settanta per ospitare i forti flussi di immigrazione proveniente dalle colonie e caratterizzate in larga parte da degrado e microcriminalità.
Ciò in quanto, allargando il discorso all’intero contesto continentale, da una parte tra i giovani radicalizzati di seconda generazione trovano de facto posto in gran numero anche soggetti ben integrati ed in possesso di titoli di studio universitari, dall’altra la reale criticità si sostanzia nella mancanza di valori e la contestuale ricerca di spiritualità[59].
Secondo Roy peraltro, la genesi della radicalizzazione dei singoli individui è la presa di coscienza della insufficiente devozione della propria famiglia nei confronti di una interpretazione integralista del Corano e del disprezzo nei confronti di quelli che, considerati musulmani moderati, non si ribellano contro la società occidentale in cui sono inseriti, e dei valori di cui essa è portatrice.
Essi spesso rifiutano l’autorità dei genitori ed il loro modo d’intendere l’Islam, visti come sottomessi alle regole formali dell’Occidente; scelgono in sostanza la via dell’Islam combattente che prevede, come extrema ratio, anche la morte. Si tratta dunque di una strumentalizzazione arbitraria, certo favorita da predicatori radicali (vedasi Qutb, Azzam, al Faraj etc.), che mistifica il concetto dello sforzo sulla via di Dio il quale, a ben interpretare il Testo Sacro, va inteso con lineamenti molto meno estremi.
Il fattore che tuttavia pone in reale contrasto la teoria elaborata da Roy con quella di Kepel è da ricercarsi nello stile di vita dei terroristi francesi che, per il primo, è caratterizzato da una condotta di vita non morigerata, in antitesi dunque con gli stringenti dogmi salafiti.
La loro ideologia radicale continua Roy, e nei casi più gravi gli attentati, sono da ricondurre a scelte personali, sintomo di un’attitudine estremista che prescinde dalle idee religiose: si tratta in sostanza di una radicalizzazione non religiosa.
In tal senso si innestano nel discorso due fenomeni: de-territorializzazione e de-culturazione.
La de-territorializzazione religiosa altro non è che il risultato della diffusione sempre più potente del web e dei modelli, proposte, idee che esso giocoforza veicola ed inocula nelle menti degli esseri umani. A conferma di quanto sopra detto, negli ultimi anni le adesioni/conversioni ad una nuova religione (nel caso di specie l’Islam), che siano state esse di singoli individui o gruppi, ha fatto registrare il maggior incremento al di fuori del Medio Oriente, spesso agevolate dal rifiuto assoluto dei valori occidentali.
La de-culturazione, invece, è un fenomeno peculiare delle seconde generazioni, nella misura in cui si verifichi una forte carenza, se non la totale assenza della trasmissione in ambito familiare dei valori propugnati dall’Islam.
Richiamando un concetto già trattato nel primo capitolo, e legato alla profonda abilità circa l’utilizzo del web e la manipolazione a proprio favore di contenuti ideologici e religiosi, si può senz’altro affermare che gli esperti di social engineering di Daesh abbiano sfruttato ogni risorsa utile per portare avanti la loro opera di proselitismo. Nel passato recente, le dinamiche appena descritte si sono potute osservare anche in Italia, oltre che con il già citato Giuliano Ibrahim Delnevo (tuttavia egli era italiano nato da genitori italiani), anche in altri due casi, entrambi in provincia di Brescia.
I due protagonisti sono stati rispettivamente il marocchino Mohamed Jarmoune[60], ed un altro giovane di origine marocchina rispondente al nome di Anas el-Abboubi[61], tra i primi a radicalizzarsi autonomamente nel nostro Paese.
A mio modo di vedere, senza volermi dilungare troppo sui due casi citati, estrema sintesi di quanto esposto in linea generale sino ad ora, viene perfettamente riassunto in uno degli scritti postati nel 2012 sulla piattaforma Facebook da Jarmoune, primo radicalizzato italiano e membro tra gli altri di gruppi come: Call to Jihad o The Islamic Revolution of Afghanistan[62], il quale così recitava:
“Ho 20 anni, vivo in Italia da quando avevo 6 anni, ho iniziato a seguire l’Islam all’età di 16 anni e inizialmente ho trovato solo libri e file in lingua italiana, di musulmani moderni, falsi e moderati […] li ho letti e dopo ho trovato la verità grazie a Dio e quindi ho iniziato a tradurre libri e file per i musulmani italiani, però dopo questi fratelli italiani mi hanno abbandonato e non so perché. Forse hanno paura […] quindi ho smesso di parlare con gli italiani ed ho iniziato ad aiutare i Musulmani e la Nazione (Umma) in tutte le parti del mondo […]”[63].
Un’ulteriore conferma sulle ragioni, quantomeno ambientali, e possibili concause di radicalismo, deriva da una sintetica analisi incentrata sul tema del rifiuto nei confronti della società in cui si è inseriti, sia del senso di esclusione sociale percepito dai futuri radicalizzati nei loro confronti.
Anche in questo caso, per una rapida ed intuitiva fruizione, cito un episodio specifico in cui el-Abboubi, all’epoca giovane rapper, rilasciò dichiarazioni in un’intervista effettuata da MTV Italia[64], in cui descriveva la cittadina di Vobarno, dove viveva, come “il paese di Heidi” aggiungendo che “spesso Heidi è razzista” e che “è un blocco nella tua vita, sei sporco per loro […] da lì comincia questo odio, questo distinguersi”. Poco dopo l’intervista el-Abboubi fece registrare una rapida accelerazione nel proprio processo di radicalizzazione, esprimendo via social, già verso la fine dello stesso anno, la ferma volontà di lasciare l’Italia per combattere il Jihad.
Ultimo fattore essenziale a conferma delle modalità di radicalizzazione che a mio parere torna in una sorta di leit motiv, è la condivisione e divulgazione di determinati contenuti attraverso il web. Nel caso specifico, el-Abboubi creò egli stesso la piattaforma “Sharia4Italy” cercando di replicare, senza tuttavia ottenerne lo stesso successo, un brand al cui apice vi erano le ben più quotate e strutturate “Sharia4UK”[65] (figura 5) e “Sharia4Belgium”.
Figura 5 – Al centro della foto è riconoscibile Anjem Choudary, nato nel 1967 a Welling-Londra (Gran Bretagna), attivista islamico britannico, cofondatore del gruppo di matrice salafita-wahabita al-Muhajiroun (letteralmente Gli Emigranti), qui immortalato durante una manifestazione a favore dell’introduzione della Sharia nel Regno Unito. Nel novembre del 2008 ha creato il gruppo “Islam4UK”. Arrestato il 28 luglio 2016 con una pena di cinque anni e sei mesi da scontare, è stato rilasciato dal carcere di massima sicurezza di Belmarsh il 19 ottobre 2018.
Singolare fu peraltro la ragione grazie alla quale le Forze dell’Ordine si misero sulle tracce di el-Abboubi che, il 17 settembre 2012, recatosi spontaneamente presso la Questura di Brescia per richiedere informazioni sulle modalità organizzative di una manifestazione di dissenso nei confronti della pellicola americana dalla connotazione anti islamica “L’innocenza dei musulmani”, dichiarò agli agenti di avere intenzione di bruciare bandiere israeliane ed esporre scritte contro l’allora Presidente statunitense Barack Obama[66].
I due casi appena citati mi permettono di aprire una breve parentesi sul caso peculiare del nostro Paese, l’Italia, che a differenza di altre nazioni europee non ha ancora sperimentato, e si spera mai debba farlo, il trauma di un attentato terroristico su larga scala.
Che esso sia portato avanti da una cellula addestrata e definita come quella che ha seminato morte nella tristemente nota strage del teatro parigino del Bataclan (13 novembre 2015), o opera improvvisata e maldestra, ma altrettanto mortifera, di un lupo solitario come nel caso degli accoltellamenti nel mercato di Turku (Finlandia, 18 agosto 2017), sino ad ora il nostro Paese, benché abbia comunque indirettamente pagato in termini di vite umane, è stato risparmiato.
Secondo la mia opinione, questo fattore è in parte dovuto al minuzioso lavoro portato avanti dalle Forze dell’Ordine italiane che, grazie anche agli strumenti normativi offerti dall’art. 270 C.P.[67], nel corso degli anni hanno monitorato (Jarmoune, ed el-Abboubi ne sono gli esempi) e stroncato sul nascere situazioni potenzialmente dannose. Solo per dare un’idea di quanto scrivo, riporto un grafico (figura 6) relativo alle espulsioni[68] dall’Italia a partire dal 2002, dato in cui il nostro Paese è primo in ambito UE.
In merito si può notare una vera e propria impennata a partire dal 2015, anno di entrata in vigore della riforma che prevede, solo per citare alcuni dati, che le espulsioni amministrative per motivi di sicurezza nazionale o di ordine pubblico possano essere disposte dal Ministro dell’Interno, od ancora dai Prefetti per sospetta pericolosità sociale dello straniero.
Figura 6 – Grafico indicante il numero crescente di espulsioni dall’Italia per motivi di terrorismo dal 2002 ad oggi.
Nello specifico, i dati recenti indicano un continuo aumento in termini assoluti delle espulsioni per motivi di ordine e sicurezza pubblica, facendo registrare un totale di 66 nel 2016, 105 nel 2017, 126 nel 2018[69].
Rimanendo sul tema, con riferimento all’arco temporale 2015-2018, in ambito nazionale i dati più significativi si registrano in Lombardia con 62 provvedimenti, seguita a ruota da Emilia Romagna (37) e Sicilia (32). Quanto invece alla nazionalità dei soggetti espulsi nel medesimo periodo dal nostro territorio nazionale, le nazioni capofila risultano essere il Marocco con 110 soggetti allontanati e la Tunisia (99).
Balza all’occhio, ma neanche troppo, la presenza ai primi posti di questa particolare classifica di Paesi dell’area balcanica quali Albania (13), Macedonia (12) e Kosovo (14), con quest’ultimo in particolare (oggetto di più approfondita trattazione nel paragrafo a seguire), a mio avviso da monitorare nei prossimi anni in virtù di una crescita esponenziale di moschee finanziate dal Qatar[70], ed un rischio radicalizzazione più che concreto delle generazioni ad ora in tenera età, in un’area sino a questo momento moderata in tal senso.
Detto dell’efficiente opera di prevenzione posta in essere delle nostre Forze di Polizia, sarebbe sacrilego dimenticare altri due fattori, forse ancor più determinanti. Primo di essi è senz’altro il ritardo con il quale il nostro Paese, solo negli anni Novanta, è stato destinazione finale di massicci flussi migratori. Medesimi flussi che altre nazioni del Vecchio Continente hanno sperimentato a partire dai tardi anni Sessanta ed in virtù dei quali in Francia, Belgio ed Inghilterra siamo già alla terza se non quarta generazione, mentre in Italia, solo ora le seconde generazioni stanno affacciandosi all’età adulta.
Ciò ha permesso sino ad ora di scongiurare il rischio che si creassero vaste aree/sacche di profondo degrado e malcontento sociale, pericoloso focolaio di radicalizzazione, al contrario presenti da tempo nelle predette realtà nazionali.
Terzo ed ultimo fattore, secondo una mia personale visione è che l’Italia, a differenza di Francia, Belgio, Gran Bretagna, Olanda e Danimarca, non ha mai partecipato ai bombardamenti delle postazioni di Daesh, né ha mai impiegato le proprie truppe presenti in teatro in azioni militari dirette (almeno ufficialmente), motivo per il quale è stata “risparmiata” sino a quando Daesh ha potuto contare su una struttura parastatale forte e su capi pronti a dettare una strategia precisa.
Quando si parla di radicalizzazione tuttavia, uno dei suoi terreni più fertili è senza dubbio rappresentato dalle realtà carcerarie europee, luogo ove è presente la più alta percentuale di convertiti o cosiddetti born again[71]. Nel 2009, al-Qaida on line pubblicò un manuale dal titolo “Un corso per l’arte dell’indottrinamento” con il quale i reclutatori venivano istruiti su come individuare soggetti vulnerabili, come attrarli, come farseli amici ed appunto indottrinarli. Fattori che favoriscono la radicalizzazione all’interno degli istituiti penitenziari sono certamente il senso di alienazione, disagio, accompagnati da un bisogno di protezione di cui coloro che vi entrano sentono il bisogno.
Le privazioni derivanti dalla detenzione, le periodiche e reciproche violenze con detenuti non musulmani, la difficoltà di praticare i propri doveri religiosi (wajibat) non fanno altro che favorire l’avvicinamento al jihadismo, sapientemente mascherato dai medesimi reclutatori come religione islamica vera e propria[72].
Tali fattori, spesso sfocianti in violente aggressioni sia in Francia, sia in Gran Bretagna, a danno degli agenti penitenziari[73], vengono sovente acuiti dalla forte carenza di Imam qualificati, appannaggio invece di frange radicali tra i cappellani islamici autorizzati ad entrare nelle prigioni che, come vedremo in seguito nello specifico caso britannico, si impegnano a reclutare nuovi adepti nel progetto politico dell’Islam.
Il contesto è infine aggravato da specifiche realtà quale quella transalpina dalle cui carceri, dati oggettivi alla mano, entro il 2020 uscirà il 60% dei detenuti jihadisti[74].
Ulteriore giovamento nella comprensione dei processi di radicalizzazione delle seconde generazioni, ho potuto trarlo anche dall’analisi operata dal Dottor Alessandro Orsini, dapprima analista presso l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI), attualmente sociologo e direttore dell’Osservatorio sulla Sicurezza Internazionale presso l’università Luiss di Roma.
Questo tipo di analisi insiste su un arco temporale che va dal 2002 sino al 2016 ed ha come oggetto ragazzi/uomini convertiti. Essa è molto vicina al mio pensiero in quanto fonda le sue basi su una indagine per lo più sociologica, delineando innanzitutto la differenza tra marginalità sociale da un lato, e l’emarginazione sociale dall’altro.
La prima è una condizione psicologica soggettiva in grado di colpire individui di qualsiasi ceto sociale, nella quale un soggetto si distacca dai valori dominanti rendendosi disponibile ad abbracciarne di nuovi.
Le cause di ciò, secondo Orsini, sono riconducibili ad uno stato di perdurante sofferenza psicologica e sociale; un individuo marginale è quindi colui il quale non vuole far parte del mondo in cui vive in virtù di una scelta dettata dall’ideologia in base alla quale la società attuale è un luogo contaminato.
Quanto alla seconda, essa è una condizione oggettiva di privazione, caratterizzata dal mancato soddisfacimento di alcuni bisogni primari.
Questi fattori, tra gli altri, danno origine ad un fenomeno denominato DRIA[75], suddiviso in quattro fasi[76], che trova ampio riscontro nei casi specifici sino ad ora osservati:
- Disintegrazione dell’identità sociale, per mezzo della quale l’individuo si “spoglia” dell’identità che aveva in precedenza e ne assume una del tutto nuova. Spesso questo cambiamento si traduce in una conversione religiosa;
- Ricostruzione dell’identità attraverso la conversione a un’ideologia estremista, fase in cui l’individuo è fortemente disorientato, senza punti di riferimento ed alla ricerca di una guida. Fondamentale a mio parere questa seconda fase in quanto, come sottolineato da Orsini, essa si sostanzia in una vera conversione in cui giovani musulmani lontani dall’Islam o addirittura Cristiani convertiti, che non avevano mai pregato, osservato, frequentato la moschea sino a quel momento, cambiano vita diventando stretti osservanti della Sharia; solo così infatti, essi sono in grado di tornare a dare un significato alla loro vita, altrimenti confinata in uno stato di angoscia esistenziale.
Le micce che avvicinano questi soggetti a gruppi islamisti radicali possono essere diverse, dalla figura di un imam carismatico all’ideologia totalizzante, violenta e radicale, propugnata dai vari social network utilizzati, ad esempio da Daesh, i quali, disciplinando ogni aspetto della vita, cancellano qualsiasi margine di libertà del singolo individuo. In questa seconda fase, a mio parere, sono ben riconoscibili le dinamiche attribuibili al salafismo politico, osservato nel primo capitolo, il cui scopo è per l’appunto annullare e rendere quasi inerte la personalità dell’uomo singolo, portandolo a dividere il mondo unicamente in Bene e Male.
- Integrazione in una setta rivoluzionaria (o gruppo islamista), fase che si caratterizza per la spasmodica ricerca di altri individui che abbiano la medesima visione manichea del mondo. Sempre secondo Orsini, il militante jihadista intende la realtà attraverso cinque categorie:
– il catastrofismo radicale;
– l’attesa della fine;
– l’ossessione per la purezza;
– l’ossessione per la purificazione;
– l’identificazione del maligno.
Pur essendo questo un aspetto al centro di successiva trattazione, è bene specificare sin d’ora che l’aderenza/affiliazione ad un gruppo jihadista non va intesa esclusivamente quale contatto de visu, ma anche virtuale tramite l’utilizzo del web, in una sorta di “adesione immaginata”.
- Alienazione dal mondo circostante, ultima delle quattro fasi in cui il militante si allontana da tutti coloro che, non musulmani e ritenuti perciò ripugnanti, non condividono la sua visione del mondo. Elemento chiave di quest’ultima fase è l’assoluta assenza di eventuali feedback negativi che potrebbero provenire dal mondo esterno, a favore invece di feedback positivi ad aspirazioni violente se non suicidiarie, provenienti da una cellula jihadista.
Ultimo in ordine di citazione ma non certo per importanza, tra gli studiosi della materia a cui mi sono ispirato è Lorenzo Vidino[77], uno dei massimi esperti in tema di terrorismo islamico e violenza politica
Nel 2018, in collaborazione con Francesco Marone, egli ha dato vita ad uno studio dal titolo “Destinazione Jihad – I foreign fighters d’Italia” che ritengo di sommo valore per poter comprendere appieno il fenomeno radicalizzazione nel nostro Paese.
Come già appurato in precedenza, anche Vidino sottolinea il minore impatto che l’Italia ha dovuto sopportare nell’ultimo quinquennio, sia in termini generali rispetto alla radicalizzazione, sia sotto un profilo prettamente numerico dei combattenti (129) unitisi a Daesh tra il 2011 ed il 2017, riconducibili questi sia ad immigrati di prima generazione, ovvero nati e cresciuti all’estero, sia ad un crescente numero di estremisti autoctoni (homegrown), immigrati di seconda generazione e convertiti di origine italiana.
Nel resoconto vengono snocciolati una serie di dati analitici[78] acquisiti dal Ministero dell’Interno[79], tra cui annovero il sesso (90% uomini), età media (30 anni), provenienza geografica (50% dal nord Africa) dei foreign fighters legati all’Italia nonché, dato a mio avviso di particolare importanza, la loro destinazione finale.
In tal senso, il picco delle partenze registrato nel biennio 2013-2014, ha visto quale teatro di guerra designato la Siria (88,8% del contingente complessivo), mentre la Libia (5,6%) ed Iraq (2,4%) hanno interessato una quota assai marginale del totale; i soggetti recatisi in Siria si sono uniti per la maggior parte a Daesh ed a Jabhat al-Nusra[80], non manca tuttavia una porzione di essi che ha inteso andare ad ingrossare le file dell’Esercito Libero Siriano (ESL)[81].
Ad aprile 2018 un terzo dei combattenti “italiani” risultava essere deceduto, mentre il 20% risultava essere tornato in Europa; fattore che invece, ad ora, ha costituito una costante positiva, è il non coinvolgimento in nessuna azione terroristica compiuta in Occidente.
Vidino, concentrandosi poi sul tema dell’immigrazione ed i suoi riflessi nella presenza di soggetti radicalizzati in Italia, sottolinea come il fenomeno della radicalizzazione possa essere considerato ancora marginale in quanto gli arrivi su larga scala da Paesi a maggioranza musulmana – Nord Africa in particolare – abbiano segnato il loro inizio solo a partire dalla fine degli anni Ottanta, con un ritardo di circa tre decenni rispetto ad altre realtà nazionali del nostro Continente.
Passando poi all’analisi del background familiare dei combattenti partiti dall’Italia, sulla base dei dati ufficiali del Ministero a cui si è prima fatto cenno, lo studio ha evidenziato come il 60% di essi non fossero sposati al momento della partenza, confermando una tendenza che gli studiosi di scienze sociali definiscono “disponibilità biografica” (biographical availability), ovvero l’assenza di vincoli personali (e.g. matrimonio, presenza di figli) quale propellente a prendere parte ad attività anche rischiose; la giovane età di quasi tutti i foreign fighters censiti nel nostro Paese ne è l’ulteriore conferma. Unico dato in controtendenza riguarda le donne, con una percentuale pari al 75% di esse (9 su 12) già sposate al momento della partenza per l’area di conflitto.
Quanto ad ulteriori fattori di nostro interesse, torna poi in auge quello legato alle condizioni economiche, spesso oggetto di diverse visoni da parte degli esperti.
I dati in nostro possesso, pur non consentendoci di stilare un quadro preciso della situazione italiana, evidenziano una preponderanza di soggetti disoccupati e/o impegnati in lavori manuali; scenario dunque compatibile con il basso livello di istruzione registrato nella quasi totalità dei combattenti di cui si sono avute informazioni (81 su 125).
Un altro aspetto che ha riscosso in me grande interesse, è stata l’analisi dei principali fattori favorenti la radicalizzazione di questi soggetti. E’ bene ricordare che il fenomeno, sviluppatosi in Italia solo a partire dagli anni Duemila, non ha mai avuto una assidua frequentazione di luoghi di culto quale elemento caratterizzante, salvo alcune eccezioni come l’Istituto Culturale Islamico (ICI) di viale Jenner a Milano negli anni Novanta.
Tale tendenza, comune a molti Stati europei, è presto spiegata dal massiccio utilizzo di internet grazie a cui numerosi radicalizzati in Italia hanno avuto accesso, laddove non li abbiano essi stessi creati, ad una moltitudine di contenuti a sfondo propagandistico jihadista, partendo dai nasheed[82] sino alle decapitazioni dei prigionieri occidentali.
I già menzionati casi Jarmoune, el-Abboubi e Delnevo forniscono una netta conferma in tale direzione.
E’ altrettanto vero che l’attivismo online in taluni casi non si è esaurito a seguito della partenza per il fronte, caso emblematico è stato quello della convertita Maria Giulia Sergio[83], che nel 2015 dalla Siria professava il suo impegno nello studio del Corano, della lingua araba e disponibile a dare lezioni su internet a gruppi di “sorelle albanesi”[84].
Il caso della giovane originaria di Torre del Greco (NA) mi consente di porre in risalto il compito di indottrinamento e propaganda a cui sovente le donne di Daesh sono state demandate in quanto, per ragioni dottrinali, esse non erano autorizzate a prendere parte al combattimento in prima persona.
Quanto invece ai dati relativi al background criminale dei radicalizzati in Italia partiti per l’arra di conflitto, i dati ufficiali disponibili narrano di un sostanziale equilibrio (53,4% – 44%) tra soggetti incensurati e con precedenti penali che spaziano dai reati contro il patrimonio allo spaccio di sostanze stupefacenti, culminando con individui già in precedenza legati ad attività terroristiche o eversive[85].
Un ultimo aspetto saliente della ricerca di Vidino sottolinea come il percorso di radicalizzazione dei soggetti riconducibili all’Italia, abbia seguito nella maggioranza dei casi percorsi individuali, ciò anche a causa dell’assenza nel nostro Paese di una scena/rete jihadista nazionale ben strutturata; in virtù di ciò la spinta a partire in autonomia verso le aree di conflitto possono essere state maggiori. Valida eccezione a quanto appena riportato è stata la branca meranese (smantellata nel 2015) afferente una vasta rete transnazionale dal nome “Rawti Shax”[86], al cui vertice vi era Najmaddin Faraj Ahmad[87], meglio conosciuto come Mullah Krekar, arrestato in Norvegia il 30 novembre 2016 per poi essere rilasciato a seguito della revoca dell’ordinanza di custodia cautelare nei suoi confronti da parte italiana.
A questa rete è appartenuto anche Eldin Hodza[88], foreign fighter kosovaro stanziatosi in Italia.
Se da un lato le politiche interne sulle espulsioni stanno dando buoni frutti, un altro versante su cui gli assetti europei di intelligence dovranno focalizzarsi nel prossimo futuro, sarà quello dei combattenti di ritorno all’area di conflitto.
Essi, facendo riferimento a quelli provenienti dall’area Schengen e dai vicini Balcani, nonostante le comprensibili difficoltà nell’operarne un conteggio preciso, possono essere quantificati in poco più di tremila unità; i returnees europei, allo stato attuale risulterebbero essere circa 1700 (400 nei Balcani).
Tale fenomeno porta in dote un alto indice di rischio determinato essenzialmente dal profilo stesso dei reduci, non solo in qualità di potenziali veicoli di propaganda e proselitismo, ma anche portatori di esperienza bellica e di know-how nell’uso di armi ed esplosivi.
Il loro spostamento viene favorito attraverso reti di facilitatori riconducibili a Daesh, ancora in grado di disporre di ramificati collegamenti extra-regionali; ciò sta permettendo ai combattenti non solo di rientrare in Europa, ma anche di ridispiegarsi in quei Paesi in particolare (e.g. Afghanistan) che, per criticità strutturali o situazioni di endemica instabilità, finiscono con l’apparire attrattivi a quanti sono interessati a proseguire il jihad.
Le criticità correlate ai temi dei combattenti di rientro in Europa e degli extremist travellers sono state sottolineate anche in occasione dell’annuale conferenza OSCE sul contrasto al terrorismo “The reverse flow of foreign terrorist fighters: challenges for the OSCE area and beyond”[89], in cui è emersa la necessità di rafforzare i controlli frontalieri, intensificare la collaborazione internazionale – in particolar modo lo scambio di informazioni operative – assicurare il costante raccordo con i database dell’Interpol, vigilando sui rischi collegati alla possibile infiltrazione di jihadisti nei flussi dell’immigrazione illegale,[90] fenomeno questo da cui l’Italia emerge come uno dei Paesi maggiormente interessati.
In ultimo, prima di passare a trattare nel concreto il contesto kosovaro prima, e d’Oltremanica poi, vale la pena menzionare brevemente il progetto posto in essere nel febbraio 2017 per volere dell’allora Ministro dell’interno Marco Minniti: il Patto nazionale per un Islam italiano.
Esso si propone quale “espressione di una comunità aperta, integrata ed aderente ai valori e principi dell’ordinamento statale”[91] tra lo Stato e le principali associazioni islamiche in Italia, rappresentative di circa il 70% dei musulmani che vivono nel nostro Paese. Al centro del progetto vi sono molteplici obiettivi, tra di essi cito:
- la formazione di Imam e guide religiose, misura propedeutica alla creazione di un vero e proprio albo degli Imam;
- una maggior collaborazione con le associazioni islamiche e con le ONG per la formazione di Imam certificati, facendo sì che essi diventino un punto di forza per combattere la radicalizzazione.
Ciò in quanto non è infrequente la presenza, anche all’interno delle carceri italiane, di soggetti carismatici che si autoproclamino Imam.
Essi, facilitati in ciò dalla penuria di tali figure, guidano la preghiera e forniscono sostegno religioso a tutti coloro che ne hanno bisogno.
L’incontro avvenuto il 16 febbraio 2018 all’interno della Grande Moschea di Roma tra Minniti e Khalid Chaouki[92] (figura 7) ha rappresentato senz’altro un buon punto di partenza nel delicato percorso di integrazione delle comunità musulmane che l’Italia (ed il mondo occidentale in genere) dovranno giocoforza affrontare. Che sia quello o giusto o meno, sarà il tempo a dimostrarlo.
Figura 7 – Marco Minniti e Khalid Chaouki immortalati insieme all’interno della Grande Moschea di Roma in occasione del convegno “Musulmani italiani insieme per una società coesa”.
2.2 RADICALIZZAZIONE ED ESTREMISMO IN KOSOVO
In questo capitolo, che sino ad ora ha avuto come fulcro il tema della radicalizzazione delle seconde generazioni in Europa, con periodici richiami ad alcune specifiche nazioni, e che verterà in ultimo sulla particolare situazione britannica, ho voluto dedicare un analogo approfondimento al contesto balcanico a noi vicino, con occhio particolarmente vigile sulla realtà kosovara.
Esso si propone quale rivisitazione delle esperienze personali dello scrivente, arricchite dalla rielaborazione di alcune ricerche, tra cui spicca un dettagliato studio redatto da Adrian Shtuni dal titolo “Dynamics of radicalization and Violent Extremism in Kosovo”[93].
E’ opportuno specificare sin dall’inizio che la problematica relativa alla radicalizzazione islamica in Kosovo, alla data di oggi, riguarda in termini generali ancora una fetta minuscola della popolazione totale del Paese governato dal Presidente Hashim Thaci.
Ritengo essenziale porre sotto i riflettori la realtà magmatica ed in costante mutamento, benché non legata a doppio filo alla tematica seconde generazioni, di uno Stato autoproclamatosi indipendente il 17 febbraio 2008 e riconosciuto tale, allo stato de quo, da 115 su 193 membri ONU, distante poco meno di un’ora di volo dalle coste pugliesi e che, se non adeguatamente monitorato, corre il rischio di divenire a medio termine fucina di una nuova generazione di radicalizzati nel cuore dell’Europa.
I Balcani sono da sempre una linea di collegamento tra Europa ed Asia e sono storicamente una regione in cui si sono intersecate, e contrastate, ideologie e sfere d’influenza.
In tale contesto va da sé che in Kosovo, l’Islam sia una delle principali eredità della lunga dominazione ottomana ed esso, con una percentuale superiore al 90%, è senza dubbio il Paese con la più alta percentuale di cittadini musulmani in tutta la regione balcanica.
Dopo la Guerra Fredda, diversi attori internazionali hanno riversato ingenti risorse per restaurare i legami con la regione e guadagnare nuova influenza. In particolare, sforzi sono stati profusi tramite enti caritatevoli del Medio Oriente come il saudita al-Haramian Islamic Foundation (AHIF)[94], spesso infiltrati da organizzazioni estremiste violente, allo scopo di far sviluppare una forma ultra-conservativa (di stampo wahabita) dell’Islam; tali condotte, inizialmente adottate dagli Stati che affacciano sul Golfo Persico e dalla Turchia, si sono intensificate dopo il drammatico conflitto del 1996-1999.
Ciò ha fatto sì che negli anni passati, in un processo che non pare ancora arrestarsi, alla costruzione di centinaia di moschee su tutto il territorio kosovaro si sia affiancata la formazione di centinaia di giovani kosovari in età scolare in istituzioni religiosi mediorientali; tutto ciò a fare da cornice ad una estesa pubblicizzazione delle scuole coraniche, sovente gestite da soggetti fondamentalisti locali[95].
Uno dei fattori che ha reso il Kosovo terreno fertile per queste organizzazioni e nuova casa per il fenomeno della radicalizzazione, va senz’altro anche ricercato in un mix che ricomprende aspettative sociali frustrate, condizioni di vita misere della popolazione nonché, venendo ai giorni nostri, la dilagante e crescente sfiducia nei confronti della corrotta classe politica, come anche certificato dallo studio portato avanti dall’istituto “Transparency International” che ha posto il Kosovo al 93° posto della classifica mondiale del Corruption Perception Index stilato nel 2018[96] con punteggio di 37/100.
Tutto ciò ha consentito all’Islam di ricoprire un ruolo politico in grado di porre le basi per la creazione di una identità sociale basata sul credo religioso, nonché poter intraprendere un percorso che porti a dare vita alla Umma, concetto ormai a noi noto.
E’ bene allora iniziare a snocciolare alcune informazioni utili ad affrontare la tematica “Kosovo” sotto un profilo analitico.
Dati ufficiali del 2016 hanno certificato che, a partire dal 2012, almeno 314[97] cittadini kosovari sono partiti alla volta di Siria ed Iraq (il 18% di essi, risulta essere morto in combattimento), di questi quasi settanta circa erano donne e bambini, dunque non combattenti. Ciò deve essere oggetto di profonda riflessione in quanto tali numeri, posti a confronto con la popolazione totale (poco meno di due milioni di abitanti) rende il Kosovo una delle aree maggiormente interessate dal fenomeno dei foreign fighters in Europa.
Citando ancora alcuni dati della ricerca di Shtuni, emerge come la fascia d’età degli uomini kosovari partiti per il fronte siro-iracheno sia quella 21-25 anni e che, in totale, il 45% di essi siano tornati a casa; una percentuale di gran lunga maggiore se confrontata con quella delle donne rientrate (solo il 13%), che trova tuttavia agevole spiegazione da un lato nelle difficoltà che le donne hanno ad abbandonare da sole l’area teatro di conflitto, dall’altro nell’obbligo al quale esse devono spesso tener fede, ovvero risposarsi con un altro combattente di Daesh qualora rimaste vedove.
Quanto alle municipalità kosovare che hanno “rifornito” il contingente dei foreign fighters, i due maggiori serbatoi sono stati, con circa il 25% del totale, la capitale Prishtina e Prizren, che sono del resto le due città più popolose dell’intero Paese.
Figura 8 – Tasso di presenza di foreign fighters nelle municipalità kosovare. Nell’area sud-orientale, in coincidenza con quelle di Kacanik e Hani i Elezit, si può notare la maggiore concentrazione di combattenti fighters rispetto al resto del Paese.
Tuttavia, dati alla mano, non sfugge come altri comuni ben più piccoli e meno popolosi di quelli sopra citati, abbiano negli anni fornito un contributo di gran lunga maggiore in termini numerici; stiamo parlando delle località di Hani i Elezit e Kacanik (figura 8), situate nell’area sud-orientale del Paese, a ridosso del confine con la Macedonia.
Solo per fornire un termine di comparazione, basti pensare che questi due piccoli centri hanno nel complesso un tasso di presenza di foreign fighters più che triplicato rispetto, ad esempio, alla località belga di Sint-Jans-Molenbeek[98], spesso descritta come uno dei più prolifici focolai jihadisti d’Europa.
Le ragioni di questa particolare concentrazione del fenomeno radicalizzazione risiede nella massiccia opera di reclutamento posta in essere da network estremisti che da circa quindici anni operano lungo il confine con la Macedonia, la cui capitale Skopje peraltro, risulta essere tra le cinque località al mondo ove è più alta la presenza pro-capite di foreign fighters.
Senza comunque deviare dal main focus di questo paragrafo, come già accennato in apertura, una delle concause favorenti il fenomeno della radicalizzazione risiede – nonostante il miglioramento delle condizioni di vita registrato negli ultimi anni – nella sfiducia verso il Governo, largamente corrotto e percepito come incapace di soddisfare le istanze più elementari della popolazione. Altri fattori poi come l’altissimo tasso di disoccupazione giovanile e la promessa di somme in denaro per unirsi a Daesh – o anche solo per farsi crescere lunghe barbe (senza baffi) nel caso dei ragazzi, ed indossare l’hijab per le ragazze a scopo propagandistico – stanno facendo il resto.
Tutto ciò ha recato grande giovamento alla popolarità delle istituzioni religiose, coadiuvate in questo dagli investimenti di diversi Stati islamici (Qatar ed Arabia Saudita in primis) che storicamente usano la religione quale strumento di politica estera, e che hanno finanziato la costruzione di circa 240 moschee, promuovendo il primato di una identità religiosa ed una condotta di vita islamica di stampo wahabita[99], in contrasto con quella che ancora allo stato attuale è la tradizione religiosa in Kosovo, in larghissima parte più vicina allo stile di vita occidentale.
Gli investimenti delle organizzazioni di stampo islamico hanno avuto quale scopo principale quello di fornire conforto spirituale ed un senso di comunità, hanno nel tempo piantato i semi di una nuova identità collettiva formata sul modello dell’Islam politico, sfruttando come cassa di risonanza il conflitto in atto negli ultimi anni in Siria ed Iraq, esperienza traumatica vissuta solo pochi anni prima dallo stesso popolo kosovaro (al 90% musulmano), dunque capace di toccare le corde degli animi più giovani e vulnerabili.
Nel corso del tempo, gli imam radicali hanno perseguito l’intento di canalizzare la percezione dell’odio nei confronti dell’Islam e raccogliere il sentimento di percepita oppressione nei confronti dei Musulmani per far rinascere quel già menzionato concetto di Umma (comunità islamica sovranazionale).
Le aggressioni e gli atti di violenza nei confronti di membri della Comunità, a prescindere dalla loro ubicazione geografica, vengono perciò lette come un richiamo ai soldati a proteggerla e ad operare secondo il volere di Allah; la violenza viene a sua volta usata come strumento di difesa ed inteso come “jihad umanitaria”.
A conferma di ciò è utile citare lo stralcio di una intervista, fatta nei primi mesi del 2016 ad un combattente kosovaro di Daesh appena ritornato, il quale dichiarava: “Ho deciso di partire per la Siria per ragioni umanitarie […] non sono partito perché ero disperato […] e non posso negare il ruolo della religione. Sacrificare sé stessi per proteggere qualcuno indifeso è una nobile causa”.
Il legame tra guerra in Siria e conflitto balcanico di fine anni Novanta a cui si è in precedenza fatto cenno, è allo stesso modo chiaro nel breve stralcio dell’intervista fatta ad un secondo giovane cameriere, partito per la Siria nel 2014: “Ho passato molto tempo a guardare i video delle crudeltà del regime di Assad[100] nei confronti dei bambini siriani. Volevo combattere contro quel criminale. Anch’io ho vissuto l’esperienza della guerra. Durante la guerra del Kosovo ero troppo giovane per combattere, e questo mi ha fatto sentire incompleto”.
In un altro video comparso sulla piattaforma Youtube nel gennaio 2014, Lavdrim Muhaxheri[101] (figura 9), uno dei più rappresentativi foreign fighters e reclutatori di etnia kosovara minacciava: “Noi lotteremo per stabilire lo Stato Islamico in Iraq, Siria ed ovunque in giro per il mondo. O raggiungeremo il nostro obiettivo o voi, miscredenti, camminerete sui nostri corpi morti. Io mi rivolgo a voi Musulmani, quando vi sveglierete?”.
Figura 9 – Lavdrim Muhaxheri in un’immagine di repertorio.
Come ovvio, i 314 cittadini kosovari che hanno in questi anni raggiunto il fronte siro-iracheno sono solo la parte più visibile del problema, tuttavia un’analisi più approfondita non deve porre in secondo piano il vero motore del fenomeno radicalizzazione nella regione balcanica e che trova puntuale riscontro nelle tre dichiarazioni sopra parzialmente riportate.
La disseminazione online di video e scritti dal contenuto ideologico estremista si è sostanziata nel tempo tramite pagine Facebook tra cui ad esempio “Halal Channel” gestito da server ubicati a Pristina da alcuni seguaci di Daesh, che raggiunse gli ottomila followers per poi essere chiusa nel luglio 2016, o ancora “The White Minaret” (quattromila seguaci), anch’essa gestita nella capitale kosovara e chiusa nel giugno 2016.
Giocando sulle misere condizioni di vita e facendo leva sulla voglia di riscatto di tanti giovani musulmani, la macchina comunicativa di Daesh, proponendosi come mezzo per raggiungere tale scopo, ha nel tempo pubblicato vari video, tra i più salienti uno datato 2015 dal titolo “Honor is jihad. A message to the people of the Balkans”[102].
Queste piattaforme, gestite e seguite da uomini madrelingua albanese e provenienti da vari strati sociali ed economici, al netto di quanto sino ad ora scritto, simboleggiano l’esistenza di una comunità virtuale che trascende dai confini geografici e funge essa stessa da carburante ai processi di radicalizzazione e reclutamento i quali, come avvenuto anche in altre realtà europee (e.g. Belgio), a volte riguardano non solo singoli soggetti, bensì interi nuclei familiari particolarmente vulnerabili.
Mio personale pensiero riguardo alla vicina realtà kosovara trova collocazione nella convinzione che, sebbene Daesh (e di conseguenza le partenze verso il campo di battaglia siriano), inteso come entità territoriale e milizia armata abbia fatto registrare la propria fine alcuni giorni orsono, le criticità legate all’azione di proselitismo e radicalizzazione comunque ancora in atto da parte di esponenti islamici radicali di tutto il globo terracqueo sono ben lontane dall’essere risolte.
Nondimeno, nei mesi/anni a venire, particolare attenzione dovrà essere rivolta alla presenza di soggetti “invisibili”, che hanno optato per rimanere fuori dai radar delle Forze di Polizia. Fattore ancor più nevralgico sarà innanzitutto l’individuazione, con successiva gestione e de-radicalizzazione dei foreign fighters di ritorno, problematica da cui il Kosovo sarà uno dei Paesi maggiormente interessati e che, al momento, nonostante i tanti sforzi profusi dalle istituzioni locali e dalla Kosovo Police (KP), non sembra essere in grado di affrontare adeguatamente.
Per concludere, a mio avviso, il rischio principale è quello di vedere trasformato il Kosovo in una sorta di zona franca per i jihadisti pronti a colpire l’Europa.
2.3 LA SITUAZIONE NEL REGNO UNITO
Analizzate in termini generali le criticità presenti nel vecchio Continente e dato uno sguardo specifico al vicino e colpevolmente sottovalutato teatro kosovaro, ritengo fondamentale riservare il giusto spazio alla trattazione del Regno Unito che, assieme alla Francia, è una delle macro-aree continentali maggiormente colpite in termini di perdita di vite umane e che con maggiore veemenza sta affrontando le sfide derivanti dai processi di radicalizzazione islamica in atto da un trentennio.
I giovani musulmani di seconda generazione vengono percepiti come facili prede del radicalismo religioso, portatore di idee estremiste e violenza. La rapida ascesa (seppur con recente frammentazione) di cui è stato protagonista Daesh, sta alimentando il giustificato timore che tutti i combattenti partiti per il teatro di guerra siro-iracheno, possano far rientro e portare attacchi nel Paese.
La lettura corretta del fenomeno radicalizzazione in United Kingdom – U.K. (così chiamata d’ora in avanti per comodità) passa, e non potrebbe essere diversamente, da una comprensione esaustiva del rapporto che il Governo ha saputo o meno instaurare con la Comunità musulmana ivi attestatasi.
A premessa va detto che, nonostante la sostanziale diversità di ragioni ideologiche e sociali che hanno animato le Brigate Rosse nell’Italia degli anni Settanta, anche oltre la Manica ci si è dovuti in passato interfacciare con una specifica forma di terrorismo che ha visto la sua incarnazione nell’Irish Republican Army (IRA).
Prima del 2000 infatti, la maggiore minaccia con la quale gli Apparati della terra d’Albione si sono confrontati era portata dai lealisti e repubblicani irlandesi, animati dall’obiettivo della secessione per l’Irlanda del Nord da U.K. ed autori di una robusta campagna di violenza ed attentati che, iniziati alla fine degli anni Sessanta, hanno avuto termine solo grazie alla ratifica del celebre Good Friday Agreement il 10 aprile 1998.
Venendo al tema della radicalizzazione in U.K. oggetto di questo paragrafo, come già avvenuto in precedenza è bene osservare preliminarmente che esso, seppur in preoccupante aumento, riguarda comunque una infima porzione della popolazione di fede islamica presente nell’area geografica di nostro interesse.
Una definizione di quello che i Britannici considerano estremismo/radicalismo, viene offerta da un documento redatto nel giugno 2011 e facente parte del progetto “PREVENT”[103]: “l’opposizione verbale o attiva ai valori britannici fondamentali che includono la democrazia, il principio di legalità, la libertà individuale, il rispetto e la tolleranza di differenti fedi e credo, l’augurio di morte rivolto ai membri delle nostre Forze Armate, qui o oltremare”.
Nel caso di specie britannico, un’analisi approfondita sul tema non può esimersi dal trattare le dinamiche alla base dei poderosi e crescenti movimenti migratori nel Paese iniziati negli anni Cinquanta-Sessanta del secolo passato, generati in prima battuta dalla ricerca di manodopera.
A tal proposito, con l’intento di capire i futuri sviluppi del fenomeno ed i riflessi che esso potrà avere in campo sociale, viene in aiuto una ricerca condotta dallo statunitense Pew Research Centre (PRC) con sede in Washington, fatta propria da un articolo[104] apparso sul quotidiano inglese The Telegraph nel novembre 2017.
Nell’ottica ormai scontata di un aumento dei cittadini di religione musulmana nell’arco dei prossimi trent’anni, la corrispondente riporta una previsione secondo la quale, seguendo l’andamento medio dei flussi migratori in U.K., il loro totale potrebbe passare dai quattro milioni del 2016 ai tredici del 2050, ovvero il 16,7% della popolazione totale.
Alla base di tale previsione vi sono una serie di concause – alcune comuni a tutta l’Europa occidentale – tra cui spiccano senz’altro il forte gap di nascite esistente tra Musulmani (2,9 figli pro-capite) e non-Musulmani (1,8) nonché la scelta di U.K. come meta di migranti economici e richiedenti asilo provenienti per lo più dalla Siria, o comunque da aree a maggioranza musulmana; va inoltre registrato che il 43% di migranti giunti in U.K. nell’arco temporale ricompreso tra il 2010 ed il 2016, erano Musulmani.
Essenzialmente, in U.K. la popolazione musulmana sta crescendo in termini numerici più velocemente di quella generale, con una percentuale di ragazzini under 15 a rappresentare un terzo del totale[105] e, con specifico riferimento ai soggetti nati all’estero, una percentuale del 20%[106] per quanto attiene quelli di fede islamica.
Detto dell’aspetto demografico, non meno saliente è una attenta valutazione dei fattori sociologici che possono nel tempo agevolare tali forme di estremismo; in tal senso un primo spunto di riflessione sulla tematica radicalizzazione nell’area mi viene offerto dalla ricerca condotta dal Fourth National Survey of Ethnic Minorities (FNSEM)[107] che circa dieci anni fa analizzava l’humus sociale e le scelte caratterizzanti i vari ambiti della popolazione immigrata, categorizzata nello specifico in musulmana e non-musulmana.
Da subito l’analisi si è posta l’obiettivo di confutare o meno la tesi relativa ad una maggiore resistenza al processo di integrazione da parte della componente musulmana rispetto ad altre minoranze presenti in U.K.
Lo studio ha pertanto posto l’accento su come il 79% del campione dei cittadini musulmani abbia identificato la propria religione quale guida su come condurre la propria vita, mentre il 70% di essi non vedrebbe di buon occhio il matrimonio di uno dei propri familiari stretti con un uomo/donna di etnia bianca/europea; allo stesso modo non viene trascurato il dato inerente l’uso della lingua inglese da parte dei Musulmani, grandemente inferiore a quello dei non-Musulmani.
Un ulteriore fattore di disomogeneità tra Musulmani e non, con i primi gravati di un livello culturale mediamente più basso, mi permette di riproporre una considerazione avanzata nell’ambito di questa ricerca; essa ha infatti ha evidenziato come al contrario, i Musulmani in U.K. dotati di un più alto livello di educazione e perciò inseriti in contesti sociali di alto livello e con maggiori finanze a loro disposizione, vedono rafforzarsi ancor più la loro identità religiosa. Essi peraltro, dinanzi al paradosso che li vede spesso parte integrante di un ambiente lavorativo caratterizzato da forte integrazione interetnica, ritrovandosi in quota minoritaria, reagiscono rafforzando il loro senso di appartenenza religiosa.
Per di più, l’attenuazione dell’attaccamento alla propria cultura di origine, direttamente proporzionale al periodo più o meno lungo passato dagli immigrati non-musulmani nel Paese, è ancora una volta molto più lento per i Musulmani, sia di prima che seconda generazione (figura 10).
Riservando ancora un cenno al tema immigrazione ed alla sua ipotetica correlazione con lo svilupparsi di forme di estremismo in determinate aree, ho trovato di particolare interesse un articolo[108] del The New York Times insistente sulla specifica realtà di Birmingham, la seconda città inglese per popolazione dopo la capitale Londra, ma molto più povera di quest’ultima, abitata da 1,1 milioni di abitanti ove più del 20% di essi si professa di religione islamica.
Figura 20 – Il grafico, che prende in esame le quattro categorie di Musulmani e Non-musulmani (prime e seconde generazioni) dimostra la lentezza della decrescita del senso di identità religiosa riscontrata nei soggetti Musulmani rispetto alle altre etnie, a fronte degli anni passati in U.K. Nel caso delle seconde generazioni, la casistica si allarga ai soggetti nati nel Paese.
Dato oggettivo riguarda non solo il cospicuo gruppo di militanti islamisti detenuti (un decimo del totale in U.K. proviene da Birmingham o sue periferie) e collegati agli attacchi alle Twin Towers datati 11 settembre 2001 ed agli attentati di Bruxelles del 2016, ma anche l’alto numero di essi che, nati o semplicemente transitati nella contea delle West Midlands, hanno fatto sì che nel marzo 2014 Birmingham finisse al centro della cosiddetta operazione “Cavallo di Troia”, piano tuttavia mai realmente accertato, suppostamente ideato da un gruppo di estremisti islamici salafiti, il cui obiettivo sarebbe stato infiltrare una ventina di scuole statali sostituendo gradualmente gli insegnanti britannici.
Elementi suffraganti, se non la veridicità quantomeno l’esistenza di questa criticità, giungono dalle parole dell’ex Procuratore Capo Nazir Afzal il quale ha nel recente passato affermato che la scuola di pensiero estremista trova terreno fertile in Birmingham piuttosto che in altre regioni del Paese[109].
Sintomi del particolare concentramento di elementi radicali nell’area possono essere considerati, tra gli altri, due soggetti di spicco quali Abdelhamid Abaaoud[110] e Mohamed Abrini[111], rispettivamente il primo organizzatore degli ormai tristemente noti attacchi parigini del 2015, il secondo membro del gruppo autore degli attentati di Bruxelles l’anno successivo. A riprova di ciò vale la pena ricordare che Birmingham è stata anche la base di Rabah Tahari (Abu Musab), reclutatore di Mohamed Emwazi “Jihadi John”[112], conosciuto questo col nome di battaglia Abu Muharib al-Muhajir, ucciso da un’offensiva aerea statunitense nei pressi della città siriana di al-Raqqa il 13 novembre 2015.
Ovviamente, linkare Birmingham quale uno degli hotbeds del radicalismo islamico in U.K. è quanto di più lontano questa mia ricerca si propone di fare, tuttavia alcune considerazioni in merito vanno approfondite, se è vero come è, che gli stessi membri della pacifica comunità islamica cittadina non hanno nel recente passato negato che vi possa essere un collegamento tra le due cose, indicando alle radici del fenomeno la povertà e l’abuso di sostanze stupefacenti, imputate di rendere i giovani facile preda dei reclutatori jihadisti, soliti operare come gangs.
Birmingham, come ha suggerito Mohammed Ashfaq direttore di Kikit, organizzazione che aiuta i giovani ad uscire da problematiche legate alla droga ed all’estremismo ideologico, rappresenta il luogo perfetto per mantenere un basso profilo; egli cita il quartiere di Sparkbrook, caratterizzato peraltro da una netta predominanza di cittadini musulmani, quale esempio calzante di luogo ideale per un militante che voglia passare inosservato e/o nascondersi dalle Autorità.
Non meno preziose ed utili alla comprensione e contrasto alla piaga del fondamentalismo di matrice islamica sono le parole di David Videcette, ex funzionario dell’antiterrorismo britannico, che sottolinea come essa vada considerata sotto una molteplicità di fattori, non ultimo quello legato alla condizione sociale ed alla vulnerabilità dei possibili radicalizzandi.
In parziale disomogeneità con le teorie dei francesi Roy e Kepel, egli pone anche la sfera economica tra le concause dal maggior peso specifico nella radicalizzazione di molti giovani musulmani o convertiti, attratti da figure carismatiche come quelle di Anjem Choudary (oggetto di successiva trattazione) che, afferma Videcette, “gestiscono i network jihadisti come la mafia”.
Choudary stesso è stato solito, in passato, organizzare veri e propri bookshops finalizzati alla vendita di letteratura estremista, organizzando tour itineranti aventi come oggetto preghiere d’odio, ed usando le moschee per raccogliere fondi. Uno dei suoi luoghi prediletti a Birmingham era Coventry Road, area associata ad una visione radicale dell’islam, ove egli giungeva a bordo di grandi furgoni di colore scuro per pregare e distribuire volantini. L’ex funzionario di Scotland Yard poi, donandoci un tema su cui riflettere, afferma che la corretta equazione alla quale dovremmo affidarci non vede il terrorismo quale sinonimo di religione, bensì di soldi, indicando questi ultimi come uno dei vari motori della galassia jihadista.
La lunga scia dei predicatori islamici in U.K., tuttavia, segna le proprie origini già verso la metà degli anni Ottanta quando soggetti come Abu Hamza al-Masri, Abu Qatada, Omar Bakri Mohammed[113] e Abdullah el-Faisel, hanno dato il via alle loro predicazioni fondate su un Islam radicale nelle moschee londinesi di Finsbury Park e di Ibn Taymiyya, proponendo un’interpretazione dell’Islam più stretta e pura, in conformità ai dettami del profeta Maometto e dei suoi Compagni ed in cui, giovani all’epoca di seconda che non si sentivano reale parte integrante della società britannica, potessero trovare sostegno e conforto.
Volutamente propedeutici a creare nelle menti dei giovani uno strappo con la società che li circondava, i capisaldi nelle predicazioni dei sopracitati erano, tra le altre, la demonizzazione degli alcolici, della prostituzione e della pornografia, indicate queste come sintomatiche della disintegrazione della politica e dell’ordine sociale[114].
Ritorna dunque in auge uno dei concetti già visti nel primo paragrafo di questo capitolo e propri del Salafismo politico, ovvero la suddivisione assolutista in Bene e Male.
A questi giovani, fomentati in un periodo storico in cui si sono susseguite la Guerra del Golfo prima ed il conflitto bosniaco poi (letti come attacchi all’Islam), veniva offerta la possibilità di seguire la forma più pura dell’Islam, di essere i più retti, di seguire il tawhid (monoteismo) in contrapposizione ai miscredenti politeisti[115]; una visione manichea ottimamente sintetizzata nel breve stralcio di un’intervista fatta ad Omar Bakri Mohammed il 16 aprile 2012:
“Io credo nello scontro di civiltà, è inevitabile. Questo è parte del mio credo […] Io sono a favore dello scontro di civiltà perché noi crediamo che la verità e la falsità devono confrontarsi l’una dinanzi all’altra”.
Un vero e proprio punto di svolta nella proliferazione del fenomeno e nel numero sino a quel momento esiguo di giovani che i predicatori ultra-conservatori erano riusciti a far radicalizzare, lo si è registrato nel 1988, anno in cui venne pubblicato il libro “I versi satanici” dell’autore indiano naturalizzato britannico Ahmed Salman Rushdie, opera alludente alla figura del profeta Maometto e ritenuta blasfema dai Musulmani.
Tale episodio, che provocò una fatwa[116] da parte dell’ayatollah Ruhollah Khomeini, pose dinanzi ad un bivio l’allora Primo Ministro britannico Margaret Hilda Thatcher che, nonostante una richiesta di impedire la diffusione del libro in U.K. da parte della Comunità musulmana, non la esaudì sulla base del principio della libertà di pensiero e di parola.
Il messaggio derivante, distorto e manipolato ad arte dalle frange islamiste più radicali con l’intento di crearne una questione politica, produsse nella maggioranza dei Musulmani britannici la percezione che il Paese stesso in cui vivevano, come anche alcuni corrotti Governi arabi, fosse in realtà cospiratore contro l’Islam.
Negli anni che hanno traghettato verso il nuovo millennio non sono mancate ulteriori frizioni come quando, nel 1992, durante la guerra di Bosnia, il rifiuto da parte del Governo britannico di inviare le proprie truppe nell’area di conflitto è stato visto dai Musulmani come una tacita e passiva accettazione della pulizia etnica perpetrata dai Serbi.
Ciò, benché in forma ridotta se comparata alle ondate di foreign fighters che hanno ingrossato le fila di Daesh nell’ultimo quinquennio, ha originato un primo esodo di combattenti verso i Balcani, pronti a correre in aiuto dei loro fratelli musulmani di Bosnia.
L’immobilismo dell’allora Governo nei confronti di dette dinamiche, unito alla contestuale ascesa di al-Qaida, ha creato i presupposti per l’adozione de Anti Terrorism Crime and Security Act 2001 (ATCSA), a sua volta discendente del Terrorism Act 2000, ovvero una legislazione specifica in grado di gestire la crescente minaccia posta dalle attività dei terroristi islamici.
Esso, ad esempio, ha registrato l’introduzione di nuovi strumenti quali la carcerazione per periodi di tempo indefiniti di cittadini stranieri sospettati di terrorismo internazionale e maggiori poteri di investigazione e ricerca alle Forze di Polizia in relazione a reati inerenti il terrorismo.
Figura 11 – Riquadro raffigurante alcune misure adottate dal Governo britannico di Sua Maestà nel Terrorism Act risalente all’anno 2006.
Il documento è stato poi perfezionato negli anni a seguire tramite l’introduzione di nuovi strumenti quali la messa al bando della “glorificazione del terrorismo”, nuove misure nei confronti di soggetti impegnati nella preparazione di attentati, attività addestrative o disseminazione di pubblicazioni a sfondo terroristico (figura 11), estendendo altresì il periodo di detenzione, senza cauzione, per i soggetti sospettati di terrorismo, da 14 a 28 giorni[117].
Concludendo, prima di entrare nel vivo della trattazione del fondamentalismo di matrice islamica in U.K., corre l’obbligo di fare cenno al documento presentato nel 2006 al Parlamento britannico dal Primo Ministro Tony Blair, e dal Segretario di Stato per gli Affari Interni, Charles Clarke.
I punti 25 e 26 del documento, dedicati all’esplicazione della “Minaccia”, consentono di trovare un adeguato riscontro a quanto osservato nel primo capitolo in cui si è ben distinta la figura del Musulmano che segue l’Islam in modo pacifico (la stragrande maggioranza), da coloro (pochi) i quali travisano il contenuto del Testo Sacro per giustificare la loro violenza[118]:
- “Il Governo mantiene sotto stretta osservazione il range dei potenziali minacce terroristiche che potrebbero derivare in U.K., ai nostri cittadini ed agli interessi oltremare. La principale minaccia terroristica giunge attualmente da individui radicalizzati che stanno utilizzando un’interpretazione distorta e non rappresentativa della fede islamica per giustificare la violenza. Tali persone sono da considerarsi terroristi islamici. Questo documento si focalizza su tale minaccia e sulle modalità di reazione ad essa”.
- “Qualsiasi sia la risposta a questa minaccia, è importante riconoscere che i terroristi che usano queste letture distorte dell’Islam rappresentano una piccola minoranza all’interno delle comunità musulmane […]”.
Proseguendo dunque nell’analisi della questione radicalismo islamico in U.K., essa non può essere scissa dal fattore Daesh che, servendosi di un’astuta campagna mediatica iniziata nel 2014, si è principalmente rivolto a giovani ai margini promettendo loro avventura, donne, possibilità di ottenere casa, cibo ed elettricità gratis una volta giunti nella terra dell’autoproclamato Califfato. Nondimeno, esso ha fatto breccia negli animi di tanti giovani convertiti, di seconda e terza generazione, ancora impegnati nella ricerca di una loro precisa identità musulmana o ancora, laddove già radicalizzati, in quelli che sono ancora in cerca di una spinta finale.
Vi è poi una terza categoria minoritaria toccata dal messaggio jihadista, che ricomprende coloro che, dotati di un’altissima consapevolezza religiosa, pur dimostrandosi impermeabili al messaggio ed alle promesse di Daesh in virtù del rispetto della religione in cui credono, credono nella causa.
L’ex Primo Ministro David Cameron ha ben inquadrato la questione in un suo discorso pubblico del 15 luglio 2015, così definendo questi giovani: “Loro stanno guardando video che ergono Daesh a Stato pionieristico nel mondo”.
Sulle orme dunque di quanto avvenuto negli ultimi anni nell’emisfero occidentale del pianeta, anche U.K. non si esime dal legame osmotico in essere tra radicalizzazione islamica e Daesh. A mio modo di vedere, gli elementi che cooperano in tale direzione vanno ricercati in tre macro-aree identificabili nella martellante azione di proselitismo posta in essere dai predicatori d’odio, nella massiccia diffusione online di materiale dal contenuto jihadista e, terzo fattore ma non certo ultimo per importanza, nell’infiltrazione di elementi carismatici dall’ideologia radicale all’interno delle carceri del Paese.
Quanto alla prima, senza voler riportare la macchina del tempo troppo indietro, incarnazione esemplare contemporanea risponde al nome del prima citato Anjem Choudary.
Egli, nato 52 anni fa da genitori pakistani nel quartiere di Welling, area sud-est di Londra, ha iniziato il proprio processo di radicalizzazione durante gli anni Novanta, a seguito dell’incontro con il predicatore siriano Omar Bakri Mohammed[119] nella moschea di Woolwich, assieme al quale ha poi fondato la formazione di stampo salafita jihadista al-Muhajiroun che si proponeva di unire tutti i Musulmani sparsi nel mondo ed imporre ovunque la Sharia[120].
Choudary, spesso rimasto borderline con le sue prediche aggressive al limite della legalità, nel 2013 è stato al centro di infuocate polemiche dopo l’assassinio del venticinquenne sergente del British Army, Lee Rigby, avvenuto il 22 maggio dello stesso anno ad opera di Michael Adebolajo e Michael Oluwatobi Adebowale, entrambi vicini al gruppo al-Muhajiroun.
Nel caso di specie, Choudary mai espresse condanna riguardo l’azione omicida dei due che invece, secondo lui, sarebbero andati in Paradiso. Tali affermazioni trovarono peraltro un’autorevole sponda, nel panorama radicale, nelle parole di Bakri che non esitò a definire Adebolajo un eroe in quanto “non ha ucciso civili, ma ha vendicato il popolo (n.d.r. musulmano) assassinando un militare, responsabile della morte dei suoi fratelli”[121].
Il credo in una forma di Islam radicale e deviata non affiora solo in relazione a specifici episodi, al contrario il big picture anelato da Choudary può essere ben compreso per mezzo delle sue arringhe[122], di cui ripropongo una parte:
- “Quando la Sharia sarà operante, forse in 10-15 anni, lei (n.d.r. la Regina) come tutte le donne in U.K. dovrà coprirsi dalla testa ai piedi, lasciando scoperti solo viso e mani”;
- “I ladri riceveranno vari avvertimenti, e solo nel caso in cui rubino più di venti sterline in beni alimentari all’interno di una casa privata, subiranno il taglio della mano”;
- “Sotto la Sharia ed il Corano la vendita dell’alcool sarà proibita e se qualcuno berrà comunque alcool, sarà punito con quaranta frustate”;
- “Non ci saranno più pubs, gioco d’azzardo, lotterie nazionali”;
- “Tutte le donne dovranno coprirsi in maniera appropriata ed indossare il niqab o il velo, in questo modo non vi sarà prostituzione”;
- “Entro il 2050, U.K. sarà un Paese a maggioranza musulmana. Ciò comporterà la fine della libertà e della democrazia, vigerà la sottomissione ad Allah”;
- “Noi non crediamo nella democrazia, fino a che essi avranno autorità, i Musulmani opereranno secondo la Sharia. Questo è ciò che noi stiamo provando ad insegnare alle persone”;
- “La prossima volta, quando vostro figlio sarà a scuola e la maestra gli chiederà: ‘Cosa vuoi fare da grande? Qual è la tua ambizione?’ lui dirà: ‘Dominare il mondo intero con l’Islam, incluso U.K. – questa è la mia ambizione’.”.
A guardar bene, tutti i princìpi sopra menzionati non sono in nulla dissimili da quelli che la struttura parastatale di Daesh ha posto in essere nelle città dell’autoproclamato Califfato; appare poi lapalissiano come le acuminate parole di questi leaders fungano da detonatore e fonte di ispirazione per le menti di giovani vulnerabili o già infarciti di idee radicali, rendendoli strumenti a volte inconsapevoli dell’ideologia jihadista. Quale migliore riprova se non l’immagine (figura 12) che immortala proprio Adebolajo alle spalle di Choudary durante una protesta svoltasi a Londra pochi anni prima dell’assassinio del fuciliere Lee Rigby.
Figura 12 – Anjem Choudary e Michael Adebolajo durante una protesta a Londra nel 2007 (www.dailymail.co.uk).
Michael Adebolajo è il frutto del processo di radicalizzazione (e conversione, avvenuta nel 2003) di individui di seconda generazione, essendo egli nato nel distretto londinese di Lambeth da genitori nigeriani professanti la religione cristiana. Egli già due anni prima dell’assassinio del militare britannico era stato arrestato dalle unità antiterrorismo keniote, che sospettavano volesse unirsi a scopi addestrativi alle milizie del gruppo fondamentalista jihadista al-Shabaab, operante nell’Africa orientale.
La figura dell’imam Choudary, abile oratore nei suoi sermoni, funge da valido raccordo con una seconda forma di radicalizzazione altrettanto incisiva e particolarmente cara anche agli esperti di comunicazione di Daesh ed altre organizzazioni terroristiche; è infatti inimmaginabile la quantità di contenuti a sfondo jihadista, disponibili e fruibili nel web (e dark web) da chiunque possieda una connessione internet.
Valida prova di quanto appena detto è la rivista online in lingua inglese Inspire[123]. Prodotta dal gruppo al-Qaida in Arabic Peninsula (AQAP) a partire dal giugno 2010 ed intrisa di contenuti ideologici radicali chiamati “auto-propaganda” volti a ridurre il dissenso o a legittimare un attentato, essa è stata considerata un ottimo strumento di proselitismo verso gli aspiranti jihadisti, in particolare quelli presenti in U.S.A. e U.K., intenzionati a compiere attacchi solitari contro i Miscredenti in nome del jihad difensivo.
Tra le peculiarità della “rivista” vi era senza dubbio quella di fornire periodiche indicazioni su come produrre armi o bombe artigianali sfruttando materiali ed oggetti di uso comune.
Un esempio su tutti che vale la pena citare è l’articolo uscito nell’estate 2010 avente come titolo: “Make a bomb in the kitchen of your mom”.
Una specifica che tuttavia mi sento di porre a titolo personale, concerne proprio la tipologia dei “prodotti” visionabile da tutti noi in quanto, se è vero che altre riviste online quali Rumiyah[124], Dabiq[125] o ancora cortometraggi quali “Flames of War”[126] hanno avuto effetti dirompenti sulle menti di soggetti particolarmente giovani o vulnerabili, esiti di uguale portata possono riscontrarsi anche seguendo alcune interviste ufficiali che personaggi come lo stesso Choudary hanno rilasciato nel corso del tempo a varie emittenti internazionali.
Breve ma essenziale parentesi meritano le riviste Dabiq e Rumiyah, sinonimo di un passaggio di consegne, avvenuto nel settembre 2016, a seguito del quale l’attenzione sulla legittimazione e dinamiche interne dell’autoproclamato Califfato, incitando peraltro i Musulmani a spostarvisi (Dabiq), ha fatto posto ad un focus più incentrato sull’Occidente ed Europa in particolare (Rumiyah).
L’interruzione delle pubblicazioni di Dabiq, a detta di molti analisti, è verosimilmente riconducibile allo smacco legato alla conquista della località-simbolo siriana, sino ad allora roccaforte di Daesh, da parte del Free Syrian Army (FSA) e dove invece, secondo una profezia sunnita, avrebbe dovuto svolgersi lo scontro finale tra Musulmani e Crociati.
Tornando a Choudary, valga come esempio l’intervento[127] in cui il sopracitato avvocato ed imam in collegamento da Londra, rispondendo alle domande postegli dalla giornalista in studio a pochi giorni dalla decapitazione del giornalista americano James Foley, sosteneva la tesi che tale assassinio fosse stato perpetrato con il mero obiettivo di terrorizzare il nemico (nel caso di specie gli U.S.A.) in quanto tale condotta “è dettata dall’Islam”, allo stesso modo Choudary dichiarava che l’Islam, in guerra, non fa distinzione tra militari e civili, fornendo dunque una indiretta giustificazione all’omicidio del giornalista.
A supporto della tesi, l’imam dichiarava che Foley, tramite il suo voto in quanto cittadino americano, aveva reso possibile l’elezione di un Presidente – al tempo Barack Obama – che aveva inviato le truppe del proprio Paese in Iraq e Siria per uccidere i fratelli musulmani, risolvendo il tutto in una sorta di legge del contrappasso.
Peraltro, l’assassinio dell’americano ad opera del madrelingua inglese Mohammed Emwazi “Jihadi John”, era stato portatore di un significato subliminale di assoluta valenza, con il messaggio rivolto a tutti gli occidentali come a dire “siamo tra voi, possiamo uccidervi quando vogliamo”.
Messaggio, secondo il mio pensiero, idealmente a braccetto con quello enfatizzato per mezzo della rivista online Dabiq su cui, nel mese di febbraio 2015, venne pubblicato il video relativo alla decapitazione di ventuno lavoratori egiziani cristiani copti, avvenuta sulla costa libica. Il loro sangue, mischiatosi all’acqua del Mar Mediterraneo oltre il quale vi è l’Italia, voleva stare a simboleggiare un imminente arrivo degli uomini di Daesh in Europa, a Roma.
Proselitismo online ed Anjem Choudary sono due rette perpendicolari, e non è certo il solo caso Adebolajo ad avvalorare la tesi che indica l’imam quale figura centrale e dominante negli ambienti radicali britannici. Gli investigatori dell’antiterrorismo scoprirono infatti che il 02 luglio 2014 egli prestò vero e proprio “Giuramento di Fedeltà”[128] al leader di Daesh Abu Bakr al-Baghdadi, presso il ristorante Hayfield Masala ubicato nella periferia est di Londra; cinque gironi dopo, a seguito di numerose revisioni, il video fu pubblicato dalla branca indonesiana di Daesh, capeggiata dal terrorista Mohammed Fachry ora in carcere.
Il “Giuramento di Fedeltà” ha rappresentato un vero e proprio punto di svolta per le Autorità britanniche in quanto con esso è stato certificato il salto di qualità di Choudary, da predicatore radicale a vero e proprio attivista di Daesh.
Quando si parla dell’imam nativo di Londra, il rischio di non approfondire ad ampio spettro tutte le sue ultradecennali attività di proselitismo è alto. Ancora una volta non si può sottovalutare il magnetismo esercitato sui giovani che, potenziali homegrown terrorists o foreign fighters, in gruppo o individualmente iniziano il loro percorso di avvicinamento alle ideologie islamiste radicali usufruibili online e di cui il collettivo islamico, da egli capeggiato unitamente ad Omar Bakri Mohammed, da metà anni Novanta è stato interprete: “Sharia4UK”.
Essa, propaggine inglese del più ampio brand “Sharia4”, ha agito essenzialmente su due direttrici[129] ove la prima si identifica nell’attività di proselitismo, la seconda quale valido link per la vera e propria attività terroristica.
Per quanto attiene la prima, di nostro interesse, lo schema ricorrente vede la cellula inserita in una determinata società ospitante (U.K.) agire da elemento radicalizzante tramite organizzazione di manifestazioni[130], condividendo materiale propagandistico su internet e praticando la street da’wa[131] (predicazione da strada).
La leva sulle tematiche di natura sociale tocca i temi della corruzione e la decadenza occidentale, colpevoli di aver portato ad una condizione paragonabile alla jiahiliyya[132]; subentra quindi una riproposizione ridondante che qualifica l’istituzione di uno Stato Islamico regolato dalla Sharia, quale unica soluzione universale ad ogni male. Come già ricordato, questo tipo di proselitismo trova nel web prezioso moltiplicatore del messaggio, il luogo immateriale ideale, ove i vari gruppi possono interagire ed in cui l’unitarietà della dialettica proposta nelle varie declinazioni nazionali del brand Sharia4 è l’elemento chiave.
I toni sono ovviamente provocatori con immagini relative a famosi monumenti/simboli europei su cui sventolano bandiere islamiche riportanti la shahada[133] o, ancora, convertiti in luoghi di culto islamici[134].
Quanto al linguaggio, esso è spesso violento e ricorrente a termini arabi dalla chiara connotazione wahhabita come ad esempio la parola shirk (politeismo), associato negativamente all’idea che l’uomo si voglia sostituire al potere decisionale di Allah, in totale contrapposizione ai dogmi monoteisti su cui si fonda l’Islam, o ancora ad elementi legati al portamento estetico – lunghe barbe, ampie vesti, pantaloni a sbuffo e copricapo – che deve essere fedele a quello usato dai primi seguaci di Maometto.
Anche il modus operandi di questi gruppi ricalca format similari con alla base del messaggio una professione di assoluta contrarietà al terrorismo, precisando che ai loro occhi l’unico terrorismo è quello che stanno perpetrando gli Stati Uniti ed i loro alleati nelle aree di conflitto mediorientali.
Aspetto legato al network, non centrale in questa ricerca ma che vale la pena accennare, riguarda l’attività posta in essere dalla cosiddetta bridging person[135], già inserita nel gruppo o comunque affiliata, incaricata di introdurre gli elementi più estremisti agli ambienti del terrorismo jihadista, in modo tale da facilitarne un’eventuale immissione in teatro operativo. Va da sé che, come in ogni gruppo terroristico che si rispetti, l’attività informativa sui soggetti venga svolta con maniacale attenzione al fine di evitare l’immissione di agenti infiltrati.
L’evoluzione e prodotto di tutti i fattori che abbiamo sino ad ora passato in rassegna non è rimasta mera teoria o previsione scritta su carta, ha bensì portato negli anni a forme di distorsione sociale in specifiche aree del Paese e di Londra stessa, in particolare nella sua area nord-orientale, al punto da farla assurgere agli onori della cronaca con il nome di Londonistan.
L’adozione del suffisso stan[136] identifica in senso dispregiativo la folta comunità islamica presente non solo a Londra, ma anche in alti centri britannici più o meno grandi (vedasi Birmingham o Blackburn). L’anno di coniazione di questo termine[137] è la prova di un percepito senso di insicurezza della popolazione britannica da almeno tre lustri, ma non va a mio parere confuso con un rifiuto aprioristico della comunità musulmana presente, al contrario va letta come aspra critica verso i Governi nel tempo succedutisi, rei di non aver saputo dare risposta, o comunque aver colpevolmente sottovalutato – sull’altare del tipico stile British ispirato ai valori della tolleranza – le criticità derivanti dall’incontrollata crescita di una comunità immigrata che, stanziatasi a partire dai tardi anni Cinquanta ha, secondo Thomas, dato segnali di una deriva estremista ispirata all’odio ed all’antisemitismo già dagli anni Novanta[138].
Le considerazioni di Thomas sono un prezioso riscontro ex post al contesto in parte già sviscerato, è chiaro infatti il suo riferimento alla moschea londinese di Finsbury Park quale centro di predicazione estremista, la stessa peraltro dove a partire dagli anni Novanta Omar Bakri Mohammed ha tenuto i suoi sermoni carichi di odio verso il nemico storico sionista (Israele) e gli U.S.A. Ancora Londra e la sua fitta rete di moschee sono state la residenza quasi decennale di Zacarias Moussaui[139], sospettato di essere il ventesimo membro del gruppo di dirottatori dei voli di linea schiantatisi sulle Torri Gemelle newyorkesi, gli stessi che l’imam siriano nativo di Aleppo non ha esitato a definire “Magnificent 19” il 10 settembre 2003.
Altro personaggio che nel recente passato non ha dissimulato la sua avversione alla politica multiculturalista britannica è senz’altro la scrittrice Melanie Philips, autrice nel 2006 del libro “Londonistan: How Britain is creating a terror State”, secondo la quale già all’epoca più di tremila musulmani britannici erano transitati per i campi di addestramento di al-Qaida, mentre più di sedicimila erano impegnati attivamente in attività legate al terrorismo di matrice islamica[140]. Ebbene, per onestà intellettuale bisogna forse ammettere che le posizioni di Thomas e Philips abbiano una sfumatura oltranzista, tuttavia, a distanza di un decennio, non si fa certo fatica a trovare sulla piattaforma Youtube una miriade di contributi video grazie a cui è innegabile la constatazione che determinate aree di Londra siano popolate da frange di giovani radicalizzati di seconda e terza generazione, invocanti l’avvento della Sharia in terra d’Albione.
Senza tirare in ballo la quantità oceanica di materiale rintracciabile nel dark web ed i proclami dei combattenti di Daesh in Rete, nel web ognuno di noi può agevolmente prendere atto che la questione “Londonistan”, con le debite proporzioni rispetto all’apocalittica visione di Philips, esiste davvero e non certo da ora.
Nella moltitudine, due video risalenti rispettivamente all’anno 2011[141] ed al 2016[142], hanno ispirato questa mia convinzione.
Quanto al primo, ponendo attenzione sui vari slogan citati tramite altoparlante e scritti sui cartelli di protesta esposti da uomini, donne e bambini, appare chiaro come la marcia londinese fosse incentrata sull’imposizione della Sharia e l’individuazione di un asse U.S.A.- Francia – U.K. quale trinità del terrore (chiaro richiamo al concetto di Trinità su cui si fonda il Cristianesimo).
Nel secondo, invece, sono protagonisti del reportage di una giornalista britannica un gruppo di giovani radicalizzati di seconda generazione capeggiati da Siddarta Dhar[143] (Abu Rumaysah al-Britani), “impegnati” ad introdurre i princìpi della Sharia nella zona est di Londra redarguendo alcuni giovani per tenere comportamenti non islamici quali bere birra, indossare la minigonna o ancora allontanando un presunto omosessuale. Nella breve surreale intervista che Siddartha concede alla giornalista, ed in cui la democrazia viene definita un sistema barbaro, egli ribadisce che le pattuglie sono il mezzo per far divenire realtà il progetto che vede U.S.A. ed Europa regolate dalla Sharia, ove quindi:
- le donne girino coperte dalla testa ai piedi;
- le mani vengano tagliate ai ladri;
- le adultere vengano uccise tramite lapidazione.
Parlando di web, un breve accenno in virtù della sua nazionalità lo merita anche il caso paradossale di John Cantlie (figura 13), fotografo e corrispondente di guerra britannico rapito dai miliziani jihadisti nel 2012, al contrario divenuto suo malgrado un’icona sfruttata per produrre veri e propri documentari online in lingua inglese, circa le condizioni di vita nell’autoproclamato Califfato e, in relazione alla propria condizione di prigionia, utilizzato per indirizzare aspre critiche al Governo di Sua Maestà la Regina.
Figura 13 – Il giornalista britannico John Cantlie in un fotogramma di un video di propaganda postato dai combattenti di Daesh 19 marzo 2016. In questa circostanza egli si trova dinanzi alle macerie di quella che era l’Università di Mosul (Iraq), distrutta dai bombardamenti americani. Scopo principe del documentario era dimostrare come l’obiettivo dei bombardamenti non fossero gli jihadisti, bensì le persone comuni e le loro vite (www.aprnews.net).
Dopo un lungo silenzio, fonti recenti[144] hanno riportato la notizia secondo cui Cantlie sarebbe ancora in vita nella provincia siriana di Deir Az Zor.
Tornando a noi, sarebbe stato errato considerare la tambureggiante opera di proselitismo in U.K. diretta esclusivamente a giovani lupi solitari da utilizzare per atti terroristici in Occidente, o da mandare a combattere in Siria sotto l’egida di Daesh. Il lavaggio del cervello di massa ha abbracciato, seppur con diverse modalità comunicative e l’individuazione di altre mansioni da svolgere una volta giunte nei territori dell’autoproclamato Califfato, anche giovani ragazze e donne presenti nel Paese.
Diviene allora sin troppo facile per noi tornare ad inquadrare come specifico riferimento del target in esame, la figura della giovanissima Shamima Begum[145] che in una recente intervista[146] con Quentin Sommerville, senza mostrare particolari segni di rimorso per la scelta fatta, ha dichiarato di essersi unita a Daesh in quanto attratta dai video delle decapitazioni e dallo stile di vita propostole.
Il caso della giovane, partita dal quartiere londinese di Bethnel Green e giunta in Siria passando per la Turchia insieme a due amiche adolescenti, sta interessando in questo primo scorcio di 2019 una vasta fetta dell’opinione pubblica britannica, divisa sulla possibilità di farla o meno rientrare in Patria, opzione in realtà avversata dalla stragrande maggioranza della popolazione che la identifica come minaccia e traditrice dei valori libertari in cui è cresciuta.
Begum, ora diciannovenne, dopo la cattura del suo compagno Yago Riedijk e la morte dei primi due dei suoi tre figli, nel febbraio di quest’anno ha chiesto tramite l’avvocato della madre di poter tornare in U.K., ricevendo per ora un secco diniego, rincarato peraltro con la richiesta avanzata dal Ministro alla Sicurezza Ben Wallace, di revoca della cittadinanza britannica. La ferma intransigenza dell’Esecutivo non è cambiata nemmeno dopo la recentissima morte di Jarrah, terzo figlio messo al mondo dalla giovane Shamima all’interno del campo rifugiati sito ad al-Hawl (confine con l’Iraq), dove è giunta proveniente da Baghouz, teatro a fine marzo dello scontro finale tra i combattenti di Daesh e le forze curdo-americane.
La netta presa di posizione di Wallace ha provocato la condanna da parte di alcuni rappresentanti Laburisti e Conservatori, convinti altresì che la donna debba essere “riaccolta” in U.K. in quanto tenuta a misurarsi con le conseguenze delle sue azioni lì dove si è radicalizzata, ovvero in U.K.[147].
Uno studio effettuato da International Centre for the Study of Radicalisation (ICSR) datato luglio 2018[148] ha accertato che tra i circa 42000 combattenti stranieri affluiti nell’area di conflitto nell’ultimo quinquennio, 850 fossero britannici, tra cui 145 donne e 50 bambini; di questi 425 sono riusciti a tornare a casa[149].
Il Direttore dell’MI5[150] inoltre, già nell’ottobre 2017 aveva annunciato che nel computo del totale sopra menzionato, circa 130 tra coloro che si erano recati in Siria ed Iraq per unirsi a Daesh, avevano perso la vita in combattimento.
Funzionari della Sicurezza britannici stimano poi che, allo stato attuale, siano 360 i loro connazionali rimasti nella valle del fiume Eufrate in Siria. Per tutti, cittadini britannici al pari di Shamima, è in corso un animato dibattito su quale debba essere la loro sorte.
Un interessante database totalmente open source (figura 14) è visionabile sul sito di informazioni britannico BBC, in esso sono presenti foto, dati e storie di 276 jihadisti britannici che sono stati giudicati colpevoli di reati contro lo Stato (100), oppure morti in combattimento o ancora nell’area di conflitto.
Figura 14 – “Who are Britain’s jihadists?” (www.bbc.com) – 12 ottobre 2017.
Allo stesso modo, il Ministro alla Sicurezza Ben Wallace, trattando più ad ampio spettro la tematica relativa ai foreign fighters di ritorno, si è così espresso[151]: “Ogni posizione si basa sulla condizione della sicurezza nazionale in relazione ad ogni singolo individuo. Ciò che mi interessa è la valutazione dell’intelligence sulla minaccia, il mio compito e quello del Segretario agli Affari Interni è quello di assicurarci che essa venga limitata […] Se questo significa che dobbiamo privarli (n.d.r. della cittadinanza) in modo che essi non tornino indietro e diventino a loro volta agenti reclutatori, allora noi lo faremo”.
Un campo di somma importanza ma ancora inesplorato in questo paragrafo riguarda le misure in atto da parte del Governo britannico per fronteggiare le criticità correlate ai processi di radicalizzazione in carcere.
Come in ogni ricerca, l’obiettivo è fornire al fruitore una pluralità di dati ed input analitici incontrovertibili, in tal senso uno strumento prezioso è stato il documento stilato nell’agosto 2016 dal Ministero della Giustizia britannico[152], commissionato nel settembre 2015 dall’allora Segretario di Stato alla Giustizia.
Esso aveva il fine di valutare la minaccia derivante da soggetti arrestati per reati collegati al Terrorism Act (TACT prisoners), a Islamist Extremism (IE prisoners) e la contestuale capacità di gestire la minaccia da parte delle Autorità nazionali preposte.
Il documento sottolinea in primis aspetti passibili di miglioramenti, poi oggettive criticità.
Quanto ai primi, la necessità di un maggiore coordinamento con le Forze di Polizia e costante monitoraggio del fenomeno, la redazione di report tempestivi al verificarsi di manifestazioni di estremismo, uniti poi all’applicazione di sanzioni e punizioni volte a fungere da deterrente nei confronti di chi abbia posto in essere determinate condotte.
In relazione al secondo aspetto, viene posto come punto di partenza l’attentato dell’11 settembre 2001 e con esso l’aumento esponenziale di soggetti estremisti animati da ideologia islamista. Essi, prima detenuti nell’ambito del programma High Security Estate (HSE) sono stati nel tempo dispersi in altri istituti, rendendo la loro gestione difficoltosa da parte del personale e divenendo propagatori di messaggi radicali anche verso detenuti (Musulmani e non) che stanno scontando pene non correlate a reati di terrorismo.
I dati dell’epoca peraltro mostravano un costante e sproporzionato aumento della popolazione carceraria di fede musulmana[153], con simili previsioni dovute alla schiera di britannici di fede islamica che, partiti (nel 2016 se ne contavano circa mille) alla volta di Siria, Iraq, Afghanistan, Somalia e Yemen, una volta rientrati sono stati incriminati ed incarcerati per reati connessi al terrorismo, divenendo potenziali estensori del messaggio jihadista.
Secondo Ian Acheson[154], autore del documento, le minacce derivanti da TACT ed IE prisoners negli ambienti carcerari possono materializzarsi sotto varie forme, ne cito solo alcune per brevità:
- minacce nei confronti dello staff penitenziario o degli altri prigionieri dichiarandosi militanti di Daesh;
- atti di intimidazione ad indirizzo degli Imam designati dal carcere;
- tentativo, da parte di detenuti estremisti particolarmente carismatici, di esercitare la loro influenza sulla popolazione carceraria di fede musulmana;
- etichettatura dello staff carcerario come razzista;
- promozione di libri o comunque materiale estremista presente nelle librerie dell’istituto o nella disponibilità degli stessi detenuti.
- incitamento aggressivo a convertirsi all’Islam;
- Abuso del “Regolamento 39”[155].
L’ultimo punto citato è stato ed è fonte di aperto dibattito in quanto, se da un lato impone che la corrispondenza non possa essere aperta a meno che non vi sia un fondato motivo di ritenere la commissione di un abuso, dall’altro si sono registrate periodiche violazioni di questo beneficio utilizzato per trasportare materiale non consentito all’interno della prigione e viceversa. Allo stesso modo il rapporto evidenzia come l’uso di telefoni cellulari dovrebbe essere proibito a detenuti di ideologia estremista.
Attualmente il programma HSE include otto centri di detenzione, in essi la minoranza che si trova detenuta per reati legati al terrorismo ha la possibilità di interagire con il resto dei carcerati e, sino ad ora, si era seguita una politica di dispersione dei detenuti maggiormente pericolosi affinché essi non potessero esercitare un’eccessiva influenza sugli altri; il loro numero crescente tuttavia, continua il documento, impone un aggiornamento di tale politica.
Senza scendere troppo in particolari tecnici, è bene ricordare che la ricerca si è ben focalizzata anche sul sistema giustizia in ambito giovanile, dando particolare rilievo al monitoraggio dei giovani minorenni in custodia, affinché le minacce derivanti da una possibile radicalizzazione vengano anticipate e gestite tramite anche la formazione di specifico personale ed interventi mirati e, non ultimo, ripensando l’attuale configurazione del sistema di custodia giovanile, tipologia di strutture incluse.
La ricerca, inoltre, si è poi incentrata sull’aspetto prettamente religioso sottolineando l’importanza della fede nei detenuti, ma al tempo stesso stigmatizzando l’Islamismo quale versione politicizzata dell’Islam, corrispondente in realtà ad un’ideologia guidata dall’intolleranza e da un sentimento anti-occidentale. La contromisura presa per sovvertire le carenze del sistema attuale, consistita nel prendere contatto e parlare con circa 50 dei 240 cappellani musulmani, ha permesso di constatare il buon lavoro fatto sino ad ora, a cui però si sono affiancate lacune nella conoscenza di come approcciarsi a soggetti IE, il tutto unito ad una carenza di dati inerenti le conversioni e ad uno scarso controllo sull’accesso da parte della popolazione carceraria a letteratura di ideologia estremista.
Viene infine previsto un maggiore controllo sulla Preghiera del Venerdì ed altre forme di culto praticate dai detenuti, responsabilizzando ed ampliando la governance dei Direttori dei singoli istituti a cui sarà demandato anche il controllo circa il contenuto dei sermoni.
Ciò che ha avvalorato esponenzialmente il documento è stato il confronto con altre realtà carcerarie europee (Francia, Olanda, Spagna) interessate dal fenomeno estremista; da esso i britannici hanno tratto parecchi spunti quali la divisione dei detenuti estremisti dagli altri, portatrice di parecchi benefici in termini di controllo e gestione del fenomeno radicalizzazione all’interno degli istituti, nonché un più funzionale utilizzo delle risorse umane a disposizione.
Rimarcando le più essenziali linee guida maturate da questa revisione, oltre ad un migliore addestramento del personale carcerario, è utile citare:
- la creazione della figura di un consulente indipendente sull’antiterrorismo nelle carceri, che renda conto al Segretario di Stato e responsabile di una strategia antiterrorismo globale;
- una nuova catalogazione di detenuti TACT ed IE, gestita dal Governo centrale;
- contrastare e limitare la disponibilità di letteratura estremista;
- rivedere le procedure del “Rule 39”, prevenendone eventuali abusi;
- maggiore controllo delle preghiere del Venerdì, con la previsione di sanzioni per abusi o usi distorti delle attività di culto.
Il mese di luglio 2017 ha visto il concretizzarsi del progetto governativo finalizzato alla creazione di carceri riservate unicamente terroristi ed estremisti. La prima Her Majesty’S Prison (HMP) ad aprire i portoni ai suoi nuovi ospiti è stata quella di Frankland[156], nella contea di Durham; nell’aprile del 2018 è toccato a quella di Full Sutton, mentre l’apertura di una terza era in previsione per la fine dello stesso anno.
A ciò, oltre alla menzionata attività di addestramento specifico a favore di circa tredicimila unità del personale carcerario (inclusi tutti i nuovi arruolati), va ad aggiungersi una nuova unità composta da cento specialisti di antiterrorismo che avrà il compito di incrementare l’abilità del personale nell’individuare tra i detenuti, coloro che rappresentino una grave minaccia sotto il profilo dell’estremismo ed a riconoscere i primi segni della radicalizzazione.
Il programma, avallato dal Segretario alla Giustizia David Gauke, si è reso indispensabile considerato l’incremento del 75% nell’ultimo triennio di prigionieri condannati per reati legati al terrorismo; l’anno passato erano infatti 700 i detenuti considerati a rischio estremismo, ed il totale non può far altro che salire se posto in relazione ai foreign fighters di ritorno da Africa e Medio Oriente, a maggior ragione dopo la recente disfatta di Daesh in quel di Baghouz.
Quanto di buono fatto sino ad ora non appare ancora sufficiente agli occhi del già citato Ian Acheson; l’ex direttore carcerario afferma che nel corso del 2018, il 41% delle condanne legate a reati di terrorismo, non abbiano superato la pena di quattro anni[157].
Ciò, continua Acheson, porta questi soggetti ad entrare in un sistema penale disordinato che li mescola agli altri detenuti, rendendo ancora oggi gli istituti penitenziari in U.K. incubatori di estremismo.
Nella sua analisi, egli punta il dito sul legislatore il quale deve compiere ogni sforzo per evitare che i soggetti radicali più abili possano capitalizzare l’attuale stato di caos e così disseminare il loro messaggio di violento estremismo.
Afferma Acheson che, sebbene il numero di estremisti presenti negli istituti di pena carceri sia comunque basso rispetto alla popolazione carceraria totale (83.000 individui), il loro impatto può essere letale; alla data del 30 settembre 2018 essi erano 228, con un incremento tendenziale del 5% rispetto all’anno precedente.
A rendere il quadro maggiormente fosco giunge l’ulteriore considerazione che, nel 2018, oltre il 40% (80 su 193) delle condanne emesse tra il 2006 ed il 2017 e legate a reati in materia di terrorismo sono terminate: il rischio che essi si riversino nel tessuto sociale britannico e fungano da propellente a nuove ondate di radicalizzati tra i giovani immigrati di seconda e terza generazione è tutt’altro che remoto.
Strettamente correlato ai passaggi appena letti si innesta il concetto di de-radicalizzazione in cui i Britannici stanno profondendo grandi sforzi.
Al pari dei vari programmi sinora stilati per prevenire ulteriori radicalizzazioni di massa nelle HMPs, anche le tecniche utilizzate in questo campo appaiono perfettibili, il perché ci viene spiegato grazie ad una puntuale analisi[158] che ha preso spunto da uno studio effettuato dal Behavioural Insights Team (BIT), gestito in parte dal Governo britannico ed in stretta partnership con l’Ufficio di Gabinetto, il quale ha sentenziato che le tecniche poste in essere sino ad ora siano non funzionali, se non addirittura contro produttive.
Esso ha esaminato 33 diversi programmi di de-radicalizzazione praticati nelle scuole, nei centri giovanili o anche all’interno di associazioni a carattere sportivo lungo tutto il territorio britannico, molti dei quali inseriti nell’ambito del già citato programma PREVENT, presentato al Parlamento nel 2011 dal Segretario di Stato per gli Affari Interni e finalizzato al preservare soggetti vulnerabili dal radicalizzarsi in seguito all’assimilazione di ideologie islamiste radicali.
L’impietosa analisi attesta che solo due di essi funzionino realmente in quanto, come riportato anche dal quotidiano The Times[159], in tutti gli altri “[…] i mediatori non sono a loro agio nel trattare determinati argomenti e spesso non sono in grado di confrontarsi”; oltre a ciò la ricerca ha anche evidenziato il timore da parte degli insegnanti di apparire discriminatori con i ragazzi nel toccare argomenti riguardanti razza e religione, ciò fa sì che essi non vengano discussi per nulla.
In antitesi, gli unici due programmi ritenuti produttivi dalla testata britannica, fondano il loro successo sull’applicazione di criteri a mio modo di vedere universalmente validi: il primo si sottrae al classico meccanismo di politicamente corretto ed affronta tematiche spinose in modo diretto, il secondo indirizza i temi della discussione ponendo al centro l’estremismo presente in (alcuni) testi religiosi islamici.
Dati poco lusinghieri esposti nel 2017 dal belga Gilles de Kerchove, coordinatore antiterrorismo dell’Unione Europea (UE), svelano che l’82% dei 228 individui detenuti per reati legati al terrorismo abbracciano l’ideologia islamica estremista. U.K. detiene poi il triste primato di musulmani radicalizzati in tutta l’UE, quantificabili in una forbice che va dai venti ai trentacinquemila; circa tremila sono attualmente oggetto di attenzione dell’MI5 e, tra questi, un manipolo di cinquecento sono oggetto di costante monitoraggio.
L’articolo poi non lesina ulteriori critiche a quanto, nella sua ottica, sinora fatto per contrastare il fenomeno. Egli prende quale spunto un discorso tenuto a Londra il 04 giugno dello scorso anno dal Segretario di Stato Sajid Javid (figura 15) il quale sviscerava i fattori scatenanti il radicalismo e difendeva l’operato dal Governo citando i risultati conseguiti (e.g. 25 progetti di attentato collegati a soggetti islamisti sventati nell’ultimo quinquennio).
Figura 15 – Sajid Javid, nominato Segretario di Stato U.K. agli Affari Interni in data 30 aprile 2018 (www.theguardian.com).
Secondo Mohamed infatti, il fallimento delle politiche di de-radicalizzazione viene riassunto alla perfezione nella medesima circostanza, in aderenza al caso di un ragazzino tredicenne citato a supporto della sua tesi dallo stesso Javid: “[…] lui ha assistito a violenze domestiche ed ha sofferto a causa del bullismo di stampo razziale subìto a scuola. Ha iniziato a guardare propaganda (n.d.r. jihadista) violenta online ed a mostrare interesse per combattere con Daesh. Ma è stato affidato ad un educatore e gli è stato dato il supporto necessario per impedire che continuasse a seguire il sentiero sbagliato. Ora sua mamma dice, ed io lo confermo, non è più sul sentiero della radicalizzazione e tutto ciò che vuole è essere un commerciante”.
Sic stantibus rebus, Mohamed si sorprende di come Javid possa semplicisticamente ridurre il processo di radicalizzazione del tredicenne ai tre fattori sopra evidenziati, senza prendere nella benché minima considerazione la fede religiosa della sua famiglia, dell’ideologia radicale od ancora della narrativa fondata su odio ed intolleranza proprie di un’interpretazione radicale del Corano e della Sunna cui l’adolescente potrebbe essere stato esposto frequentando una moschea, o tra le mura della sua stessa casa.
Nel prosieguo della sua analisi, l’autore riporta altre considerazioni del Segretario di Stato tramite le quali, come ogni bravo diplomatico che si rispetti, non a torto tesse sinceri elogi della comunità musulmana in U.K., affermando in sostanza che essa, composta da veri Musulmani, non ha nulla a che fare con i terroristi e che, al contrario, rappresenta una valida spalla nell’azione di contrasto nella lotta agli elementi radicalizzati.
La conclusione di Mohamed, assimilata con le dovute cautele ed analizzata per non incorrere noi stessi in una sorta di radicalismo inverso e proprio dei movimenti di estrema destra, trova il mio sostanziale accordo; egli infatti sostiene che il problema principale di questo tipo di approccio risiede nel fatto che bigottismo e sete di sangue non sono frammenti riconducibili unicamente all’estremismo islamico.
Se è corretto l’assioma che essi derivino da una visione integralista dei versi coranici e delle Hadith tramandate dal profeta Maometto, parimenti non è erroneo constatare che, pur non sottoscritta da milioni di Musulmani, essa incarni una visione dominante buona parte del mondo islamico e che porta gli stessi Musulmani ad essere talvolta vittime della violenza generata dai loro fratelli radicali. Ecco allora che, come già auspicato in precedenza, si deve lavorare per un mutamento in senso lato nelle politiche di de-radicalizzazione ed antiterrorismo, un mutamento che veda la parte sana (stragrande maggioranza) della società musulmana partecipare attivamente all’azione di contrasto, monitorando i soggetti che mostrano propensione all’uso della violenza ed in cui siano riconoscibili i primi segni di radicalizzazione, in ultimo analizzando in maniera neutrale i contenuti nel Testo Sacro, fonte di possibile travisamento e stortura da parte dei predicatori radicali.
Ciò poiché, pur ribadito il concetto con cui l’Islam ed il messaggio del Profeta vanno intesi quali sinonimo di pace, significato distorto può essere attribuito in alcuni passaggi dai predicatori radicali. Cito a titolo esemplificativo il contenuto della Sura IV, versetto 89[160]:
“Vorrebbero che foste miscredenti come lo sono loro e allora sareste tutti uguali. Non sceglietevi amici tra loro, finché non emigrano per la causa di Allah. Ma se vi volgono le spalle, allora afferrateli e uccideteli ovunque li troviate”.
È innegabile che, allargando il concetto a termini più generali, le atrocità a cui i combattenti (anche Britannici) di Daesh ci hanno abituato in questi ultimi anni, si siano ispirate in larga parte a concetti, poi distorti ad arte, riconducibili al Testo Sacro.
Desidero terminare questo breve capitolo con una considerazione personale, nata dopo aver visionato due video pubblicati da SCDawah Channel sulla piattaforma Youtube, rispettivamente l’8 ottobre 2017[161] ed il 15 aprile 2018[162].
Protagonista di entrambi i filmati è Mohammad Hijab, giovane figura in forte ascesa in U.K., il quale nei due episodi oggetto di attenzione è impegnato in altrettanti “dibattiti”, rispettivamente con due ragazzi della comunità ebraica londinese, ed in seguito con due poliziotti della capitale britannica.
Nel primo caso egli, circondato da una pletora di sostenitori più o meno silenti, segue uno schema comunicativo snello ma efficace, partendo dall’elogio della jizya[163] passando poi ad un episodio di vita vissuta – la constatazione che nel quartiere londinese di Stamford Hill vi è un ospedale con una sezione riservata agli Ebrei – ed ulteriori argomenti, è animato dal chiaro intento di dimostrare che sono i Musulmani quelli ad essere realmente discriminati; egli rivendica allo stesso tempo che gli Ebrei nel mondo sono in tutto venticinque milioni, ovvero meno degli abitanti della capitale egiziana Il Cairo.
Nel secondo episodio, dove ancora sfoggia pregevoli doti di leadership, varia solo la motivazione per la quale egli si batte, vale a dire il diritto di pregare assieme ad altri fratelli musulmani presso lo Speakers Corner del Parco Reale sito all’interno di Hyde Park; attività che, secondo lo schema narrativo prescelto, accentua l’azione discriminatoria dei due poliziotti, colpevoli di volerlo impedire sulla base di una loro errata ed arbitraria interpretazione della legge vigente.
Anche in questo caso l’obiettivo è esaltare la condizione di apparente discriminazione in cui versano i Musulmani che vogliano professare la propria religione in U.K.; ciò che tuttavia sembra andare ben presto in contrasto con il messaggio di percepita ed ingiusta oppressione, è la gestualità dell’uomo, che in entrambi gli episodi assume da subito (aiutato anche da una fisicità imponente) una posizione dominante, dettando tempi e modi del dialogo, muovendosi in direzione delle controparti, circondato da giovani pronti a fare il tifo per lui e spingendosi in taluni frangenti ad un accennato contatto fisico (pacifico) con l’interlocutore di turno che, nella mia visione, altro non è che un mezzo utile a conferire ancora più vis comunicativa ai contenuti espressi dal giovane.
Egli, infatti, alterna fasi in cui si rivolge agli interlocutori ad altre nelle quali, come nel caso del giovane studente ebreo, si gira a favore di telecamera per esprimere le considerazioni generali derivanti dal dialogo; l’apparente tolleranza e simpatia esternata nei confronti dell’altro non trova conforto nell’atteggiamento per mezzo del quale Mohammad non sembra accettare, o comunque appare ignorare le motivazioni esposte di volta in volta da questi.
Tornando all’episodio che vede coinvolti i poliziotti, in un climax ascendente l’apice viene a mio parere toccato quando Hijab, discutendo faccia a faccia con i due senza quasi lasciarli parlare, li ammonisce: “[…] Io qui sto dettando i termini e le condizioni, perché voi non potete, in mia presenza, creare delle leggi […] amico ascolta attentamente, entrambi ascoltatemi […] Mr. Jamil e Mr. Berry (n.d.r. i nomi dei due poliziotti), il vostro lavoro non è quello di creare regolamenti o leggi, il vostro lavoro è quello di farle rispettare […]”.
L’obiettivo, voluto e raggiunto a mio parere, è quello di dimostrare la superiorità del popolo musulmano e dell’Islam. Evidente è poi la volontà dei gestori del canale SCDawah di rendere Mohammad Hijab figura di riferimento da contrapporre in antitesi a coloro che si dimostrino nemici dell’Islam, basti interpretare particolari basici della descrizione dei due video:
- […] Mohammed Hijab vs Jewish Visitors […];
- You can’t pray! Muhammad Hijab & Police […].
E’ innegabile che il brillante Mohammed Hijab sia in possesso di tutte quelle qualità – carisma, abilità nell’arte oratoria, autorevolezza e profonda conoscenza delle proprie argomentazioni religiose – che nel corso dei prossimi anni lo potranno elevare al livello dei più importanti predicatori radicali, in lui e nella sua attraente dialettica vedo i germi di una nuova tipologia di proselitismo, più elegante e subdola, capace di attirare e plasmare le menti di tanti giovani di seconda, terza generazione o convertiti, in misura potenzialmente maggiore a quanto sono ad ora riusciti a fare i suoi noti eclettici predecessori Choudary, Bakri ed altri ancora rispetto a cui Hijab sta compiendo un salto di qualità comunicativo.
Mi spingo a questa considerazione in quanto il perseguimento di un’analisi giustamente imparziale e scevra da alcun influsso ideologico, pur potendo il giovane essere ritenuto quale mera figura recriminante diritti propri di una democrazia in cui ogni cittadino deve poter professare il suo credo religioso, non deve esentarsi dall’esaminare alcuni aspetti affioranti in modalità preponderante dal profilo Instagram del giovane[164].
In maniera per ora molto velata egli utilizza spunti derivanti da vari ambiti per porre in primo piano la contrapposizione tra Islam e Cristianesimo. Uno di essi trae origine dall’incontro sportivo tra due campioni di MMA[165], l’irlandese Conor McGregor (favorevole alle nozze omosessuali) e Kahabib Nurmagomedov (cittadino del Daghestan professante la religione musulmana sunnita) svoltosi il 06 ottobre 2018 a Las Vegas (USA).
Nei due giorni successivi, a seguito della vittoria del Musulmano, Hijab ha pubblicato alcune vignette in cui dapprima Khabib, con un grosso coltello da cucina in mano, si accinge a tagliare una forma di kebab personificata dall’Irlandese, in seguito una ove il lottatore musulmano riversa su McGregor il whiskey Proper no Twelve[166] contenuto nella medesima bottiglia (stilizzata), con chiaro riferimento a quella che egli aveva dinanzi a sé durante la conferenza di presentazione del match con Khabib.
Quest’ultimo, infatti, aveva biasimato il comportamento di un reporter che prima di porre le domande di rito ai due contendenti, lo aveva dapprima salutato con l’auspicio “Salam-Aleikum” per poi congratularsi con l’Irlandese in virtù della creazione del nuovo marchio; nella circostanza il lottatore sunnita originario del Daghestan aveva ammonito il giornalista circa l’opportunità di salutare un uomo con tale formula per poi “congratularsi riguardo il whiskey” con il suo avversario[167]. La motivazione appare ovvia.
La didascalia sottostante l’immagine recita: “Il peggior tipo di umiliazione è quello che viene dall’arroganza”.
Ancora il 19 ottobre 2018 viene postata una foto preannunciante il dibattito pubblico che si sarebbe svolto presso lo York College di New York (USA) la sera del 07 novembre 2018 tra lo stesso Hijab e David Wood, evangelista e predicatore cristiano. La grafica rimanda alla contrapposizione (Trinity – Tawheed) tra i concetti di Trinità ed Unicità, su cui si fondano rispettivamente Cristianesimo ed Islam.
Il 03 novembre 2018 un breve video girato a New York ricorda ai followers di Mohammed l’approssimarsi del dibattito, qui il giovane appare assieme al suo stretto collaboratore Ali Dawah; quest’ultimo presenta l’incontro “con un Cristiano” in termini entusiastici, affermando che questo “sarà ancora più grande” di quello tra McGregor e Khabib.
In maniera avveduta, per non intaccare l’immagine creatasi attorno al suo personaggio, Mohammed ridimensiona il trasporto del suo amico, affermando che si tratta “solo” del tentativo di far conoscere la religione; tuttavia le parole poco lusinghiere con le quali ritrarrà David Wood alcuni giorni dopo durante la conferenza[168], forniscono un’altra prospettiva.
Tali valutazioni, unite alla particolare congiuntura storica che la società globalizzata sta attraversando, ci impongono un’analisi asettica del quadro U.K., dandoci la misura di quanto sia ormai impellente la necessità di porre su un piano superiore il dibattito relativo alla coesistenza di Cristianesimo ed Islam, di quanto sia ora di accantonare il tempo della diffidenza e paura del diverso, per abbracciare invece l’idea di un profondo e prezioso confronto di culture, pena lasciare aperto il sentiero dell’odio e della violenza che, questo è il mio pensiero, personaggi come Hijab tutt’altro che sprovveduti, sono pronti in un futuro non troppo remoto a percorrere ed indicare ai più manipolabili tra i loro supporters.
Che noi vogliamo o meno, i dati demografici dimostrano che i nostri figli vivranno in una società in cui la componente musulmana occuperà percentuali sempre maggiori, dunque la strada della civile coesistenza e della diplomazia è quella da preferire alle bombe sui civili siriani che, al netto di considerazioni ideologiche di merito che questa ricerca non si pone certo come main target, determinano la ricerca della vendetta da parte di coloro che hanno visto perdere le proprie famiglie o, più genericamente, vedono martoriata la propria terra natale e distrutta la loro casa.
Una riproposizione in chiave moderna e ben più devastante delle Crociate combattute tra l’XI ed il XIII secolo d.C. non gioverebbe a nessuno, a maggior ragione non si dimentichi che alla base di innumerevoli sermoni di imam radicali in U.K. (ma non solo) vi sono proprio queste tra le motivazioni addotte.
Peraltro, il senso di odio e sospetto che va propagandosi in U.K. e nella società occidentale in genere, favorisce la fioritura di movimenti antisemiti di estrema destra che possono portare, quale massima conseguenza, alla commissione di stragi in fotocopia a quella consumatasi nella cittadina neozelandese di Christchurch[169] con successivi e prevedibili atti ritorsivi, tali da innescare un circolo vizioso a livello globale da cui sarebbe poi impossibile affrancarsi.
L’azione solitaria di Tarrant peraltro, oltre a portare quale fardello l’incolmabile perdita di vite umane, fornisce un assist propedeutico alla destabilizzazione dei già precari equilibri internazionali nella misura in cui, a titolo esemplificativo, il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan, durante un comizio elettorale postumo alla mattanza, e coincidente con la commemorazione della Campagna del 1915 in cui gli Ottomani sconfissero le truppe australiane e neozelandesi capeggiate dai Britannici[170], così arringava la folla di sostenitori: “Voi pagherete per questo […] I vostri nonni sono venuti qui (n.d.r. a combatterci) e sono ritornati all’interno di bare. Non ho dubbi: noi vi rimanderemo indietro come i vostri nonni”.
- IL CONTRASTO ALLA RADICALIZZAZIONE IN TUNISIA
Nel precedente capitolo abbiamo riservato ampio spazio all’analisi dei processi di radicalizzazione su suolo europeo, l’errore in cui tuttavia molti di noi incorrono è il pensare che la piaga del fondamentalismo islamico colpisca solo il crociato miscredente stanziato in Occidente; come ci apprestiamo ad osservare infatti, alcune realtà statuali a maggioranza musulmana hanno pagato nel corso dell’ultimo decennio un dazio assai maggiore.
L’area del Maghreb, infatti, è afflitta dalla piaga del terrorismo di matrice islamica già a partire dagli anni Ottanta, quando centinaia di combattenti viaggiarono verso l’Afghanistan per combattere l’esercito sovietico, e nel decennio successivo in cui teatro del conflitto è stata l’Algeria, con il Gruppo Islamico Armato (GIA) autore di una violenta campagna contro il Governo del Paese che portò a decine di migliaia di vittime tra la popolazione civile.
In epoca contemporanea, sono ancora impresse nelle nostre menti le immagini drammatiche delle due azioni terroristiche che hanno messo in ginocchio uno dei poli turistici nordafricani, destinazione ogni estate di decine di migliaia di italiani ed europei: la Tunisia.
Gli attentati che hanno preso corpo all’interno del Museo Nazionale del Bardo[171] della capitale Tunisi prima, e su una spiaggia (figura 16) del Governatorato di Sousse[172] poi, hanno delineato il punto più basso, ma non certo l’inizio, della crisi della storia recente del Paese.
Essi hanno rappresentato un colpo quasi mortale al settore turistico tunisino ed alla possibilità di incamerare valuta straniera, con il quasi azzeramento negli anni successivi del numero di turisti occidentali presenti, e la contestuale chiusura di molte strutture alberghiere della nazione, uno stato di crisi da cui ancora oggi la Tunisia fa fatica a riprendersi.
Il presente capitolo ha perciò quale obiettivo, lo studio e comprensione delle misure adottate dal Governo locale per fronteggiare la piaga della radicalizzazione di matrice islamica, caratterizzata da una rapida ascesa a seguito dei moti rivoluzionari che, nel caso di specie, il 14 gennaio 2011 hanno costretto l’allora Presidente della Repubblica Ben Alì ad un precipitoso e forzato esilio in Arabia Saudita.
Figura 36 – Seifeddine Rezgui Yacoubi, uno dei due autori della strage di Sousse (TUN).
Account twitter Elijah J. Magnier.
Vitale supporto al mio approfondimento giunge ancora per mezzo dei dati forniti dalla preziosa ricerca[173] di Lorenzo Vidino, uno dei massimi esperti europei in tema di islamismo, grazie a cui è possibile illustrare un primo quadro generale delle dinamiche proprie del teatro tunisino, dallo scoppio della Primavera Araba ai giorni nostri.
La Tunisia, indipendente dalla Francia dal 1956 e reduce da un lungo periodo storico caratterizzato da povertà ed alti tassi di disoccupazione giovanile particolarmente alta nelle aree interne, a seguito dei moti popolari di protesta del 2011 è stata segnata dalla mancanza di una vera e propria leadership ed un ulteriore indebolimento del già compromesso rapporto fiduciario tra Stato e popolazione; tutti questi fattori hanno lasciato sostanziale campo libero alle attività di proselitismo attuate da gruppi jihadisti di matrice salafita quali Ansar al-Sharia. Essa, approfittando del generale malcontento e delle misere condizioni di vita nelle aree più rurali del Paese, ha creato una robusta rete di reclutamento tra i più giovani; il Paese nordafricano è stato peraltro il più ricco serbatoio al mondo di foreign fighters recatisi a combattere in Siria ed Iraq, Libia, Mali e Yemen, con un numero di soggetti radicalizzati oscillante tra le sei e le settemila unità e, secondo i dati esposti nel 2015[174] dall’allora Ministro dell’Interno Najem Gharsalli, più di dodicimila soggetti bloccati prima di abbandonare il Paese e raggiungere per le area di conflitto.
Questi numeri impietosi, unitamente ai due attentati prima citati, hanno convinto il Governo di Tunisi ad adottare urgenti misure di contrasto come lo scioglimento di oltre 150 organizzazioni sospettate di connessioni con gruppi terroristici, la chiusura di circa 80 moschee che si riteneva essere gestite da elementi jihadisti, nonché arresti di massa di soggetti ritenuti militanti.
Il vero punto di svolta, tuttavia, è stato segnato nel luglio di quattro anni fa dalla promulgazione della Legge antiterrorismo nr. 22/2015, di cui parleremo in seguito, che è stata al centro di vari dibattiti, non ultimo quello inerente alla reintroduzione della pena capitale.
Nel 2016 poi, il Consiglio di Sicurezza Nazionale tunisino ha annunciato l’avvio di un programma destinato a contrastare il fenomeno della radicalizzazione, basato principalmente su quattro punti cardine: prevenzione, protezione, procedimenti giudiziari, condanna. Tale progetto tuttavia, incentrato sull’attività di prevenzione, non sembra sinora aver prodotto risultati eclatanti, ostacolato da uno scarso dialogo tra le istituzioni del Paese e dalla frammentazione degli attori devoluti allo scopo, suddivisi in una deleteria pluralità di commissioni antiterrorismo ad hoc, poco e mal coordinate.
L’altissimo numero di combattenti tunisini poi, ha posto il Presidente Beji Caid Essebsi dinanzi alla difficile questione su come trattare i casi dei foreign fighters recatisi in Siria, Libia ed Iraq, qualora avessero fatto rientro dall’area di conflitto. Nel dicembre 2016, infatti, egli aveva paventato l’idea di concedergli una sorta di grazia, dovuta al fatto che “non ci sono più celle nelle prigioni”, proposta poi ritrattata con l’assicurazione che non vi sarebbe stato né perdono né amnistia, ciò a seguito delle proteste scatenatesi ed enfatizzate dai media nazionali[175].
In tale quadro va fatto cenno all’intervista rilasciata in quei giorni da Abdelfattah Mourou, cofondatore del partito islamista moderato Ennahda ed ex portavoce del Parlamento che così si esprimeva: “Quelli che sopravvivono dovranno presentarsi prima davanti alla giustizia e pagare per ciò che hanno fatto […] Hanno ucciso delle persone, e devono pagare”.
Le posizioni dell’opinione pubblica ad ogni modo, pur non plebiscitarie, si sono contraddistinte per una maggioranza dichiaratasi contraria ai ritorni, prova ne siano la manifestazione di protesta del gennaio 2017, la posizione della General Union of Tunisian Workers[176] (UGTT), ferma nella posizione secondo cui tali soggetti debbnao essere processati nei tribunali della nazione, e non ultima quella delle Forze di Sicurezza favorevoli alla revoca della cittadinanza nei confronti dei combattenti di Daesh[177].
Posizione più morbida è stata invece tenuta dal partito islamista moderato Ennahda[178], che ha proposto l’implementazione di un programma di de-radicalizzazione, definendo i combattenti di ritorno – dati ufficiali del 2018 li stimano in ottocento unità – come individui bisognosi di supporto fisico e psicologico; sullo stesso piano si attesta la Rescue Association of Tunisians Trapped Abroad (RATTA)[179], fautrice di una sorta di tabella relativa al livello di radicalizzazione, suddiviso in cinque stadi[180]:
1° coloro che hanno commesso atti terroristici ed ucciso altre persone;
2° coloro che hanno ricevuto addestramento, ma non hanno compiuto atti terroristici;
3° coloro che sono stati indottrinati, ma non hanno ricevuto addestramento;
4° e 5° coloro che mostrano i primi segni di radicalizzazione, ma non sono stati ancora totalmente indottrinati.
Essa è proiettata verso l’idea di recupero mentale, nonché supporto morale e legale in favore dei combattenti e delle loro famiglie, che vede le prime tre categorie di soggetti seguire un programma di de-radicalizzazione in centri creati ad hoc, mentre gli appartenenti alle ultime due categorie impegnati a frequentare programmi più blandi e sottoporsi a periodiche valutazioni a carattere psicologico.
Allo scopo di iniziare a colmare le deficienze strategiche e conoscitive attinenti la propagazione di ideologie estremiste radicali tra i giovani tunisini da parte di gruppi jihadisti, nel primo trimestre 2017 il Tunisian Institute for Strategic Studies (ITES) ha dato vita ad una ricerca volta alla comprensione dei percorsi e motivazioni personali che hanno condotto i giovani connazionali a combattere per Daesh.
Essa si è sostanziata per mezzo di interviste, effettuate in istituti carcerari di massima sicurezza[181], rivolte ad un campione di 82 foreign fighters, 58 dei quali hanno perpetrato attività terroristiche o ne hanno espresso l’intento, su suolo tunisino nell’arco temporale 2011-2016. Come già visto per molteplici realtà europee, anche la Tunisia non fa eccezione riguardo la fascia d’età più colpita dalla retorica radicale, con i giovani di età ricompresa tra i 20 ed i 29 anni a rappresentare il 55% della platea interessata; in tale quadro si innestano poi ulteriori valutazioni tra cui l’assenza di particolari vincoli familiari (matrimonio, figli), precarie condizioni economiche e fascia sociale bassa, capaci di agire quali validi incentivi.
Altro elemento ricorrente e propedeutico ad una facile manipolazione delle menti, è il livello di scolarizzazione molto basso, con il 70% circa degli intervistati privi del diploma di scuola superiore e che trova un fedele riscontro nella constatazione che la quasi totalità di essi, prima dei moti del 2011 – considerati peraltro un fallimento – non fossero inseriti in ambienti radicali; il diffuso senso di ingiustizia è un ulteriore elemento di destabilizzazione per questi giovani che identificano le sue cause in due distinte tipologie: una inquadrata a livello nazionale, una seconda di livello internazionale.
Quanto alla prima, come spesso accade nelle realtà statuali più povere, essi lamentano una condizione di esclusione sociale ed economica legata a doppio filo con la mancanza di opportunità lavorative tali da garantire un tenore di vita quantomeno dignitoso; la derivante insicurezza economica e senso di marginalizzazione offrono gioco facile all’adozione di posizioni estremiste.
Vi è tuttavia da dire che la specifica criticità è da porre in relazione con alcune aree del Paese che (osservate a seguito più in dettaglio), in virtù della loro particolare conformazione orografica, risultano essere più isolate o comunque lontane dai maggiori centri.
Tra i fattori di malcontento giovanile degli intervistati, fatta eccezione per il periodo 2011-2013, si registrano i divieti e le restrizioni imposte sulla libertà personale e sulla professione del proprio credo religioso, tra di esse annoveriamo:
- ritiro del passaporto;
- frequentazione delle moschee;
- pronunciamento di sermoni a carattere religioso;
- abbigliamento che rifletta la loro affiliazione religiosa;
- tentativo da parte dello Stato di impedire che le donne vestano secondo i dettami religiosi.
Il senso di percepita cospirazione che essi nutrono nei confronti dello Stato, porta questi giovani a ritenere che l’estremismo e la sua retorica costituiscano l’unica forma di libertà d’espressione, instaurando così un processo dicotomico in base a cui, pur essendo debole il senso di appartenenza alla Tunisia in quanto Stato che combatte l’Islam, essa viene tuttavia pensata come tassello di un più alto progetto, vale a dire la nazione araba o comunità musulmana (Umma).
Venendo al senso di ingiustizia legato a dinamiche internazionali, viene riproiettata la pellicola secondo cui non solo “l’Ovest miscredente”, ma anche stessi Governi arabi “traditori e mercenari” stiano complottando alle spalle del mondo islamico e dei Musulmani.
Reputo interessante notare come, al pari delle già esaminate realtà kosovara e britannica, questa sorta di teoria del complotto trovi solide fondamenta nella rievocazione di recenti conflitti; nel caso tunisino a capo della cospirazione globale, di cui fanno parte Russia, i Musulmani sciiti ed altri Paesi, vi sono gli U.S.A., non solo impegnati in prima linea nella Guerra del Golfo (Iraq-1991), guerra in Afghanistan e seconda guerra in Iraq, ma anche in qualità di primi alleati del nemico per antonomasia del mondo arabo: Israele.
Un altro studio, questa volta effettuato nei due sobborghi tunisini di Douar Hicher ed Ettadhamen ha evidenziato come l’81% del campione di intervistati conoscesse qualcuno che è andato a combattere in Siria, il 57% non fosse concorde con la decisione del Governo di inserire Ansar al-Sharia in Tunisia nella lista dei gruppi terroristici, mentre il solo 29% dichiarava di pregare e frequentare una moschea[182] .
Il senso di vittimizzazione prodotto da questa già collaudata visione globale, ha facilitato il processo di avvicinamento ed affiliazione di migliaia di giovani ai gruppi estremisti, estensori del concetto di “Jihad santa” quale mezzo per difendere la dignità del mondo arabo.
Detto dunque dell’emarginazione e frustrazione di gran parte dei soggetti esposti all’ideologia jihadista salafita, occorre soffermarsi anche sullo strumento preventivo capace di salvaguardarli, ovvero l’educazione/istruzione; innescare un circolo virtuoso che porti ad un più alto livello di scolarizzazione delle future generazioni con contestuale miglior posizionamento nel mercato del lavoro, potrà indebolire il fascino delle ideologie radicali.
Appare scontato che di questo meccanismo debba giocoforza far parte anche un valido sistema di riabilitazione e disengagement dei soggetti radicalizzati detenuti nelle patrie galere, in particolare coloro che si stanno approssimando al fine pena. Attori principali di questo processo dovranno essere le autorità religiose in concorso con organizzazioni della società civile, tuttavia il ruolo più importante potrebbe essere quello demandato alle famiglie degli stessi radicalizzati, posto che il 92,7% di essi considera la famiglia la fonte primaria di stabilità e protezione.
La ricerca di Vidino sottolinea poi come, nell’ottica di un graduale reinserimento dei militanti nella società, posto che la maggioranza di essi ha individuato la repressione esercitata dal Presidente Essebsi a partire dal 2013 quale causa principale della loro stessa radicalizzazione, misura efficace potrebbe essere rappresentata da una sorta di amnistia, quantomeno per i soggetti che non si sono resi artefici di azioni violente. La repressione indiscriminata delle organizzazioni salafite e dei soggetti in esse inquadrati, potrebbe sortire il nefasto effetto di donare ancora maggior vigore alla narrativa che li pone come perseguitati, con prevedibili conseguenze in termini di nuove adesioni tra i soggetti più manipolabili.
È necessario dunque curare lo sviluppo di una contro-narrativa, propedeutica a ridare vigore ad un Islam moderato, ispirato alla tolleranza sociale e religiosa, capisaldi essenziali per la creazione e mantenimento di un ordine democratico.
Le enormi difficoltà a cui la Tunisia, già messa a dura prova dai moti del 2011 ed i più recenti attentati di Sousse e museo del Bardo, sta facendo fronte per completare con successo la transizione a società democratica, necessita di notevole aiuto anche da parte della comunità internazionale; in tale ottica va inquadrato il summit a cui ha preso parte una delegazione di dodici Parlamentari di otto Stati membri della NATO[183], svoltasi a Tunisi e Bizerte dal 28 settembre al 01 ottobre 2015[184] e capeggiata dal francese Gilbert Le Bris.
L’Assemblea, tracciando subito un quadro delle carenze evidenziate dagli apparati di sicurezza tunisini in occasione dei due attentati del 2015, impreparati a prevenirli ed a rispondere alla minaccia in tempi rapidi, ha anche posto in evidenza forse una delle maggiori criticità con cui il Paese si deve confrontare, ovvero la condivisione di circa 500 chilometri di confine terrestre con la vicina Libia (il 40% di essi è stato dotato di un sistema di barriere di sabbia e fosse d’acqua e filo spinato), ove l’indice di instabilità è pari se non superiore a realtà quali Siria ed Iraq; non a caso, come dichiarato dall’allora Ministro dell’Interno tunisino Mohamed Najem Gharsalli, è proprio in Libia che si sono addestrati ed armati migliaia tra coloro che hanno giurato fedeltà a Daesh.
La dissoluzione della Libia nella sua accezione di Stato a seguito dell’uccisione di Mu’ammar Gheddafi e la contestuale assoluta assenza di controllo del Paese, lo ha reso terreno fertile per i movimenti terroristici ed indisturbata rotta di passaggio per migliaia di giovani tunisini intenti a raggiungere l’area di conflitto del Syraq.
Riportando alla delegazione NATO alcuni dati, Gharsalli aveva all’epoca indicato in tremila (poi rivisto al rialzo) il numero dei giovani tunisini che avevano imbracciato le armi per combattere nelle fila di Daesh in Libia, Siria ed Iraq; dei circa ottocento rientrati in Tunisia, 294 erano stati arrestati e rinchiusi in carcere. Gli sforzi del Governo nei prossimi anni dovranno necessariamente essere rivolti anche ad un più attento monitoraggio delle aree confinarie sia costiere sia terrestri, con alcuni risultati in tal senso erano già maturati tramite ausilio italiano nell’attività di pattugliamento dei confini marittimi, grazie a cui a partire dal 2015 si era registrata una forte diminuzione (trend tuttavia invertito nel 2018) dei flussi migratori in partenza dalle coste tunisine che si affacciano sul Mediterraneo.
Analogo impegno servirà in relazione alla stabilizzazione libica, teatro in cui le attuali e violente battaglie[185] tra le truppe governative del Primo Ministro Fayez Mustafa al-Sarraj (appoggiato dall’Italia) e gli uomini del Generale Khalifa Belqasim Haftar (che conta sul supporto di Francia, Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti)[186] stanno a dimostrare il fallimento dell’attività diplomatica sin qui svolta.
Questi ed altri obiettivi che la Tunisia si prefigge di raggiungere, avranno bisogno del supporto della Comunità internazionale, che avrà il compito di agevolare la maturazione di una classe politica di livello; riguardo a ciò l’Assemblea NATO di Bizerte e Tunisi ha già intrapreso una serie di attività finalizzate all’implementazione delle capacità del Parlamento tunisino quali seminari di aggiornamento, donazione di computer etc. Ciò si rende indispensabile poiché, pur rappresentando la giovane età di molti parlamentari un indicatore positivo di rinnovamento, il dazio da pagare è la fisiologica carenza d’esperienza di questi nei settori strategici della sicurezza.
In termini economici l’Unione Europea ed UNOPS[187] supportano anche progetti a favore del settore della Sicurezza, con stanziamento di somme pari a circa quaranta milioni di Euro per finanziare il Justice Reform Support Programme, vale a dire un processo di modernizzazione della magistratura, il tutto finalizzato ad una più efficace difesa dei confini dai gruppi criminali transnazionali, tramite anche il miglioramento delle capacità dei centri di comando di Medenine, Tataouine e Kasserine.
Tra le altre iniziative messe in atto dall’Unione Europea per supportare il Paese nella lotta al terrorismo vale la pena annoverare[188] l’adozione da parte della Tunisia di una Strategia Nazionale Antiterrorismo il 07 novembre 2016 e lo sviluppo di una policy standard per la prevenzione della radicalizzazione al cui fine è stata attivata una specifica collaborazione con il Radicalisation Awareness Network (RAN).
Senza entrare nello specifico di ciascun progetto, è bene precisare che anche altre agenzie europee tra cui CEPOL[189], Europol ed Eurojust hanno messo a disposizione la loro expertise per raggiungere l’obiettivo di una Tunisia modernizzata e democratica.
Quanto ad altri assetti di cooperazione a carattere regionale, non va dimenticata l’attività di contrasto all’attività di finanziamento dei gruppi terroristici, essendo la Tunisia uno dei membri del Middle East and North Africa Financial Action Task Force (MENAFATF) con la sua unità di intelligence finanziaria – Tunisian Financial Analysis Committee – che negli ultimi anni ha stipulato diversi accordi con soggetti istituzionali, per mezzo dei quali le banche stilano regolarmente dei report in concomitanza di transazioni bancarie ritenute sospette.
Parimenti una citazione va dedicata alla Trans-Sahara Counterterrorism Partnership (TSCP), agenzia regionale a guida U.S.A. di cui la Tunisia è parte integrante, finalizzata all’implementazione delle capacità dei Governi dall’area del Maghreb e Sahel a confrontarsi con le minacce derivanti dai movimenti estremisti; il tutto si va peraltro ad incastonare in un meccanismo di coordinamento sulla gestione della sicurezza delle aree confinarie che nel caso specifico, pur operativo sul fronte algerino, denota invece l’impossibilità di stabilire alcun tipo di cooperazione e monitoraggio sul rientro dei foreign fighters dalla Libia, causa l’assenza di un effettivo Governo centrale.
È mia convinzione tuttavia che il più importante strumento di assistenza nella sicurezza e coordinamento in favore della Tunisia è attualmente la coalizione composta dal G7+6, di cui fanno parte i sette Paesi più industrializzati, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Contrasto alla Droga ed il Crimine, nonché altri Paesi/organizzazioni.
Ogni Paese provvede all’assistenza in uno specifico settore, partendo dalla Francia che ha lavorato in stretto contatto con i Servizi di Sicurezza ed equipaggiato le Forze Speciali tunisine, passando per U.K. che ha collaborato per l’implementazione delle misure di sicurezza nel settore dell’aviazione del Paese nordafricano (incluso il controllo dei passeggeri di voli commerciali), finendo poi con Germania ed U.S.A. che hanno fornito il loro supporto per l’installazione di un sistema di sorveglianza elettronica lungo il confine libico ed Italia, concentrata sul contrasto al traffico di esseri umani[190] nel Mediterraneo.
Sul piano prettamente militare poi, considerata anche la posizione strategica della Tunisia nel Mediterraneo e la base navale di Bizerte in particolare, nel corso di questi ultimi anni la NATO ha profuso molti sforzi per incrementare l’addestramento delle Forze Speciali tunisine, lo scambio di informazioni ed il raggiungimento di un più alto livello di interoperabilità con le proprie truppe; in tal senso vanno considerate una serie di iniziative bilaterali con alcuni Paesi membri quali Francia, Grecia, Turchia, Spagna e Portogallo, senza ancora dimenticare il prezioso scambio di informazioni in atto con l’Italia e con il Centro Operazioni Marittime della NATO avente sede a Napoli.
Chi in questi anni sta giocando un ruolo di assoluto rilievo nell’ausilio alla Tunisia sono certamente gli U.S.A., basti pensare che nel 2014 essi hanno assicurato allo Stato nordafricano una cifra pari a sessanta milioni di dollari in aiuti militari per fronteggiare i gruppi affiliati ad al-Qaida, somma triplicatasi l’anno successivo con la fornitura di 52 mezzi Humvees, una nave guardacoste e specifico addestramento in favore delle Forze di Sicurezza dislocate lungo il confine libico. Il contributo è poi continuato nel 2016 tramite l’utilizzo da parte degli Americani di una base area in territorio tunisino per condurre mirate operazioni che hanno avuto quale esito l’uccisione di dozzine di foreign fighters – 400 tunisini nel 2016 in varie operazioni – all’interno di un campo di addestramento jihadista situato a Sabratha (Libia occidentale) vicino al confine orientale[191].
Un portavoce di U.S. AFRICOM[192] ha poi reso pubblica la collaborazione e lo scambio di informazioni tra membri dell’intelligence U.S.A. ed omologhi tunisini; gli aiuti ormai quantificabili in diverse centinaia di milioni di dollari, hanno ricompreso anche equipaggiamento vario per l’addestramento, altre due navi per contrastare flussi migratori nel Mediterraneo e la consegna di ventiquattro elicotteri da combattimento statunitensi modello OH-58D Kiowa Warrior, con cerimonia di consegna tenutasi presso la base militare tunisina di Gabes[193].
Al netto di tutte le considerazioni di carattere generale sinora maturate, un esame approfondito del fenomeno radicalizzazione in Tunisia necessita di ulteriori dati analitici, partendo dal presupposto che il problema è tutt’altro che superato; l’attentato suicida che ha provocato il ferimento di quindici agenti di polizia a Tunisi del 29 ottobre 2018[194], e che ha portato il Presidente Essebsi a proclamare lo stato di emergenza per un mese per poi prolungarlo sino a fine anno, ne è la prova.
Paradossalmente, nonostante l’aiuto di partner regionali ed internazionali, gruppi estremisti legati ad al-Qaida e Daesh, approfittando del contesto sociale più libertario, hanno incontrato ancora minori difficoltà nel reclutare giovani leve tra le classi più emarginate, dati ufficiali risalenti a fine 2015 già stimavano in seimila unità coloro che si erano recati a combattere in Siria, mentre non meno di mille coloro che avevano fatto della Libia il loro campo di battaglia; va da sé che il contestuale sgretolamento di Daesh in Siria ed Iraq abbia innescato un meccanismo tale che il numero dei combattenti di rientro nella vicina Libia e nella stessa Tunisia, sia destinato ad aumentare con il passare dei mesi[195].
Un recente studio condotto dal Centro tunisino per la Ricerca e gli Studi sul terrorismo ha evidenziato quanto già prima accennato, ovvero il dato secondo cui il 69% dei combattenti jihadisti tunisini si siano recati in Libia per ricevere addestramento militare. Ancora una volta nostro malgrado, appare ovvio valutare ciò quale banale conseguenza dell’assenza del minimo controllo lungo la linea confinaria tunisino-libica. La ragione di ciò va ricercata nella caduta di Zine el-Abidine Ben Ali, ed ancora prima in quella del Colonnello Gheddafi, a seguito della quale si è creata una enorme falla di sicurezza nel confine sud-orientale, di cui hanno approfittato le organizzazioni criminali per espandere i loro traffici legati a beni di contrabbando o illegali quali alcool e droga ed armi, distruggendo contestualmente le attività di commercio legali.
La proliferazione di gruppi armati in territorio libico lungo la linea di demarcazione con la Tunisia infatti, ha reso ancor più aspro il confronto tra i trafficanti per aggiudicarsi lo sbocco sulle aree confinarie; il Governo tunisino stima che vi siano almeno 15 diverse fazioni nell’area.
Solo a titolo esemplificativo e senza voler incentrare la ricerca sul contesto libico, si pensi al confine di Dehiba-Wazin (figura 17), situato vicino alla località di Nalut ed alla catena montuosa Nafusa, ove le tribù provenienti dalla città di Zintan, impegnate a contrastare il dominio delle milizie armate berbere, si sono alleate con un altro gruppo armato chiamato “Si’an”, con quest’ultimo che aveva collaborato sino al 2011 con l’allora regime di Gheddafi per monitorare la linea di confine[196].
Ad onor di cronaca va detto che anche sotto il Presidente Ben Ali l’attività di contrabbando in genere era tollerata, in virtù di un “compromesso” con commercianti locali, affinché fosse impedita l’infiltrazione nel Paese di trafficanti dei tre prodotti sopra citati. Altro fattore pivotale complice della disastrosa situazione lungo il confine sudorientale è sostanziato dalla sua scarsa attrattività per gli investimenti stranieri, ostacoli burocratici e scarsa trasparenza del Governo stesso fanno il resto.
Nel 2017, le persistenti voci di riserve di petrolio nascoste ed il sospetto di collusioni governative con multinazionali straniere hanno causato violente proteste nel Governatorato di Tataouine, a seguito delle quali alcune compagnie straniere sono state indotte ad interrompere la produzione, ed a spostare il proprio personale a scopo precauzionale.
Figura 17 – Linea di confine sudorientale tunisina (ctc.usma.edu).
La cosiddetta Arab Spring tunisina, tuttavia, non ha portato quale scomoda dote solo lo sfaldamento di ogni forma di legalità lungo il confine con la Libia; effetti parimenti deleteri se non peggiori sono riconducibili all’opera di radicalizzazione perpetrata da soggetti e gruppi estremisti.
Figura di spicco nel contesto tunisino è stata senza dubbio quella di Seifallah Ben Hassine[197] che, dopo essere stato scarcerato, ha fondato Ansar al-Sharia in Tunisia (AaST)[198], formazione estremista vicina ad al-Qaida, che il 09 aprile 2013 postava sul proprio sito web una foto raffigurante alcuni combattenti dell’autoproclamato Stato islamico, con a fianco la frase: “O leoni di Dio, che in tutta la Terra invocate Allah è grande, per la vittoria e la conquista che ci attende. Rallegratevi, la creazione del glorioso Califfato è vicina. La Sharia regnerà in ogni angolo della Terra”[199].
Vi sono poi stati altri due gruppi jihadisti, collegati ad al-Qaida, identificati dalle autorità tunisine nel 2012 e resisi responsabili di violenti attacchi nel nord del Paese, essi sono: Katiba Uqba Ibn Nafi (KUIN) e Okba Ibn Nafaa Brigade. La relazione intercorrente tra questi gruppi non è mai stata chiarissima, tuttavia è possibile che KUIN ed AaST siano state in realtà branche diverse di uno stesso progetto, distinte da una mera suddivisione dei compiti interni, con la sfera militare devoluta a KUIN, e l’attività di proselitismo in carico ad AaST.
Un’ulteriore formazione prende il nome di Jund al-Khilafa in Tunisia (JaK-T); come KUIN essa “opera” prevalentemente nel Governatorato di Kasserine, regione occidentale al confine con l’Algeria ed ulteriore fonte di preoccupazione internazionale al pari di Tataouine.
Un report stilato nel 2018 dal Carnegie Endowment for International Peace dichiara che a partire dal 2011 sono stati rispettivamente 127 i militanti islamici e 118 gli appartenenti alle Forze di Sicurezza tunisine, a rimanere uccisi in azione.
Le Forze di Sicurezza tunisine sono state impegnate in questi ultimi anni in periodiche operazioni finalizzate alla neutralizzazione di cellule terroristiche, riconducibili a queste formazioni, nelle aree di Kasserine, Sidi Boudiz e Ben Gardane con quest’ultima località, situata anch’essa lungo la linea di confine sud-orientale con la Libia, nota per aver prodotto il più alto numero di foreign fighters di tutto il Paese.
Matt Herbert, uno dei massimi esperti del settore, ha pubblicato nel giugno 2018 una ricerca secondo cui i combattenti di JaK-T sarebbero circa un centinaio con tendenza ad aumentare, elemento che sta rendendo il gruppo jihadista il più forte dell’area nord-occidentale[200].
Come già osservato per altre realtà locali, anche il Governatorato di Kasserine si contraddistingue per la forte marginalizzazione della popolazione locale e la contestuale penuria di possibilità di riscatto socio-economico, fattori che ne fanno la regione della Tunisia con i peggiori indicatori nel settore, come anche certificato da una ricerca sviluppata da Ahmed Nadhif, che nel giugno 2017 così scriveva[201]:
“[…] le deteriorate condizioni di sicurezza ed economiche nelle aree montuose tunisine occupate da gruppi jihadisti nei Governatorati di Kasserine, Jendouba e Sidi Bouzid. I residenti stanno soffrendo per via del declino nell’area dell’attività agricola e della pastorizia, causato dall’instabile situazione legata alla sicurezza e dall’inettitudine dello Stato a fornire mezzi di aiuto alternativi”.
Fattore di ulteriore dibattito ha riguardato la distinzione o meno di KUIN da Okba Ibn Nafaa Brigade con quest’ultima che il 03 dicembre 2017, colpita pesantemente dai raid delle Forze di Sicurezza tunisine – all’epoca contava circa cento effettivi suddivisi in cellule di piccola entità – postava un contenuto video dal titolo “I Leoni di Kairouan” per mezzo de “Al-Andalus Foundation for Media Production”; in esso era possibile osservare i combattenti impegnati nelle attività di addestramento ed in alcune operazioni terroristiche[202].
Quanto al target prescelto da queste formazioni per il reclutamento, esso si è indirizzato verso giovani in precarie condizioni economiche ed ai margini della società, dato che peraltro viene confermato durante un’intervista rilasciata da uno studente sostenitore di AaST: “Loro accolgono la gente, portano avanti attività caritatevoli, cosa che lo Stato non fa, girano con furgoni portando cibo assistenza, vestiti in ogni parte del Paese nelle periferie povere”.
Luogo demandato all’attività di radicalizzazione e reclutamento sono state le moschee non controllate dal Governo che nel 2013, periodo di sua massima espansione, l’AaST controllava in un numero variabile tra cento e cinquecento su un totale nazionale di cinquemila strutture; si pensi che i due responsabili[203] della strage al museo del Bardo erano stati radicalizzati in una di queste moschee salafite.
Proprio la strage del Bardo è stata al centro di uno specifico approfondimento[204] condotto da Charlie Winter, ricercatore britannico della Quilliam Foundation; egli aveva paventato un possibile nesso di relazione tra l’attentato nella località balneare di Sousse con altre due stragi che avevano preso corpo rispettivamente a Lione (FRA) ed in Kuwait presso la moschea Imam Sadiq.
Winter aveva specificato che, sebbene solo quest’ultimo fosse stato rivendicato da Daesh, solo pochi giorni prima il suo portavoce Abu Mohamed al-Adnani aveva aizzato i Musulmani sunniti a rendere il mese del Ramadan “un mese di disgrazie per i kafir (n.d.r. i miscredenti)” in un momento in cui forse gli appelli lanciati ai lupi solitari in altri Paesi possono rappresentare la ricerca di un nuovo slancio in grado di far fronte alle continue perdite di terreno in Iraq, Siria e non ultimo, in Libia.
Allo stesso modo anche prigioni, università (e.g. Manouba University di Tunisi) o ancora pagine Facebook e profili Twitter, Instagram etc. sono state il palcoscenico ideale per la ricerca di nuovi affiliati[205] o, dato ancora più significativo, per la ricerca di giovani – sia uomini sia donne – da utilizzare per attacchi kamikaze con esplosivo.
A titolo esemplificativo può essere citato il caso di Houssam Abdelli[206], fattosi esplodere il 24 novembre 2015 (figura 18) in prossimità di un autobus che stava trasportando la Guardia Presidenziale tunisina in Avenue Mohammed V, provocando la morte di quindici persone e la cui azione, rivendicata da Daesh il giorno successivo, ha rappresentato un salto di qualità rispetto ai precedenti attentati di Sousse e Bardo, in quanto ha colpito al cuore un simbolo dello Stato.
Abdelli è il frutto dell’attività di reclutamento effettuato dagli estremisti salafiti nel periodo 2011-2013, immediatamente successivo alla caduta di Ben Ali e contraddistinto come detto, da una totale assenza di restrizioni sino a quel momento imposte.
Il primo approccio di Abdelli con i reclutatori è avvenuto presso la moschea Guffran in un periodo in cui il giovane, appassionato di calcio ed in cerca di un lavoro per potersi mantenere, era solito passare le giornate nei bar, bevendo e fumando hascisc.
Figura 18 – Fotogramma del video di rivendicazione girato da Houssam Abdelli, prima di compiere l’attentato di Tunisi nel novembre 2015.
Senza voler tramutare questa ricerca in una biografia del kamikaze tunisino, è tuttavia possibile tracciare alcune considerazioni di carattere generale sul target medio individuato dagli imam in Tunisia per radicalizzare giovani dediti alla causa dell’Islam radicale sino al sacrificio estremo:
- immaturità giovanile;
- disoccupazione o problemi finanziari;
- frustrazione circa la propria condizione sociale ed economica;
- problemi connessi alla microcriminalità e rapporti con le Autorità, in specie per coloro che provengono da realtà periferiche difficili;
- comportamenti estremi come l’uso di alcool e droghe (n.d.r. ad essi viene offerta una possibilità di catarsi);
- mancanza di alternative su come vivere la propria vita;
- personalità debole, facilmente manipolabile da soggetti terzi.
Tali dinamiche non hanno risparmiato negli anni passati nemmeno i giovanissimi non ancora maggiorenni, ancor più vulnerabili anche in virtù di un livello di scolarizzazione bassissimo[207].
Quando si parla di reclute pronte ad immolarsi per la causa, è bene tener presente che uno dei focus principali di Daesh è l’Europa; in tal senso meritano una citazione due soggetti le cui azioni hanno riaffermato una volta di più il potere attrattivo del messaggio di Daesh verso i giovani tunisini, autori in questo caso di azioni terroristiche su suolo europeo.
Stiamo parlando di Mohamed Lahouaiej-Bouhlel[208] e di Anis Amri[209], entrambi originari dello Stato nordafricano i quali, a mio parere, incarnano come meglio non si potrebbe la tipologia di soggetti destinatari indiretti (auto-radicalizzazione online) e diretti del messaggio jihadista, comunque soggetti marginalizzati e gravati da percorsi personali/familiari difficili.
Quanto al primo infatti, successive indagini hanno appurato una condizione di instabilità mentale confermata dallo psicologo tunisino Chemceddine Hamouda che l’aveva seguito già nel 2004; condizione aggravatasi negli ultimi mesi con l’imminente divorzio dalla moglie che lo aveva cacciato di casa[210], terreno fertile dunque su cui la propaganda online di Daesh ha raccolto velocemente i frutti di quanto seminato.
Quanto ad Amri invece, egli apparteneva ad una rete salafita tedesca “True religion” avente quale capo, nella città di Colonia, il predicatore palestinese Abou Nagie[211], dunque già inserito in ambienti radicali. Il video di rivendicazione ex-post di Daesh (postato poche ore dopo l’attentato da AMAQ Agency), abile ad attribuirsi la paternità di ogni azione terroristica compiuta nelle terre dei miscredenti da un proprio soldato (sotto questo aspetto dissimile da al-Qaida ben più accorta nel rivendicare qualsiasi azione) è prova di ciò.
Prima di proferire varie minacce verso il popolo dei Crociati, Amri aveva pronunciato il proprio giuramento di affiliazione: “Io presto il mio giuramento di fedeltà al Califfo Abu Bakr al-Baghdadi. Mi impegno a partecipare al jihad contro i nemici di Allah”[212].
Molto importante in tema di reclutamenti è stato senza dubbio anche il ruolo svolto dagli jihadisti made in Tunisia, è questo il caso di Abu Yahya al-Tounessi che nel marzo 2015, kalashnikov in spalla, per mezzo di uno dei tanti video propagandistici dell’autoproclamato Califfato, incitava i suoi connazionali ad unirsi a Daesh, minacciando poi il Governo del proprio Paese: “Noi stiamo venendo a riconquistare la Tunisia. Giuro che non sarete sereni ora, con lo Stato islamico a pochi chilometri da voi, appena oltre il confine”[213].
Di medesimo connotato ed intento può essere citato un altro video propagandistico, postumo di un mese rispetto al precedente, in cui un uomo armato a volto coperto, facente parte di una formazione chiamata Tripoli Province ed affiliata a Daesh, prometteva attacchi per vendicare i miliziani jihadisti detenuti in Tunisia: “Lo Stato Islamico è solo a pochi chilometri da voi (n.d.r. Tunisia), stiamo arrivando. […] Fratelli, venite in Libia. Non fatevi umiliare dai dittatori (n.d.r. tunisini). I Musulmani hanno il loro Stato ora”.
E’ chiaro come, anche in questi appelli, si ripeta il canovaccio che pone al centro la vittimizzazione dell’Islam e le umiliazioni patite da coloro che lo vogliano praticare; il richiamo al contesto libico che ho voluto effettuare non è casuale, in quanto il Governo di Tunisi che ha indicato in 1500 gli uomini andati a combattere nello Stato limitrofo, nel 2017 stimava che questo numero, come già accennato, sarebbe cresciuto a dismisura a seguito dello sfaldamento di Daesh in Siria ed Iraq.
Tornando dunque alle misure intraprese sinora dal Governo di Tunisi per combattere il fenomeno della radicalizzazione, non va dimenticata la creazione nel 2015 della Agenzia per la Difesa, Intelligence e Sicurezza, finalizzata a demandare maggiore e meglio definito potere alle Forze Armate nelle operazioni antiterrorismo. Ancora nel 2015 è stata creata la Commissione Nazionale sull’Antiterrorismo che nel novembre 2016, con l’ausilio del Consiglio Nazionale di Sicurezza, ha introdotto una nuova strategia per combattere terrorismo ed estremismo, basata sui quattro pilastri già menzionati ad inizio paragrafo.
Grazie a queste ed altre iniziative, nel 2016 più di quindicimila sospetti estremisti sono stati monitorati, 160 cellule jihadiste sono state smantellate e più di 850 terroristi arrestati.
Già dal 2014 tuttavia, l’attività di prevenzione aveva riguardato anche altri aspetti, a seguito di un attacco sulla montagna Jebel Chaambi (vicino Kasserine) costato la vita a quattordici soldati; una massiccia attività di repressione aveva portato alla chiusura di moschee, stazioni radio, emittenti televisive e network simpatizzanti o collegati con AaST.
A fine 2015 invece il Ministero per gli Affari Religiosi aveva dato vita ad una campagna di contro-narrativa con l’intento di avvicinare i giovani per mezzo delle piattaforme Twitter e Facebook, mentre nel giugno 2017 il Ministero per l’Educazione e le Ricerca Scientifica ha stanziato, su base quinquennale, una somma pari ad 1,2 milioni di dollari con l’intento di studiare i percorsi di radicalizzazione dei giovani, attuando contestuali misure per fronteggiare lo specifico fenomeno[214].
Iniziative analoghe hanno beneficiato di ulteriore slancio anche in ambito internazionale grazie al progetto “Strengthening Resilience”[215], messo in atto dal British Council e dall’Ambasciata britannica, la cui durata è prevista sino al 2021, che si propone di rinforzare la resilienza dei giovani delle comunità più vulnerabili, in funzione di contrasto alle narrative estremiste dei gruppi jihadisti.
Il programma, tra gli altri, si pone quali principali obiettivi:
- una migliore comprensione della vulnerabilità all’estremismo violento;
- valide strategie comunicative in grado di fornire un’alternativa all’estremismo.
Ulteriori iniziative, intraprese a livello legislativo negli ultimi anni e non immuni da critiche da parte di Amnetsy International, sono state l’annuncio di una più stretta regolamentazione sull’uso del niqab da parte delle donne, e restrizioni atte a rendere più difficoltoso l’espatrio di soggetti under 35 diretti in Libia, Turchia e Serbia, ritenuti essere punti cardine per un successivo approdo in Siria ed Iraq[216].
Le riforme operate da un quinquennio a questa parte peraltro, non sono sempre state sinonimo di progresso dello stato di diritto, rivelandosi dubbia la trasparenza ed affidabilità di molti membri delle Forze di Sicurezza che, secondo l’opinione diffusa di vari funzionari, hanno mistificato il senso del passaggio ad una transizione democratica del Paese con l’uso indiscriminato della forza tramite l’uso di pratiche repressive, piuttosto che come un’occasione per rinsaldare il rapporto tra le stesse e la popolazione.
In tale quadro, nel 2017 Amnesty International ha denunciato che le Forze di Sicurezza, avvalendosi dei poteri demandati dallo Stato di Emergenza proclamato dal Presidente Essebsi, hanno proceduto a migliaia di perquisizioni senza alcuna autorizzazione della magistratura, restringendo arbitrariamente dozzine di persone agli arresti domiciliari, con l’utilizzo peraltro di forme di tortura nei centri di detenzione del Paese.
Proprio le carceri, alcune delle quali operanti al 150% della loro capienza massima e fulcro di animati dibattiti, in considerazione del previsto crescente numero di combattenti di ritorno, sono state al centro di un progetto – supportato dal Governo olandese – lanciato nel 2015 dal Directorate General of Prisons and Rehabilitation (DGPR) che si pone quale scopo la de-radicalizzazione dei detenuti negli istituti penitenziari e la creazione di centri volti alla reintegrazione nella società di coloro che sono prossimi ad essere rilasciati, al fine anche di mitigare il rischio di recidiva nei meccanismi di radicalizzazione[217].
Veniamo invece ora ad uno dei reali punti di svolta nella storia recente della Tunisia, ovvero l’approvazione in data 24 luglio 2015 della legge Antiterrorismo e contro il riciclaggio di denaro[218] da parte dell’Assemblea di Rappresentanti del Popolo con 174 voti a favore e 10 astenuti; la sua pubblicazione è stata al centro di vari tentativi di ostruzionismo ed oggetto di postuma petizione, promossa (31 luglio 2015) da nove ONG tra cui Amnesty International e Human Rights Watch.
Essenziale sottolineare che la sua approvazione è avvenuta in un momento storico ove il Paese, reduce dagli attentati di Bardo e Sousse, e gravato dalla necessità di mandare un segnale forte nel campo della lotta al terrorismo di stampo religioso, viveva nello stato d’emergenza dichiarato il 04 luglio dal Presidente Essebsi.
Tale condizione, disciplinata dall’art. 80 della Costituzione tunisina, permette al Capo dello Stato – dopo essersi consultato con il Capo del Governo, il Presidente dell’Assemblea dei rappresentanti del popolo e dopo aver informato il Presidente della Corte Costituzionale[219] – di prendere le misure necessarie nei casi di un pericolo imminente che minacci le istituzioni della nazione, la sicurezza e l’indipendenza del Paese, ed impedisca il funzionamento regolare dei poteri pubblici[220].
La sua approvazione è stata al centro di aspre polemiche, in quanto ritenuta un passo indietro significativo rispetto ai principi democratici stabiliti con la nuova Costituzione del Paese redatta solo un anno prima; fattori di particolare preoccupazione sono stati:
- la non sufficientemente chiara definizione di terrorismo[221];
- l’allungamento dei termini del fermo di polizia[222], frangente in cui il codice penale tunisino non prevede assistenza legale, causando forte limitazione al diritto alla difesa, principio peraltro in totale antitesi con quanto previsto dall’articolo 29[223] della Costituzione[224] – Titolo II Diritti e Libertà;
- l’obbligo da parte dei cittadini, qualora vengano a conoscenza di attività terroristiche o ad esso preparatorie, di informare le autorità pubbliche anche in violazione del segreto professionale (obbligo tuttavia non applicabile ad avvocati, parenti e giornalisti);
- la reintroduzione della pena capitale per detenuti accusati di reati inerenti il terrorismo, le cui azioni siano sfociate in omicidi e/o stupri[225].
Ciò, benché la pena di morte non sia stata abolita dal Testo Costituzionale introdotto nel 2014[226] e sia altresì prevista dal Codice Penale (artt. 4-9) del Paese per numerosi altri reati, sancisce di fatto un punto di rottura in virtù della sottoscrizione della moratoria internazionale firmata dal rappresentante permanente della Tunisia presso le Nazioni Unite il 21 dicembre 2012, e di una situazione di fatto ove l’esecuzione dell’ultima pena capitale risaliva al 09 ottobre 1991.
La legge ha suscitato ulteriori polemiche anche in relazione dell’articolo 68 che conferisce immunità agli agenti di pubblica sicurezza nell’esercizio delle loro funzioni anche nel caso in cui l’esercizio della forza risulti in contrasto con il diritto alla vita, e dell’articolo 69 che prevede la possibilità per i Tribunali di tenere udienze a porte chiuse.
Tra le altre misure controverse, è ancora corretto citare quella conferente alle Forze di Polizia l’attribuzione di “tecniche speciali d’investigazione”[227] tra cui le intercettazioni ambientali e telefoniche ed il ricorso ad agenti infiltrati, nonché la possibilità di mantenere l’anonimato (articoli 68 e 70) per vittime e testimoni citati in processi legati al terrorismo.
Quest’ultima, se per un verso appare legittima allo scopo di salvaguardare l’incolumità degli accusatori, dall’altro rischia di creare uno squilibrio, limitando fortemente le possibilità degli imputati di difendersi dalle accuse mosse loro.
Essa contiene ovviamente anche aspetti migliorativi rispetto alla precedente versione, cito a scopo esemplificativo l’introduzione di un sistema di indennizzi per le vittime di attentati terroristici, garantendo loro accesso gratuito a cure mediche ed assistenza legale (art. 75).
Detto delle attività intraprese sul piano nazionale ed internazionale in vari settori per giungere alla stabilizzazione del Paese, nonché delle fisiologiche e molteplici criticità sinora palesatesi, ritengo opportuno tracciare alcune valutazioni conclusive sul quadro interno recente, necessarie a capire le ragioni che hanno portato allo stato de quo, alla luce anche delle prossime elezioni parlamentari (06 ottobre 2019) e presidenziali (10-17 novembre 2019).
Settore di particolare criticità è quello economico, aggravato dall’ingente debito pubblico -passato dal 35% rispetto al valore del PIL[228] nel 2011 al 70% attuale – e dal più alto tasso di disoccupazione di tutta l’area nordafricana; quest’ultima paradossalmente, nonostante si sia detto in precedenza del basso livello di scolarizzazione dei giovani radicalizzati e dei ragazzi in genere, è causata di contro dall’altrettanto ampia schiera di laureati i quali, in virtù del loro status, faticano ad inserirsi nel tessuto lavorativo nazionale non ancora maturo ad accogliere determinate professionalità. I due fattori uniti producono una percentuale di disoccupati che nella fascia giovanile si avvicina al 35%.
A ciò si aggiunge lo squilibrio in essere tra est ed ovest, la diffusa corruzione e, non ultima, la svalutazione nel corso del 2018 del dinaro tunisino, deprezzatosi del 35% nei confronti dell’Euro, con contestuale aumento del prezzo dei beni di prima necessità pari al 15%, tutti fattori che stanno portando ad un aumento dei flussi migratori verso l’Europa, ed Italia[229] in particolare.
Il fragile equilibrio politico che registra la quasi forzata coesistenza al potere dei partiti Ennahda (islamico) e Nidaa Tounes (laico)[230], nonostante le rassicurazioni del portavoce del partito islamico Imed Khemiri[231], impediscono ad ora la programmazione di progetti politici a lungo termine. Sull’altro fronte risulta evidente come i dati scaturenti dalle elezioni per il rinnovo delle istituzioni locali svoltesi il 06 maggio 2018 pongano le altre due formazioni Front Populaire (5,3%)[232] e Courant dèmocratique Attayar (4,9%)[233] in posizione nettamente minoritaria e lontana dal poter modificare gli equilibri esistenti. Il dato tuttavia poco rassicurante ed indice dello scollamento politica-popolazione e della disillusione della società nei confronti del processo di transizione politica, è rappresentato dalla scarsa affluenza registrata, con il solo 35% degli aventi diritto che ha espresso la loro preferenza[234].
A corollario di questa mia ricerca sul particolare contesto tunisino, desidero soffermarmi su un report[235] della giovane ricercatrice Lydia Letsch, basato su venticinque interviste (figura 19) condotte nel maggio 2018 ed aventi quale target il pensiero di altrettanti soggetti tunisini e non, legati ad organizzazioni della società civile di stampo islamista vicine al partito Ennahda, neonate associazioni di giovani con sede a Kasserine e Medenine, nonché professionisti del panorama internazionale, tutti coinvolti a vario titolo e con differenti professionalità in progetti nazionali ed internazionali di supporto alla sicurezza del Paese.
Figura 19 – Tabella riportante le categorie di soggetti intervistati da Lydia Letsch.
Passando in rassegna in termini generali i vari aspetti emersi dalle interviste, elemento ridondante risulta la necessità di creare una strategia a lungo termine che consenta di raggiungere più lusinghieri risultati nella lotta alla radicalizzazione ed alla creazione di un aggiornato database relativo ai cosiddetti returnees[236], risultati ancora limitati a causa dello scarso dialogo tra i vari Ministeri e la moltitudine di commissioni antiterrorismo ad hoc, lacuna questa che ha portato da un lato all’incarcerazione di alcuni combattenti senza il supporto di alcuna base legale, dall’altro alla libera circolazione di altri, rimasti impuniti.
Di pari passo risulta ancora passibile di correttivi il coordinamento tra attori internazionali quali G7+6 e le organizzazioni della società civile tunisina in quanto, pur essendo aumentato lo stanziamento di fondi a favore di queste ultime dal 2016, le attività di Preventing/Counter Violent Extremism (P/CVE) poste in essere a livello locale sono limitate al solo livello terziario di intervento[237], dunque molte di esse sono sviluppate senza il coinvolgimento delle comunità “indigene”.
I copiosi fondi internazionali sono ancora elemento di discussione nella misura in cui alcuni intervistati, pur riconoscendo la maggiore capacità di attrazione e dialogo esercitata dagli attori locali – essendo questi meglio interconnessi con il contesto sociale ed ambientale di interesse – diffidano dell’esponenziale crescita del numero di NGOs[238] locali, temendo che essa sia da porsi in relazione con una mera ed avida ricerca di soldi.
Altro aspetto a mio avviso ancor più pregnante è legato all’attività sul terreno, messa in atto dalle Nazioni Unite, fondantesi su tre determinate aree d’impiego:
– zone di confine;
– istituti penitenziari;
– quartieri popolari.
Ebbene, alcune interviste hanno evidenziato un impegno economico ed operativo grandemente superiore sia stato predisposto (con analoghe previsioni per il triennio 2019-2021) nel Governatorato di Medenine, con possibili risvolti negativi in altre aree confinarie invece marginalizzate; esso sta inoltre incontrando alcuni ostacoli quali ad esempio la difficoltà di accesso alle carceri da parte dei funzionari delle Nazioni Unite, suscitando peraltro malcontento tra le stesse associazioni locali di Medenine le quali lamentano mancanza di trasparenza nei criteri utilizzati per la scelta dei progetti da finanziare.
Simile meccanismo si ripete nel caso dei progetti finanziati e diretti dall’Unione Europea ove, tuttavia, la scelta solo di poche e determinate di NGOs tunisine ben strutturate va posta in relazione all’esiguo numero di quelle che sono effettivamente in possesso dei requisiti per collaborare in tali progetti.
Degno di nota è poi il capitolo afferente il tipo di criterio che gli attori internazionali adottano nell’approcciarsi alla problematica radicalizzazione in base all’obiettivo perseguito; viene prima citato quale esempio il modus operandi dei Canadesi, incentrato su progetti legati alla famiglia, seguito da quello degli Americani, propugnatori del buongoverno e del principio di legalità nella sua accezione antitetica alla violenza dell’estremismo.
Questa diversità racchiude a mio parere una visione dicotomica in quanto, se nel raffronto appena menzionato assume connotati positivi derivanti da un approccio multidisciplinare, nel relativo commento a seguito ravvedo una critica non tanto velata alla disomogeneità di due specifici metodi: “Il Francese considera il radicalismo collettivo come terrorismo, il singolo soggetto radicale anche a livello politico è un futuro jihadista, per gli Americani è l’opposto. Perciò tu vedi in Tunisia il progetto francese che finanzia un’attività sul radicalismo di massa, gli Americano invece lavorano sulle condotte jihadiste”.
Fattore economico che si collega al rapporto tra le organizzazioni della società civile tunisina ed i finanziatori internazionali, riguarda l’accusa secondo la quale questi ultimi sviluppino attività più ad ampio raggio e finanzino principalmente quelle che decidano di seguire i loro progetti, non sempre ritenuti attagliati alle specifiche esigenze della comunità. Uno dei casi specifici in cui trova riflesso di questa dinamica, è la tematica del ritorno dei foreign fighters in Tunisia, non centrale nell’attenzione degli attori internazionali e che invece, il caso emblematico di un bimbo orfano rimasto tredici mesi in un carcere libico e lo stato di sovraffollamento degli istituti tunisini (con rischi connessi alla radicalizzazione di ampie fasce di popolazione penitenziaria), indurrebbe a considerare diversamente.
La ricercatrice in conclusione, illustrando alcuni concetti che mi sento di fare propri, evidenzia come la preferenza delle istituzioni internazionali a collaborare maggiormente con NGO più “occidentalizzate”, a discapito di altre ubicate in aree rurali, generi condizioni diverse, a volte inique, in cui gli attivisti locali si trovano a dover operare, premiando sovente coloro che attuano progetti più in linea con chi elargisce i fondi.
In ultima analisi, una delle priorità in Tunisia – come del resto in altri Paesi dell’area nordafricana e mediorientale, fortemente dipendenti nel settore da progetti ed investimenti occidentali – è quella di mappare e sincronizzare le innumerevoli attività di CVE attuate localmente (e.g. creazione di una contro-narrativa), con quelle sino ad ora sviluppate dal gruppo di lavoro internazionale finanziato dal G7+6; ciò al fine di rendere più performanti i progetti e le capacità anche in contesti più limitati o marginali, tramite anche l’introduzione di un meccanismo di raccolta fondi su piccola scala.
Priorità queste che, a ben vedere, sono elemento fondante della Risoluzione 2178[239] redatta nel 2014 dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite la quale ad esempio, al paragrafo 16 del capitolo inerente la Cooperazione internazionale indica: “Incoraggia gli Stati Membri a coinvolgere ampie fasce delle comunità locali e di attori non governativi nello sviluppo di strategie di contrasto alla narrativa propria dell’estremismo violento che può incitare ad atti terroristici e portare alla creazione di condizioni ideali per il terrorismo, compreso l’incoraggiamento verso giovani, famiglie, donne, religiosi, leader culturali e nel campo dell’educazione, e tutti gli altri gruppi interessati della società civile, ad adottare approcci appropriati al contrasto del reclutamento per mezzo di questo tipo di estremismo violento, promuovendo altresì l’inclusione sociale e la coesione”.
CONCLUSIONI
29 giugno 2014: dalla lontana moschea al Nourj di Mosul, l’autoproclamato Califfo Abu Bakr al-Baghdadi è entrato nelle nostre case lasciandoci in dote il suo messaggio di terrore.
29 aprile 2019: dopo quasi cinque anni di assenza, il quarantasettenne iracheno è riapparso con un video di diciotto minuti, seduto davanti ad un muro bianco con al fianco un kalashnikov; un’immagine più simile ai video anni Novanta di Osama Bin Laden che ai cortometraggi spettacolari a cui gli strateghi della comunicazione di Daesh ci avevano abituato.
In questo lustro si è consumata la storia di Daesh, dalla sua proclamazione al periodo di massima espansione territoriale, sino alla sua smaterializzazione che è storia dei giorni nostri. Cinque anni in cui il messaggio di al-Baghdadi e dei propugnatori di un Islam radicale non è cambiato di una virgola, dapprima ispirato all’odio atavico verso i Crociati occidentali responsabili degli accordi Sykes-Picot, poi verso quegli stessi miscredenti che hanno sconfitto le ultime sacche di resistenza jihadista nella discarica siriana di Baghouz.
Al-Baghdadi è il simbolo di una visione distorta dell’Islam che, pur annientato nel suo progetto di Stato regolato dalla Sharia e duramente colpito nel suo braccio armato, non dà segnali di resa definitiva, pronto invece a riorganizzarsi sotto altre mutevoli e mortifere forme.
In tale quadro vanno interpretati gli appelli ai lupi solitari o come li si voglia chiamare, ad attaccare l’Occidente, con la Francia “ed i suoi alleati” in prima fila tra i nemici da distruggere. Allo stesso modo sono da intendersi le lodi rivolte al gruppo di attentatori che nel giorno di Pasqua hanno insanguinato lo Sri Lanka lasciando sul terreno centinaia di vittime; essi “hanno riscaldato i cuori dei Musulmani” e vendicato i fratelli musulmani caduti a Baghouz. La sfida ideologica che attende l’Occidente nei prossimi decenni anni è di gran lunga più impegnativa di quella che ha permesso di polverizzare in poche settimane alcune migliaia di combattenti di Daesh mettendone in fuga altrettanti.
La lotta al radicalismo di matrice islamica in ogni sua forma è un impegno che riguarda in primis l’Occidente e l’Europa, che troppo spesso ha allevato i suoi stessi carnefici, ultimo solo in ordine cronologico Jameel Mohammed Abdul Latheef, studente di ingegneria aerospaziale presso la Kingston University di Londra dal 2006 al 2007, attentatore suicida a Colombo alcuni giorni fa. La guerra di cui stiamo parlando va combattuta con le potenti armi dell’inclusione sociale e con l’eliminazione dei ghetti metropolitani, che altro non diventano se non immense serre ove il senso di ingiustizia e l’odio fanno crescere rigogliosa la velenosa pianta del fondamentalismo che troppe giovani vite ha sino ad ora annientato.
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[1] Islamic State in Iraq and Syria.
[2] Islamic State in Iraq and the Levant, dove il Levante in arabo corrisponde ad una regione che comprende il sud della Turchia, la Siria, il Libano, Israele, la Giordania, e la Palestina.
[3] Islamic State, privo dunque di alcuna connotazione territoriale.
[4] Acronimo di Al dawla al islamiya fi al Iraq wal sham (Stato islamico dell’Iraq e del Levante).
[5] Libro sacro dell’Islam, costituito dall’insieme delle rivelazioni ricevute da Maometto, in lingua araba.
[6] Enzo Pace “Alle origini del fondamentalismo islamico”, https://credereoggi.it.
[7] Fondatore della religione islamica (La Mecca 570 d.C. circa – Medina 632 d.C.), è considerato il messaggero di Dio, colui che ha rivelato il Corano.
[8] Giovanni De Sio Cesari “Islam: la riscoperta delle origini – il movimento salafita” pag. 7, https://cronologia.leonardo.it/salaf.htm
[9] Massimo Campanini “Cos’è il fondamentalismo islamico”, https://www.tpi.it – 22 marzo 2016.
[10] Claudio Vercelli “La questione del fondamentalismo islamista” siba-see.unisalento.it, pagg. 363-364.
[11] Ahmad Ejaz “Le origini del radicalismo nel mondo islamico”, https://frontierenews.it – 11 giugno 2017.
[12] Teologo, tradizionista e giurista arabo-musulmano (Baghdad 780 – ivi 855 d.C.), fondatore della scuola hanbalita.
[13] Riccarda Lopetuso “Salafismo, le origini del terrore” https://www.geopolitica.info/salafismo – 18 febbraio 2016.
[14] Gruppo terroristico fondato nel settembre 1998 da Hassan Hattab, operante soprattutto nella parte meridionale dell’Algeria. Valerio Mazzoni “Al Qaida nel Maghreb islamico”, https://www.ilcaffegeopolitico.it – 23 novembre 2017.
[15] Legge sacra dell’islamismo, basata sul Corano e sulla Sunna.
[16] Claudio Vercelli “La questione del radicalismo islamista”, siba-see.unisalento.it, pagg. 328-329.
[17] Letteralmente indica il sostantivo “sforzo”. Nel linguaggio religioso islamico, la “guerra santa“ contro gli infedeli, per l’espansione della comunità, ed eventualmente per la sua difesa. All’interno della corrente jihadista del Salafismo vi sono due diverse concezioni di intendere la jihad. La prima è la lotta intrapresa da tutta la comunità (Umma) sotto la guida del Califfo (jihad offensiva). La seconda, concetto mutuato anche dal gruppo terroristico al-Qaida, rappresenta un dovere individuale di ogni singolo musulmano dovere individuale che impone ad ogni musulmano di prendere le armi anche senza attendere l’ordine del Califfo per combattere.
[18] Nella tradizione islamica, soprattutto in quella sciita, indica la possibilità di nascondere o addirittura rinnegare esteriormente la fede, di dissimulare l’adesione a un gruppo religioso, e di non praticare i riti obbligatori previsti dalla religione islamica per sfuggire a una persecuzione o a un pericolo grave e imminente contro sé stessi a causa della propria fede islamica. Il fine consiste nel non destare sospetti, simulando un atteggiamento accondiscendente e non antagonista.
[19] Caduto in combattimento ad opera delle truppe governative siriani fedeli a Bashar al Assad nella provincia di Aleppo, forse nella città di Qusayr (Siria), il 12 giugno 2013.
[20] VICE News, “Bulldozing the Border between Iraq and Syria: The Islamic State” (Youtube) – 13 agosto 2014.
[21] In arabo consuetudine, modo abituale di comportarsi, tradizione. La consuetudine di Maometto nelle varie circostanze della vita ha valore di norma per i credenti, esempio da imitare.
[22] Nell’Islam, dottrina e disciplina di perfezionamento spirituale, volto a preservare la comunità dal rischio di un irrigidimento della fede.
[23] Denominazione generale della componente minoritaria dell’Islam, che risale alla guerra civile tra il 567 ed il 571 d.C..
[24] VICE News “Christians in the Caliphate: The Islamic State”, Youtube – 12 agosto 2014.
[25] Enzo Pace “Il fondamentalismo islamico”, https://credereoggi.it.
[26] Denominata Repubblica Democratica Islamica dell’Iran prima dell’avvento dell’ayatollah Khomeini.
[27] (Qom 1900 – Teheran 1989) Supremo capo religioso iraniano, impresse alla nascente Repubblica islamica un carattere fortemente integralista ed ispirato ai più rigidi princìpi della religione islamica. Il 18 agosto 1979 si autoproclamò Capo Supremo delle Forze Armate iraniane.
[28] Giovanni De Sio Cesari “Islam: la riscoperta delle origini – il movimento salafita”, http://www.giovannidesio.it.
[29] Intervista integrale su “Corriere della Sera”, 26 settembre 1979. Fonte www.oriana-fallaci.com.
[30] Acronimo di Harakat al-Muqawama al-Islamiyya (Movimento islamico di resistenza).
[31] Jama’at al-Ihwan al-muslimin, letteralmente “Associazione dei Fratelli Musulmani”.
[32] “Hamas, quel che c’é da sapere” https://www.bergamopost.it – 28 luglio 2014.
[33] Vice News “Enforcing Sharia in Raqqa: The Islamic State”, Youtube – 11 agosto 2014.
[34] Paola P. Goldberger “La battaglia tra Iran e Israele per controllare Hamas”, https://rightsreporter.org – 02 aprile 2019.
[35] Nato a Musha (Egitto) il 09 ottobre 1906 è stato uno dei massimi esponenti della Fratellanza Musulmana. Incriminato del reato di apostasia a seguito della sua opera “Le pietre miliari sulla via”, viene giustiziato tramite impiccagione il 29 agosto 1966 nella capitale Il Cairo assieme ad altri sei esponenti del Movimento.
[36] Sistema di proteste, rivolte popolari e guerre che hanno coinvolto la maggior parte del Nord Africa ed alcuni Paesi del Medio Oriente.
[37] “Annex of Statistical Information Country Reports on Terrorism 2015” – giugno 2016.
[38] Vittorfranco Pisano “Radicalismo e terrorismo”, http://www.comitatoatlantico.it.
[39] Letteralmente “Gruppo della Gente della Sunna per la propaganda religiosa e per il Jihad”, in attività dal 2002. Nella città nigeriana di Maiduguri, dove essa si era formata, le fu dato il soprannome di Boko Haram; il nome significa “l’educazione occidentale è sacrilega”. Il nome è dovuto alla dura opposizione all’Occidente, inteso come corruttore dell’Islam.
[40] Letteralmente “Movimento di Resistenza Popolare nella Terra delle due Migrazioni”, è un gruppo terroristico jihadista sunnita di matrice islamista, attivo in Somalia dall’anno 2006.
[41] Nato a Teheran il 21 marzo 1948, sociologo ed accademico iraniano, dal 1998 è direttore di ricerca dell’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales (EHESS) di Parigi.
[42] Farhad Khosrokhavar “I nuovi martiri di Allah”, Mondadori, 2003.
[43] Farhad Khosrokhavar, https://www.diploweb.com/Quels sont les ressorts sociologiques anthropologiques politiques et urbains du jihad dans les pays.html – 13 maggio 2018.
[44] Autori, il 07 gennaio 2015, dell’attentato alla sede della rivista satirica Charlie Hebdo in cui persero la vita dodici persone. L’attentato è stato rivendicato con un video diffuso in Rete il 14 gennaio 2015 da al-Qaida in the Arabian Peninsula (AQAP), branca yemenita di al-Qaida.
[45] Amico dei fratelli Said e Cherif Kouachi, protagonista tra l’8 ed il 9 gennaio 2015 di due distinti episodi criminali nei pressi di Parigi, il secondo dei quali lo ha visto barricarsi in un supermercato kosher ed uccidere quattro persone di origine ebraica, trovando poi egli stesso la morte nella successiva sparatoria con le forze speciali francesi. Coulibaly aveva giurato fedeltà a Daesh prima di compiere l’azione terroristica.
[46] Farhad Khosrokhavar, https://www.diploweb.com/Quels sont les ressorts sociologiques anthropologiques politiques et urbains du jihad dans les pays.html – 13 maggio 2018.
[47] “Islamic State to halve fighters salaries as cost of waging terror starts to bite” – 20 gennaio 2016.
[48] Responsabile del Syrian observatory for Human Rights (SOHR), con sede a Coventry (U.K.).
[49] Nato a Parigi il 30 giugno 1955, politologo, orientalista, specializzato negli studi sul Medio Oriente contemporaneo e sulle comunità musulmane in Occidente, attualmente è professore all’Université de recerche de Paris Sciences et Lettres (PSL), nonché direttore della cattedra “Medio Oriente – Mediterraneo “.
[50] “Terrore dentro l’esagono. Genesi della jihad francese”. Approfondimento dal titolo “La genesi del jihadismo in Francia secondo Gilles Kepel” https://www.doppiozero.com – 10 marzo 2016.
[51] Nato a Bruxelles il settembre 1989 da genitori provenienti dal Marocco, autore insieme ad altri della strage presso il teatro parigino del Bataclan (95 vittime). Il 18 marzo 2016 viene arrestato a Molenbeek (Belgio), il 27 aprile dello stesso anno viene estradato in Francia, attualmente detenuto presso il carcere di massima sicurezza di Fleury- Mèrogis (Francia), dove sta scontando una condanna a venti anni di reclusione.
[52] Casa dell’Islam, o anche Casa della Pace (Dar e-Salaam), corrisponde, nella dottrina islamica, ai territori sottoposti alla Sharia.
[53] Sylvia Zappi “La marche des beurs veut entrer dans l’histoire de France”, https://www.lemonde.fr – 11 ottobre 2013.
[54] Ugo Gaudino “Cosa ha spinto i musulmani francesi al jihad?”, https://www.opiniojuris.it/jihad-Francia – 03 luglio 2018.
[55] Redatto nel 1991, è stato pubblicato nel gennaio del 2005 sul sito “La biblioteca di Abu Musab a-Suri: la tua guida sulla strada del jihad”.
[56] Nato il 30 agosto 1949, è professore presso l’Istituto Universitario Europeo e titolare della Cattedra Mediterranea al Robert Schuman Centre for Advanced Studies.
[57] Vedasi nota 12.
[58] Roy nel suo studio intende giovani di seconda generazione quelli nati a seguito dei ricongiungimenti familiari negli anni successivi al 1974.
[59] Rodolfo Casadei, “Meglio morti che vuoti” Intervista ad Olivier Roy, autore di Generazione Isis. https://www.tempi.it – 12 giugno 2017.
[60] Arrestato nel marzo del 2012 a Niardo (BS) dalla D.I.G.O.S. della Questura di Brescia (indagine Niryia) con l’accusa di svolgere attività di addestramento all’uso di armi ed esplosivi per attività di terrorismo, anche internazionale (al momento dell’arresto furono trovate nel suo computer immagini relative ad un dettagliato sopralluogo della sinagoga ebraica ubicata in via Guastalla a Milano), poi espulso dal territorio nazionale nel 2016, una volta uscito dal carcere di Benevento.
[61] Arrestato nel giugno del 2013 a Vobarno (BS) dalla D.I.G.O.S. della Questura di Brescia (indagine Screenshot), poi scarcerato dal Tribunale del Riesame, il 23 gennaio 2019 è stato condannato a si anni di reclusione per apologia ed addestramento al terrorismo. Di lui si sono perse le tracce da quasi quattro anni, tuttavia si ritiene possa essere caduto sul campo di battaglia in Siria dopo essersi unito alle truppe di Daesh in qualità di foreign fighter.
[62] Lorenzo Vidino, “Il jihadismo autoctono in Italia: nascita, sviluppo e dinamiche di radicalizzazione” pag. 56, https://www.osservatorioantisemitismo.it.
[63] Lorenzo Vidino, “Il jihadismo autoctono in Italia: nascita, sviluppo e dinamiche di radicalizzazione” pag. 57, https://www.osservatorioantisemitismo.it.
[64] Puntata dal titolo “Nel ritmo di Allah” (Youtube) – 09 marzo 2012.
[65] Network di matrice salafita in cui i leader europei hanno periodicamente pubblicato contenuti di approvazione nei confronti di Daesh e dell’autoproclamato Califfo Abu Bakr al-Baghdadi.
[66] Lorenzo Vidino, “Il jihadismo autoctono in Italia: nascita, sviluppo e dinamiche di radicalizzazione” pagg. 60-61, https://www.osservatorioantisemitismo.it.
[67] Nuove figure di reato introdotte quali la punibilità dei reclutati (art. 270 quater secondo comma c.p.), le sanzioni per l’organizzazione di trasferimenti per finalità di terrorismo (art. 270 quater 1 c.p.), l’illiceità penale dell’auto addestramento (art. 270 quinquies c.p.).
[68] Marco Olimpio “La misura delle espulsioni per terrorismo” https://www.ispionline.it – 14 dicembre 2018.
[69] Presidenza del Consiglio dei Ministri “Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza 2018” pag. 85, https://https.www.sicurezzanazionale.gov.it. – febbraio 2019.
[70] Nel 2015 la Qatar Charity Foundation (QC), ente caritatevole governativo saudita ha lanciato l’operazione “pioggia abbondante” per realizzare nuove moschee o rendere più dignitose quelle esistenti. Il denaro arriva direttamente dal fondo sovrano Qatar Investment Authority. Ricerca a cura di Lorenzo Bagnoli https://www.ilfattoquotidiano.it – 05 agosto 2016.
[71] “Musulmano rinato”, che fronteggia la società in cui ha vissuto, trasformandosi in un suo nemico.
[72] Sara Catalini, “Radicalizzazione jihadista nelle carceri: cause e proposte di prevenzione. Intervista a Francesco Bergoglio Errico”, https://www.difesaonline.it – 26 aprile 2018.
[73] Peter Dominiczak “Political correctness allowing Islamist extremism to flourish in British prisons” https://www.telegraph.co.uk – 22 agosto 2016.
[74] Lorenza Formicola “La radicalizzazione islamica nelle carceri europee”, https://www.analisidifesa.it – 14 giugno 2018.
[75] Giovanni Valtolina “I processi di radicalizzazione religiosa nelle seconde generazioni” https://www.ismu.org – luglio 2017.
[76] Alessandro Orsini, “La radicalizzazione jihadista: il modello DRIA”, https://www.sicurezzainternazionale.luiss.it – 21 ottobre 2017.
[77]Direttore del “Program on Extremism” della George Washington University di Washington (USA), nonché responsabile dell’Osservatorio “Radicalizzazione e terrorismo Internazionale dell’ISPI. Nominato nel 2016 dal Presidente del Consiglio dei Ministri coordinatore della Commissione di studio sul fenomeno della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista.
[78] Lorenzo Vidino “Destinazione Jihad – I foreign fighters d’Italia” pagg. 15-18, https://www.ispionline.it – 18 ottobre 2018.
[79] Servizio per il Contrasto dell’Estremismo e del Terrorismo Esterno della Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione (DCPP/UCIGOS).
[80] Jabhat al-Nusra li-ahl al-Sham “Fronte di soccorso al popolo di Siria”, creatosi all’inizio del 2012, è un gruppo armato salafita jihadista, opera in Siria in contrapposizione alle Forze Armate di Bashar al-Assad.
[81] Al-Jaysh al-Suri al-Hurr, attivo dal 29 luglio 2011 a seguito della diffusione di un video in internet da parte di alcuni disertori dell’Esercito siriano, è una compagine armata contrapposta alle Forze Armate Siriane.
[82] Canti jihadisti.
[83] Nel 2007 si è convertita all’Islam per sua iniziativa personale, cambiando il proprio nome in Fatima. La conversione si è verificata spontaneamente tramite internet, attraverso cui aveva visto i video di Yusuf Estes, un predicatore texano convertitosi all’islam nel 1991. Il 17 settembre 2014, si è sposata con il cittadino albanese Aldo Said Kobuzi, nel 2016 è stata condannata in contumacia alla pena di nove anni di reclusione per terrorismo, si ritiene abbia perso la vita in Siria.
[84] Tribunale di Milano, Ufficio per le Indagini Preliminari https://www.penalecontemporaneo.it, sentenza del 23 febbraio 2016.
[85] Lorenzo Vidino “Destinazione Jihad – I foreign fighters d’Italia” pagg. 56-58, https://www.ispionline.it – 18 ottobre 2018.
[86] Network propaggine del gruppo jihadista curdo Ansar al-Islam, letteralmente “Nuovo Corso”. Nell’ottobre 2015 un’operazione di Polizia coordinata in ambito europeo, ha portato all’arresto di 17 suoi membri operanti in varie cellule operanti in Italia, Norvegia, Regno Unito, Germania, Finlandia e Svizzera.
[87] Nato ad As Sulaymaniyah (Iraq) il 07 luglio 1956, giunto in Norvegia nel 1991 come rifugiato dal Kurdistan iracheno, è stato il primo leader del gruppo islamista armato Ansar al-Islam.
[88] All’epoca dei fatti domiciliato a Merano (BZ) in via Mainardo 66. https://www.altoadige.it. – 22 novembre 2018.
[89] Tenutasi a Roma nel maggio 2018.
[90] Presidenza del Consiglio dei Ministri “Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza 2018” pag. 76, https://www.sicurezzanazionale.gov.it. – febbraio 2019.
[91] Sara Catalini “Radicalizzazione jihadista nelle carceri: cause e proposte di prevenzione. Intervista a Francesco Bergoglio Errico” https://www.difesaonline.it – 26 aprile 2018.
[92] Khalid Chaouki. nato a Casablanca (Marocco) il 01 gennaio 1983, ex deputato PD, è attualmente Presidente del Centro Islamico Culturale Italiano, nonché Presidente della Grande Moschea di Roma. Nel 2001 è stato tra i fondatori dell’associazione “Giovani musulmani d’Italia” (GMI). Dal 2005 al 2010 è stato membro della Consulta per l’Islam italiano presso il Ministero dell’Interno.
[93] Pubblicato da United States Institute of Peace (USIP), https://www.usip.org – dicembre 2016.
[94] Augusto Rubei “Quel fronte jihadista nei Balcani e i rischi per l’Europa”, https://www.huffingtonpost.it – 14 febbraio 2017.
[95] Besiana Xharra, “Kosovo turns blind eye to illegal mosques” https://www.balkaninsight.com – 12 gennaio 2012.
[96] Transparency International, “Corruption Perceptions Index 2018”, https:www.transparency.org.
[97] Dati ufficiali del maggio 2016 rilasciati ad Adrian Shtuni dalla Kosovo Police (KP).
[98] Una delle 19 municipalità dell’area urbana di Bruxelles Capitale, assurta alle cronache internazionali poiché base dei terroristi autori di attacchi in Francia ed in Belgio. In seguito ad essi la Polizia belga ha iniziato una serie di controlli porta a porta all’interno del quartiere a seguito della quale 52 soggetti sono emersi come implicati in attività di terrorismo ed ulteriori 72 avere connessioni a vario titolo con esso.
[99] Carlotta Gall “How Kosovo was turned into fertile ground for ISIS”, https://www.nytimes.com – 21 maggio 2016.
[100] Bashar al-Assad, nato l’11 settembre 1965, è Presidente della Siria e Comandante in capo delle Forze Armate siriane dal 17 luglio 2000. Durante la guerra civile siriana, una indagine condotta dalle Nazione Unite (ONU) lo ha dichiarato colpevole di crimini di guerra. Assad ha criticato l’intervento militare capeggiato dagli Americani, che ha avuto quale scopo, negli ultimi anni, quello di sovvertire il suo regime.
[101] Lavdrim Muhaxheri, conosciuto in vita anche come Abu Abdullah al-Kosova. Albanese di etnia kosovara, nato a Kacanik (RKS) secondo i dati dell’Interpol il 12 marzo o 03 dicembre 1989. Dopo essere stato impiegato nell’ambito della missione NATO denominata KFOR presso la base americana di “Camp Bondsteel”, è partito alla volta della Siria nel 2012. Protagonista di vari video di propaganda di Daesh, è stato ucciso l’8 giugno 2017.
[102] Marco Siragusa “Il ponte balcanico. La presenza jihadista in Bosnia e Kosovo”, https://www.nena-news.it – 26 giugno 2018.
[103] Assieme a PURSUE-PROTECT-PREPARE, rappresenta una delle 4 “P” del progetto “CONTEST”. PREVENT si pone l’obiettivo di impedire ad individui particolarmente vulnerabili di diventare o supportare gruppi terroristici.
[104] Olivia Rudgard “Muslim population of the UK could triple to 13m following record influx”, https://www.thetelegraph.co.uk – 29 novembre 2017.
[105] Aisha Gani “Muslim population in England and Wales nearly doubles in 10 years”, https://www.the guardian.com – 11 febbraio 2015.
[106] “2011 Census Analysis: Ethnicity and religion of the non-UK born population in England and Wales: 2011”, https://www.ons.gov.uk – 18 giugno 2015.
[107] Dati riportati dall’articolo di Alberto Bisin, Eleonora Patacchini, Thierry Verdier, Yves Zenou “The specific pattern of Muslim immigrants integration in the UK”, https://www.voxeu.org – 19 settembre 2007.
[108] Katrin Bennhold e Kimiko de Freytas Tamura “Why do all the Jihadis come to Birmingham?”, https://www.nytimes.com – 26 marzo 2017.
[109] “Birmingham: exporting jihad”, https://www.freewestmedia.com – 01 maggio 2017.
[110] Terrorista e militante jihadista belga di origine marocchina, ha fatto parte della cellula francese di Verviers, neutralizzato il 18 novembre 2015 durante un’operazione della polizia francese a Saint-Denis.
[111] Nato a Sint-Agatha-Berchem (BEL) il 27 dicembre 1984, ha partecipato attivamente all’attentato del 22 marzo 2016 presso il Bruxelles-National Airport, è stato tratto in arresto l’8 aprile dello stesso anno.
[112] Nato in Kuwait nel 1988 e giunto in U.K. all’età di sei anni, alla fine del 2013 entra in Siria per unirsi a Daesh assurgendo poi agli onori delle cronache per mezzo dei video di decapitazioni di ostaggi americani e giapponesi, pregni di minacce verso l’Occidente.
[113] Predicatore islamico estremista, entrato per la prima volta in U.K. nel 1980 come richiedente asilo politico dall’Arabia Saudita che lo aveva espulso con l’accusa di proselitismo islamista, unitamente ad Anjem Choudary nel 1986 crea Hizbut-Tahrir (Partito della Liberazione), formazione internazionale di stampo islamista che si prefiggeva di unire i Musulmani sotto un Califfato islamico. E’ assurto agli onori delle cronache, tra le altre, per aver espresso compiacimento verso gli autori degli attentati dell’11 settembre 2001 alle Twin Towers di New York e del 07 luglio 2005 a danno di civili presenti sui mezzi dei trasporti pubblici londinesi.
[114] Douglas Weeks “Hotbeds of extremism: the U.K. experience”, https://https.ispionline.it – luglio 2016.
[115] Nella cultura islamica, il politeismo è considerato del tutto incompatibile con la Umma.
[116] Termine che indica un responso giuridico su questioni riguardanti il diritto islamico o pratiche di culto. Nello specifico, il 14 febbraio 1989 fu pronunciata una condanna a morte (in contumacia) a carico di Rushdie.
[117] Stefano Bonino “Counter-terrorism in the United Kingdom: between security and human rights”, https://www.tway.it – 18 dicembre 2017.
[118] Her Majesty’s Government “Countering International Terrorism: The United Kingdom’s Strategy” pag. 8 https://assets.publishing.service.gov.uk – luglio 2016.
[119] Vedasi nota 10 pagina 5.
[120] Legge sacra dell’islamismo, basata principalmente sul Corano e sulla Sunna o consuetudine, che raccoglie norme di diverso carattere, fra le quali si distinguono quelle riguardanti il culto e gli obblighi rituali da quelle di natura giuridica e politica. Di quest’ultimo gruppo fanno parte le prescrizioni che regolano la conduzione della guerra santa.
[121] Dominic Evans “Exiled cleric who taught UK knifeman praises ‘courage’”, https://www.reuters.com – 24 maggio 2013.
[122] Robert Mendick “Hate preacher Anjem Choudary to be freed from jail despite remaining ‘genuinely dangerous’”, https://www.telegraph.co.uk – 11 settembre 2018.
[123] Prodotta in Yemen, il suo titolo ha preso spunto dal Corano (Sura VIII, versetto 65), “Ispira i Credenti a combattere”.
[124] Traslitterazione araba di Roma. Rivista online pubblicata da Daesh a fini propagandistici e di reclutamento, pubblicata per la prima volta nel settembre 2016in varie lingue tra cui inglese, francese, tedesco e russo.
[125] Rivista online di propaganda jihadista, fondata il 05 luglio 2014 e chiusa il 31 luglio 2016 con sede nella città siriana di al-Raqqa. Essa era fruibile solo navigando nel dark web.
[126] Uno dei più raffinati metodi di propaganda jihadista, cortometraggio della durata di 55 minuti, il cui contenuto si dipana mentre una voce fuori campo dichiara la creazione di uno Stato Islamico in cui tutti i Musulmani possono stare uniti sotto un unico leader ed un’unica bandiera.
[127] “Islamic Calip-hate? (UK lawyer and imam Anjem Choudary)”, https://www.worldsapart.rt (Youtube) – 04 settembre 2014.
[128] Rebecca Camber “Nailed at last! For 20 years, hate preacher on benefits laughed at Britain as he spawned terror worldwide…now, after vowing allegiance to ISIS, he faces 10 years behind bars”, https://www.dailymail.co.uk – 16 agosto 2016.
[129] Lorenzo Vidino “Sharia4: un ponte tra Europa e Levante”, https://www.ispionline.it – 08 ottobre 2014.
[130] E.g. “UK: Muslim stage anti-alchool protest in Brick Lane – east London”, https://www.ruptly.tv (Youtube) – 13 dicembre 2013.
[131] Tecnica adottata in provincia di Brescia, in forma grandemente ridotta, anche da Anas el-Abboubi, fondatore della branca italiana, Sharia4Italy.
[132] Era pre-islamica.
[133] Professione di fede musulmana.
[134] Nel 2016 Anjem Choudary espresse il provocatorio intento di convertire Buckingham Palace in una moschea.
[135] Utilizzando una similitudine, si può considerare questa figura, con le dovute ovvie distinzioni, una sorta di ufficiale di collegamento.
[136] In lingua persiana/farsi la parola stan ha il significato di terra.
[137] La variante Londonistan è stata introdotta nel luglio 2005 dallo studioso islamista francese Dominique Thomas, dopo gli attacchi terroristici di Londra del 07 luglio.
[138] Matteo Persivale “Londra ha paura del Londonistan”, https://www.corriere.it – 10 luglio 2005.
[139] Nato a Saint-Jean de Luz (FRA) il 30 maggio 1968 da genitori marocchini, conosciuto con il nome di battaglia Abu Khalid al-Sahrawi, condannato al carcere a vita il 03 maggio 2006.
[140] Kenan Malik “Londonistan, by Melanie Philips – The enemy in the mirror”, https://www.independent.co.uk – 28 luglio 2006.
[141] “Londonistan – Muslim on the streets of London calling for Sharia law March-25-11”, donskoj14 channel (Youtube) – 20 giugno 2011.
[142] “Sharia Patrols in London”, John Galt channel (Youtube) – 30 settembre 2017.
[143] Nato a Londra (U.K) il 24 giugno 1983 da genitori indiani, si è convertito all’Islam ed è divenuto militante di Daesh, è stato portavoce del movimento radicale al-Muhajiroun. Si ritiene sia partito per la Siria assieme alla propria famiglia da settembre 2015.
[144] “UK Security Minister says hostage John Cantlie may still be alive”, https://www.aljazeera.com – 05 febbraio 2019.
[145] Nata in U.K. da genitori del Bangladesh, è partita alla volta della Siria nel febbraio del 2015 all’età di quindici anni. Una volta giunta in Medio Oriente si è sposata con il combattente olandese convertito Yago Riedijk, arresosi alle Syrian Democratic Forces (SDF).
[146] “Shamima Begum: I didn’t want to be IS poster girl”, BBC News (Youtube) – 19 febbraio 2019
[147] Benjamin Mueller “Threats Force British Wife of ISIS fighter to flee a refuge”, https://www.nytimes.com – 01 marzo 2019.
[148] “From Daesh to ‘Diaspora’ – Tracing the Women and Minors of Islamic State”, https://icsr.info/wp – 19 luglio 2018.
[149] “How many IS foreign fighters are left in Syria and Iraq?”, https://www.bbc.com – 20 febbraio 2019.
[150] Military Intelligence Section 5, con sede a Londra (Thames House).
[151] David Bond “U.K. Security Minister supports revoking Shamima Begum’s passport”, https://www.ft.com – 17 marzo 2019.
[152] Ian Acheson – Ministry of Justice “Summary of the main findings of the review of Islamist extremism in prisons, probation and youth justice”, httsp://www.gov.uk – 22 agosto 2016.
[153] 5.502 nel 2002, 7.246 nel 2005, 12.225 nel 2014.
[154] Attualmente impegnato in qualità di Senior Adviser nel U.S. Counter Terrorism Project.
[155] Essa preserva la riservatezza delle comunicazioni (lettere, mail etc.) intercorrenti tra detenuto ed avvocato, per mezzo di essa ci si assicura che la corrispondenza non venga aperta/vista dal personale carcerario.
[156] “Government bolsters crackdown on extremism in prisons”, https://www.gov.uk – 11 aprile 2018.
[157] Jamie Grierson “Separate jailed Islamist extremists from other inmates, says expert”, https://www.theguardian.com – 10 gennaio 2019.
[158] A.Z. Mohamed “Why Britain’s deradicalization Programs are failing”, https://www.gatestoneinstitute.org – 30 giugno 2018.
[159] Fiona Hamilton “Most programmes to stop radicalization are failing”, https://www.thetimes.co.uk – 06 giugno 2018.
[160] Sura del Corano denominata An-Nisa (Le donne).
[161] “Jewish Police!? Mohammed Hijab vs Jewish Visitors – Speakers Visitors – Speakers Corner – Hyde Park”.
[162] “You can’t pray! Muhammad Hijab & Police – Speakers Corner – Hyde Park”.
[163] Tassa che un tempo Cristiani ed Ebrei che vivevano in un territorio musulmano dovevano versare.
[164] Il profilo di Mohammed Hijab ha attualmente un seguito di 38.500 followers.
[165] Mixed Martial Arts.
[166] Marchio di whiskey irlandese creato dal lottatore di MMA Conor McGregor nel 2018.
[167] Profilo Instagram di Mohammed Hijab, video postato il 23 settembre 2018.
[168] “Mohammed Hijab Vs A Very Funny Woman”, pubblicato dal canale TRUST SHALL PREVAIL (Youtube) – 09 novembre 2018.
[169] Nella mattinata del 15 marzo 2019, il ventottenne suprematista bianco Brenton Harrison Tarrant irrompe all’interno della moschea “al-Noor” di Christchurch (NZ) facendo strage di cinquanta fedeli musulmani che si trovavano al suo interno per la preghiera del venerdì. Sulle armi automatiche utilizzate dall’uomo erano citate alcune battaglie storiche (e.g. Lepanto, Tours) in cui i Musulmani sono stati sconfitti, oltre a nominativi di individui a noi contemporanei resisi autori di omicidi a danno di persone di fede islamica.
[170] Mark Lowen “Christchurch shootings: Why Turkey’s Erdogan uses attack video”, https://www.bbc.com – 20 marzo 2019.
[171] Il 18 marzo 2015, Yassine Labidi e Jabeur Khachnaoui, dopo aver provato senza successo ad attaccare il Parlamento tunisino, hanno dapprima aperto il fuoco contro un pullman di turisti appena sbarcati da alcune navi da crociera, poi si sono diretti verso il Museo del Bardo dove, prima di essere neutralizzati, fanno strage di ventuno turisti occidentali di cui quattro italiani (attentato rivendicato da Daesh).
[172] Il 26 giugno 2015 due terroristi aprirono il fuoco su una spiaggia antistante l’albergo Riu Imperial Marhaba in località Marsa al-Qantawi. Uno dei due attentatori, Seifeddine Rezgui Yacoubi (Abu Yahya al-Qayrawani), prima di essere neutralizzato dalle forze di sicurezza tunisine, riuscì a colpire a morte trentanove turisti europei (attentato rivendicato da Daesh).
[173] Lorenzo Vidino e Paolo Magri “De-radicalization in the Mediterranean – Comparing challenges and approaches”, pagg. 93-105, https://www.ispionline.it – 18 luglio 2018.
[174] “Tunisia blocks 12,000 from joining terror”, https://www.arabnews.com – 19 aprile 2015.
[175] Carlotta Gall “Tunisia Fears the Return of Thousands of Young Jihadists”, https://www.nytimes.com – 25 febbraio 2017.
[176] Union gènèrale tunisienne du travail, fondata il 20 gennaio 1946 da Farhat Hached, è il maggiore sindacato tunisino che può contare su 750.000 aderenti. Ha sede nella capitale Tunisi.
[177] Maria Di Martino “Il fenomeno dei foreign fighters e la gestione dei rientri in Tunisia”, https://www.ilcaffegeopolitico.org – 14 giugno 2017.
[178] “Movimento della Rinascita”, fondato nel 1981, gli è stato riconosciuto lo status di partito politico il 01 marzo 2011, a seguito della caduta di Zine el-Abidine Ben Ali.
[179] NGO fondata nel novembre 2013 da Mohamed Ikbal ben Rejeb, fratello di un radicalizzato tornato dalla Siria, attualmente fornisce supporto a 250 famiglie 20 giovani rientrati da aree di conflitto.
[180] Stefano Maria Torelli “Tunisia’s Counterterror efforts hampered by weak Institutions”, https://www.jamestown.org – 24 febbraio 2017.
[181] Attualmente nelle carceri tunisine per i detenuti accusati di terrorismo, pur sparpagliati in vari istituti, non è prevista alcuna separazione tra essi ed il resto della popolazione carceraria.
[182] “Understanding the rising cult of the suicide bomber” pag. 61, https://www.aoav.org.uk – 04 maggio 2017.
[183] North Atlantic Treaty Organization, fondata a Washington (USA) il 04 aprile 1949, attualmente composta da 29 Stati membri. La sua sede è a Bruxelles (BEL).
[184] “Mediterranean and Middle East Special Group – Mission Report”, https://www.nato-pa.int – ottobre 2015.
[185] A fine aprile 2019 si contano trecento morti (di cui novanta bambini) e 40.000 sfollati.
[186] Fulvio Scaglione “La Libia è persa: il mondo sta con Haftar e l’Italia è rimasta sola e dalla parte sbagliata”, https://www.linkiesta.it – 15 aprile 2019.
[187] United Nations for Project Services.
[188] Gilles de Kerchove “EU-Tunisia cooperation on security and counter-terrorism”, https://www.iemed.org.
[189] European Union Agency for Law and Enforcement Training, dal 19 agosto 2014 ha sede a Budapest (UNG).
[190] Anthony Dworkin e Fatim-Zohra el-Maliki “The Southern front line: EU counter-terrorism cooperation with Tunisia and Morocco”, https://www.ecfr.eu – 15 febbraio 2018.
[191] Declan Walsh, Ben Hubbard ed Eric Schmitt “U.S. bombing in Libya reveals limits of strategy against ISIS”, https://www.nytimes.com – 19 febbraio 2016.
[192] United States Africa Command, attivo dal 01 ottobre 2008.
[193] “Tunisia receives first Kiowa Warriors”, https://www.defenceweb.co.za – 06 febbraio 2017.
[194] “Central Tunis hit by suicide bomb blast”, https://www.egypttoday.com – 29 ottobre 2018.
[195] “Tunisia: Extremism & Counter-Extremism”, https://www.counterextremism.com – 09 novembre 2018.
[196] Anouar Boukhars “The Potential Jihadi Windfall from the Militarization of Tunisia’s border region with Lybia”, https://ctc.usma.edu – gennaio 2018.
[197] Nato l’8 novembre 1965 a Menzel Bourguiba (TUN), nel 2000 diviene co-fondatore di un gruppo composto da attivisti tunisini, denominato Tunisian Combat Group (TCG). Nel luglio 2015 si è diffusa la notizia (mai confermata) che Ben Hassine sia morto durante un bombardamento americano il 14 giugno 2015 vicino ad Ajdabiya (Libia).
[198] Gruppo estremista di ispirazione salafita attivo in Tunisia dal 2011 al 2013. Esso ha ricevuto supporto logistico e finanziario da al-Qaida, al-Qaida in the Islamic Maghreb (AQIM), Ansar al-Sharia in Libya (ASL). Dichiarato gruppo terroristico da ONU, U.S.A. e Tunisia.
[199] Report “Ansar al-Sharia in Tunisia (AST)”, https://www.counterextremism.com.
[200] “Security situation in Kasserine Governatorate”, https://www.ecoi.net – 31 ottobre 2018.
[201] Ahmed Nadhif “Tunisia’s poor population face death by terrorists” https://www.al-monitor.com – 14 giugno 2017.
[202] “Tunisian case: Implications of ongoing Security Operations for Okba Ibn Nafaa Brigade”, https://www.futureuae.com – 24 dicembre 2017.
[203] Vedasi nota 1 pagina 1.
[204] Charlie Winter “Were Tunisia, France, Kuwait attacks co-ordinated by Islamic State for Ramadan?”, https://www.telegraph.co.uk – 26 giugno 2015.
[205] “Understanding the rising cult of the suicide bomber” pagg. 116-125, https://www.aoav.org.uk – 04 maggio 2017.
[206] Houssam ben Hedi ben Miled Abdelli, venditore ambulante tunisino, morto a 28 anni nel 2015 a seguito di attentato suicida in Tunisi.
[207] “Tunisian Jihadis: How the Islamic State has preyed on Tunisia’s Youth”, canale Journeyman Pictures (Youtube) – 19 maggio 2017.
[208] Nato il 03 gennaio 1985 a M’saken (TUN), nella serata 14 luglio 2016 – giorno della ricorrenza francese della presa della Bastiglia – dopo essersi messo alla guida di un camion, nel percorrere il Lungomare degli Inglesi a Nizza (FRA), ha iniziato a falciare più pedoni possibili, lì presenti per la celebrazione. Il computo totale della strage ammonterà ad 87 vittime (tra cui sei cittadini italiani) e 307 feriti. L’attentatore è stato poi neutralizzato dalle Forze di Polizia. L’attentato è stato poi rivendicato tramite un comunicato di AMAQ Agency.
[209] Nato il 22 dicembre 1992 a Tataouine (TUN), nella serata del 19 dicembre 2016, a bordo di un autoarticolato “SCANIA” con targa polacca GDA08J5 proveniente dall’Italia, si va a schiantare contro un mercatino di natale nella capitale tedesca Berlino, uccidendo 12 persone tra cui una cittadina italiana, e ferendone 56. Verrà neutralizzato da personale della Polizia di Stato quattro giorni dopo in località Sesto San Giovanni (MI).
[210] “Le novità sulla strage di Nizza”, https://www.ilpost.it – 16 luglio 2016.
[211] Nina Niebergall, “’True religion’: How Salafists lure supporters”, https://dw.com – 15 novembre 2016.
[212] Zoe Efstathiou “’We will slaughter you like pigs’. Berlin truck attacker pledges to kill in ISIS video”, https://www.express.co.uk – 23 dicembre 2016.
[213] Patrick Markey e Tarek Amara “Islamic State recruits as Tunisia grapples with freedoms”, https://www.reuters.com – 17 maggio 2015.
[214] Christine Petré “How Tunisia’s moderate imams are seeking to reclaim Islam from extremists”, https://www.al-monitor.com – 08 dicembre 2015.
[215] Gilles de Kerchove “EU-Tunisia cooperation on security and counter-terrorism”, https://www.iemed.org.
[216] “Tunisia: Changes to passport law will ease arbitrary restrictions on travel”, https://www.amnesty.nl – 26 maggio 2017.
[217] U.S. Department of State “Country Report on Terrorism 2016 – Chapter 2 – Tunisia”, https://www.ecoi.net – 19 luglio 2017.
[218] Loi organique n. 22/2015 relative à la lutte contre le terrorism et la répression du blanchiment d’argent.
[219] Quando la legge è stata promulgata, la Corte Costituzionale tunisina non era ancora stata istituita.
[220] Tania Abbiate “La legge antiterrorismo tunisina: un preoccupante ritorno al passato?”, https://www.forumcostituzionale.it – 08 settembre 2015.
[221] Articolo 13: “l’azione individuale o collettiva destinata a diffondere il terrore tra la popolazione o a costringere uno Stato o un’organizzazione internazionale a fare ciò che non dovrebbe”.
[222] L’articolo 35 estende la durata del fermo di polizia da 6 a 15 giorni.
[223] “Nessuna persona può essere arrestata o detenuta senza essere stata colta nella flagranza dell’atto criminale od a seguito di ordine della magistratura. La persona detenuta deve essere informata immediatamente dei suoi diritti e delle accuse a causa delle quali viene detenuta. Il detenuto ha diritto ad essere rappresentato da un avvocato. La durata dell’arresto e della detenzione sono definiti dalla legge”.
[224] “Tunisia’s Constitution of 2014”, https://www.constituteproject.org – 2014.
[225] “Tunisia: Counterterrorism law endangers rights”, https://www.fidh.org – 31 luglio 2015.
[226] Il 06 gennaio 2014 la National Constituent Assembly (NCA) ha votato per il mantenimento della previsione della pena capitale all’interno della nuova Costituzione (135 voti favorevoli su 174).
[227] Il Parlamento ha poi aggiunto una clausola contro l’abuso di tali strumenti, che prevede pene sino ad un anno di carcere per gli Agenti che li utilizzino senza aver ottenuto il permesso della magistratura.
[228] Prodotto Interno Lordo.
[229] Nei primi nove mesi del 2018 sono sbarcati in Italia circa quattromila cittadini di nazionalità tunisina.
[230] “Movimento dell’appello della Tunisia”, partito politico di matrice laica modernista, fondato nel 2012 dal Presidente Essebsi. Il 15 aprile 2019 Mohamed Hafedh Caid Essebsi, figlio del Capo di Stato, è stato nominato nuovo Presidente del Comitato Centrale del Partito.
[231] “Tunisia – ‘Nidaa Tounes e Ennahda alleati fino al 2019’”, https://www.africarivista.it – 08 maggio 2018.
[232] Fronte Popolare, fondato il 07 ottobre 2012 grazie alla coalizione di 12 partiti di sinistra. Nelle elezioni politiche del 2014 ha ottenuto 15 seggi su 217 del Parlamento.
[233] L’attuale Presidente, candidato alle lezioni presidenziali del prossimo novembre è Mohamed Abbou.
[234] Stefano Maria Torelli “Focus Paese: Tunisia”, https://www.ispionline.it – 28 settembre 2018.
[235] Lydia Letsch “Countering Violent Extremism in Tunisia – between Dependency and Self-Reliance” pagg. 172-187, https://journals.sfu.ca – 28 dicembre 2018.
[236] Foreign fighters di ritorno.
[237] Le attività afferenti il P/CVE sono suddivise in tre categorie: primaria diretta a soggetti già organici a gruppi estremisti con l’obiettivo di favorire la loro fuoriuscita, secondaria diretta al contrasto dei segnali di radicalizzazione al fine di ridurre gli elementi istiganti, terziaria diretta all’attenuazione di eventuali fattori istiganti ed al potenziamento della resilienza delle comunità vulnerabili. Vedasi nota 223 (pag. 176 nota 3).
[238] Non Governative Organization.
[239] “UN Security Council Resolution 2178 (2014)”, https://www.un.org – 25 settembre 2014.