Scarica il file in PDF – tesi telesco APPROFONDIMENTI SUL TERRORISMO
LA FIGURA FEMMINILE NEL TERRORISMO
E NELL’ESTREMISMO VIOLENTO
Mariarosaria Alessia Telesco
(tesi Master in “Geopolitica della Sicurezza”, Università degli Studi Niccolò Cusano UNICUSANO – a.a. 2018-2019 – relatore Prof. Laura Quadarella Sanfelice di Monteforte)
INTRODUZIONE
Introduzione
- Capitolo 1 – La radicalizzazione femminile
1.1 fattori motivanti
1.2 Muhājirat, le donne migranti
1.3 La propaganda islamista
- Capitolo 2 – Le donne nelle organizzazioni terroristiche di matrice islamica
2.1 I ruoli svolti dalle donne
2.2 Le donne di Al-Qaeda e dell’Islamic State
2.3 Le donne del Kurdistan
- Capitolo 3 – Le donne nelle politiche di contrasto al terrorismo e all’estremismo violento
3.1 I ruoli delle donne nel contrasto al terrorismo
3.2 L’inclusione delle donne nelle politiche di contrasto al terrorismo
Conclusioni
Bibliografia
Introduzione
Il coinvolgimento delle donne nel terrorismo e nell’estremismo violento non è un fenomeno nuovo: le donne hanno giocato un ruolo attivo in gruppi e reti terroristiche durante tutto il corso della storia. Tuttavia, tra le schiere dei gruppi terroristici contemporanei, la presenza delle donne nella propaganda, nel reclutamento e nella raccolta dei fondi ma anche in prima linea come vere e proprie combattenti è diventata sempre più importante.
In particolare, questo fenomeno è stato messo a fuoco dalla recente ondata senza precedenti di reclute femminili nell’organizzazione terroristica Islamic State (IS). Il numero di foreign fighters migrati verso le aree geografiche controllate dal l’IS nel 2015 è stato stimato all’incirca di 4.000 combattenti dei quali oltre 550 sono donne[1]. Questo numero straordinario di aspiranti terroristi di sesso maschile provenienti dall’Occidente è accompagnato da un numero altrettanto senza precedenti di donne che viaggiano per sostenere l’IS[2].
Il numero di donne coinvolte in crimini legati al terrorismo è in continuo aumento e, nel 2017, il Global Extremism Monitor ha registrato 100 distinti attacchi suicidi condotti da 181 donne militanti ovvero l’11% di tutti gli incidenti dell’anno. Nel 2016, inoltre, le donne costituivano il 26% delle persone arrestate con l’accusa di terrorismo in Europa rispetto al 18% dell’anno precedente[3]. Recenti rapporti stimano che le donne rappresentano il 15-25% delle organizzazioni terroristiche e il 20% delle reclute occidentali. Un rapporto dello United Nations Development Programme (UNDP) del 2017 ha stimato che il 17% delle reclute estremiste in Africa sono donne. Infine, un rapporto dell’International Centre of the Study of Radicalisation (ICSR) del 2018 ha suggerito che il 13% (4761) degli stranieri affiliati all’ISIS sono donne[4]. Questi dati di costante crescita ci dicono molto sull’agire femminile e su come le organizzazioni estremiste violente sfruttino le dinamiche di genere[5]. È interessante notare inoltre che solo il 5% delle donne che hanno deciso di viaggiare verso la Siria e l’Iraq per raggiungere i territori controllati dall’ISIS dopo il 2013 sono tornate a casa (entro il 2018), rispetto al 19% degli uomini che hanno fatto rientro nello stesso periodo di tempo[6].
E’ necessario dunque porsi delle domande su come e perché le donne vengano reclutate in massa, quale ruolo svolgono all’interno delle organizzazioni terroristiche e infine quali strumenti possono funzionare in maniera più efficace per contrastare questa nuova minaccia.
Riguardo al ruolo delle donne all’interno di queste reti violente permangono molti malintesi e incomprensioni spesso abbinati a risposte stereotipate.
La letteratura dominante attribuisce le motivazioni circa la radicalizzazione delle donne a condizioni che rendono le donne vulnerabili alle spinte estremiste. Questi includono la mancanza di prospettive matrimoniali, esperienze passate di violenza sessuale e perdita familiare perpetrata da parte del “nemico”. Tale approccio spesso colloca le motivazioni politiche delle donne in una sfera privata di genere, dove le loro azioni sono determinate da azioni subordinate agli uomini mentre, al contrario, le principali descrizioni relative alla partecipazione all’estremismo religioso maschile sono caratterizzate dal loro impegno politico e pubblico come cittadini e combattenti. Ciò deriva dal fatto che il maggior numero di donne coinvolte è chiaramente vittima di violenza, di matrimoni forzati e di abusi dettati dalle regole di una società che vede la donna non ricoprire alcun ruolo di rilievo se non addirittura esclusa da qualsiasi potere decisionale. Questo modello di analisi vede dunque in sintesi le donne come vittime piuttosto che agenti che determinano la loro partecipazione all’estremismo. L’ipotesi che le donne si uniscano ad organizzazioni terroristiche principalmente per diventare “spose jihadiste”, madri ed educatrici di una nuova generazione di combattenti è però riduzionista.
I motivi per cui le donne occidentali, in particolare, decidono di viaggiare e di unirsi all’estremismo violento spesso rispecchiano gli stessi motivi che attraggono anche gli uomini e sebbene non esista un singolo percorso è possibile delineare un tema ricorrente nella ricerca di rivalsa personale per rimostranze subite, reali o percepite.
Si cercherà dunque di capire i fattori di spinta e i vari ruoli ricoperti dalle donne nel terrorismo di matrice islamica, dapprima in Al-Qaeda e nell’IS, fino ad osservare le motivazioni delle donne nella forza diametralmente opposta che combatte e cerca di respingere il fondamentalismo islamico dell’ISIS, con donne tradizionalmente musulmane ma con una visione secolare e socialista ovvero tra le schiere delle combattenti e militanti curde.
Le ragioni per cui le donne decidono di unirsi all’IS sono sfaccettate e includono un’ampia gamma di fattori diversi con un peso specifico più o meno influente a seconda del caso[7]. Queste motivazioni vengono poi a loro volta strumentalizzate dal terrorismo stesso: lo Stato islamico, infatti, vedremo, reinventa le donne musulmane, non semplicemente come madri e mogli ma come agenti pubblici di cambiamento nel creare e modellare il Califfato globale[8].
Allo stesso modo tra le combattenti curde, anche se la maggior parte delle reclute inizialmente si era unita al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Partîya Karkerén Kurdîstan o PKK) per desiderio di vendetta, i quadri dirigenti, pur sempre in un contesto islamico, cercavano di infondere alcuni insegnamenti del marxismo e del leninismo sostenendo che “i grandi cambiamenti sociali sono impossibili senza il fermento femminile”[9]. Anche lo stesso Öcalan, leader del PKK, sosteneva che le donne curde dovrebbero essere liberate dal loro status, tradizionalmente represso, sfidando la società curda tribale, feudale e conservatrice[10]. Alla base di ciò potremmo dunque affermare, contrariamente agli stereotipi, che alcuni appelli delle donne affiliate a gruppi militanti si basano su discorsi di interesse politico e di empowerment femminile.
Nasce dunque la necessità di decostruire tale stereotipo della donna come vittima passiva di violenza e bisognosa di protezione e continuare ad affrontare il problema della radicalizzazione femminile senza pregiudizi di genere e senza sottostimarne la minaccia, senza però dimenticare che la maggior parte delle donne coinvolte nel terrorismo è strumento del sistema stesso.
Quali sono le motivazioni che spingono le donne a prendere parte a tali movimenti? Che ruoli ricoprono in queste organizzazioni? Come vengono reclutate?
Al momento è stato fatto pochissimo lavoro non solo per rispondere alle domande circa le ragioni che portano alla radicalizzazione femminile ma soprattutto per costruire misure preventive sostenibili per contrastare tale fenomeno[11]. Le donne ancora oggi sono incluse solo raramente nei negoziati o nei processi decisionali contro il terrorismo o coinvolte attivamente in iniziative di prevenzione e contrasto[12]. Il ruolo che le donne possono svolgere nella lotta al terrorismo è però davvero unico, in quanto sono in grado di identificare i primissimi segni di radicalizzazione all’interno del proprio ambiente domestico ed è dimostrato che quando le donne sono incluse nei negoziati di pace politica, ad esempio, è più probabile che gli accordi raggiunti durino nel tempo.
Oggi i vari attori dell’antiterrorismo internazionale e i responsabili politici nazionali devono capire che, data la natura stessa dei conflitti, è richiesto un impegno globale che tenga conto dei diversi aspetti di genere, delle loro specifiche conseguenze e che le donne sono fondamentali nella costruzione della pace nonché nei processi di ricostruzione democratica, in particolare in quei luoghi controllati precedentemente da gruppi terroristici, poiché il loro ruolo e la loro influenza, all’interno della famiglia e non solo, possono contribuire in maniera determinante a fermare il terrorismo e l’estremismo violento tra le future generazioni.
- La radicalizzazione femminile
1.1 I fattori motivanti
Nel mondo moderno, al fine di porre fine alla loro violenza, è importante comprendere le motivazioni dei terroristi e i moventi alla base della loro organizzazione. Molti studi hanno cercato di comprendere il terrorismo e l’estremismo violento dal punto di vista politico, sociale e organizzativo tentando di trovare le motivazioni che fanno sì che gli individui si uniscano alle organizzazioni terroristiche. Queste ultime sono generalmente considerate dominate dagli uomini, all’interno vi è una stragrande maggioranza di membri di sesso maschile e, convenzionalmente, sono gli uomini quelli visti come leader delle ribellioni armate perché è stato ipotizzato che i terroristi maschi siano dediti ad una causa e preparati a usare la violenza per raggiungere i loro obiettivi. Le donne, invece, nonostante l’evidenza storica mostri diversamente, sono spesso rappresentate come mere vittime della violenza e non come responsabili di un attacco in quanto vengono tradizionalmente percepite, in particolare nelle culture di origine islamica fortemente modellate da schemi incorporati di ciò che costituisce un comportamento femminile “appropriato”, come casalinghe e membri non violenti della società[13]. Nelle organizzazioni terroristiche, tuttavia, questo stereotipo è oggi spesso spezzato e le donne vengono coinvolte sempre più spesso in atti di violenza assumendo ruoli non convenzionali. Seppure le donne siano state storicamente membri attivi di molte organizzazioni terroristiche, la loro partecipazione è vista come scioccante, specialmente nelle società in cui tali partecipazioni violano le tradizionali norme di genere[14].
Nel corso della storia, la maggior parte dei combattenti sono stati uomini e questo, in combinazione con gli stereotipi di genere sulla presunta “tranquillità” delle donne, ha portato a ricerche che hanno in gran parte trascurato la partecipazione delle donne ai gruppi armati. Negli ultimi anni, la ricerca sistematica sulla partecipazione delle donne ai gruppi armati, tuttavia, è cresciuta notevolmente dimostrando, in particolare, che le donne sono attivamente coinvolte in gruppi ribelli molto più spesso di quanto precedentemente riconosciuto[15]. Il numero di donne autrici di attacchi suicidi, ad esempio, è passato da 8 negli anni ’80 a oltre 100 nel 2000[16]. Di recente, sono state distrutte diverse cellule estremiste di sole donne, a partire dal Marocco dove è stato smantellato un gruppo di dieci donne trovate in possesso di sostanze chimiche usate per fabbricare esplosivi, fino ad arrivare a Londra dove una donna e le sue due figlie stavano complottando un attacco contro i turisti al British Museum. L’organizzazione terroristica jihadista Boko Haram, comprendendo il valore funzionale delle donne, ne fa un uso strumentale tanto che le donne costituiscono quasi i due terzi degli attentatori suicidi del gruppo (uccidendo più di 1.200 persone tra il 2014 e il 2018). Gli attacchi delle donne, inoltre, sono cresciuti non solo in numero ma anche in gravità e sono in media più letali di quelli condotti dagli uomini. In Nigeria, l’incidente più mortale del 2018 ha coinvolto tre donne kamikaze che hanno ucciso venti persone in un mercato mentre in Indonesia, gli attacchi più mortali degli ultimi decenni sono stati condotti da due unità familiari che includevano donne e bambini. Secondo uno studio condotto su cinque diversi gruppi terroristici, gli attacchi compiuti dalle donne hanno avuto in media 8,4 vittime, rispetto a 5,3 per gli attacchi perpetrati da uomini e avevano meno probabilità di fallire[17].
Alcuni dati hanno aperto le porte alla ricerca in modo da esplorare le potenziali spiegazioni della variazione nella partecipazione delle donne, le cause e gli effetti derivanti. Basandosi su un campione globale di oltre 300 gruppi ribelli o organizzazioni politiche violente, forze armate governative o non statali tra il 1950 e il 2011, diverse ricerche, ad esempio, hanno fornito alcune stime in merito alla presenza delle donne in tali organizzazioni illustrando che le stesse o le ragazze soldato erano partecipanti attivi in quasi la metà di tutti i gruppi, ricoprendo ruoli di supporto ma anche ruoli da combattenti in quasi un terzo di esse, che erano parte della leadership in oltre un quarto dei gruppi e che molte donne hanno partecipato volontariamente senza alcuna costrizione esterna.
Esplorando i fattori basati sull’organizzazione e la loro struttura in relazione alla partecipazione delle donne, viene dimostrato che le dimensioni del gruppo sono importanti in quanto i gruppi più piccoli e quelli coinvolti nelle lotte di autodeterminazione hanno meno probabilità di includere le donne e di reclutare ragazze soldato. Questi studi mostrano anche che più gruppi ribelli attivi ci sono in un Paese, meno è probabile che vengano reclutate donne e che i livelli di sviluppo economico hanno una relazione negativa con l’affiliazione femminile ovvero livelli più alti di sviluppo economico sono associati ad una minore probabilità di affiliati donne[18]. Viene rilevato altresì che le donne hanno maggiori probabilità di assumere ruoli di combattimento in gruppi che hanno un’ideologia di genere positiva. I risultati suggeriscono infatti che l’ideologia di base di un gruppo è un fattore importante e un’ideologia di “sinistra” di ispirazione marxista è associata a un numero più elevato di combattenti donne, mentre un’ideologia islamista mostra la relazione opposta. D’altra parte viene notato anche che le donne non hanno partecipato perché un movimento ribelle aveva una piattaforma di sostegno ai diritti delle donne ma alcuni casi suggeriscono piuttosto che la partecipazione delle donne sia riuscita a spostare e influenzare la piattaforma del movimento in tal senso. Inoltre, scoprono che un conflitto più si protrae nel tempo, più è probabile che un gruppo cerchi di arruolare ragazze soldato. Infine, indipendentemente dal loro ruolo attivo o di supporto, la partecipazione delle donne è più probabile quando i gruppi usano il reclutamento forzato o si specializzano in tattiche terroristiche.
Mentre molti fattori dipendono esclusivamente dal gruppo e dalla situazione esterna alcune motivazioni sono però dettate dall’individualità. Il processo di radicalizzazione è generalmente inteso come un processo altamente complesso che può differire da persona a persona ed è spesso considerato come una combinazione di diverse motivazioni che possono spingere o trascinare una persona verso un gruppo estremista violento. Ciò solleva la questione sul perché le donne però si stiano unendo alle organizzazioni terroristiche.
Molti studi cercano di generalizzare le motivazioni del loro coinvolgimento accomunandole a quelle degli uomini ma le donne sono colpite in modo diverso nelle organizzazioni terroristiche e occorre prestare particolare attenzione alle differenze di genere per combattere efficacemente il terrorismo[19]. Difatti, mentre alcune donne si uniscono volontariamente a gruppi estremisti per ragioni simili a quelle delle reclute maschili, incluso l’impegno ideologico o i legami sociali molte altre, invece, vengono rapite e arruolate con la forza. Altre si uniscono nella speranza di ottenere libertà e accesso alle risorse. In Nigeria, ad esempio, – mentre la maggior parte resta costretta e arruolata contro la propria volontà – alcune donne si sono unite a Boko Haram per ricevere un’istruzione coranica in una regione in cui solo il 4% delle ragazze ha l’opportunità di finire la scuola secondaria[20]. Diventare un kamikaze talvolta è preferibile ad un matrimonio combinato o ad una vita con un uomo che una donna non ama. La realtà è dunque molto più complicata dell’assumere che gli uomini costringano le donne al terrorismo[21].
Non è possibile creare un identikit della donna che decide di affiliarsi perché esistono diversi tipi di percorsi e una vasta gamma di fattori di svariata origine che talvolta si sovrappongono.
Tali fattori possono aiutare a spiegare perché una persona diventa più suscettibile alla retorica degli estremisti e gli esempi includono sentimenti di allontanamento dalla società, attrazione della causa, cambiamento nelle dinamiche di gruppo, privazione economica e altre tipologie di ingiustizie percepite[22].
Nelle organizzazioni estremiste violente, la stretta aderenza ai ruoli “tradizionali” e il controllo rigoroso e sistematico dei ruoli di genere assegnati rispettivamente agli uomini e alle donne influisce sul modo in cui stabiliscono il loro ordine sociale. Queste organizzazioni hanno inoltre un’intima familiarità con il modo in cui l’oppressione basata sul sesso e sulla violenza sessuale e di genere può essere utilizzata a loro vantaggio. Ciò avviene in molti modi tra cui la schiavitù sessuale, la tratta di esseri umani, lo stupro e lo stupro di gruppo, le restrizioni ai diritti delle donne e l’accesso ai servizi sociali di base[23]. Alcuni studi che hanno tentato di comprendere in maniera specifica le motivazioni femminili sostengono che il loro coinvolgimento rappresenta un atto di femminismo liberale o il risultato dell’oppressione di genere tradizionale e quindi considerando le donne motivate fondamentalmente da ragioni personali e non ideologiche. La ricerca nel campo ha suggerito che le donne palestinesi impegnate nel terrorismo, ad esempio, si sentivano autorizzate e godevano di un “senso di liberazione” (sebbene l’empowerment di queste donne abbia avuto vita breve perché le loro azioni sono state censurate dalla comunità per violazione delle norme di genere). I sostenitori dell’empowerment e dell’uguaglianza di genere ritengono che le autorità religiose hanno permesso alle donne di essere designate come martiri solo recentemente – uno status precedentemente riservato agli uomini – lasciando intendere che le donne hanno acquisito un certo status all’interno della società islamica. Queste prospettive sono state però criticate e considerate riduttive perché le donne terroriste generalmente determinano le loro azioni all’interno di una matrice di vincoli, aspettative sociali e pressioni politiche che fanno parte della costituzione del loro processo decisionale piuttosto che avere loro influenza su di essa[24]. La società e la politica palestinesi impongono una complessa rete di potere e relazioni sociali tale che nei media arabi i kamikaze femminili sono rappresentati come spose simboliche della Palestina, riconoscendo dunque un’emancipazione del ruolo delle donne ma solo all’interno di configurazioni patriarcali. C’è dunque chi rifiuta il concetto di “causa femminista” come fondamento logico per le donne suicida e identifica piuttosto motivazioni come trauma, vendetta, nazionalismo, espressione di indignazione verso la comunità per quanto riguarda le donne all’interno di zone di conflitto e sentimenti di alienazione, emarginazione, negativa identità di sé e desiderio di agire per difendere coloro che risiedono in zone esterne al conflitto[25]. La decisione di intraprendere una missione suicida è il risultato dell’effetto di interazione di diversi fattori ed è quasi impossibile disaggregare sovrapposizioni e motivazioni complesse[26].
Mia Bloom, accademica canadese specializzata in studi sul terrorismo, ipotizza un modello di motivazioni specifiche di genere chiamato delle “quattro R più una” nelle quali si parla di Revenge (vendetta), Redemption (redenzione) Relationship (relazione), Respect (rispetto) e Rape (stupro) per spiegare le ragioni che spingono una donna a diventare un’attentatrice suicida[27].
Con la “vendetta” si fa riferimento ad un’azione di risposta ad un governo oppressivo o alla perdita di una persona amata; la “redenzione” rappresenta il tentativo che una donna fa per perdonarsi e farsi perdonare per aver compiuto dei peccati oltre a ripulire il nome della famiglia (spesso tramite attentati suicida); la “relazione”, ovvero il rapporto di parentela o il legame amicale con persone che fanno già parte di un determinato gruppo e che spingono l’affiliazione. La relazione è fondamentale per comprendere la mobilitazione violenta delle donne e ne costituisce un elemento premonitore. Il parente fornisce la via d’ingresso all’organizzazione, la quale usa questo legame familiare per controllare le nuove reclute e proteggersi da potenziali infiltrazioni esterne. La creazione di legami familiari e di parentela è infatti intenzionale a costruire una rete coesa[28]. I matrimoni strategici tra i vari gruppi jihadisti in Indonesia hanno cementato i legami tra i gruppi e creato forti legami di parentela tra le celle geograficamente isolate. In questi casi, le donne sono cruciali nel collegare insieme la rete del terrore e mantenere gli uomini fermi nel loro impegno alla Jihad. A volte le donne si sposano volentieri e altre volte la loro famiglia le dà ai terroristi in matrimonio. In alcune culture, gli uomini possono dettare legge sulle azioni delle loro mogli e avere il potere di decidere in merito alla vita o alla morte delle donne della loro famiglia e quindi forzarle a perpetrare atti di violenza.
Sebbene di solito in combinazione con altri motivi, le donne inoltre cercano il “rispetto” della loro comunità e impegnandosi nella violenza possono dimostrare di essere altrettanto dedicate e impegnate nella causa come gli uomini. I martiri diventano eroi ed eroine ai quali verranno intestate strade, parchi e le cui foto verranno attaccate sui muri. Le donne suicida saranno dunque considerate fonte di emulazione e modelli di riferimento e di sacrificio per la prossima generazione di giovani. In questi contesti patriarcali, normalmente le donne non raggiungerebbero mai questo livello di notorietà in vita ed è particolarmente vero che il desiderio di fare qualcosa di grande con la propria vita – specialmente se la vita che viene condotta è mediocre e fonte di dolore e paura costante – è un potente stimolo ad affiliarsi ad un movimento terroristico e diventare un attentatore suicida. Nelle società in cui l’essere una donna non è apprezzato quanto l’essere un uomo e questi ultimi sono più liberi di perseguire i propri sogni, la volontà di fare qualcosa di importante della propria vita e raggiungere la fama è un forte incentivo per le donne[29].
L’uguaglianza di genere è un’altra motivazione peculiare delle donne rispetto agli uomini, la quale può essere ricercata proprio attraverso la partecipazione al terrorismo o a movimenti violenti. L’emancipazione accompagna il coinvolgimento delle donne in molti gruppi terroristici. Ad esempio, donne come la leader delle Tigri per la liberazione della Patria Tamil (LTTE), Thamalini, hanno raggiunto il rispetto attraverso la partecipazione terroristica. D’altro canto, però, mentre la Brigata delle donne della metropolitana di Weather Underground inquadrava la partecipazione femminile come rivoluzione femminista, i critici sottolineano che le donne del gruppo dovevano fare sesso con tutti i membri maschi del gruppo e che la rivoluzione era considerata la massima priorità e quindi le nuove madri dovevano affidare i loro bambini ad altri membri del gruppo per non essere troppo distratte rispetto ai loro obiettivi politici. Storicamente infatti solo pochi gruppi terroristici sono stati fortemente impegnati nell’uguaglianza di genere e spesso, una volta terminato il periodo di crisi, le donne possono avere difficoltà a reintegrarsi nella società quando si trovano di fronte ad un sistema patriarcale o comunque un sistema sociale in cui gli uomini detengono il potere su donne e bambini[30].
Infine lo “stupro” è spesso utilizzato dalle organizzazioni estremiste violente come modalità per forzare le donne a diventarne parte. Sebbene la violenza sessuale sia correlata alla necessità di Redemption, in taluni casi le donne sono deliberatamente prese di mira dallo sfruttamento sessuale per generare nuove reclute in quanto l’uso deliberato dello stupro non fornisce alcuna via d’uscita. Una volta che le ragazze sono state stuprate, solo un atto di martirio può sradicare la loro vergogna e dunque la violenza sessuale può diventare parte della retorica per spingere le persone ad unirsi all’insurrezione[31]. Lo stupro non è l’unica forma di violenza sessuale legata al conflitto, difatti l’International Criminal Court (ICC) include anche la schiavitù sessuale, la prostituzione coatta, la gravidanza forzata, la sterilizzazione o l’aborto forzato. Come espresso nella risoluzione 2331 del 2016 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, gli atti di violenza sessuale e di genere, anche associati alla tratta di persone, sono noti per far parte degli obiettivi strategici di alcuni gruppi terroristici, usati come tattica del terrorismo, strumento per la distruzione delle comunità e per aumentare le loro finanze e il loro potere attraverso il reclutamento[32]. La violenza sessuale è uno strumento tattico utilizzato per farsi rispettare dalla popolazione, per far socializzare i combattenti e incoraggiare la coesione delle unità, per far allontanare i civili dalle aree strategiche, per colpire l’avversario come nel caso delle donne cristiane prese di mira da Boko Haram e, più in generale, per pilotare un clima d’instabilità. Lo stigma associato alla violenza sessuale perpetrata dagli estremisti rimane una forza potente che emargina le donne, sopravvissute al trauma fisico e psicologico, nella sfera economica e può provocare isolamento e perdita di prospettive matrimoniali, portando ad una vita di povertà. I bambini nati dallo stupro, inoltre, spesso subiscono discriminazioni ed esclusione da servizi: la progenie delle ragazze catturate da Boko Haram è stigmatizzata come “sangue cattivo” e ha molte più probabilità di essere maltrattata, non istruita e strumentalizzata dall’organizzazione stessa[33].
Accanto a tutto ciò, va chiaramente indicata una scarsa fiducia nella giustizia, problema spesso aggravato dalla mancanza di donne che lavorano nei settori della giustizia penale, questo a sua volta a causa della mancanza di assunzioni e promozioni delle donne in questi sistemi. Alcuni fattori che alimentano la radicalizzazione comprendono conseguentemente reazioni a rimostranze contro istituzioni o comunità statali, la percezione che esistano misure di sicurezza diverse per uomini e donne o l’esposizione (impunita) alla violenza di genere. Le vittime di tali crimini potrebbero infatti godere di una minore protezione o di un accesso limitato ai mezzi di ricorso, senza dimenticare lo stigma che le donne affrontano in alcune società quando gli autori di determinati tipi di crimini possono anche influire sulla loro capacità di ottenere giustizia. L’incapacità di un sistema di fornire giustizia alle vittime di crimini di genere può influire sulla fiducia che le donne e gli uomini hanno nei confronti della giustizia stessa. Ciò è rilevante poiché influenza direttamente la fiducia delle donne e la loro volontà di collaborare con il sistema giudiziario penale ed è evidente che metà della popolazione potenzialmente alienata lavorerà dunque contro il sistema di giustizia che dovrebbe identificare, arrestare e perseguire i criminali. Nel contesto dell’estremismo violento o del terrorismo, la mancanza di fiducia in un sistema di giustizia penale inclusa la discriminazione sessuale e di genere può dunque chiaramente creare condizioni favorevoli alla violenza e agli abusi e può essere un fattore determinante per l’affiliazione all’estremismo violento sia per le donne che per gli uomini[34].
Tutti i motivi sopra elencati possono coesistere contemporaneamente e le categorie di vendetta, redenzione, relazione e rispetto non si escludono a vicenda.
Si delinea quindi un quadro molto complesso con un confine molto labile tra la volontarietà nel prendere parte al terrorismo e la radicalizzazione sotto coercizione e minaccia di violenza. Le donne sono sì motivate da rimostranze economiche, politiche, etniche o religiose, mosse da una ferma volontà di riscattarsi dal ruolo che ricoprono ed emanciparsi dal dominio maschile, desiderose di contribuire alla costruzione di un futuro migliore per la crescita dei figli e rispondere ai bisogni ai quali il sistema politico non risponde concretamente[35] ma spesso non partecipano nelle organizzazioni terroristiche perché rappresentano un’opportunità di guadagno personale[36]. Le donne rapite, abusate fisicamente e psicologicamente, costrette a matrimoni forzati, violentate, persino vendute come schiave sessuali e talvolta costrette a commettere attacchi suicidi sono vittime del conflitto, vittime dei loro aggressori e vittime della situazione in cui si trovano. In queste situazioni invece le donne sono considerate terroriste anche quando vengono sfruttate da tali organizzazioni poiché viene ignorato che le azioni violente commesse sono spesso il risultato di vincoli fisici o psicologici[37].
Concentrarsi esclusivamente sulla motivazione delle donne tende ad ignorare infatti la rilevanza delle strategie dei leader maschili nel reclutare e sfruttare tali donne – modalità che vedremo più avanti- mentre queste cercano di riscattarsi con un atto volontario di martirio perché di fronte ad un codice d’onore che le considera colpevoli, il terrorismo risulta un’alternativa migliore[38].
1.2 Muhājirat, le donne migranti
Una differenza particolare va fatta sulle motivazioni che spingono i foreign fighters ovvero i volontari stranieri che decidono di viaggiare e unirsi alle organizzazioni terroristiche. Il flusso di uomini e donne che viaggiano è una preoccupazione per i governi occidentali che temono che queste persone possano rappresentare una minaccia una volta ritornati a casa. Il numero complessivo di migranti occidentali, nell’ottobre 2014, è stato stimato in 3.000 di cui ben 550 sono donne[39]. Questi numeri sono aumentati significativamente negli ultimi anni. L’International Centre for Counter-Terrorism ha stimato nel 2016 che tra 663 e 883 donne e ragazze, come le tre studentesse britanniche Amira Abase, Shamima Begum e Khadiz Sultana, tutte di età compresa tra i 15 e i 16 anni, hanno viaggiato per unirsi all’Islamic State[40]. Queste reclute provengono da fasce di età ed origini incredibilmente diverse[41].
I principali fattori rintracciabili che hanno spinto le prime donne occidentali ad emigrare verso il territorio controllato dall’ISIS sono spesso simili alle loro controparti maschili ma anche in questo caso differiscono per alcuni aspetti.
Le donne che viaggiano verso la Siria e l’Iraq possono essere divise in due categorie: quelle che viaggiano con compagni maschi o mariti – l’associazione o il matrimonio con un sostenitore di una causa estremista o con un combattente rimane uno dei motivi più validi – e quelle che fanno il viaggio da sole[42]. Il fenomeno delle muhājirat, donne occidentali emigrate per unirsi allo Stato Islamico, ha attirato una notevole attenzione nei media, il ché ha portato alla diffusione di interpretazioni spesso semplicistiche della radicalizzazione e del reclutamento delle donne di cui una delle manifestazioni è la nozione di “sposa jihadista”[43] e quindi di donne che viaggiano con il solo scopo romantico di unirsi in matrimonio ad un combattente. Tra le foreign fighters di sesso femminile che decidono di viaggiare da sole, sono state identificate, infatti, altre motivazioni riassumibili in tre macro-categorie principali: rimostranze contro torti subiti, voglia di trovare soluzioni e ragioni personali[44].
Nella prima categoria rientra la sensazione che la comunità musulmana nel suo insieme sia perseguitata violentemente e le conseguenti rabbia, tristezza e frustrazione per la mancanza di azione da parte della comunità internazionale che rimane inerte e non agisce contro tali barbarie o addirittura tenta di prevenire e contrastare il risveglio della Ummah (comunità) musulmana[45]. Il tema della persecuzione, fortemente utilizzato dalla propaganda e dalla comunicazione strategica delle organizzazioni terroristiche – tramite utilizzo di immagini e raffigurazioni forti e cariche di emotività – influenza infatti molti combattenti stranieri a lasciare il loro paese d’origine suscitando una forte empatia per le vittime di violenza musulmane e del desiderio di “fare qualcosa” per fermare tali ingiustizie[46]. La loro priorità è fornire aiuti umanitari nonché difendere tutti i membri dell’Ummah dalla persecuzione e dalla minaccia, spinti dalla responsabilità individuale di proteggere i propri fratelli e sorelle musulmani.
Questa serie di motivazioni caratterizza in particolare i combattenti stranieri occidentali, tra i quali ci sono convertiti e immigrati di seconda generazione, i quali non hanno alcuna parentela o relazione etnica con il loro popolo d’origine e trovano la propria motivazione per impegnarsi nel conflitto nella scoperta dell’Islam, passando da una radicalizzazione “cognitiva”, basata sull’acquisizione di atteggiamenti, valori e credenze ad una forma “comportamentale”[47].
La maggior parte dei combattenti stranieri non occidentali, invece, è molto più influenzata dal fattore religioso e da un’ideologia estremista mirata alla costruzione del Califfato, l’unica soluzione alla decadenza della società occidentale moralmente corrotta. Tra questi, ci sono i “veri credenti” che hanno il desiderio di far parte di qualcosa di più grande e divino in contrapposizione alla superficialità e agli obiettivi materialistici presenti nel mondo occidentale.
L’aspirazione di aiutare a costruire un sistema utopico e il desiderio di vivere nel Califfato secondo la legge della Sharia attraggono molte donne che sperano di contribuire alla creazione di uno stato ideologicamente puro. Il territorio controllato dall’ISIS è infatti presentato come un luogo in cui le donne pie sono rispettate e dove possono vivere in modo onorevole indipendentemente dal loro background nazionale o culturale[48] e dare il loro contributo come madri, infermiere o insegnanti.
L’idea che le donne siano motivate a unirsi al terrorismo esclusivamente per motivi romantici è di fatto riduttivo ma la prospettiva del matrimonio è uno dei fattore chiave del loro coinvolgimento: il matrimonio con un combattente jihadista conferisce una condizione privilegiata nella quale potere essere venerate come mogli e come madri, fondamentali nella creazione di famiglie per poter così espandere il proclamato Califfato[49].
Altre donne, infine, possono essere motivate dalla violenza, dall’intolleranza e dalla volontà di combattere in prima linea per “distruggere i non credenti”[50]. Il cosiddetto Stato Islamico afferma che la “jihad è un obbligo religioso di ogni musulmano”. Questa visione, diffusa da Azzam e poi da Bin Laden, è confermata anche da molti giuristi islamici che concordano sul fatto che “la jihad potrebbe diventare un obbligo personale in caso di un attacco improvviso, dove anche donne e bambini sono invitati a partecipare”[51].
Altre fonti mostrano che le donne musulmane in Europa si sentono isolate a causa della difficile infanzia e, in particolare dopo l’11 settembre e l’ascesa dell’islamofobia in Occidente, del crescente sentimento anti-musulmano che suscita sentimenti di esclusione sociale ed emarginazione. Proprio per il conseguente bisogno psicologico di un senso di appartenenza potrebbero essere attratte infatti dall’ISIS e dal senso di fratellanza e comunità trasmesse nei post sui social media da altre reclute femminili.
La grande maggioranza dei combattenti stranieri occidentali sembra essersi unita al conflitto mosso da una ricerca di avventure, un maggiore senso di scopo e significato nella loro vita. Sono giovani uomini e donne disaffezionati, senza meta, privi di ideologia, con un rifiuto dell’Occidente e dei suoi valori e che cercano di definirsi alla ricerca di un’identità[52]. Questo isolamento culturale e sociale nonché la scarsa integrazione nella società nella quale vivono sono particolarmente sentiti negli immigrati di seconda generazione e la soluzione viene trovata nella volontà di partecipare alla creazione di una società utopica, accogliente, legata da un forte senso di appartenenza e identificata come un rifugio[53].
Non solo dunque la redenzione ma anche la ricerca di identità e significato della vita, l’empatia per la drammatica situazione, ad esempio, in Siria o in Iraq o entrambi, combinati con l’adesione ad un’ideologia portano giovani ignari a lasciare il loro paese, a prendere le armi e ad unirsi al conflitto e giurare fedeltà all’ISIS[54].
Così, prende forma un profilo parzialmente nuovo di combattenti straniere: giovani, soprattutto studentesse, senza precedenti esperienze sul campo di battaglia o forti legami etnici e di parentela con la Siria o l’Iraq, spinte dalla noia, dalla disaffezione, dall’incertezza di appartenenza a una cultura occidentale e da sentimenti di estraniamento che cercano avventure e uno scopo più grande nelle loro vite trovando rifugio nella religione o nelle ideologie estremiste[55]. Questi sentimenti di grande disagio vengono incoraggiati e sfruttati dai gruppi estremisti nella loro propaganda che strumentalizza la scarsa integrazione e la mancanza di istruzione al fine di attrarle e separarle dall’Occidente fino a condurle alla radicalizzazione.
1.3 La propaganda islamista
La Commissione europea definisce la radicalizzazione terroristica come il complesso fenomeno delle persone che abbracciano opinioni e idee che potrebbero portare a commettere atti terroristici, riconoscendo che i fattori trainanti della radicalizzazione possono includere un forte senso di alienazione, ingiustizia percepita o umiliazione rafforzata da emarginazione sociale, xenofobia e discriminazione, possibilità di istruzione o lavoro limitate, criminalità o problemi psicologici e che i reclutatori possono sfruttare questi fattori e depredare vulnerabilità e rimostranze attraverso la manipolazione[56].
La propaganda è probabilmente il mezzo centrale con cui l’IS raggiunge e mobilita i suoi sostenitori e il suo ruolo è ancora più importante per le potenziali reclute situate al di fuori delle regioni controllate territorialmente dall’organizzazione come il pubblico occidentale. Pertanto, esaminare in che modo le campagne mediatiche dell’IS prendono di mira strategicamente e attraggono le donne è fondamentale per una comprensione globale di questo fenomeno[57].
Le organizzazioni terroristiche hanno infatti compreso la necessità di utilizzare una comunicazione di successo per coltivare supporto popolare e per generare sostegno (o paura), allo scopo di consentire all’organizzazione più spazio di manovra nonché nella speranza di attrarre altri sostenitori alla causa. Al-Quaeda e l’Islamic State, a tal riguardo, hanno implementato una strategia a più fasi per fare appello al pubblico concentrandosi innanzitutto sulla creazione di una base ideologica consistente di due elementi: pubblicizzare la vera fede enfatizzando il modo corretto di vivere la vita e spiegare il sistema jihadista e ciò che è necessario al popolo islamico. In fase successiva vengono messi in evidenza la crudeltà imposta ai sunniti e gli attacchi contro la comunità islamica, demonizzando tutti gli altri come la causa diretta di queste crisi e rafforzando efficacemente una percezione della realtà divisa tra il “bene” e il “male”. Infine, viene pubblicizzata l’organizzazione come migliore forza per rimediare e combattere contro tali crudeltà e come unico mezzo contenente soluzioni ordinate divinamente a tutte le pene inflitte ai musulmani[58].
Queste dinamiche di comunicazione di grande influenza pervasiva possono modellare il modo in cui un individuo percepisce non solo questioni socio-politiche più ampie ma anche questioni personali e individuali. Aumentando la percezione della crisi e additando dei nemici come responsabili dei conflitti, diventa sempre più urgente la necessità di soluzioni e l’estremismo violento verrà visto come il miglior mezzo per implementarle. Ciò che emerge da questa prospettiva è che l’ideologia è uno strumento che viene utilizzato selettivamente dagli estremisti violenti per costruire il loro “sistema di significati” in risposta a fattori psicosociali e strategici. In altre parole, i propagandisti islamisti selezionano determinati concetti e contese ideologiche su una miriade di altri per ottenere supporto alla loro agenda – che emerge da una verità rigida e preordinata, ovviamente scollegata dal contesto socio-storico e dalla psicologia umana- in un determinato contesto politico, socio-economico e culturale, nel tentativo di sfruttare i fattori motivanti del pubblico target[59]. La propaganda islamista, dunque, tramite canali media ufficiali, non ufficiali e forum distribuisce una vasta gamma di messaggi che va ben oltre il semplice fornire una varietà di argomenti a supporto del suo pilastro centrale ma svolge un ruolo fondamentale nel plasmare e consolidare una serie di “ganci” che servono ad attirare un pubblico caratterizzato da motivazioni diverse[60].
Diversi gruppi jihadisti producono propaganda ma secondo alcuni studiosi la scala dell’operazione dell’Islamic State non ha precedenti. L’IS ha tre filiali di produzione video pubblicitari e trasmette bollettini radio quotidiani in diverse lingue tra cui anche russo, inglese e francese, diffondendo testi e video che mostrano esecuzioni brutali, scene della vita quotidiana, addestramento religioso e operazioni militari producendo inoltre diverse riviste online[61].
Contrariamente all’immagine dominante, il messaggio diffuso dall’IS non è solo di violenza: la brutalità è soltanto uno di altri temi distintivi quali la misericordia, il vittimismo, l’inclusione e l’utopismo[62]. E’ generalmente riconosciuto che internet può facilitare o catalizzare i processi di radicalizzazione ma c’è ancora divisione di pensiero sulla misura in cui le interazioni online e la propaganda influenzino tali processi e in quale misura possano avere lo stesso ascendente sugli individui rispetto alle reti sociali e di parentela nella vita reale. Mentre alcuni studiosi sostengono che gli individui possono radicalizzarsi anche esclusivamente attraverso il consumo di media online, altri sostengono che gli individui utilizzano internet per selezionare i messaggi a cui sono già interessati e che la semplice esistenza o disponibilità di materiale in rete non significa intrinsecamente che esso possa raggiungere o colpire tutto il pubblico. Ciò significa che gli individui devono già avere un interesse per il materiale – o un’apertura cognitiva e psicologica – per essere influenzati da esso[63]. In questo contesto, le tattiche impiegate dai propagandisti per attirare il pubblico femminile rispecchiano la strategia generale della campagna mediatica dell’IS ma oltre a sfruttare sentimenti di isolamento all’interno di una più ampia comunità non musulmana o il desiderio di provare un senso di appartenenza, i gruppi terroristici comprendono bene le dinamiche di genere e, nei loro messaggi di reclutamento e propaganda, manipolano le norme e gli stereotipi a proprio vantaggio colpendo specificamente uomini o donne.
L’ISIS si è dimostrato molto abile nell’uso della messaggistica di genere nel reclutamento delle donne sviluppando narrative di genere ad hoc. Ad esempio, famoso nella propaganda dell’ISIS è l’appello alle donne europee che scelgono di indossare l’hijab o il niqab che hanno subito forme di abuso verbale e fisico in pubblico a causa del segno più visibile della loro identità musulmana o, più in generale, forme di discriminazione per motivi religiosi nei loro paesi di origine, alle quali viene insegnato che le donne islamiche sono superiori alle relazioni superficiali che hanno avuto nelle società europee[64] e che non sfuggiranno mai all’etichetta del “terrorista” finché resteranno in Nord America o in Europa[65].
La sua messaggistica verso le donne, spesso condotta da donne reclutatrici, è molto più complessa del cliché secondo cui unirsi al Califfato è una chiamata di fede. Si cerca di modellare le identità delle lettrici offrendo loro una cornice alternativa attraverso la quale interpretare il mondo e promuovendo l’agenda politico-militare e sociale dell’IS in maniera concreta.
La narrativa della rivista Dabiq, pubblicata per la prima volta nel luglio 2014 cessando le sue pubblicazioni nel 2016, ritraeva le donne essenziali quanto gli uomini per l’istituzione e la longevità del Califfato. Dabiq analizza va ulteriormente le varie identità e i ruoli all’interno e all’esterno del gruppo descrivendo le donne come “sostenitrici”, “madri/sorelle/mogli”, “combattenti”, “vittime” e “corruttrici”. Tratti e valori positivi come, ad esempio, caste, leali, pazienti forti, pie, coraggiose e negativi, come promiscue, immorali, ingannevoli e valori che corrispondono all’essere pedina essenziale alla soluzione della crisi o causare crisi venivano collegati a questi archetipi per distinguerli come parte di un gruppo o elemento fuori dal gruppo. L’obiettivo di questa strategia è guidare i propri lettori a sviluppare la propria identità in linea con gli archetipi all’interno del gruppo (“sostenitore”, “madre/sorella/moglie”, “combattente”) e denunciare le caratteristiche degli archetipi esterni al gruppo (“corrotte” e “corruttrici”). È importante notare che la propria identità non è uno stato fisso ma un processo che può evolversi costantemente. Per questo motivo, Dabiq assicurava ai suoi archetipi di “corrotto” e “vittima” di poter essere effettivamente in grado di riscattarsi e salvarsi sostenendo l’IS e ricoprire ruoli di “sostenitore” o “madre/sorella/moglie”[66]. Questi doveri non venivano descritti romanticamente avvolti nell’amore e nella lussuria ma piuttosto la rivista cercava di fare appello al suo pubblico femminile usando un ragionamento pragmatico: le donne ricoprono ruoli potenti che sono essenziali per gli sforzi di costruzione dello Stato, garantire la sopravvivenza del Califfato e, soprattutto, supportare ed incoraggiare gli uomini ad intraprendere la Jihad[67].
Un tema ricorrente negli articoli di Dabiq, infatti, era l’obiettivo di generare un forte senso di emancipazione per il suo pubblico femminile. Un modo primario in cui Dabiq cercava di raggiungerlo era innanzitutto offrendo alle donne una visione alternativa della libertà ritraendo il femminismo occidentale come un modello con dei ruoli di genere basati su principi superficiali e materialistici che si sono discostati dai ruoli previsti da Dio.
Migrando all’ISIS, le donne possono liberarsi da ciò che è stato loro imposto dall’Occidente e impiegando frasi come “sei la speranza della comunità e l’Ummah non sorgerà senza il tuo aiuto” e indicando l’hijrah (migrazione) come la scelta razionale che non solo rafforzerà e darà significato alle loro vite ma allo stesso tempo rafforzerà l’IS e indebolirà il nemico, le donne sono convinte di svolgere un ruolo critico negli sforzi di costruzione dello Stato Islamico[68].
La rivista in lingua inglese Rumiyah, che è stata la principale rivista online per lettori non arabi rilasciata per la prima volta a settembre 2016[69], elogiava i terroristi di sesso femminile e le operazioni terroristiche attuate dalle donne[70]. Fama e notorietà sono potenti fattori di attrazione e tutto ciò è deliberatamente sfruttato dalle organizzazioni terroristiche che incoraggiano lo sviluppo di una “cultura del martirio” in quanto i caduti islamici passano dall’essere elementi di imbarazzo per la propria famiglia ad essere una fonte di grande orgoglio con un solo atto, non solo guadagnando un posto accanto ad Allah per sé stessi ma anche i loro parenti avranno diritto ad un posto in paradiso a causa del loro sacrificio[71].
Le donne nella fede islamica sono raramente istruite nella misura in cui lo sono gli uomini. Ciò significa che le donne sono più suscettibili al reclutamento da parte di leader religiosi carismatici che manipolano il testo ed il contenuto del messaggio. Poiché le donne non hanno gli strumenti per sfidare le loro argomentazioni, le figure religiose carismatiche possono convincerle che il Profeta abbia sostenuto la violenza e che il Corano condoni le operazioni di martirio contro civili o altri musulmani. In effetti, le persone che sono veramente religiose sanno che l’attentato suicida viola tre delle verità più fondamentali della fede islamica: il divieto al suicidio (che è proibito come lo è nell’ebraismo e nel cristianesimo), il divieto all’uccisione di civili e il divieto nell’uccidere altri musulmani. Se le donne non possiedono un’istruzione islamica approfondita, possono essere manipolate e venire convinte che una certa cosa sia giustificata e prevista dalla Sunna o dall’Hadith. In Paesi come il Pakistan, le scuole religiose della Madrasa prendono di mira deliberatamente le ragazze, supponendo che, attraverso queste donne radicalizzate, alla fine verrà controllata l’intera famiglia, in quanto queste educheranno la generazione futura e influenzeranno coloro che le circondano[72].
Le donne occidentali che sostengono e si uniscono all’ISIS costituiscono una potente risorsa di propaganda per il gruppo. La propaganda islamista sfrutta gli stereotipi di genere non solo per potenziare le donne ma il coinvolgimento delle donne negli attacchi violenti ha un ulteriore valore di propaganda quando le loro azioni vengono usate per suscitare vergogna negli uomini che si rifiutano di migrare e di partecipare alla jihad. Nel reclutamento e propaganda, in particolare vengono sfruttate anche le nozioni di mascolinità e femminilità e, in particolare, l’uso di nozioni peggiorative e sottomesse della femminilità per rafforzare le idee sulla giusta mascolinità[73]. Dabiq, ad esempio, scriveva che “poiché gli uomini non riescono ad assumersi le proprie responsabilità nella jihad, le donne eseguono attacchi al loro posto”[74] e affermava in un articolo, ad esempio, che “se ci fosse del bene in te, avresti indossato abiti da guerra e verrai a guardia della periferia di Mosul per proteggendo così le tue sorelle…possa Allah deturpare i turbanti delle donne del PKK, eppure hanno più virilità dei tuoi simili!”[75]. In sintesi, Dabiq usava e dava la priorità ai costrutti di genere per creare forti sentimenti di empowerment nei lettori di sesso femminile e per creare senso di inferiorità e dovere in quelli di sesso maschile per motivarli a passare da taciti sostenitori in Occidente a migrare e sostenere il Califfato[76].
I media e internet hanno potenziato le campagne di propaganda, rendendo più facile manipolare la percezione delle persone tramite contenuti audiovisivi che trascendono il livello istruzione. In molti casi anche questo ha a che fare con le norme di genere che regolano la vita pubblica e privata: la mancanza di accesso delle donne agli spazi pubblici, ad esempio, rende più difficile la radicalizzazione offline femminile[77]. Ciò è particolarmente importante poiché la ricerca suggerisce che, rispetto agli uomini, è più probabile che le donne vengano arruolate online che offline. Internet offre ai gruppi jihadisti diverse opportunità: in primo luogo, consente loro di diffondere materiale radicalizzante, manuali di istruzioni (ad esempio come costruire bombe), video e riviste online e offre inoltre la possibilità di condividere e discutere le proprie opinioni in contesti relativamente sicuri e anonimi. La ricerca suggerisce che questo anonimato può portare gli individui ad evitare la responsabilità delle loro dichiarazioni virtuali, il ché può avere la conseguenza che tali gruppi diventino più ostili e potenzialmente inclini alla violenza. L’emergere dei social media ha creato diverse opportunità per gruppi estremisti violenti in quanto, offre la possibilità di creare una micro-comunità in cui trovare un pool di followers e dove una potenziale recluta può essere isolata e allontanata da punti di vista opposti[78]. Solo lo Stato islamico è riuscito a sfruttare al meglio i social media (Facebook e Twitter in particolare), sia come strumenti specifici per il reclutamento che come strumenti coordinati con altri media per raggiungere obiettivi più ampi[79] riuscendo ad includerli nella sua strategia globale[80]. Nelle mani dell’IS, i social media sono diventati strumenti di “narrazione”, garantendo un’alta presenza in luoghi virtuali oltre all’attivismo nelle moschee, in cui i combattenti condividono le loro esperienze sul campo di battaglia. Le loro narrazioni personali avvincenti hanno ulteriormente promosso e reso virale l’emulazione che è alla base del processo di reclutamento[81].
- Le donne nelle organizzazioni terroristiche di matrice islamica
2.1 I ruoli svolte dalle donne
Le donne sono state attivamente coinvolte nel terrorismo nel corso della storia in molteplici contesti: dalla Narodnaja Volja e l’assassinio dello zar Alessandro II, alle vedove nere della Cecenia, al Fronte popolare per la liberazione della Palestina e le Tigri per la liberazione della Patria Tamil. Sin dai primi tempi degli anarchici, il terrorismo è stata un’occupazione prevalentemente maschile e di conseguenza spesso si ritiene che, mentre gli uomini in questi movimenti siano in prima linea, le donne svolgano ruoli ausiliari di scarsa importanza come quello di nutrice o di badante[82].
La letteratura pertinente non ha identificato le donne come attori chiave nelle organizzazioni terroristiche fino agli anni ’70 e ’80, quando le donne iniziarono a ricoprire ruoli da protagonista come, ad esempio, nella guerriglia dell’America Latina. Successivamente, iniziò una rapida espansione della ricerca in materia e nell’ultimo decennio lo studio dei ruoli femminili nel terrorismo è considerevolmente aumentato soprattutto a causa dell’incremento del numero di attentatori suicida di sesso femminile[83]. Tra il 1985 e il 2010, infatti, le donne kamikaze hanno commesso oltre 257 attacchi suicidi (che rappresentano circa un quarto del totale) per conto di diverse organizzazioni terroristiche. Dal 2002 in poi, in alcuni Paesi la percentuale di attentatori di sesso femminile supera il cinquanta percento[84] e dal ritiro degli Stati Uniti dall’Iraq nel 2006, fino al 2008, gli attacchi suicidi femminili sono aumentati fino ad arrivare ad un numero di 27 suicidi femminili in soli due anni[85]. Inoltre, decine di donne kamikaze hanno tentato di commettere un attentato fallendo mentre presumibilmente centinaia vengono addestrate per commetterne altri in futuro[86].
Questa ricerca sui ruoli femminili e i compiti che vengono loro assegnati all’interno delle organizzazioni terroristiche risulta preziosa perché analizzando il modo in cui tali gruppi scelgono di utilizzare le donne, siamo in grado di comprendere meglio i processi decisionali dei terroristi e il funzionamento interno dell’organizzazione stessa[87].
I gruppi estremisti violenti di tutto lo spettro politico e ideologico hanno utilizzato le forze femminili per una serie di attività talvolta simili alle loro controparti maschili e, a seconda dell’organizzazione stessa, è probabile che le donne svolgano o abbiano svolto ruoli diversi volontariamente e involontariamente. Questi compiti vanno dal supporto morale e logistico, al reclutamento, alla raccolta fondi, allo scambio di informazioni, allo spionaggio, ad essere vere e proprie combattenti e occasionalmente a ricoprire una posizione di leadership. Ogni gruppo terroristico ha ideologie e pratiche uniche e, pertanto, è probabile che la partecipazione delle donne in ciascuna organizzazione vari. Le Vedove nere e le Tigri Tamil hanno un gran numero di attentatrici suicida mentre le donne di Al-Qaeda sono coinvolte esclusivamente in ruoli logistici e di reclutamento. Ciò non significa che non ci siano eccezioni alla norma: sebbene la stragrande maggioranza delle donne sia coinvolta negli elementi di sostegno, ci sono alcune donne operanti in Hamas e negli ultimi anni anche in altre organizzazioni.
Alcuni studi hanno identificato tendenze e temi comuni in base alle variante e al tipo ideologico del gruppo terroristico. Ad esempio, nelle organizzazioni terroristiche di sinistra che lottano per l’indipendenza dello Stato o per liberare le nazioni da dittatori e oppressori, le donne sono più inclini a ricoprire ruoli operativi. Al contrario, nelle organizzazioni terroristiche di destra, più conservatrici, i ruoli operativi per le donne sono limitati. La natura rivoluzionaria del terrorismo di sinistra e la sua visione progressista è attraente per le donne che cercano una maggiore qualità della vita attraverso la partecipazione attiva. In gruppi come il Provisional Irish Republish Army (PIRA) e la Red Army Faction (RAF) tedesca molte donne hanno operato come terroristi convenzionali e, dopo essersi distinte, sono riuscite a raggiungere posizioni di comando. Le donne del PIRA, ad esempio, sono diventate famose per aver condotto operazioni di bombardamento su obiettivi britannici mentre nella RAF, le donne hanno bombardato grandi obiettivi tattici in tutta la Germania e condotto attacchi ad alto rischio contro installazioni statunitensi. Nelle organizzazioni tendenzialmente di destra, i ruoli terroristici per le donne di solito imitano le posizioni che ricoprono tradizionalmente in quella particolare comunità. Ad esempio, nel Partito Democratico Nazionale tedesco di destra (NDP) le donne svolgevano esclusivamente ruoli di supporto e di basso livello come nutrici, educatrici, attiviste, combattenti di strada o occupate in operazioni di portata marginale. Tuttavia, è degno di menzione che il ruolo delle donne nel NDP si è ampliato in modo significativo fino ad includere alcuni impieghi nel coordinamento delle dimostrazioni e persino nella politica locale, posizioni rilevanti per la creazione di una rete di contatti utili a fornire informazioni critiche per le attività terroristiche[88]. Il ruolo delle donne nelle organizzazioni terroristiche, infatti, appare cambiato nell’ultimo decennio e, anche in organizzazioni come Boko Haram, seppur in casi estremi, si intravede una variazione tattica volta all’inclusione, spesso forzata, delle donne in alcune operazioni come sorta di misura di adattamento alle sempre maggiori pressioni e tensioni imposte ai combattenti di sesso maschile[89].
Nelle organizzazioni estremiste islamiche come Al-Qaeda e Hamas, le responsabilità delle donne tradizionalmente consistevano semplicemente nel fornire supporto morale e logistico. Le donne di questi gruppi sono le principali garanti della “trasmissione verticale” delle tradizioni e, in quanto custodi della morale e dei valori della famiglia, hanno il principale compito di tramandare questa conoscenza alle generazioni successive. Le donne devono rimanere nascoste, velate e ricoprire posizioni secondarie e la partecipazione femminile consiste prevalentemente nell’essere moglie, madre, reclutatrice, insegnante, traduttrice, impiegate nella raccolta fondi e nel fornire assistenza sanitaria.
Tuttavia, contrariamente ai principi islamici storicamente fondamentalisti, in alcune organizzazioni terroristiche l’occupazione delle donne in posizioni di primo piano è notevolmente aumentata negli ultimi decenni[90].
In particolare, l’Islamic State, seppur concepisca il ruolo principale delle donne come quello di “servire lo Stato attraverso la procreazione” e di educare i bambini, ha trasformato l’idea del terrorismo in un “affare di famiglia” con uno scopo per ogni componente del nucleo familiare. In questa luce e a causa delle perdite in campo subite dall’organizzazione sia in termini di uomini che in termini di controllo di territorio, l’ISIS ha valutato che le donne possono incrementare il numero di combattenti non solo dando alla luce dei “leoncini” – una nuova generazione di combattenti – ma anche unendosi ai ranghi stessi e, dunque, ha iniziato ad aumentare la sua dipendenza da reclutatori e combattenti di sesso femminile[91].
Ciò che è più interessante nella revisione della letteratura sul ruolo delle donne nel terrorismo, allora, è forse l’evoluzione delle loro posizioni. Nello spettro di questi gruppi le responsabilità sono diventate diverse, dando maggior potere alle donne e rendendole protagoniste nelle operazioni di attacco[92], dove “l’utero che esplode” – la donna che si trasforma in attentatrice suicida – ha preso, talvolta, il posto del “grembo rivoluzionario” che dà la vita e nutre i giovani estremisti[93].
Secondo alcuni studiosi, la partecipazione delle donne al terrorismo può essere considerata una naturale progressione dal loro coinvolgimento nelle lotte radicali e rivoluzionarie del passato[94] ma numerosi studi sottolineano soprattutto i vantaggi strategici che le organizzazioni terroristiche si aspettano dall’uso delle donne nelle loro operazioni[95]. I leader dei movimenti terroristici, infatti, effettuano calcoli costi-benefici per selezionare le tattiche, gli scopi e gli attori più efficienti e, nel raggiungere alcuni determinati obiettivi, le donne sono risultate sempre più efficaci[96].
Le organizzazioni hanno, invero, diverse ragioni tattiche per usare le donne. Innanzitutto, poiché le donne sono stereotipate come non violente, mentre gli uomini invece possono essere visti con sospetto, possono più facilmente evitare di essere scoperte e quindi portare a termine un attacco più furtivo attirando meno attenzione. Alcuni gruppi hanno iniziato a reclutare donne proprio perché possono penetrare più facilmente nelle difese delle forze di sicurezza avversarie aggirando i checkpoint e passando attraverso screening meno rigorosi rispetto agli uomini. Per il gruppo terroristico la presenza delle donne offre infatti un’eccellente copertura. Usando agenti femminili, i gruppi adottano una strategia vincente a causa delle norme culturali contro la ricerca invasiva o il contatto delle donne nelle società conservatrici perché chiaramente vi sono sensibilità intrinseche nel perquisire o interrogare una donna, specialmente nelle società musulmane. Le donne hanno dunque meno probabilità di essere arrestate o fermate ai posti di blocco – spesso presidiati da militari o da membri maschi dell’apparato di sicurezza – e possono nascondere bombe o altri tipi di armi sotto i loro vestiti. Le tradizionali e modeste vesti islamiche nascondono infatti facilmente esplosivi che talvolta vengono posti sotto abiti larghi e allacciati attorno alla parte centrale del corpo per dare l’impressione di una gravidanza[97]. Inoltre, una coppia con un bambino, ovvero una famiglia, è ancora più efficace per aggirare i servizi di sicurezza. Per diversi anni, i militari statunitensi avevano assunto come criterio di controllo che, in caso di autobombe, se c’era un bambino in macchina o in un camion, non c’era motivo di preoccuparsi, pregiudizio utilizzato ad esempio da Al-Qaeda in Iraq a proprio vantaggio quando si è iniziati a legare i bambini nelle auto per eludere i controlli[98].
Le donne vengono selezionate dai gruppi terroristici per commettere attentati perché la società le associa alla debolezza e alla non violenza offrendo un vantaggio in particolare, l’elemento sorpresa. Oltre ad essere inattesi, gli attacchi eseguiti da donne, inoltre, confondono i profiler e aumentano il fattore paura all’interno del gruppo target. Destando stupore, questi stereotipi conferiscono un maggiore valore di shock agli attacchi, elemento che i gruppi terroristici si sforzano di amplificare per terrorizzare e infondere paura nell’avversario e, in altre parole, questa strategia danneggia, allo stesso tempo, il benessere psicologico e il morale dei soldati addestrati invero a proteggere la popolazione civile[99].
Inoltre, anche quando i terroristi ritengono che un determinato attacco non abbia avuto successo nel raggiungimento dei loro obiettivi politici o di altro tipo, un’ampia copertura da parte dei media può costituire un successo clamoroso in termini di pubblicità dell’attività e degli scopi di un gruppo[100]. Nel caso specifico degli attentatori suicidi di sesso femminile, queste tendono spesso a ricevere una copertura mediatica significativamente maggiore rispetto alle loro controparti maschili e la violenza associata al corpo femminile è servita a promuovere obiettivi terroristici strategici di costante attenzione da parte dei media, maggiore simpatia per la causa terroristica nonché costituire un importante valore di propaganda nell’espansione del numero di potenziali reclute[101].
Anche se spesso si presume che siano agenti passivi, le donne hanno avuto e continuano sempre più ad avere ruoli significativi in numerose organizzazioni terroristiche contemporanee e la loro presenza tra le schiere è andata crescendo così come la loro importanza, divenendo componenti attivi sempre più rilevanti di tali organizzazioni. Viene largamente sostenuto che le insurrezioni armate favorite e sostenute dalle donne controllano più territorio e hanno maggiori probabilità di ottenere la vittoria sulle forze governative, in parte perché la partecipazione delle donne segnala un maggiore sostegno della comunità, aumenta la legittimità percepita. Alcuni studi hanno illustrato che la partecipazione della donna stabilizza l’adesione e l’identità di gruppo e che le donne hanno maggiori probabilità di rimanere come membri stabili all’intero di una organizzazione rispetto agli uomini[102].
Il ruolo delle donne nel terrorismo potrebbe essere esplorato attraverso due distinte macro-aeree riconducibili a due tipi di coinvolgimento attivo: il ruolo di enabler, abilitanti e sostenitrici, ovvero tutti quei ruoli logistici e di supporto che consentono ad altri di commettere atti terroristici, facilitandone l’azione e il ruolo di partecipazione diretta in tali atti di violenza.
Per quanto riguarda la prima categoria, le donne svolgono un’ampia varietà di ruoli ausiliari che possono essere integrali al successo operativo dei gruppi estremisti. All’interno dell’ampio spettro di ruoli che le donne svolgono nel terrorismo come abilitanti -che rappresenta la maggior parte del loro coinvolgimento- oltre a quelli già citati di supporto sanitario, raccolta di informazioni, traffico di armi ed esplosivi, traduttrici, raccolta di fondi – contribuiscono anche usando i loro nomi da nubile per aprire conti bancari per evitare di attirare l’attenzione delle agenzie che si occupano di antiterrorismo, suscitando meno sospetti[103] – va citato il ruolo delle donne come reclutatrici.
Per i gruppi terroristici incentrati sulla costruzione dello Stato e dell’identità, come l’Islamic State, le donne svolgono infatti il compito essenziale di “attivatrici” e cioè coloro che rafforzano la capacità, che nutrono, vestono i combattenti ed educano nuove reclute. I ruoli di madre, sorella e moglie, che sono le basi di sostegno e sicurezza dei valori morali, legali e religiosi che costituiscono il gruppo, in quanto “insegnanti di generazioni e produttrici di uomini” sono fondamentali nell’incoraggiare gli uomini ad impegnarsi nella Jihad e nel motivare ed ispirare nuovi potenziali terroristi[104]. Le donne dunque svolgono un ruolo cruciale nella divulgazione della propaganda, nell’arruolamento e nell’indottrinamento durante il percorso verso la radicalizzazione. Le donne sono difatti particolarmente efficaci come influencer: uno studio condotto su gruppi online simpatizzanti per l’Islamic State ha scoperto che le reclutatrici avevano una connettività di rete più elevata rispetto agli uomini e che, essendo più abili nel diffondere il messaggio dello Stato Islamico rispetto alle loro controparti maschili, hanno anche innalzato il tasso di sopravvivenza dei forum islamisti online, prolungando il tempo di esistenza di tali pagine web prima che le varie società informatiche le oscurassero[105].
La nuova tecnologia, infatti, fornisce un raggio d’azione più sofisticato e, nella sfera virtuale, le estremiste prosperano ampliando la loro portata di arruolamento, assumendo ruoli operativi più ampi indirizzando messaggi per radicalizzare ragazze che potrebbero sentirsi più sicure ad avere un’altra donna come contatto iniziale per il reclutamento. Ciò risulta particolarmente vincente con il pubblico occidentale, lontano dai territori di conflitto e dalla società islamica, dove la rappresentazione più significativa e più attraente delle donne è appunto l’archetipo della “sostenitrice”[106].
Oltre a forme di sostegno materiale all’estremismo violento, le donne sono anche direttamente impegnate nelle operazioni e negli ultimi decenni hanno partecipato attivamente al 60% dei gruppi ribelli armati. In Algeria, ad esempio, negli anni ’50 le combattenti del Fronte di Liberazione Nazionale sono risultate fondamentali per evitare i controlli ai checkpoint al fine di dispiegare bombe in obiettivi urbani strategici; nello Sri Lanka negli anni ’90, i battaglioni di sole donne si sono guadagnati una reputazione per la loro feroce disciplina e il loro spietato combattimento; le donne rappresentavano quasi il 40% delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia (FARC), svolgendo tutti i ruoli operativi, incluso quello di capi di unità combattenti, consentendo al gruppo di espandere notevolmente la propria capacità militare; le donne hanno anche contribuito a fondare dei gruppi militanti come la Banda tedesca Baader-Meinhof e l’Armata Rossa giapponese[107].
Le donne concorrono a reintegrare la manodopera in diminuzione e, inoltre, sono servite da potenti esempi motivanti per gli uomini. La partecipazione femminile al combattimento ha proiettato un messaggio simbolico secondo cui anche le donne sono pronte a sacrificarsi in nome della Jihad e, come già detto, sfruttata dalle organizzazioni terroristiche che sono consapevoli di questa leva, nel vedere le donne diventare kamikaze o combattenti di prima linea, si presume che gli uomini si sentato sfidati ad adempiere al loro obbligo di combattere e a diventare più proattivi[108].
Nel terrorismo di matrice islamica, la deviazione dai ruoli domestici è consentita solo in casi estremi, come in caso di attacco, quando un imam emette una fatwa o dove c’è una carenza di uomini che svolgono funzioni di combattimento. Sono state però segnalate donne che ricevono addestramento al combattimento, sia alle donne non sposate o alle vedove sono state assegnate funzioni professionali di basso livello sempre più attive, progettate per supportare il Califfato, come ad esempio diventare un membro della brigata di sicurezza Al-Khansaa, tutta al femminile[109].
Boko Haram dal 2011 ha utilizzato sempre più donne attentatrici suicida: dei 434 attentatori suicidi schierati dal gruppo tra aprile 2011 e giugno 2017, 244 sono stati identificati come donne. Le ragazze hanno rappresentato il 75% di tutti gli attentatori suicidi minorenni tra gennaio 2014 e febbraio 2016 e solamente tra gennaio e agosto 2017 ben 55 ragazze sono state utilizzate negli attacchi suicidi[110].
Secondo un rapporto dell’International Crisis Group, le più giovani donne kamikaze sono spesso esse stesse delle vittime, con scarsa consapevolezza, ingannate da parenti e forse drogate. Tuttavia, le attentatrici più anziane sembrano essere state volontarie “promosse sul campo” e spinte in avanti nel loro impegno nella Jihad, indottrinate per un lungo periodo, anche con la promessa dell’ammissione diretta ad al-jinnah (paradiso)[111]. Analogamente a questi gruppi, anche le donne del PKK hanno svolto missioni suicide per motivi di disperazione, vendetta e vantaggi tattici ma secondo alcuni studiosi, le donne del PKK sono state disposte a morire come kamikaze, principalmente per il loro impegno per una causa ideologica – per la libertà del popolo curdo e per l’uguaglianza di genere che hanno giurato di proteggere e difendere[112].
E’ però importante evidenziare che seppur come il risultato di convinzioni ideologiche e dunque di una scelta in libero arbitrio, l’archetipo di “combattente” o il ruolo di attivista violento rappresenta il profilo femminile meno frequente. Nonostante i vantaggi offerti dalle donne ai gruppi terroristici, i jihadisti hanno tradizionalmente evitato di collocare le donne in prima linea[113]. Secondo la classica dottrina islamica militare, la jihad offensiva è la sfera degli uomini, non delle donne. I testi islamici includono esempi di donne che combattono nelle battaglie, tuttavia, mentre il profeta Maometto ha elogiato le donne guerriere per il loro coraggio, non ha ordinato alle donne di combattere[114] e anche nella rivista Dabiq, nonostante venissero lodate le donne “combattenti” come Tashfeen Malik o l’attentatrice di San Bernardino del 2015, le sostenitrici venivano scoraggiate frequentemente dall’impegnarsi in combattimenti poiché la jihad è un obbligo degli uomini[115] e le donne coinvolte attivamente in attentati terroristici talvolta vengono mal tollerate e umiliate perché infrangono e sfidano l’autorità maschile.
A parte l’ISIS che ha aperto nuove strade nelle interpretazioni jihadiste del ruolo delle donne, i jihadisti contemporanei hanno aderito alle interpretazioni conservatrici delle dottrine islamiche[116] e le combattenti o le kamikaze sono rare e le donne occupano raramente posizioni di comando. I gruppi terroristici usano le donne quando non sono disponibili operanti maschili, quando un bersaglio è particolarmente difficile da penetrare o quando sperano di sfuggire alla cattura. La repressione dei diritti delle donne consente inoltre agli estremisti di controllare la riproduzione e sfruttare il lavoro femminile[117]. Le rigorose norme di genere di Boko Haram, ad esempio, suggeriscono che se le donne eseguono operazioni tattiche per il gruppo, questo è improbabile che costituisca molto di più di una misura di vera emergenza e ciò non influenzerà in alcun modo lo status delle donne a livello organizzativo[118].
Parlando di numeri, infatti le donne coinvolte nelle organizzazioni restano comunque in prevalenza vittime di violenza piuttosto che agenti di terrore[119]. Rimangono più sacrificabili rispetto ai membri maschi e molti gruppi estremisti promuovono un’ideologia che classifica le donne come cittadini di seconda classe ricavandone, attraverso la loro sottomissione, vantaggi strategici e finanziari[120].
Numerosi gruppi terroristici utilizzano la tratta di esseri umani come mezzo per reclutare nuovi membri e finanziare le loro operazioni. Lo Stato Islamico ha sistematicamente acquistato e venduto donne e ragazze attraverso contratti di vendita notarili da tribunali gestiti dallo Stato Islamico. Il gruppo ha attratto migliaia di uomini offrendo donne e ragazze rapite come “mogli”, generando entrate significative attraverso il traffico di sesso, schiavitù sessuale ed estorsione attraverso il riscatto. Le Nazioni Unite hanno stimato che i pagamenti di riscatto incassati dallo Stato Islamico ammontano a un valore compreso tra 35 milioni e 45 milioni di dollari solo nel 2013. Questa pratica è diffusa anche da altri gruppi terroristici: nella Nigeria settentrionale e nella regione del Lago Ciad, Boko Haram rapisce donne e ragazze come tattica deliberata per ottenere pagamenti tramite riscatto, scambiare prigionieri o attirare forze di sicurezza avversarie in imboscata. Alcune di queste ragazze rapite sono quindi costrette a commettere azioni di terrorismo e, significativamente, una su tre delle donne kamikaze di Boko Haram è una minorenne[121].
Un’importante considerazione dunque riguarda l’associazione volontaria o forzata delle donne ai gruppi terroristici. Alcuni individui sì – inclusi uomini e donne – si associano a gruppi terroristici di loro spontanea volontà e contribuiscono alle attività di tali gruppi di propria iniziativa ma molti altri vengono associati con la coercizione e contro la loro volontà in vari modi, rapendoli, minacciando loro, o le loro famiglie o comunità e facendo affidamento su coniugi o altri membri della famiglia per costringerli. Nel contesto della partecipazione delle donne alle attività terroristiche, il Center on Global Counterterrorism Cooperation osserva che in molti casi le donne possono essere più vulnerabili degli uomini ad essere drogate, violentate, costrette fisicamente e ricattate emotivamente e socialmente, specialmente nelle società tradizionalmente patriarcali in cui hanno scarso ricorso a meccanismi alternativi di empowerment o indipendenza e la distinzione tra reclutamento volontario e forzato per il coinvolgimento in un gruppo terroristico non è sempre chiara[122].
La dipendenza economica, i ruoli di genere tradizionali e la pressione delle aspettative della comunità in molti casi creano una situazione in cui l’associazione di una donna con un gruppo terroristico non può essere definita totalmente contraria alla sua volontà, né completamente volontaria. Molte donne appartenenti allo Stato Islamico si sono unite volontariamente e hanno svolto ruoli attivi nel reclutare decine di migliaia di combattenti stranieri per la causa ma in un secondo momento alcune sono state trattenute contro la loro volontà e costrette a continuare il servizio. Al contrario, altre donne vengono prese di mira e rese oggetto di traffico umano in gruppi estremisti e costrette a perpetrare crimini e poi diventano solidali con il gruppo dopo l’esposizione alla sua ideologia. Alcune donne di Boko Haram che inizialmente erano state rapite strategicamente e costrette al servizio decisero di rimanere volontariamente nel gruppo dopo aver scoperto di avere accesso a risorse e potere a loro non disponibili nelle loro comunità di origine.
Tutto ciò solleva molte domande sulla volontà di azione delle donne e soprattutto sulla loro responsabilità e le risposte della giustizia penale spesso non riescono ad affrontare i diversi ruoli che ricoprono le donne appartenenti ai gruppi estremisti. Nonostante la complessità delle posizioni delle terroriste, i funzionari dei sistemi di giustizia penale in tutto il mondo spesso assumono che le donne che commettono violenza siano vittime ingenue delle circostanze. A volte le donne vengono viste come vittime del terrorismo indipendentemente dalla loro motivazione, con conseguenti e meno condanne o condanne più brevi della media per reati connessi al terrorismo. Di conseguenza, gli approcci al rimpatrio e al reinserimento delle donne variano in modo significativo rispetto alla loro responsabilità civile e penale. Questo fenomeno si è verificato negli Stati Uniti, in Europa e nei Balcani, dove i governi in alcuni casi non hanno tenuto conto del sostegno fornito dalle consociate dell’ISIS e la maggior parte delle donne evita del tutto l’accusa. In altri casi, i funzionari dei sistemi di giustizia penale, al contrario, hanno imposto pene troppo dure alle donne rimpatriate rispetto alle loro controparti maschili[123]. Le donne coinvolte nella violenza terroristica sono infatti spesso demonizzate più dei terroristi di sesso maschile. L’ipotesi comune è che le donne terroriste debbano essere ancora più depresse o più psicopatiche delle loro controparti maschili.
Per quanto riguarda i foreign fighters, tra i quali è emersa la figura del foreign terrorist fighters, che comprende la maggior parte dei ruoli relegati alle donne, il grande problema rimane quello del reinserimento, una volta ritornati nei Paesi d’origine, il quale per i terroristi di sesso femminile si configura molto difficile e complesso[124]. Sebbene gli Stati Uniti e il Regno Unito abbiano permesso a molti combattenti stranieri uomini di tornare e affrontare un processo, entrambi i governi hanno rifiutato il rientro delle affiliate donne all’Islamic State – tra cui Shamima Begum e Hoda Muthana – e ne hanno revocato la cittadinanza. In Iraq, alle donne affiliate allo Stato Islamico vengono inflitte le più dure pene possibili – morte o prigione a vita – anche quando non sono state coinvolte in atti violenti e sono state costrette a recarsi nel territorio dello Stato Islamico.
Una volta identificate le donne estremiste, i programmi di rieducazione e riabilitazione in prigione progettati per gli uomini non riescono ad affrontare le cause alla base della radicalizzazione femminile e pochi programmi forniscono servizi adeguati per le loro esigenze specifiche. Le donne che si sono unite a gruppi politici violenti, come le FARC in Colombia e le Tigri del Tamil, hanno riferito che l’adesione a tali gruppi ha fornito loro maggiore libertà di quella che si potrebbe trovare nella società tradizionale. Una tendenza osservata con le donne membri di Boko Haram in Nigeria e le donne delle FARC in Colombia, infatti, è quella che una volta scontata la loro pena, tornando in comunità dove le norme sociali sono rimaste invariate, le donne spesso tendono a ricongiungersi ai gruppi estremisti. I programmi di riabilitazione infatti spesso non riescono a fornire una formazione adeguata in merito alle capacità di sostentamento che potrebbero aiutare le donne a sostenere sé stesse e i loro figli, offrendo invece formazione in attività stereotipate come tipicamente femminili, a basso salario (come, ad esempio, il cucito). I bambini complicano notevolmente il reinserimento delle rimpatriate in società: per i bambini nati in zone di guerra, i problemi di cittadinanza rappresentano una seria sfida e in alcuni casi, le comunità che sono disposte ad abbracciare i rimpatriati si rifiutano di accettare i figli discendenti di terroristi. Senza una risposta completa da parte della giustizia penale o risorse sufficienti per la riabilitazione, è probabile che le donne ritornino tra le schiere dei combattenti e ricadano nelle mani dell’estremismo violento[125].
2.2 Le donne di Al-Qaeda e dell’Islamic State
Il valore sociale che Al-Qaeda assegna alle donne è generalmente di natura conservatrice, ritenendo che le donne debbano operare nella sfera privata, non pubblica. Osama bin Laden, leader di Al-Qaeda fino alla sua morte nel 2011, considerava responsabilità delle donne incoraggiare gli uomini a combattere, in qualità di promotrici della Jihad, e sostenere l’organizzazione in termini di responsabilità domestiche, gestione finanziaria e supporto materiale. Pertanto le donne risultano essere parte attiva nella “diffusione dell’ideologia estremista” e sono incaricate di accrescere e radicare le credenze ideologiche di Al-Qaeda nelle generazioni future, sensibilizzando la causa jihadista[126]. La leadership di Al-Qaeda, al di là di sporadiche eccezioni, è stata coerente nel promuovere per le donne esclusivamente ruoli logistici e, seppur riconoscendo la valenza e l’importanza del loro contributo e il coinvolgimento delle donne sia incoraggiato e talvolta previsto, ritiene che quest’ultime debbano occuparsi principalmente di sostenere l’attuale e la prossima generazione di combattenti e che non debbano essere coinvolte in operazioni violente. Nel 2004, il gruppo ha lanciato una rivista online per donne intitolata al-Khansaa, periodico che aveva lo scopo di trasmettere la necessità e l’importanza dell’apporto femminile nell’organizzazione. La rivista che pubblicava articoli su come supportare i combattenti maschi, includeva consigli su comportamenti femminili appropriati, mirando ad educare le donne sui loro ruoli nella Jihad e spiegando che la missione principale delle donne è quella di “spingere i bambini sul campo di battaglia”[127].
Ayman al-Zawahiri, il leader numero uno di Al-Qaeda dopo la morte di Bin Laden, è stato uno degli oppositori più vocali dell’impiego delle donne in ruoli attivi nella lotta islamica. Nell’aprile 2008, al-Zawahiri dichiarò esplicitamente che Al-Qaeda non aveva donne tra i suoi ranghi e che il ruolo di una donna deve essere limitato alla cura della casa, degli uomini e dei figli dei combattenti[128].
Sebbene la guida dell’organizzazione sia stata riluttante a sanzionare la partecipazione delle donne alla violenza terroristica, Abdullah al-Azzam, il principale ideologo di Al-Qaeda, nel 1984, emise una fatwa intitolata “Difesa delle terre musulmane”, il primo obbligo dopo la fede, in cui spiegava, come già accennato in precedenza, che è un obbligo personale di tutti, sia uomini che donne, partecipare alla Jihad[129] e mentre i leader di Al Qaeda non condividevano le opinioni di Azzam, altri gruppi estremisti islamici hanno usato i suoi insegnamenti per giustificare il coinvolgimento femminile in attività di combattimento.
La questione dell’utilizzo delle donne rimane infatti controversa nel mondo del terrorismo islamico. In un numero speciale di Inspire Guide, rivista di Al-Qaeda nella Penisola Arabica, del settembre 2016, ad esempio, alcuni portavoce di Al-Qaeda commentano l’arresto da parte delle autorità francesi di tre donne musulmane sospettate di essere coinvolte in operazioni terroristiche, nel quale viene incisivamente scoraggiato l’utilizzo delle donne nella Jihad in attività da “lupo solitario”, allo scopo di preservare l’onore delle virtuose sorelle musulmane[130].
In alcuni gruppi affiliati ad Al-Qaeda, a seconda della sede geografica e della propria cultura, si preferisce una rigorosa separazione fisica delle donne rispetto agli uomini (ad esempio, in Afghanistan sotto l’influenza dei talebani) e dunque una commistione di incarichi tra uomini e donne rimane impensabile ma i valori di genere variano in base al gruppo affiliato e anche la stessa moglie di al-Zawahiri, l’egiziana Umayma Hassan, seppur sottolinenando la difficoltà logistica per una donna di agire senza essere accompagnata da un Mahram (familiare musulmano di sesso maschile), non scoraggiava le donne da un coinvolgimento attivo[131], congratulandosi con le donne egiziane che avevano contribuito alla Primavera araba e affermando che le donne possono contribuire finanziariamente e moralmente, divulgando informazioni ai mujahedeen e persino diventando martiri[132].
Mentre diversi filoni di Al-Qaeda rimangono dunque incerti sul ruolo e sull’obbligo delle donne nei confronti della Jihad, i leader più giovani di Al-Qaeda e di alcune organizzazioni affiliate hanno meno scrupoli nell’utilizzare le donne per condurre qualsiasi tipo di operazione. Le nuove generazioni, come fatto in precedenza da Abu Musab al Zarqawi, Anwar al Awlaki e persino Fazul Abdullah Mohammed (noto come Fadil Harun), riconoscono che le donne possono dare un contributo significativo alla Jihad[133] e Al-Qaeda stessa come organizzazione sta diventando sempre più consapevole del vantaggio di avere donne coinvolte per sostenere e aumentare l’efficacia del gruppo terroristico.
Le pratiche di Al-Qaeda sembrano infatti allontanarsi dalla prospettiva di Al Zawahiri e, adattandosi alle esigenze strategiche di determinate condizioni, alcuni gruppi si sono spinti fino ad usare le donne come attentatori suicida[134]. In Iraq e nel Maghreb, ad esempio, le donne hanno meno restrizioni nelle operazioni di Al-Qaeda. I gruppi ceceni furono i primi estremisti islamici a schierare donne, seguiti da Hamas nel 2004 ma il gruppo che ha portato l’uso delle donne come attentatori suicidi al livello successivo è stato Al-Qaeda in Iraq (AQI). Quest’ultima riconosce apertamente il suo uso delle donne nelle operazioni violente e mentre il comando centrale di Al-Qaeda preferiva che le donne restassero dietro le schiere di combattimento, Abu Musab al-Zarqawi aveva pochi scrupoli a proposito del dispiegamento di kamikaze donne. Tra il 2003 e il 2010, in Iraq hanno avuto luogo centinaia di attacchi suicida portati avanti da donne e a partire da questi pionieristici esperimenti, altri gruppi islamici in tutto il mondo hanno dispiegato donne come attentatrici. In particolare, Boko Haram e al-Shabaab hanno ampiamente adottato la pratica e, dunque, oggi le donne di Al-Qaeda si impegnano in una varietà di azioni legate al terrorismo anche se il comando centrale di Al-Qaeda ne nega o ne minimizza il contributo[135].
E’ da notare che tali gruppi rimangono comunque in minoranza e che spesso, i jihadisti usano le donne per soddisfare dei bisogni strategici ma, una volta superata una crisi specifica, tornano a promuovere ruoli femminili più tradizionali[136].
Mentre le donne responsabili di attacchi terroristici rimangono un’anomalia per la maggior parte dei gruppi terroristici islamici, le donne sono invece sempre più coinvolte nel terrorismo ispirato all’Islamic State, strategia ancora oggi molto controversa.
L’autoproclamato Califfato rappresenta oggi la più grande minaccia terroristica per la comunità globale e il trattamento delle donne da parte di questa organizzazione la colloca tra i peggiori autori di violenza di genere al mondo. Le sue tattiche crudeli includono prigionia, tortura, abusi sessuali e l’esecuzione di migliaia di donne (sia musulmane che non), ma nonostante il trattamento spietato delle donne in tutto il territorio che il gruppo controlla, molte si affollano anche all’interno dei suoi ranghi. L’ISIS recluta con successo una notevole quantità di donne ed ha più reclute di qualsiasi altra organizzazione terroristica mai esistita[137]: alcune stime parlano di numeri tra i 20.000 e 32.000 donne che si sono unite al gruppo, delle quali circa il 10% proveniente dall’Occidente[138].
Inizialmente l’IS non permetteva al personale femminile di combattere ma promuoveva ruoli di supporto, incoraggiando le donne ad impegnarsi in occupazioni domestiche ma un recente studio ha rilevato che lo Stato islamico ha cambiato la propria posizione sullo status delle donne in attività di combattimento tra il 2014 e il 2018 e le donne, nel Califfato, hanno raggiunto in maniera incrementale posizioni influenti[139]. Esse svolgono una miriade di attività di supporto morale e logistico, tutte cruciali nell’avanzamento della causa e il loro impiego all’interno del Califfato sembra più variegato di quanto si possa pensare in quanto la partecipazione delle donne alla Jihad difensiva è consentita in circostanze limitate e se sanzionata dagli imam[140].
Le responsabilità delle donne includono ruoli centrali di mogli e madri ma anche medici e insegnanti, attività per far avanzare la portata globale dell’ISIS attraverso il reclutamento online e sono state segnalate donne che ricevono addestramento al combattimento. Alle donne non sposate o alle vedove infatti sono state assegnate funzioni professionali più attive seppur di basso livello progettate strategicamente per sostenere il Califfato[141]. Tale scelta ha permesso di attirare l’attenzione di numerose donne, che vedevano nell’IS l’occasione di assumere una posizione sociale di maggior rilievo e di vivere “da vera musulmana”. Le donne straniere e poliglotte che si occupano di tradurre i materiali propagandistici per poi diffonderli, hanno rappresentato fin da subito un’importante risorsa per l’organizzazione, specialmente per quanto riguarda la propaganda online e centinaia di donne di diversi paesi sono immigrate in Siria e Iraq per unirsi all’ISIS rendendo il gruppo leader nel reclutamento internazionale di donne. La stragrande maggioranza delle donne straniere ha servito l’ISIS come casalinghe e oltre alle donne costrette a seguire i loro mariti, le altre dopo aver raggiunto i territori controllati del gruppo sono state collocate in case sicure, chiamate makkar, ricevendo formazione per prepararsi alle funzioni domestiche o ad una serie di professioni adatte alle donne, per diventare “spose jihadiste” ed essere accoppiate con un combattente[142].
Una volta che l’ISIS ha stabilito il suo quartier generale nella città siriana di Raqqa, ha iniziato a sviluppare istituzioni simili a quelle di uno Stato e una di queste istituzioni è un’unità di controllo per sole donne, composta da due battaglioni, chiamata Brigata al-Khansaa, nata il 2 febbraio 2014. L’unità tutta al femminile, il cui compito è garantire che le donne rispettino le interpretazioni dell’Islamic State della legge islamica, è stata creata per mantenere l’ordine all’interno della rete di donne[143]. Sasha Havlicek dell’Institute of Strategic Dialogue afferma che l’esistenza di questa brigata consente all’ISIS di attirare le giovani donne definendo le reclute forti e indipendenti in opposizione allo stereotipo delle donne musulmane oppresse[144]. Diventare parte di quella che viene definita “polizia della moralità” permette infatti di portare delle armi e pattugliare in autonomia le strade cittadine, controllando che le donne rispettino le regole di condotta imposte dall’IS e monitorarne l’adesione, raccogliere informazioni, applicare codici di abbigliamento, condurre interrogatori, attività di ricerca e arresto delle donne. La brigata ha instillato il terrore nelle donne punendo pubblicamente i trasgressori e anche commettendo atti di grave violenza contro altre donne[145]. I rapporti indicano che questa brigata è composta da donne single di età compresa tra 18 e 25 anni, che ricevono l’addestramento alle armi prestando servizio volontariamente e ricevendo uno stipendio mensile.
La brigata è stato solo il primo tassello verso la militanza femminile dell’ISIS. Quando è diventata incerta la sopravvivenza del Califfato e il gruppo ha perso il controllo su alcuni suoi territori, ha iniziato a concentrarsi maggiormente sulla Jihad difensiva e ad offrire nuove interpretazioni sul ruolo delle donne. Per adattarsi alle mutevoli circostanze, dunque l’ISIS ha gradualmente iniziato a lodare e incoraggiare la partecipazione attiva femminile fino ad arrivare, nell’ottobre 2017, ad una dichiarazione senza precedenti: nel centesimo numero del quotidiano al-Naba, il gruppo ha pubblicato un appello alle donne esortandole a prepararsi a diventare mujahidat, combattenti jihadiste, approvando ufficialmente le donne guerriere[146].
Una delle prime donne a diventare un agente dell’ISIS coinvolto in attività terroristiche contro l’Occidente è stata Hasna Ait Boulahcen, cugina del famoso Abdelhamid Abaaoud Ait Boulahcen, che è stata coinvolta negli attacchi di Parigi del 2015.
Il ramo libico dell’ISIS fu il primo a mandare donne in combattimento che vennero poi avvistate anche a Mosul.
La tattica degli attentati suicidi femminili è stata molto dibattuta nei circoli jihadisti ma inviare le donne in prima linea è una mossa ancora più controversa e preparando le donne al combattimento vero e proprio, l’ISIS ha aperto nuove strade nelle interpretazioni jihadiste della posizione femminile. Alcuni esperti di islamismo violento hanno visto in questo approccio un principio di emancipazione all’interno del jihadismo. Si potrebbe controbattere che la libertà concessa a queste donne viene resa nulla dal regime vessatorio imposto ad altre donne e a cui loro stesse erano in precedenza sottoposte. In realtà, da quello che emerge è che queste donne emancipate rappresentano delle eccezioni e per la maggior parte, le donne dell’Islamic State non hanno accesso a ruoli rilevanti, sono considerate alla stregua di beni materiali e il loro utilizzo è puramente strumentale[147]. Il 7 febbraio 2018, intanto, l’ISIS ha pubblicato un video intitolato “Inside the Khilafah 7”, prodotto dall’al-Hayat Media Center, dimostrando ufficialmente le donne in ruoli di combattimento, mostrando guerriere che operano a fianco di membri di sesso maschile e motivando la presenza delle donne come “vendetta per la loro religione e per l’onore delle loro sorelle imprigionate dagli apostati curdi”[148].
2.3 Le donne del Kurdistan
Il contrasto tra la donna religiosa conservatrice dell’Islamic State e le donne combattenti curde, ha contribuito a sensibilizzare e prendere in considerazione il fenomeno dell’impegno volontario femminile nell’estremismo violento e del coinvolgimento attivo delle donne nei combattimenti[149].
Oltre ad una generale trascuratezza nei riguardi dello studio dei curdi e del Kurdistan in generale per la maggior parte del XX secolo, le donne curde, in particolare, sono diventate argomento di indagine accademica in Occidente solo recentemente e la propensione a romanticizzare il loro operato e le loro sofferenze è stata vista da molti come strumentale per promuovere la causa del nazionalismo curdo[150]. Se da una parte quest’ultimo viene accusato di promuovere tale immagine, che rompe le nozioni preconcette di femminilità incentrate sul vittimismo e la fragilità, al fine di enfatizzare l’unicità del popolo curdo e quindi cercando di promuovere l’agenda nazionalista[151], è pur vero che la discussione mediatica sulle combattenti curde è stata presentata principalmente come una battaglia di resistenza alle norme conservatrici del sistema paternalistico mettendo in luce il conflitto tra le milizie curde e l’ISIS, visto attraverso l’obiettivo di genere, come uno “scontro tra civiltà” [152]. Le donne del Kurdistan, infatti, rompono lo stereotipo delle donne coinvolte nelle organizzazioni terroristiche[153] del Medio Oriente -che vuole le donne costrette dagli uomini ad essere impiegate in ruoli secondari o di supporto e che hanno poco a che fare con la leadership o le operazioni effettive – e difatti, allo stesso modo, le raffigurazioni dei principali notiziari internazionali prima del 2014 si concentrano sulle combattenti curde di sesso femminile come un’anomalia rispetto alle donne mediorientali, vittime dell’oppressione di genere[154].
Indipendentemente dal fatto che possano essere considerate o meno parte di un gruppo terroristico e che sarebbero più appropriate le etichette di “combattenti per la libertà” o di “insorti”, le guerrigliere femminili curde del PKK, che combattono contro i turchi o sono impegnate in Siria e in Iraq contro l’ISIS insieme all’Unità di protezione popolare (Yekîneyên Parastina Gel o YPG) e ai Peshmerga, si inseriscono in organizzazioni militari non tradizionali che utilizzano metodi di combattimento violenti non convenzionali, all’interno delle quali è importante comprendere il ruolo delle donne e della figura femminile in generale.
Le combattenti curde, che costituiscono circa il 35 percento di tutte le forze curde, hanno ricevuto particolare attenzione da parte dei media durante l’assedio alla città controllata dall’ISIS di Kobanî, il cantone centrale della regione siriana settentrionale del Rojava, iniziato il 15 settembre 2014 e durato sei mesi, ottenendo fama e sostegno in tutto il mondo.
Il crescente interesse mediatico è dovuto dal fatto che nonostante la società curda fosse di stampo patriarcale e quindi dominata dagli uomini, ha fatto spazio all’ascesa di alcune donne forti e carismatiche che si uniscono volontariamente a tali gruppi, riuscendo ad assumere ruoli di comando e svolgendo tutti i tipi di missioni militari[155]. Pertanto, anche se questi partiti e organizzazioni sono situati in una società islamica, sono riusciti a trascendere ai vincoli storici e culturali del proprio ambiente e garantire alle proprie donne un livello di uguaglianza che probabilmente non avrebbero mai raggiunto a questo ritmo come civili in Kurdistan.
Nel 2012, le donne dell’Unità di protezione popolare (Yekîneyên Parastina Gel o YPG), ala militare del Partito dell’Unione Democratica curdo siriana (Partiya Yekîtiya Demokrat o PYD), hanno formato una milizia di sole donne, le Unità di protezione delle donne (Yekîneyên Parastina Jinê o YPJ) e da allora hanno preso parte attiva alla lotta contro gruppi islamisti radicali come il Fronte Nusra affiliato ad Al-Qaeda e hanno svolto un ruolo di primo piano nella resistenza alle forze dell’Islamic State[156].
Il PYD è una derivazione del PKK turco che ha avuto una presenza di lunga data in Siria e con il quale il PYD ha stretti legami, tanto da essere considerate come due organizzazioni sorelle e di conseguenza, gli stessi processi che hanno avuto luogo tra le donne curde in Turchia si sono verificati tra le donne curde in Rojava ma le donne curde turche sono state pioniere nella trasformazione del ruolo della donna curda nelle sfere sociali, politiche e militari della società[157].
Rifiutando i valori patriottici della società tradizionale curda, il PKK è stato particolarmente ricettivo nei confronti delle donne. Ispirato dall’ideologia egualitaria secolare fin dalle sue origini, il PKK ha creato una cultura organizzativa che incoraggia una sostanziale uguaglianza di genere in termini di reclutamento, addestramento, missioni militari, leadership e proteggendo la donna contro la vittimizzazione sessuale.
Anche se il numero esatto di donne nel PKK è incerto, si stima che queste costituiscano circa il 40-50% dei quadri (circa 25.000) e considerando l’egemonia religiosa e patriarcale in questo specifico contesto geografico, un così alto tasso di partecipazione femminile a questo tipo di organizzazione è insolito. Negli anni ’70 – e ancora oggi, specialmente nelle zone rurali – le donne curde furono sottoposte a mutilazione genitale, a matrimoni precoci e omicidi d’onore. Tuttavia, emerso a metà degli anni ‘70 all’ombra di gruppi come l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, il PKK abbracciò l’ideologia marxista-leninista e addestrò le sue reclute secondo gli insegnamenti di Mao Tse-Tung e di altri gruppi rivoluzionari di Russia, Cina e Vietnam modellando la cultura e le relazioni di genere dell’organizzazione. Seguendo tale corrente, abbracciò i principi di base dell’ideologia politica di sinistra quali l’opposizione alla disuguaglianza procedendo alla riorganizzazione della società attraverso la rivoluzione violenta per porre fine alle strutture tradizionali della società curda. L’adozione dell’ideologia marxista da parte del PKK ha portato ad una visione socialista dell’uguaglianza in ogni aspetto della vita, inclusi religione, economia, divisione del lavoro e, soprattutto, nelle relazioni di genere[158].
Il contesto ideologico, culturale e sociale unico del PKK esiste principalmente perché il suo fondatore e leader più influente, Abdullah Öcalan, noto popolarmente come “Apo”, avendo sperimentato sulla propria pelle il dolore provocato dalla perdita della sorella venduta ad uno sconosciuto per un matrimonio forzato, lo ha concepito come un movimento politico secolare in contrapposizione ad un’organizzazione a base religiosa, includendo un forte impegno per l’uguaglianza in generale e per la liberazione delle donne in particolare. Sensibilizzato dal nazionalismo curdo e dipingendosi come protettore dei poveri curdi contadini, il PKK ha respinto i tradizionali sistemi di autorità e le restrizioni di genere per forgiare una nuova identità curda e sostenendo che, come affermato da Öcalan, la vera libertà e liberazione nella vita sono “impossibili senza una rivoluzione femminile radicale che potrebbe cambiare la mentalità e la vita dell’uomo”[159]. Nel corso del tempo, la visione di Apo si è evoluta in una serie di linee normative oggi radicate e date per scontate nel PKK in modo tale che l’uguaglianza di genere è ora una pietra miliare della struttura del gruppo. Una delle motivazioni più significative che spingono le donne ad unirsi al gruppo, infatti, è il desiderio di migliorare il proprio status nella società e poter condurre una vita più appagante oltre all’opportunità di proteggere la propria patria. Una donna comandante curda ha sottolineato infatti che la repressione dei jihadisti ha portato molte donne curde a prendere le armi e ad unirsi al combattimento[160] perché la lotta per la liberazione nazionale curda è sostenuta da uno spostamento ideologico strategico e la sola resistenza violenta non è sufficiente per ottenere l’autonomia terrestre ma idee come la libertà, l’uguaglianza e la partecipazione di base sono importanti quanto la lotta armata[161].
Pertanto, anche se inizialmente la maggior parte delle reclute si era unita al PKK per desiderio di vendetta, a differenza di alcuni gruppi in cui le donne vengono assunte volontariamente o involontariamente per scopi personali, tattici o ragioni logistiche, la maggior parte delle reclute del PKK, richiede giustizia di genere e si unisce volontariamente al PKK per raggiungere l’uguaglianza e resistere all’oppressione patriarcale.
Il PKK non solo ha offerto alle donne l’opportunità di sfidare le gerarchie patriarcali ma ha anche permesso loro di ottenere istruzione, formazione e quindi ricoprire posizioni di autorità nelle ali politiche e militari del partito, richiedendo anche che le donne fungano da membri nei vari comitati essenziali per il corretto funzionamento dell’organizzazione.
In generale, il PKK offre alle donne un livello di addestramento e di esperienza di combattimento equivalente agli uomini. Indipendentemente dal genere, infatti, ogni membro del PKK deve frequentare un periodo di formazione politica e ideologica in modo da comprendere appieno lo scopo e la visione del partito e, allo stesso tempo, completare l’addestramento militare alle armi e alle tattiche di guerriglia. Le donne del PKK sono dunque addestrate ad assumere posizioni di comando e hanno ruoli importanti nella pianificazione e nell’esecuzione di tutti i tipi di missione[162].
Oltre a questo quadro ideologico in grado di attrarre le giovani donne perché promette loro una maggiore libertà, è importante sottolineare che le motivazioni delle donne a partecipare alle insurrezioni anche in questo caso sono complesse e che la questione dell’emancipazione femminile è spesso sfaccettata e sfumata e sussistono molteplici cause congiunturali di mobilitazione che derivano dalla storia personale (come ad esempio preoccupazioni monetarie e sofferenza personale), dalle reti e dal contesto situazionale a livello sociale, sentimenti di esclusione, religione, nazionalismo, impegno per una causa, umiliazione, necessità di protezione, e vendetta[163].
Poiché nate in una società tradizionalmente dominata dagli uomini, che è stata anche soggetta alle oppressive misure militari e culturali del governo turco, le donne curde del PKK hanno storicamente vissuto una doppia oppressione e dunque oltre alla violenza di genere hanno subito decenni di degrado, maltrattamenti, arresti arbitrari, torture e altre misure umilianti imposte dalle forze di sicurezza turche che hanno provocato un trauma diffuso in tutta la comunità (anche tra gli uomini) come il dolore per la morte di una persona cara o la ricerca di vendetta[164].
Le donne curde vivono il conflitto curdo-turco non solo come membri di una minoranza etnica ma anche come donne. I curdi sono il più grande gruppo minoritario in Turchia e hanno subito violazioni dei diritti politici e culturali. Alcuni studiosi sostengono che le donne curde sono state “doppiamente emarginate” poiché, da un lato, la loro identità etnica è stata schiacciata e, dall’altro, sono diventate relativamente svantaggiate rispetto alle donne turche che in passato avrebbero potuto beneficiare delle modernizzazioni delle riforme repubblicane. Il PKK, dunque, forniva loro sicurezza e una soluzione al problema dell’oppressione e della discriminazione. Molte donne curde inoltre vogliono ricevere istruzione non solo perché credono che possa contribuire a risolvere il conflitto curdo-turco ma anche perché è diventata una necessità pratica date le numerose vittime della guerra, in quanto in caso di perdita dei loro uomini durante il conflitto e della conseguente mancanza di lavoro e mezzi di sostentamento, non riuscirebbero a prendersi cura né di sé stesse né dei loro figli[165].
Nonostante la condivisione di sofferenze e la presenza di spinte motivazionali al combattimento simili a quelle degli uomini, ovviamente i messaggi di egualitarismo di genere del PKK hanno richiesto molti sforzi ed inizialmente è stato difficile per gli uomini curdi accettare le pari opportunità per le donne. I guerriglieri maschi hanno infatti spesso sfidato l’autorità delle donne comandanti e ciò ha comportato spesso l’assegnazione alle donne di funzioni ausiliarie e di supporto come il trasporto di provviste o l’assistenza ai feriti.
E’ importante notare che la nozione di uguaglianza si presentava però in ogni aspetto della vita, compresa la punizione e la divisione del lavoro e che le donne nel PKK hanno avuto un ruolo di primo piano nell’amministrazione dell’organizzazione a causa dell’insistenza dei suoi fondatori. L’elevata importanza data dalla leadership del PKK alla promozione della parità di genere e la maggiore socializzazione e interazione tra uomini e donne, alla fine, sono riuscite a plasmare le convinzioni degli uomini del PKK in merito alla capacità delle donne di partecipare a ruoli non tradizionali[166].
Il PKK ha promosso l’uguaglianza di genere non solo all’interno dell’organizzazione ma anche nella società civile curda, ponendo fine a molte delle antiche tradizioni riguardanti lo status delle donne. La rivoluzione di genere si è manifestata nella promulgazione di nuove leggi e in alcune modalità di condivisione del potere. Sono state adottate ad esempio nuove leggi che vietano la poligamia e il matrimonio in giovane età[167], le donne fanno parte delle commissioni giudiziarie ed emettono verdetti in casi importanti, il PKK ha messo al bando la violenza domestica contro le donne fornendo protezione alle donne che sono state abusate dalle autorità patriarcali[168] e, ancora più importante, almeno il 40% dei partecipanti al processo decisionale a tutti i livelli amministrativi deve essere di sesso femminile[169].
Le donne hanno ancora molte meno opportunità rispetto agli uomini al di fuori dei ruoli tradizionali di moglie, madre e casalinga ma sembra chiaro che gli uomini non abbiano più la stessa libertà di abusare delle donne rispetto a prima della nascita del PKK. Pertanto, anche se il PKK è stato istituito per proteggere la cultura, la struttura sociale e l’eredità del popolo curdo dalla distruzione di Turchia, Siria ed altri Stati circostanti, il suo potenziale successo in questa impresa potrebbe paradossalmente portare alla trasformazione della società e della cultura nelle quali opera[170].
Dall’inizio del XXI secolo, le società curde nelle quattro regioni del Kurdistan hanno vissuto una rivoluzione silenziosa a vari livelli e sono passate da comunità sottomesse ed emarginate a comunità fortemente politicizzate. La confusione dei confini fisici tra gli Stati che hanno controllato il Kurdistan, a causa del loro indebolimento, ha provocato un aumento delle influenze transfrontaliere tra i vari movimenti delle donne curde. Escludendo l’Iran[171], tra i curdi di Turchia, Iraq e Siria la partecipazione delle donne agli affari sociali, politici e persino militari è stata istituzionalizzata in una certa misura[172], le donne curde in Siria hanno visto una rivoluzione più pronunciata e accelerata che ha prodotto risultati tangibili nella regione del Rojava. Le donne curde in Iraq presentano una storia diversa da quella delle loro controparti in Turchia e Siria: le cause di queste differenze potrebbero essere ritrovate nella maggiore accezione tradizionale della società curda irachena rispetto a quella turca e nel fatto che non esiste una forte ideologia generale alla guida del movimento. Tuttavia, nell’area controllata dal governo regionale del Kurdistan (KRG) vi sono forti segnali di miglioramento della posizione delle donne nella società[173].
Naturalmente, non possiamo valutare empiricamente la misura in cui le cose sono realmente cambiate da quando il PKK è salito al potere[174]. E’ possibile che l’uguaglianza di genere del PKK abbia un effetto sulla più ampia società curda in cui i valori patriarcali rimangono dominanti. Non da ultimo, c’è la consapevolezza che i guadagni rivoluzionari potrebbero andare persi una volta che la rivoluzione si placherà come è avvenuto in altri Paesi del Medio Oriente nei quali le donne hanno avuto un ruolo significativo durante le Rivolte arabe.
Per quanto riguarda la lotta sul fronte nazionalista, la partecipazione delle donne curde alle attività militari aiuta a promuovere il loro programma femminista (e viceversa) e analogamente, come per gli uomini, le attività delle donne nelle sfere politica e militare forniscono una scala per la mobilità sociale. Indipendentemente dal risultato dell’esperimento del Rojava e dagli inevitabili divari tra ideali e realtà, mentre l’ideologia di Öcalan viene messa alla prova sul campo, l’impegno degli uomini e delle donne curde nel processo sta spostando le tradizionali comprensioni di genere nella società curda[175].
Un punto importante è che, diversamente dalle società arabe – dove dopo aver svolto un ruolo significativo nel movimento nazionale le donne sono state “rimandate” all’interno dei loro ruoli tradizionali -, la trasformazione delle società curde per quanto riguarda l’equità di genere è abbastanza profonda e autentica da non consentire il ritorno a precedenti norme repressive[176]. Mentre la cosiddetta Primavera araba ha aggravato, piuttosto che migliorato, la situazione delle donne arabe nella maggior parte dei Paesi coinvolti, la concomitante rivoluzione sociale curda ha portato ad un miglioramento dello status delle donne curde nelle loro società e conseguentemente un gran numero di donne curde, anche quelle che non appartengono necessariamente alla classe d’élite, sono riuscite a sfondare il soffitto di cristallo precedentemente esistente e assumere ruoli di leadership[177]. Infine, il fatto che i curdi siano più laici dei loro vicini potrebbe garantire che le donne curde non vengano “riportate indietro” a ricoprire posizioni di rango inferiore[178]. L’ideologia fondata sull’uguaglianza del PKK potrebbe diffondersi al di fuori dell’organizzazione e influenzare le relazioni tra uomini e donne in Kurdistan in generale ma quello che è certo è che questa caratteristica organizzativa può aiutare a spiegare parte della longevità e del successo del PKK, in quanto, con l’equità di genere, è riuscito ad espandere e ad avere a propria disposizione una maggiore cerchia di personale volontario con grandi capacità e attitudini[179].
- Le donne nelle politiche di contrasto al terrorismo e all’estremismo violento
3.1 I ruoli delle donne nel contrasto al terrorismo
Nel contrasto al terrorismo e all’estremismo violento fino ad oggi è stata prestata poca attenzione da parte degli attori dell’antiterrorismo nazionali e internazionali nell’inclusione di politiche di genere e molti progetti ed iniziative non sono riusciti a far emergere il pieno potenziale delle donne come effettivi agenti di cambiamento all’interno della società[180].
Poiché la partecipazione delle donne al terrorismo è in aumento, è però importante che le donne vengano incluse anche nelle unità antiterrorismo e coinvolte adeguatamente in iniziative di prevenzione. In base alla situazione delineata fino ad ora, si evince che i fattori di coinvolgimento delle donne nell’estremismo violento sono variegati e complessi, e seppure le donne rimangono in gran parte oggetto del terrorismo, sono talvolta più che semplici vittime, a volte sono vere e proprie terroriste e le nazioni devono possedere una piena comprensione di tutto ciò che guida ed influenza tale minaccia per contrastare efficacemente questo tipo di coinvolgimento nella violenza[181].
Dopo l’avvento dell’Islamic State, il quale a differenza di Al Qaeda, oltre ad aver reso il corpo delle donne non sunnite un “bene di mercato” ha promosso compiti per le donne più attivi nel combattimento, la situazione è notevolmente peggiorata rendendo ancora più essenziale la loro partecipazione nell’antiterrorismo ma esse continuano ad essere incluse raramente nei negoziati o nei processi decisionali contro il terrorismo[182] e tale mancanza, insieme al fallimento nel comprendere totalmente le modalità con le quali le donne vengono affiliate, sostengono l’estremismo e la violenza, cede il beneficio del loro coinvolgimento ai gruppi estremisti [183].
Il ruolo che le donne possono svolgere nella lotta al terrorismo è ritenuto unico ed incorporare il punto di vista proprio delle donne può portare ad una migliore raccolta di informazioni e ad una formulazione di risposte più attagliate alle potenziali minacce alla sicurezza. La maggior parte degli esperti, infatti, concorda che il coinvolgimento delle donne e l’inclusione di una prospettiva femminile ottimizzano l’efficacia delle attività di prevenzione e contrasto al terrorismo in quanto è stato osservato che quando le donne partecipano ai negoziati di pace, ad esempio, è più probabile che gli accordi raggiunti durino nel tempo[184]. Quando le donne sono incluse nei processi di pace c’è, infatti, un aumento del 20% della probabilità che un accordo duri almeno 2 anni e un aumento del 35% nella probabilità che un accordo duri almeno 15 anni[185].
Riconoscendo che un sistema di sicurezza sostenibile non è possibile senza il coinvolgimento delle donne, nell’ottobre del 2000, le Nazioni Unite hanno approvato la risoluzione 1325 del Consiglio di sicurezza, la quale chiede una maggiore rappresentanza delle donne nei negoziati di pace e a tutti i livelli delle decisioni relative alla sicurezza, inclusione delle donne nella ricostruzione post-conflitto, nel disarmo, nella smobilitazione e nel reinserimento, una maggiore protezione dalla violenza sessuale oltre alla fine dell’impunità per i crimini che colpiscono le donne [186]. La risoluzione sostiene, in sostanza, l’uguaglianza di genere ed una maggiore sensibilità verso l’integrazione delle questioni di genere, concetti rinforzati ulteriormente con le risoluzioni ONU successive, in particolare la 1820, 1888 e 1889, le quali hanno introdotto un ufficio per un rappresentante speciale per eliminare la violenza sessuale contro le donne, misure di responsabilità obbligatoria e sanzioni autorizzate delle Nazioni Unite nonché definito la stessa violenza sessuale diffusa come una minaccia per la pace e la sicurezza internazionale.
I gruppi della società civile a guida femminile sono partner particolarmente critici nella mitigazione della violenza e le donne, oltre ad essere vittime o attori di violenza, possono attenuare tale pericolo attraverso tre ruoli fondamentali: quello di “predittore”, quello di agente di prevenzione e quello di attore di sicurezza vero e proprio.
Innanzitutto, non possiamo dimenticare che le donne sono spesso il primo obiettivo del fondamentalismo e del terrorismo e sono strumentalizzate sotto diversi punti di vista. Le donne hanno sostanzialmente maggiori probabilità rispetto agli uomini di essere le prime vittime dell’estremismo, come già detto, attraverso molestie, abusi, segregazione, sfruttamento e altre costrizioni e violazioni che possono dunque essere considerati dei segnali di avvertimento. Il primo ruolo delle donne nella lotta al terrorismo può essere dunque quello di percepire alcuni segni premonitori di una situazione di crisi e pericolo: l’ascesa di gruppi estremisti è infatti spesso caratterizzata da significative restrizioni ai diritti delle donne, a partire dal diritto di scegliere come vestirsi al diritto allo studio e all’istruzione, negazione del diritto al lavoro o di libertà personali come quella di movimento o di decidere chi sposare. Le donne sono perciò ben posizionate per riconoscere i primi segni di radicalizzazione e sono dei sentori utilissimi perché gli attacchi ai loro diritti e alla loro integrità fisica sono spesso il primo indizio di una crescita del fondamentalismo[187].
In secondo luogo, non bisogna trascurare i contributi che le donne possono offrire per prevenire l’estremismo. Anche i ruoli centrali delle donne in molte famiglie e comunità offrono un punto di vista unico dal quale riconoscere modelli insoliti di comportamento e prevedere conflitti imminenti in quanto sono in grado di identificare i primissimi segni di radicalizzazione all’interno dell’ambiente domestico.
Mogli e madri, anche nelle società in cui le donne sembrano meno autorizzate, le donne hanno numerose connessioni nelle case, nelle scuole nel loro vicinato e negli ambienti sociali in genere e nel governo locale[188] e in questo contesto, è ancora più importante la loro influenza sui giovani, bersaglio più frequente degli estremisti che consente loro di plasmare regole familiari e sociali e di promuovere valori non violenti. Nelle società più conservatrici, dove la comunicazione con le donne è limitata ad altre donne o ai loro parenti maschi, le donne hanno un accesso unico per intervenire con lo stesso sesso e quindi con altre donne e ragazze a rischio di radicalizzazione. In quanto membri dei gruppi consultivi dei cittadini e dei consigli di sicurezza municipali, le donne possono interagire con i rappresentanti delle forze dell’ordine locali e avvisarli di problemi di sicurezza di genere (come è stato osservato in Serbia e Albania).
Il ruolo preminente che molte donne svolgono dunque nelle loro famiglie e comunità, conoscendo in prima persona le cause profonde femminili, diverse rispetto a quelle delle loro controparti maschili, oltre a comprendere le implicazioni politiche e le dinamiche sociali di un determinato gruppo coinvolto dall’interno, le rende particolarmente efficaci nel ridurre la capacità dei gruppi estremisti di reclutare combattenti e nel diffondere messaggi di anti-terrorismo e anti-radicalizzazione, da integrare in politiche preventive statali più ampie, finalizzate alla lotta al terrorismo. Infine, le donne potrebbero essere importanti attori di sicurezza.
Le donne che fungono da addette alla sicurezza infatti forniscono informazioni e approfondimenti che possono essere critici al fine del raggiungimento dello scopo di una determinata missione avendo accesso a personale e siti che gli uomini spesso non riescono a portare a termine non hanno, consentendo loro di raccogliere dati di rilievo su potenziali minacce alla sicurezza. Inoltre, è stato dimostrato che la partecipazione delle donne nelle forze armate e nella polizia migliora il modo in cui una comunità locale percepisce le forze dell’ordine che, a sua volta, migliora la loro capacità di fornire sicurezza. Le donne attualmente compongono solo il 15% delle forze di polizia a livello globale e questa sotto-rappresentazione nel settore della sicurezza crea una vulnerabilità che i gruppi terroristici sfruttano a proprio vantaggio[189].
3.2 L’inclusione delle donne nelle politiche di contrasto al terrorismo
La risoluzione 1325 del 2000 delle Nazioni Unite riconosce che il conflitto colpisce donne e ragazze in modo diverso rispetto agli uomini e ragazzi e che le donne devono far parte della risoluzione dei conflitti e della costruzione della pace e, affinché ciò avvenga, è necessario un grande cambiamento nella prevenzione e nelle modalità di risoluzione dei conflitti, nel mantenimento della pace e nel consolidamento della pace. A distanza di dieci anni, nell’ottobre 2010, le Nazioni Unite hanno adottato un piano per monitorare i progressi nell’attuazione della risoluzione nei vari Paesi che avrebbero dovuto fare propri tali precetti con degli Action Plans da inserire nelle legislazioni nazionali[190]. Molto è infatti cambiato dal passaggio della risoluzione 1325: la protezione delle donne e delle ragazze dalla violenza sessuale e di genere è riconosciuta come una sfida prioritaria per le pratiche umanitarie e di mantenimento della pace. Le coalizioni di pace delle donne sono diventate più forti e in alcuni contesti sono in grado di mettere i bisogni delle donne all’ordine del giorno dei colloqui di pace e nei processi di pianificazione e nei quadri di finanziamento. I meccanismi di giustizia transitoria rispondono sempre più ai crimini di guerra contro le donne con un’attenzione più palese ai modi in cui il conflitto colpisce le donne e con accordi specifici per proteggere i diritti delle donne. La persistenza, e in alcuni casi l’esacerbazione, dei fenomeni che hanno spinto in primo luogo l’adozione della risoluzione mette però in discussione la profondità dell’impegno degli Stati nell’effettiva attuazione di tale risoluzione. A livello globale, c’è stato un crescente riconoscimento dell’importanza di un approccio inclusivo che risponda alle diverse esigenze di sicurezza di uomini e donne e affronti l’impatto differenziato delle politiche di sicurezza su di essi ma questi impegni internazionali devono ancora tradursi pienamente in risultati concreti e misurabili. Oggi dopo vent’anni c’è infatti ancora molta strada da fare per adempiere alle aspettative sollevate dalla risoluzione 1325[191].
Nella lotta alla violenza terroristica, Mia Bloom identifica un processo per combattere la crescente minaccia del coinvolgimento femminile sintetizzabile tramite tre “D”: Delegitimize, Deglamorize e Demobilize, ovvero delegittimare l’utilizzo della violenza, degradare e smitizzare l’affiliazione all’estremismo e smobilitare le donne dai movimenti terroristici[192].
Al fine di combattere il richiamo e il coinvolgimento delle donne, una delle prime necessità è quella di esautorare il terrorismo sottolineando che la violenza non è sanzionata dal Corano o dagli Hadith. L’istruzione e l’educazione femminile sono una delle misure primarie da adottare ed il femminismo islamico si sta impegnando a fondo con le fonti dell’autentica tradizione musulmana per rileggere il Corano in modo nuovo. La costruzione di alleanze tra femministe secolari e religiose per sfidare le oppressioni comuni è necessaria per costruire coalizioni strategiche tra comunità diverse. Le strategie di contro-insurrezione e contro-guerriglia includono la collaborazione con studiose femministe musulmane e sociologi-antropologi con competenze nella cultura e nella società musulmana, le cui conoscenze potrebbero aiutare a fornire una maggiore comprensione delle donne musulmane e contribuire a sventare il loro reclutamento all’interno delle organizzazioni terroristiche[193].
In combinazione allo sviluppo di programmi di sensibilizzazione per contrastare la propaganda terroristica, il femminismo islamico, affrontando i tradizionali pregiudizi maschili della giurisprudenza islamica e i dettami che le donne musulmane devono rispettare nella loro vita quotidiana, sarebbe un tentativo indotto dalle donne musulmane al fine di preservare la propria cultura e lottare per i propri diritti. In tal modo, le femministe islamiche cercano di tornare alla fonte principale della legge islamica, il Corano, applicando le classiche metodologie islamiche di ijtihad (analisi indipendente delle fonti religiose) e tafsir (interpretazione del Corano) insieme a metodi e strumenti di linguistica, storia, critica letteraria, sociologia e antropologia per comprendere meglio il Corano e per fornire un’interpretazione alternativa dell’attuale esegesi dominata dagli uomini. Oltre a tentare di riformare tale interpretazione, le femministe islamiche studiano anche come le donne venivano trattate nei primi giorni islamici, tornando indietro nella storia e dimostrando come le donne siano state trattate con rispetto e uguaglianza, ricercando i valori principali di armonia, pace e giustizia. Finora, il successo degli approcci femministi islamici è stato molto limitato ma dimostra alcuni dei risultati nel combinare due movimenti – femminismo e religione – a lungo considerati incoerenti tra di loro. Secondo alcuni questa potrebbe essere una via d’uscita dalla scatola stereotipata in cui sono sempre collocate le donne musulmane considerate vittime di un sistema paternalistico che non lascia spazio all’educazione e alle libertà individuali femminili[194]. Secondo altri, invece, nessun femminismo può rimanere entro il limite della religione e qualsiasi femminismo che si rispetti deve rifiutare la religione e la comprensione della spiritualità ad essa associata. Infatti da un lato, le femministe secolari ritengono spesso che “femminismo islamico” sia un termine controverso se non contraddittorio, sostenendo l’idea che l’Islam sia una religione opprimente per le donne, mentre, dall’altro, ci sono alcuni studiosi tradizionali che credono che il femminismo sia un concetto imposto dall’Occidente che non rispetta la cultura musulmana.
Le donne musulmane si trovano dunque in una situazione particolare riguardante l’Islam e la sharia e affrontare i diritti delle donne è sicuramente un buon inizio per comprendere non solo le donne musulmane ma anche fornire un sistema di supporto verso il quale le donne possono rivolgersi invece che voltare lo sguardo verso la radicalizzazione[195].
Secondo una corrente di pensiero, per rendere meno affascinante e attraente (Deglamorize) il coinvolgimento delle donne nel terrorismo bisogna sviluppare e implementare strategie e politiche in grado di confutare le argomentazioni dell’ideologia estremista[196].
E’ sicuramente importante tener conto dell’utilizzo abile e manipolativo delle narrative di genere da parte del fondamentalismo, il quale sfrutta il desiderio di empowerment e avventurismo che le spinge ad unirsi a tali movimenti. In questa luce, le iniziative di contro propaganda, al fine di ostacolare il reclutamento, dovrebbero dimostrare che, né emancipazione né avventurismo vengono in verità offerti alle donne e contrastare i racconti delle reclutatrici sui social media che sostengono, ad esempio, il mito secondo il quale l’adesione all’IS, consentirà alle donne di contrarre matrimoni felici con uomini jihadisti.
Inoltre, non viene prestata sufficiente attenzione alla costruzione di nozioni alternative di mascolinità e femminilità[197]. Nella misura in cui il genere è relazionale, ovvero frutto di interazioni interpersonali e definito dalle dinamiche di potere tra uomini e donne, un’analisi di genere approfondita dovrebbe includere una revisione di ciò che rende un uomo un “vero uomo” o una donna una “brava donna” e di conseguenza modificare anche le narrative di genere stereotipate che definiscono il significato di onore e integrità per uomini e donne, concetti che rivestono grande importanza nella costruzione di queste ideologie[198].
Come detto, la propaganda ha come aspetto significativo quello di fare appello a fattori psicosociali e sociopolitici, sfruttando sentimenti di emarginazione ed isolamento che spingono le donne (e non solo) a cercare rifugio nel Califfato. Al fine di contrastare il flusso migratorio verso l’IS, è fondamentale che vengano affrontati questi rancori e sentimenti di ingiustizia e non inclusione ampiamente percepiti dai musulmani in Occidente che creano condizioni favorevoli all’estremismo violento, sincronizzando le modalità di comunicazione strategica in modo che ostacolino la legittimità dell’IS e nobilitino lo status delle donne musulmane[199].
Secondo alcuni analisti è improbabile che il tentativo di contrastare l’estremismo su una base puramente ideologica possa produrre risultati sugli individui più sensibili all’estremismo perché ignora i fattori contestuali come, ad esempio, la percezione della crisi che rende alcuni soggetti più o meno sensibili alla propaganda dell’estremismo violento. Gli sforzi contro l’estremismo incentrati sulla critica dell’ideologia islamista militante rischiano di essere futili, se non contro-produttivi, se dapprima non si affronta la crisi del “mondo reale” e la necessità da parte delle donne di soluzioni tangibili[200].
Una lacuna importante delle campagne di contrasto al terrorismo per fermare la crescita delle donne jihadiste è infatti la mancanza di riferimenti visibili e il potersi riferire ad istituzioni esistenti o ad esperienze femminili e modelli di ruolo positivi concreti[201].
Il “Deglamorizing”, dunque, deve essere necessariamente sostenuto da politiche strutturate che diano alle donne valide alternative. Un simile cambiamento richiederebbe alle donne di essere coinvolte nei processi decisionali, di progettazione e di attuazione delle politiche e nei programmi di contro terrorismo a tutti i livelli, in modo da garantire che le donne siano agenti e leader, piuttosto che semplici oggetti del terrorismo[202].
Nelle zone di crisi, le donne partecipano attivamente ai conflitti che colpiscono i loro Paesi: possono diventare combattenti, possono rappresentare i soli mezzi di sostentamento per le loro famiglie, possono essere più operose nei diversi settori dell’economia o più attive nei gruppi pacifisti, soffrono in modo sproporzionato di violenza sessuale e di sfollamento ed eppure, nonostante siano una componente sostanziale durante la guerra e le sue conseguenze, le donne sono troppo spesso escluse dalle attività volte a risolvere i conflitti che le colpiscono invece così profondamente.
Gli sforzi tradizionali da parte dei governi e delle organizzazioni non governative per combattere la radicalizzazione si concentrano in genere sulla sensibilizzazione di attori politici e religiosi prevalentemente di sesso maschile. Le donne sono spesso invece sotto-rappresentate nella sfera pubblica e governativa e nel settore della sicurezza, in particolare nelle posizioni di comando.
Più comunemente, i ruoli delle donne nella lotta all’estremismo violento sono identificati come centrati nelle loro case, come madri e badanti. Sebbene queste funzioni, come visto in precedenza, siano importanti, i ruoli che le donne possono avere nei processi di lotta al terrorismo sono molto più ampi e relegandole alla sola sfera domestica, negando la possibilità di sedere al tavolo delle consultazioni, rischia di compromettere le esigenze di sicurezza delle comunità oltre a minare gli sforzi per promuovere l’emancipazione delle donne nei loro vari ruoli nella società e quindi rallentare il raggiungimento dell’uguaglianza di genere.
Sebbene siano stati compiuti progressi nell’analisi del ruolo delle donne nel contesto dell’estremismo violento, è urgente che gli Stati garantiscano non solo una raccolta più efficace e sistematica di dati disaggregati per genere, la cui disponibilità consentirebbe una comprensione più completa della portata del fenomeno ma è necessaria la collaborazione attiva delle donne ai processi decisionali relativi alla prevenzione e al contrasto al terrorismo[203].
Le migliori pratiche per aumentare la partecipazione delle donne comprendono la promozione della rappresentatività femminile in ogni ambito della sfera pubblica, il dispiegamento di unità di mantenimento della pace equilibrate dal punto di vista del genere, un approccio inclusivo in ogni contesto governativo, in particolare nel settore della sicurezza, nell’implementazione di riforme giudiziarie sensibili al genere e in un inserimento più programmatico degli input delle donne sulle priorità di spesa nei bilanci nazionali e nei progetti internazionali. Legislazioni inadeguate e/o discriminatorie, assenza di infrastrutture e quadri strategici sono i principali ostacoli allo sviluppo di tali programmi e strategie[204]. Anche le organizzazioni della società civile femminile sono in genere più piccole e meno resilienti dal punto di vista finanziario, il ché le rende di difficile sopravvivenza[205].
Inoltre, i Paesi, le organizzazioni non governative e quelle internazionali che si concentrano solo su uno o due di questi elementi, rischiano di non avere successo in quanto tutte le citate componenti sono parte integrante di un approccio efficace all’aumento della sicurezza, e, ad esempio, non esiste modo per aumentare la partecipazione delle donne all’economia se non riusciranno poi a rientrare e reintegrarsi nei propri Paesi d’origine in un clima di pace e la riconciliazione e il riavvicinamento non sono possibili laddove sussista una cultura di impunità e disuguaglianza[206]. In sostanza, i conflitti non possono essere portati a termine senza rendere più sicura la vita delle donne ed è la donna che si trova nella posizione migliore per determinare come raggiungere tale sicurezza. E’ stato osservato che 31 dei 39 conflitti attivi nel mondo hanno presentato una ripresa del conflitto dopo la conclusione degli accordi di pace. In tutti questi casi, le donne erano state escluse dal processo di pace. Le Nazioni Unite ritengono infatti che meno del 3% dei firmatari degli accordi di pace siano donne e che la partecipazione delle donne, nei negoziati e nei processi di pace osservati e per i quali sono disponibili tali informazioni, sia in media inferiore all’8%[207].
Fino ad oggi, le organizzazioni terroristiche e l’estremismo violento si sono dimostrati più capaci rispetto alle forze di sicurezza globali nello sfruttare le dinamiche di genere, individuando le lacune nelle misure di protezione – in genere derivanti dall’insufficiente assunzione di donne nelle forze di sicurezza statali – e approfittare di queste vulnerabilità nella loro pianificazione operativa[208]. Ad esempio, infatti, la mancanza di agenti di sicurezza femminili per gestire le perquisizioni ai valichi di frontiera e ai posti di blocco lascia spazio all’utilizzo di terroristi di sesso femminile (o agenti di sesso maschile travestiti da donne) aumentando la probabilità che un attentatore possa accedere a spazi riservati. Tale mancanza di attenzione alle questioni di genere da parte dei funzionari della sicurezza, unita agli stereotipi delle donne intese come vittime o come operatori passivi, ostacola la riuscita delle operazioni di sicurezza e incorporare forze di polizia che siano rappresentative della popolazione femminile può migliorare l’efficacia operativa delle forze di sicurezza e contribuire alla costruzione di relazioni di fiducia con le comunità locali.
Nonostante vi sia una tendenza crescente della partecipazione delle donne alle forze armate, in media le donne, ad esempio nei paesi dell’OSCE, rappresentano ancora solo il 10% delle forze armate, con ampie variazioni tra gli Stati partecipanti e soltanto il 3% delle forze di peacekeeping sono di sesso femminile[209]. Gli esperti hanno identificato, come causa di questa carenza, una resistenza culturale all’interno delle istituzioni militari e nella società nel complesso[210] e queste tendenze globali si riflettono anche nelle strutture esecutive, dove il numero di donne con esperienza militare e di polizia rimane molto basso[211]. La ricerca ha scoperto che le donne poliziotto hanno maggiori probabilità di ridurre le violazioni dei diritti umani, accedere alle comunità emarginate, limitare l’uso eccessivo della forza e ridurre in modo più efficace la tensione[212] e, inoltre, un aumento del numero di donne all’interno delle forze di polizia e di sicurezza incoraggerebbe le donne vittime di crimini a pronunciarsi e quindi renderebbe possibile incriminare i responsabili. Risulta dunque fondamentale continuare a dotare il personale di formazione e pianificare una distribuzione di unità equilibrate per genere a tutti i livelli all’interno della sfera militare[213].
Il coinvolgimento delle donne nel terrorismo, come più volte ripetuto, è contrassegnato da diffuse violenze sessuali e di genere e, queste attività criminali scarsamente perseguite a livello nazionale e/o internazionale, oltre alla continua mancanza di sicurezza fisica, ostacolano l’integrazione delle donne nella vita economica e nella leadership. Le violenze, inoltre, spesso continuano anche dopo la crisi e molto spesso sono accompagnate da un grave tasso di impunità nei confronti degli autori. Gli esperti hanno identificato la volontà politica come grave ostacolo a all’implementazione di procedimenti giudiziari e le analisi condotte su tali procedimenti rivelano un costante pregiudizio di genere in caso di condanna. Questi studi suggeriscono che le donne possono ricevere condanne relativamente indulgenti mentre gli uomini tendono a ricevere pene più severe sulla base di ipotesi di genere, mentre le donne accusate di fornire supporto materiale ai gruppi terroristici ricevono condanne che talvolta non prendono in considerazione l’inganno, le false aspettative e la mancanza di alternative.
Un corollario importante di questi risultati è che le donne tendono anche a ricevere un supporto più limitato per la riabilitazione e il reinserimento che rappresenta un punto importante nella terza “D”, individuata da Mia Bloom, Demobilize.
Poiché si ritiene che le donne, a volte erroneamente, non rappresentino una minaccia significativa, potrebbero infatti non ricevere il necessario supporto nella riabilitazione e nella reintegrazione nella società, mettendole così a rischio di una potenziale maggiore recidività. Più in generale, continua ad esserci una comprensione limitata delle migliori pratiche e dei metodi più efficaci nella riabilitazione delle donne e le esperienze in altri contesti hanno dimostrato, ad esempio, che il reinserimento socio-economico e maggiori opportunità di lavoro sono un fattore chiave per il successo ma che tali programmi sono più comunemente offerti agli uomini piuttosto che alle donne. Pochi degli attuali programmi di de-radicalizzazione hanno strutture o progetti specifici per donne e bambini che per assurdo saranno proprio quelli che potrebbero portare avanti il conflitto in futuro[214]. La ricerca sul genere sostiene che i risultati sull’occupazione femminile, dopo brevi condanne e periodi di carcere, sono tre volte peggiori rispetto a quelli degli uomini. La povertà, l’emarginazione sociale e la mancanza di opportunità socio-economiche sono fattori chiave nella smobilitazione ed è per questo di vitale importanza che vengano creati dei percorsi per l’uscita delle donne dalle organizzazioni terroristiche, venga migliorata l’assistenza nel processo di disimpegno e i sistemi carcerari introducano dei programmi di formazione professionale per le donne più incisivi.
Una sfida particolare riguarda le donne che hanno subito violenze sessuali per mano di gruppi terroristici in quanto lo stigma della violenza sessuale porta spesso all’alienazione e all’isolamento sociale e, in questo caso, il sostegno pubblico da parte di leader religiosi o di altri membri della comunità può favorire il reinserimento delle donne nella società[215]. Una misura risultata particolarmente valida è stata la creazione di numerose reti per il collegamento delle donne in tutto il mondo, usata per offrire contro-visioni e narrative di opposizione che hanno rafforzato il senso di responsabilità condivisa oltre a facilitare lo scambio di conoscenze tra donne in una moltitudine di contesti colpiti dall’estremismo, mirando a raggiungere un’educazione più ampia sulla prevenzione e sul contrasto all’estremismo violento. È quindi fondamentale lavorare per mettere in comune le conoscenze di coloro che lavorano su questioni di uguaglianza e inclusione di genere per determinare quali misure e pratiche si sono dimostrate efficaci. I modelli di ruolo positivi sono poi particolarmente potenti quando coinvolgono gli stessi ex estremisti e promuovono l’interazione tra giovani donne sopravvissute a reti violente, come sperimentato in iniziative come Life after Hate e Exit USA, nelle quali 129 ex estremisti conducono progetti e iniziative di istruzione e formazione professionale personalizzate per aiutare le donne a rimettersi in carreggiata[216].
Alcuni sforzi su piccola scala per coinvolgere le donne nei programmi di reintegrazione sono risultati promettenti. Un programma in Marocco impiega donne religiose in tutto il Paese per contrastare le interpretazioni radicali dell’Islam, per via della loro capacità di raggiungere più membri della comunità rispetto alle loro controparti maschili. In Nigeria, sulla scia di un attacco terroristico, un gruppo inter-religioso di donne musulmane e donne cristiane si è riunito e ha supportato con successo l’intervento della polizia nelle regioni con alti livelli di violenza tra le comunità. Un programma indonesiano, inoltre, ha fornito alle mogli di jihadisti incarcerati un supporto psicologico ed economico che le ha aiutate a riabilitare e reintegrare i combattenti nella loro comunità, interrompendo il ciclo dell’estremismo[217].
Nonostante i progressi concettuali avanzati da vari programmi e dal gender mainstreaming globale e sebbene l’influenza delle donne e l’inclusione delle prospettive di genere nei vari aspetti citati – negoziati di pace, nella pianificazione umanitaria, nelle operazioni di mantenimento della pace, nella governance e ricostruzione post-conflitto, nella reintegrazione e stato di diritto e nello sviluppo economico – sia in crescita, le donne mancano di opportunità economiche e continuano ad essere gli obiettivi primari della violenza, oltre ad avere pressoché poca voce nelle aree in cui le donne potrebbero invece promuovere efficacemente la sicurezza.
Gli esperti identificano ostacoli profondamente radicati nell’inclusione delle donne, compresa la cultura, poca volontà di modificare gli equilibri esistenti e interessi di potere oltre ad una generale avversione al cambiamento. Il nocciolo del problema, individuato come principale ostacolo all’integrazione della dimensione di genere, è la mancanza di volontà politica di attuare leggi in tale direzione e istituzioni deboli che poi a loro volta si traducono in una mancanza di fiducia nel sistema da parte delle donne[218].
Numerosi ricercatori hanno osservato che le attuali modalità per affrontare il problema rischiano di spostare la responsabilità dallo Stato alla società civile ed in particolare alle donne stesse. Alla luce del ruolo svolto dall’azione dello Stato, in particolare nella violazioni dei diritti umani, nel contrasto alla radicalizzazione il rafforzamento del buon governo dovrebbe essere una priorità. La partecipazione effettiva delle donne alla lotta al terrorismo offre opportunità per il suo potenziamento – nonché un modo per dare potere – alle donne ma se non viene permesso loro di assumere ruoli di primo piano nella costruzione della pace e nella sfera economica, sarà difficile cambiare le dinamiche di genere e gli atteggiamenti della società[219].
Sebbene le norme culturali possano sembrare immutabili, in molte società che lottano per la stabilità dopo la guerra, le relazioni di potere prevalenti nei vecchi regimi nonché le barriere culturali diventano più malleabili e soggette a modifiche[220] – così come sperimentato dalla resistenza curda – e, vista la natura mutevole della partecipazione femminile, nella lotta all’estremismo violento e al terrorismo è necessario lo sviluppo di strategie dinamiche che utilizzino modalità di reazione flessibili che affrontino le debolezze strutturali della comunità sociale[221]. Comprendere le problematiche descritte consentirà dunque una migliore comprensione dei processi di radicalizzazione tra uomini e donne e lo sviluppo di risposte più adatte per affrontare le dinamiche basate sul genere relative agli individui che scelgono di unirsi ai gruppi terroristici. Costruire pace e sicurezza durature richiede la partecipazione delle donne: metà della popolazione mondiale non può fare una pace completa[222].
Conclusione
Sebbene il ruolo delle donne nel terrorismo sia ampiamente studiato, l’antiterrorismo non è riuscito ancora a integrarne tutte le sfaccettature e le tradizionali politiche antiterrorismo sono ancora impantanate nella comprensione stereotipata del perché e del modo in cui le donne partecipano alla violenza politica[223].
Il coinvolgimento delle donne nelle organizzazioni terroristiche non è affatto nuovo ma il riconoscimento e l’interesse, in particolare nei mass media, sono cresciuti solo di recente a seguito del costante aumento del numero e della proporzione di attentatori suicidi di sesso femminile e i compiti specifici che le donne svolgono sono gradualmente cambiati nel tempo. Fino alla fine del ventesimo secolo, alle donne nelle organizzazioni terroristiche sono stati in gran parte assegnati compiti di sostegno ma il riconoscimento del potenziale delle donne è cresciuto anche tra le organizzazioni terroristiche per ragioni che vanno dallo sfruttamento strategico di cliché culturali, all’apparenza fisica, ai legami relazionali e alla carenza di personale[224]. A questo proposito, l’Islamic State ha adottato un approccio diverso nei riguardi del mondo femminile, molto dibattuto nei circoli jihadisti, rispetto a gruppi come Al-Qaeda il quale relega le donne al ruolo di madri di futuri combattenti: l’IS ha avuto la lungimiranza di attribuire loro dei compiti più rilevanti, andando oltre la tradizione e preparandole al combattimento, aprendo nuove strade nelle interpretazioni jihadiste del ruolo delle donne[225]. Questi impieghi delle donne non devono essere sottovalutati perché contribuiscono notevolmente alla forza dell’IS e alla sua capacità di minacciare la comunità locale e internazionale e, pertanto, è indispensabile comprendere meglio i ruoli delle donne nel terrorismo, come vengono assegnati, in che modo le donne contribuiscono ai suoi obiettivi operativi e, nonostante non sia applicabile un profilo generale di jihadista femminile, quali sono le motivazioni che le spingono ad aderire forzatamente o consapevolmente ad un gruppo estremista[226].
La realtà delle motivazioni femminili è un complicato mix di fattori personali, politici e religiosi innescati in momenti diversi da stimoli diversi e, come per gli uomini, ciò che ha ispirato una donna ad unirsi ad un gruppo in un primo momento potrebbe non essere lo stesso motivo per cui decide o è costretta a rimanere, anche in prima linea, in tale organizzazione[227]. Prove evidenti suggeriscono che il tasso di assunzioni involontarie sia molto più elevato per le donne che per gli uomini, frutto di disparità di genere ed esistenza di relazioni di potere disuguali tra donne e uomini e molte vengono talvolta considerate terroriste sebbene vittime di vincoli fisici o psicologici[228]. Quest’ultimo, tuttavia, è uno stereotipo che non rende giustizia al quadro completo, dal momento che ci sono molte donne che hanno avviato, sostenuto e incitato la causa estremista[229]. La letteratura sulle donne nel terrorismo suggerisce che la loro partecipazione alla violenza può essere modellata da una varietà di fattori che incidono sia a livello individuale che collettivo piuttosto che essere guidate da un’agenda “femminista” ma, secondo alcuni, le donne nel corso del processo si sono liberate dai vincoli stringenti di una società opprimente e paternalistica. In una certa misura, i ruoli mutevoli delle donne nel terrorismo, da sostenitori passivi a partecipanti attivi, hanno rispecchiato il progresso delle donne nella società ma difficilmente le donne coinvolte nel terrorismo possono essere considerate suffragette dei nostri giorni. Questa evoluzione nel terrorismo femminile, lungi dal costituire un riconoscimento dell’uguaglianza di genere, dipinge infatti un quadro più sfumato e ingannevole e, in base al grado di emarginazione che le donne sperimentano in alcune società, può rendere l’accettazione e il prestigio conferiti alle donne da un gruppo terroristico, estremamente attraente. In questo contesto, potremmo definire le donne coinvolte nelle organizzazioni terroristiche succubi al quadrato: laddove i loro diritti sono limitati, infatti, le donne hanno maggiori probabilità di rivolgersi al terrorismo[230], diventando anche vittime dell’illusione dell’emancipazione[231].
Soltanto una minoranza di organizzazioni terroristiche ha incorporato la liberazione delle donne nei propri obiettivi e quindi la maggior parte delle organizzazioni terroristiche ha visto nell’utilizzo delle donne una soluzione ad una necessità tattica-operativa, sfruttandole come attori in una causa che farà poco per il potenziamento dei loro diritti e della parità di genere in senso lato[232].
E’ troppo presto per giudicare se l’ISIS abbia schierato combattenti donne esclusivamente come parte del suo adattamento strategico e sarà in grado di recuperare la propria posizione ideologica limitando la partecipazione femminile o se le mujahidat, riusciranno a scalare la società e rimanere attive[233].
D’altra parte, l’accesso delle donne alle posizioni di comando è una delle caratteristiche più sorprendenti del PKK, gruppo fondato all’interno di una cultura patriarcale e religiosa che avrebbe comportato un ruolo subordinato per le donne e che invece lo fa emergere dagli altri gruppi ribelli proprio per i ruoli paritari offerti alla donne. L’affiliazione al PKK non solo ha fornito a queste donne l’emancipazione ma ha anche offerto loro un livello di status inaccessibile alle donne nella tradizionale società curda e l’idea di costruire una società in cui l’uguaglianza di genere sia una base portante, rafforza la determinazione delle donne curde nella loro lotta contro l’Islamic State[234].
L’esperienza delle donne nel PKK conferma ciò che è stato osservato in altre istituzioni militari para-militari e non: se circondate da un contesto sociale e culturale favorevole, le donne possono ricoprire occupazioni considerate “maschili” e la loro partecipazione migliora la forza organizzativa[235]. La promessa di uguaglianza, le prospettive di istruzione e di carriera, sono un motivo importante per cui le donne si uniscono all’estremismo violento e fornire dei modelli similari in società democratiche potrebbe essere un’attrattiva e solida alternativa al coinvolgimento alla violenza. Qualsiasi progresso verso l’uguaglianza di genere in quelle società senza equi diritti potrebbe essere dunque una via per prevenire l’affiliazione femminile al terrorismo[236].
A causa della loro posizione nel cuore della comunità e delle strutture di parentela, le donne sono spesso nella posizione migliore per identificare, prevedere e rispondere a potenziali vulnerabilità dell’estremismo[237] ma nonostante l’importante ruolo che le donne possono svolgere, sono raramente considerate partner rilevanti negli sforzi contro il terrorismo e il loro lavoro rimane cronicamente sotto-finanziato. Le politiche antiterrorismo senza input da parte delle donne locali, rischiano, al contrario, di rafforzare le norme sociali dannose che minano i diritti delle donne e che le avvicinano alla violenza[238].
Venti anni dopo l’approvazione della risoluzione 1325 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che invita all’aumento della partecipazione delle donne in questioni di sicurezza globale, il numero di donne che partecipano effettivamente ai processi di pace rimane marginale. Sebbene siano stati apportati miglioramenti, le donne rimangono sotto-rappresentate negli uffici pubblici, ai tavoli delle trattative e nelle missioni di mantenimento della pace e persistono un’inadeguatezza di disposizioni per la sicurezza delle donne vittime di violenza, bassi tassi di accuse e condanne per crimini di guerra contro le donne oltre ad una rarità di programmi di riabilitazione per il reinserimento delle donne nella società[239]. L’apparente proliferazione di attori femminili in gruppi estremisti richiede dunque strategie che contrastino efficacemente la loro partecipazione ma, soprattutto, è importante, oltre alla necessità di migliorare le conoscenze delle strutture di potere tra i sessi e sull’intersezione tra uguaglianza di genere e terrorismo, di una mirata e ferma volontà politica[240]. C’è dunque ancora molta strada da fare ed è improbabile che le prossime politiche di contro terrorismo abbiano successo, specialmente in alcuni settori ed in determinate aree geografiche, senza che venga garantita l’inclusione delle donne nei diversi ambiti della società civile ed in particolare nel settore della sicurezza[241].
Bibliografia
ABOUL-EZZ Merna, “Feminism vs. multiculturalism: an insight into Islamic feminism”, The Graduate Institute Geneva, 15 novembre 2019, https://graduateinstitute.ch/communications/news/feminism-vs-multiculturalism-insight-islamic-feminism;
BANKS Cindy, “Introduction: Women, Gender, and Terrorism: Gendering Terrorism” in Women & Criminal Justice, No 29, Taylor & Francis Group, LLC, 2019, pp. 181-187 disponibile al link https://doi.org/10.1080/08974454.2019.1633612;
BARSA Michelle, “Women, Gender, and the Rising Threat of Violent Extremism”, in Resilience and Resolution. A Compendium of Essays on Women, Peace and Security, marzo 2019;
BARTOLUCCI Valentina, Donne del Califfato. La figura femminile nello Stato Islamico, Fefè Editore, Roma, 2017;
BASILEO Deborah, “From ‘foreign fighters’ to ‘foreign terrorist fighters’: the evolution of terrorism”, in Sicurezza, Terrorismo e Società. International Journal N. 1, ItalianTeam for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, maggio 2017;
BHATTACHARYA Srobana, “Gender, insurgency, and terrorism: introduction to the special issue” in Small Wars & Insurgencies No 30, Routledge, 19 settembre 2019, pp. 1077-1088, disponibile al https://doi.org/10.1080/09592318.2019.1649833;
BENGIO Ofra, “Game Changers: Kurdish Women in Peace and War”, The Middle East Journal Vol. 70 No.1, Middle East Institute, 2016;
BIGIO Jamille, VOGELSTEIN Rachel, Women and Terrorism. Hidden Threats, Forgotten Partners, Council on Foreign Relations, New York, maggio 2019;
BISWAS Bidisha, DEYLAMI Shirin, “Radicalizing female empowerment: gender, agency, and affective appeals in Islamic State propaganda” in Small Wars & Insurgencies, VOL. 30, NOS. 6–7, Routledge, 19 settembre 2019, https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/09592318.2019.1649831;
BLOOM Mia, “Bombshells: Women and Terror”, Gender Issues No. 28, Springer Science Business Media, 2011;
BUCHANAN Cara Rae, “Women in terrorism: Exploring the motivations of women joining terrorist organizations”, Senior Honors Projects, 2010-oggi, No. 393, James Madison University, 2014, pp. 5-6, disponibile al https://commons.lib.jmu.edu/honors201019/393;
CRONIN Cat, “Recruiters and Fighters: Understanding Female Terrorists Today” in americansecurityproject.org, 8 luglio 2019, disponibile al sito web https://www.americansecurityproject.org/recruiters-and-fighters-understanding-female-terrorists-today/;
European Parliament’s Policy Department for Citizens’ Rights and Constitutional Affairs, Committee on Women’s Rights and Gender Equality, Radicalisation and violent extremism – focus on women:
How women become radicalised, and how to empower them to prevent radicalisation, dicembre 2017, disponibile al vhttp://www.europarl.europa.eu/supporting-analyses;
HANER, Murat, CULLEN Francis T., BENSON Michael L., “Women and the PKK: Ideology, Gender, and Terrorism” in International Criminal Justice Review 1-23, Georgia State University, 13 febbraio 2019, p. 8, disponibile al https://journals.sagepub.com/doi/pdf/10.1177/1057567719826632;
HEARNE Ellie B, “Participants, Enablers, and Preventers: The Roles of Women in Terrorism,” British International Studies Association annual conference, Leicester, UK, December 2009, p. 12, disponibile al https://www.bisa.ac.uk › passed_paper_id=95;
HOYLE Carolyn, BRADFORD Alexandra, FRENETT Ross, Becoming Mulan? Female Western Migrants to ISIS, Institute for Strategic Dialogue, Londra, 2015;
INGRAM, Haroro J., “A “Linkage-Based” Approach to Combating Militant Islamist Propaganda: A Two-Tiered Framework for Practitioners”, The International Centre for Counter-Terrorism – The Hague 7, no. 6 (2016);
INGRAM Haroro J., “How to Slaughter the Disbelievers: Insights into IS’ Instructional Video”, The Hague: International Centre for Counter-Terrorism – The Hague, 29 novembre 2015, disponibile alla pagina web https://icct.nl/publication/how-to-slaughter-the-disbelievers-insights-into-is- instructional-video/;
INGRAM, Kiriloi M.,“IS’s Appeal to Western Women: Policy Implications” in The International Centre for Counter-Terrorism – The Hague 8, no. 4, 2017;
LOMBARDI Marco, “IS2.0andBeyond: The Caliphate’s Communication Project” in Twitter and Jihad: the Communication Strategy of ISIS, Italian Institute for International Political Studies, Edizioni Epoké, Milano, 2015;
MILTON Daniel, Communication Breakdown: Unraveling the Islamic State’s Media Efforts, Combating Terrorism Center at West Point United States Military Academy, ottobre 2016;
NAGEL Robert Ulrich, “The known knows and known unknowns in data on Women, Peace and Security”, in Centre for Women, Peace and Security Paper Series No. 19/2019, London School of Economics and Political Science, Houghton Street, London pp. 6-9, http://www.lse.ac.uk/women-peace-security/publications/wps;
NILSSON Mark, “Kurdish women in the Kurdish–Turkish conflict. Perceptions, experiences, and strategies”, Middle Eastern Studies Vol.54 No.4, luglio 2018, disponibile al https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/00263206.2018.1443916;
NORVILLE Valerie, “The Role of Women in Global Security”, USIP Special Report No. 264, United States Institute for Peace, gennaio 2011;
ORTBALS Candice D., POLONI-STAUDINGER Lori M., Gender and Political Violence. Women Changing the Politics of Terrorism, Springer International Publishing AG, 2018;
OSCE, Organization for Security and Co-operation in Europe, Understanding the Role of Gender in Preventing and Countering Violent Extremism and Radicalization that Lead to Terrorism. Good Practices for Law Enforcement, Vienna, Maggio 2019;
OSCE – Gender Section -Office of the Secretary General – “From Commitment to Action”, Second OSCE Gender Equality Review Conference, Vienna, 12-13 giugno 2017;
PANUCCIO Erika, “Le donne di IS: l’illusione dell’emancipazione femminile”, Women in International security Italy, 5 dicembre 2017, disponibile al https://www.theatlantic.com/international/archive/2014/07/the-women-of- isis/375047;
POKALOVA Elena, Returning Islamist Foreign Fighters. Threats and Challenges to the West, Palgrave Macmillan, Springer Nature Switzerland AG, 2019;
QUADARELLA SANFELICE di MONTEFORTE Laura, Perché ci attaccano. Al Qaeda, l’Islamic State e il terrorismo fai da te, Aracne editore, 2017;
QUADARELLA SANFELICE DI MONTEFORTE Laura, “The role of women in Counter-Terrorism” in Resilience and Resolution. A Compendium of Essays on Women, Peace and Security, marzo 2019;
SALTMAN Erin Marie, SMITH Melanie, “Till Martyrdom Do Us Part. Gender and the ISIS Phenomenon”, Institute for Strategic Dialogue, 2015;
SPENCER Amanda N.,”The Hidden Face of Terrorism: An Analysis of the Women in Islamic State” in Journal of Strategic Security 9, n. 3, 2016, p.75, disponibile sul sito https://scholarcommons.usf.edu/jss/vol9/iss3/6;
TANK Pinar, “Kurdish Women in Rojava: From Resistance to Reconstruction”, Die Welt des Islams No 57, Centre for Islamic and Middle East Studies at the University of Oslo, Peace Research Institute Oslo , leiden, 2017;
UNITED NATIONS OFFICE ON DRUGS AND CRIME, Handbook on Gender Dimension of Criminal Justice Responses to Terrorism, United Nations Office at Vienna, Vienna, 2019;
United Nations Security Council, Counter-Terrorism Committee Executive Directorate (CTED), Gender Dimensions of the Response to Returning Foreign Terrorists Fighters: Research Perspectives, CTED Trends Report, febbraio 2019;
UN Women, United Nations Entity for Gender Equality and the Empowerment of Women, UN Women Sourcebook on Women, Peace and Security, ottobre 2012;
ZENN Jacob, PEARSON Elizabeth, “Women, Gender and the evolving tactics of Boko Haram” in Journal of Terrorism Research, Vol. 5 N.1, The Centre for the Study of Terrorism and Political Violence, University of St Andrews, Fife, Scozia, febbraio 2014;
ZHENG Catherine, “Women in ISIS: The Rise of Female Jihadists” in Harvard Political Review, 18 marzo 2017, http://harvardpolitics.com/world/women-isis-rise-female-jihadists/
[1] POKALOVA Elena, Returning Islamist Foreign Fighters. Threats and Challenges to the West, Palgrave Macmillan, Springer Nature Switzerland AG, 2019, p. 166.
[2] SALTMAN Erin Marie, SMITH Melanie, “Till Martyrdom Do Us Part. Gender and the ISIS Phenomenon”, Institute for Strategic Dialogue, 2015, p. 4.
[3] BIGIO Jamille, VOGELSTEIN Rachel, Women and Terrorism. Hidden Threats, Forgotten Partners, Council on Foreign Relations, New York, maggio 2019, p.1.
[4] CRONIN Cat, “Recruiters and Fighters: Understanding Female Terrorists Today” in americansecurityproject.org, 8 luglio 2019, disponibile al sito web https://www.americansecurityproject.org/recruiters-and-fighters-understanding-female-terrorists-today/, consultato in data 26 novembre 2019.
[5] BARSA Michelle, “Women, Gender, and the Rising Threat of Violent Extremism”, in Resilience and Resolution. A Compendium of Essays on Women, Peace and Security, marzo 2019, pp. 13-16.
[6] CRONIN Cat, “Recruiters and Fighters: Understanding Female Terrorists Today”, cit..
[7] SALTMAN Erin Marie, SMITH Melanie, “Till Martyrdom Do Us Part” cit., p. 5.
[8] BISWAS Bidisha, DEYLAMI Shirin, “Radicalizing female empowerment: gender, agency, and affective appeals in Islamic State propaganda” in Small Wars & Insurgencies, VOL. 30, NOS. 6–7, Routledge, 19 settembre 2019, https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/09592318.2019.1649831 ultima consultazione in data 12 dicembre 2019.
[9] HANER, Murat, CULLEN Francis T., BENSON Michael L., “Women and the PKK: Ideology, Gender, and Terrorism” in International Criminal Justice Review 1-23, Georgia State University, 13 febbraio 2019, p. 8, disponibile al https://journals.sagepub.com/doi/pdf/10.1177/1057567719826632, ultima consultazione 23 dicembre 2019.
[10] Ivi, p. 7.
[11] SALTMAN Erin Marie, SMITH Melanie, “Till Martyrdom Do Us Part” cit., pp. 4-5.
[12] QUADARELLA SANFELICE DI MONTEFORTE Laura, “The role of women in Counter-Terrorism” in Resilience and Resolution. A Compendium of Essays on Women, Peace and Security, marzo 2019, pp. 37-38.
[13] BANKS Cindy, “Introduction: Women, Gender, and Terrorism: Gendering Terrorism” in Women & Criminal Justice, No 29, Taylor & Francis Group, LLC, 2019, pp. 181-187 disponibile al link https://doi.org/10.1080/08974454.2019.1633612 ultima consultazione in data 10 dicembre 2019.
[14] BUCHANAN Cara Rae, “Women in terrorism: Exploring the motivations of women joining terrorist organizations”, Senior Honors Projects, 2010-oggi, No. 393, James Madison University, 2014, pp. 5-6, disponibile al https://commons.lib.jmu.edu/honors201019/393, ultima consultazione in data 20 dicembre 2019.
[15] NAGEL Robert Ulrich, “The known knows and known unknowns in data on Women, Peace and Security”, in Centre for Women, Peace and Security Paper Series No. 19/2019, London School of Economics and Political Science, Houghton Street, London pp. 6-9, http://www.lse.ac.uk/women-peace-security/publications/wps, ultima consultazione in data 12 dicembre 2019.
[16] BUCHANAN Cara Rae, “Women in terrorism: Exploring the motivations of women joining terrorist organizations”, cit., pp. 5-6.
[17] BIGIO Jamille, VOGELSTEIN Rachel, Women and Terrorism. Hidden Threats, Forgotten Partners, cit., p. 4.
[18] NAGEL Robert Ulrich, “The known knows and known unknowns in data on Women, Peace and Security”, cit., pp. 6-9.
[19] BUCHANAN Cara Rae, “Women in terrorism: Exploring the motivations of women joining terrorist organizations”, cit., pp. 65-67.
[20] BIGIO Jamille, VOGELSTEIN Rachel, Women and Terrorism. Hidden Threats, Forgotten Partners, cit., p. 4.
[21] BLOOM Mia, “Bombshells: Women and Terror”, Gender Issues No. 28, Springer Science Business Media, 2011, p. 9.
[22] European Parliament’s Policy Department for Citizens’ Rights and Constitutional Affairs, Committee on Women’s Rights and Gender Equality, Radicalisation and violent extremism – focus on women:
How women become radicalised, and how to empower them to prevent radicalisation, dicembre 2017, disponibile al vhttp://www.europarl.europa.eu/supporting-analyses, ultima consultazione in data 14 dicembre, p. 23.
[23] OSCE, Organization for Security and Co-operation in Europe, Understanding the Role of Gender in Preventing and Countering Violent Extremism and Radicalization that Lead to Terrorism. Good Practices for Law Enforcement, Vienna, Maggio 2019, pp. 48-49.
[24] BANKS Cindy, “Introduction: Women, Gender, and Terrorism: Gendering Terrorism”, cit., p. 183.
[25] Ibidem.
[26] BLOOM Mia, “Bombshells: Women and Terror”, cit., pp. 8-9.
[27] BARTOLUCCI Valentina, Donne del Califfato. La figura femminile nello Stato Islamico, Fefè Editore, Roma, 2017, pp. 80-81.
[28] BLOOM Mia, “Bombshells: Women and Terror”, cit., pp. 10-11.
[29] Ivi, pp. 11-13.
[30] ORTBALS Candice D., POLONI-STAUDINGER Lori M., Gender and Political Violence. Women Changing the Politics of Terrorism, Springer International Publishing AG, 2018, p. 34.
[31] BLOOM Mia, “Bombshells: Women and Terror”, cit., pp. 15-16.
[32] OSCE, Understanding the Role of Gender in Preventing and Countering Violent Extremism and Radicalization that Lead to Terrorism. cit., p. 48.
[33] BIGIO Jamille, VOGELSTEIN Rachel, Women and Terrorism. Hidden Threats, Forgotten Partners, cit., pp. 10-11.
[34] Ivi, pp. 50-51.
[35] BARTOLUCCI V., Donne del Califfato. La figura femminile nello Stato Islamico, cit., pp. 89-90.
[36] NAGEL Robert Ulrich, “The known knows and known unknowns in data on Women, Peace and Security”, cit., pp. 6-9.
[37] QUADARELLA SANFELICE DI MONTEFORTE Laura, “The role of women in Counter-Terrorism”, cit., pp. 35-38.
[38] BANKS Cindy, “Introduction: Women, Gender, and Terrorism: Gendering Terrorism”, cit., p. 183.
[39] HOYLE Carolyn, BRADFORD Alexandra, FRENETT Ross, Becoming Mulan? Female Western Migrants to ISIS, Institute for Strategic Dialogue, Londra, 2015, p. 8.
[40] INGRAM, Kiriloi M.,“IS’s Appeal to Western Women: Policy Implications” in The International Centre for Counter-Terrorism – The Hague 8, no. 4, 2017, p. 3.
[41] Due rapporti, uno della George Washington University e l’altro del Centro di Belgrado per la sicurezza e la politica, mostrano che le jihadiste americane vanno dai 15 ai 40 anni. Il Ministero degli Interni francese ha osservato che il 40% delle reclute francesi dell’ISIS erano donne e altre autorità francesi hanno documentato che nel 2015 almeno 220 donne hanno lasciato la Francia per unirsi all’ISIS. Esperti britannici hanno notato che nel 2016 almeno 60 donne hanno lasciato il Regno Unito per unirsi all’ISIS, unendosi a dozzine di altre reclute femminili provenienti da posti come Svezia, Belgio, Canada e America.
[42] HOYLE Carolyn, BRADFORD Alexandra, FRENETT Ross, Becoming Mulan? Female Western Migrants to ISIS, cit., p. 10.
[43] INGRAM, Kiriloi M., “IS’s Appeal to Western Women: Policy Implications”, cit., p. 3.
[44] HOYLE Carolyn, BRADFORD Alexandra, FRENETT Ross, Becoming Mulan? Female Western Migrants to ISIS, cit., p. 10.
[45] Ivi, pp. 11-12.
[46] Ibidem.
[47] BASILEO Deborah, “From ‘foreign fighters’ to ‘foreign terrorist fighters’: the evolution of terrorism”, in Sicurezza, Terrorismo e Società. International Journal N. 1, ItalianTeam for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, maggio 2017, p. 142.
[48] European Parliament’s Policy Department for Citizens’ Rights and Constitutional Affairs, Committee on Women’s Rights and Gender Equality, Radicalisation and violent extremism. Focus on women, cit., p. 23.
[49] BASILEO Deborah, “From ‘foreign fighters’ to ‘foreign terrorist fighters’: the evolution of terrorism”, cit., p. 144.
[50] Ivi, p. 142.
[51] Ibidem.
[52] Ibidem.
[53] HOYLE Carolyn, BRADFORD Alexandra, FRENETT Ross, “Becoming Mulan? Female Western Migrants to ISIS”, cit., pp. 11-12.
[54] Questo profilo caratterizza in particolare i combattenti stranieri occidentali piuttosto che quelli non occidentali. BASILEO Deborah, “From ‘foreign fighters’ to ‘foreign terrorist fighters’: the evolution of terrorism”, cit., pp. 142-143.
[55] Ibidem.
[56] European Parliament’s Policy Department for Citizens’ Rights and Constitutional Affairs, Committee on Women’s Rights and Gender Equality, Radicalisation and violent extremism – focus on women, cit., p. 7.
[57] OSCE, Understanding the Role of Gender in Preventing and Countering Violent Extremism and Radicalization that Lead to Terrorism. cit., p. 48.
[58] MILTON Daniel, Communication Breakdown: Unraveling the Islamic State’s Media Efforts, Combating Terrorism Center at West Point United States Military Academy, ottobre 2016, pp. 3-4.
[59] INGRAM, Haroro J., “A “Linkage-Based” Approach to Combating Militant Islamist Propaganda: A Two-Tiered Framework for Practitioners”, The International Centre for Counter-Terrorism – The Hague 7, no. 6 (2016), pp.4-5.
[60] Ibidem.
[61] INGRAM Haroro J., “How to Slaughter the Disbelievers: Insights into IS’ Instructional Video”, The Hague: International Centre for Counter-Terrorism – The Hague, 29 novembre 2015, disponibile alla pagina web https://icct.nl/publication/how-to-slaughter-the-disbelievers-insights-into-is- instructional-video/, ultima consultazione in data 7 dicembre 2019.
[62] Uno studio mostra che in oltre 9.000 pubblicazioni visive analizzate più della metà si focalizza su governance, giustizia, l’importanza della pratica religiosa e la vita nel califfato mentre la violenza è presente solo nel 9% circa dei campioni di propaganda in esame. Ibidem.
[63] Ibidem.
[64] OSCE, Understanding the Role of Gender in Preventing and Countering Violent Extremism and Radicalization that Lead to Terrorism, cit., p. 48.
[65] United Nations Security Council, Counter-Terrorism Committee Executive Directorate (CTED), Gender Dimensions of the Response to Returning Foreign Terrorists Fighters: Research Perspectives, CTED Trends Report, febbraio 2019, pp. 14-15.
[66] OSCE, Understanding the Role of Gender in Preventing and Countering Violent Extremism and Radicalization that Lead to Terrorism, cit., pp. 46-47.
[67] INGRAM, Kiriloi M., “IS’s Appeal to Western Women: Policy Implications”, cit., pp. 7-8.
[68] European Parliament’s Policy Department for Citizens’ Rights and Constitutional Affairs, Committee on Women’s Rights and Gender Equality, Radicalisation and violent extremism – focus on women, cit., pp. 23-25.
[69] L’ultimo numero della rivista Rumiyah è stato pubblicato nel settembre 2017. Ibidem.
[70] INGRAM, Kiriloi M., “IS’s Appeal to Western Women: Policy Implications”, cit., pp. 7-8.
[71] BLOOM Mia, “Bombshells: Women and Terror”, cit., pp. 11-13.
[72] INGRAM, Kiriloi M., “IS’s Appeal to Western Women: Policy Implications”, cit., p. 7.
[73] United Nations Security Council, Counter-Terrorism Committee Executive Directorate (CTED), Gender Dimensions of the Response to Returning Foreign Terrorists Fighters: Research Perspectives, cit., pp. 14-15.
[74] European Parliament’s Policy Department for Citizens’ Rights and Constitutional Affairs, Committee on Women’s Rights and Gender Equality, Radicalisation and violent extremism – focus on women, cit., pp. 29-31.
[75] INGRAM, Kiriloi M., “IS’s Appeal to Western Women: Policy Implications.” The International Centre for Counter-Terrorism – The Hague 8, no. 4 (2017), p. 7.
[76] Ibidem.
[77] United Nations Security Council, Counter-Terrorism Committee Executive Directorate (CTED), Gender Dimensions of the Response to Returning Foreign Terrorists Fighters: Research Perspectives, cit., pp. 14-15.
[78] European Parliament’s Policy Department for Citizens’ Rights and Constitutional Affairs, Committee on Women’s Rights and Gender Equality, Radicalisation and violent extremism – focus on women, cit., pp. 29-31.
[79] LOMBARDI Marco, “IS2.0andBeyond:The Caliphate’s Communication Project” in Twitter and Jihad: the Communication Strategy of ISIS, Italian Institute for International Political Studies, Edizioni Epoké, Milano, 2015, p. 85.
[80] Ibidem.
[81] Ivi, p. 89.
[82] SPENCER Amanda N., ”The Hidden Face of Terrorism: An Analysis of the Women in Islamic State” in Journal of Strategic Security 9, n. 3, 2016, p.75, disponibile sul sito https://scholarcommons.usf.edu/jss/vol9/iss3/6, ultima consultazione 13 dicembre 2019.
[83] Ivi, p.76.
[84] BLOOM Mia, “Bombshells: Women and Terror”, cit., p. 2.
[85] SPENCER Amanda N.,”The Hidden Face of Terrorism: An Analysis of the Women in Islamic State”, cit., pp. 77-78.
[86] BLOOM Mia, “Bombshells: Women and Terror”, cit., p. 2.
[87] SALTMAN Erin Marie, SMITH Melanie, “Till Martyrdom Do Us Part. Gender and the ISIS Phenomenon”, cit., pp. 4-5.
[88] SPENCER Amanda N., “The Hidden Face of Terrorism: An Analysis of the Women in Islamic State” , cit., pp. 76-77.
[89] ZENN Jacob, PEARSON Elizabeth, “Women, Gender and the evolving tactics of Boko Haram” in Journal of Terrorism Research, Vol. 5 N.1, The Centre for the Study of Terrorism and Political Violence, University of St Andrews, Fife, Scozia, febbraio 2014, p. 46.
[90] SPENCER Amanda N., “The Hidden Face of Terrorism: An Analysis of the Women in Islamic State”, cit., pp. 76-77.
[91] CRONIN Cat, “Recruiters and Fighters: Understanding Female Terrorists Today” in americansecurityproject.org, 8 luglio 2019, disponibile al sito web https://www.americansecurityproject.org/recruiters-and-fighters-understanding-female-terrorists-today/, consultato in data 26 novembre 2019.
[92] SPENCER Amanda N.,”The Hidden Face of Terrorism: An Analysis of the Women in Islamic State”, cit., pp. 76-77.
[93] BLOOM Mia, “Bombshells: Women and Terror”, cit., pp. 4-5.
[94] Ibidem.
[95] BANKS Cindy, “Introduction: Women, Gender, and Terrorism: Gendering Terrorism”, cit., p. 184.
[96] BLOOM Mia, “Bombshells: Women and Terror”, cit., p. 6.
[97] Ivi, p. 2.
[98] Ivi, p. 3.
[99] Ivi, p. 1.
[100] HEARNE Ellie B, “Participants, Enablers, and Preventers: The Roles of Women in Terrorism,” British International Studies Association annual conference, Leicester, UK, December 2009, p. 12, disponibile al https://www.bisa.ac.uk › passed_paper_id=95, ultima consultazione in data 18 dicembre 2019.
[101] BANKS Cindy, “Introduction: Women, Gender, and Terrorism: Gendering Terrorism”, cit., p. 184.
[102] BIGIO Jamille, VOGELSTEIN Rachel, Women and Terrorism. Hidden Threats, Forgotten Partners, cit., pp. 4-5.
[103] Nel 2014, una rete di quindici donne negli Stati Uniti è stata accusata di aver trasferito migliaia di dollari a militanti di al-Shabab in Somalia, usando piccole transazioni e un linguaggio in codice per evitare di essere scoperte. Donne palestinesi sono state arrestate per aver condotto organizzazioni benefiche fraudolente che hanno incanalò grandi somme di denaro nella Jihad islamica palestinese e in Pakistan, le mogli dei leader di Jemaah Islamiyah hanno prestato servizio come contabili del gruppo gestendo importanti operazioni di raccolta fondi. Ibidem.
[104] INGRAM, Kiriloi M., “IS’s Appeal to Western Women: Policy Implications”, cit., p. 6.
[105] BIGIO Jamille, VOGELSTEIN Rachel, Women and Terrorism. Hidden Threats, Forgotten Partners, cit., pp. 4-5.
[106] Nella rivista Dabiq illustrava ciò che una “vera” donna musulmana deve fare per salvarsi dalle crisi causate dall’Occidente: le donne possono diventare “sostenitrici” della causa. Ciò può avvenire svolgendo due doveri: in primo luogo, riconoscendo che vivere in Occidente e associarsi al kufr (incredulità) è un importante fattore che contribuisce alle crisi dei musulmani. Pertanto, il loro secondo dovere è quello di abbandonare amici e parenti nella Darul-Kufr (terra dell’incredulità) ed eseguire l’hijrah per darul-Islam (la migrazione verso le terre dell’Islam), definita come l’opzione intelligente, sicura e moralmente giusta per le donne musulmane occidentali. INGRAM, Kiriloi M., “IS’s Appeal to Western Women: Policy Implications”, cit., pp. 5-6.
[107] BIGIO Jamille, VOGELSTEIN Rachel, Women and Terrorism. Hidden Threats, Forgotten Partners, cit., p. 3.
[108] POKALOVA Elena, Returning Islamist Foreign Fighters. Threats and Challenges to the West, cit., p. 168.
[109] UNITED NATIONS OFFICE ON DRUGS AND CRIME, Handbook on Gender Dimension of Criminal Justice Responses to Terrorism, United Nations Office at Vienna, Vienna, 2019, p. 32.
[110] Ivi, p. 34.
[111] Ibidem.
[112] HANER Murat, CULLEN Francis T., BENSON Michael L., “Women and the PKK: Ideology, Gender, and Terrorism” in International Criminal Justice Review 1-2, Georgia State University, 2019, p. 14.
[113] POKALOVA Elena, Returning Islamist Foreign Fighters. Threats and Challenges to the West, cit., p. 170.
[114] La situazione è diversa quando si tratta di una jihad di tipo difensivo ovvero quella che si applica in caso di invasioni o attacchi nemici. La dottrina della jihad difensiva impone che essa diventi una responsabilità individuale (fard al-ayn) e, in questo caso, tutti, comprese le donne, dovrebbero contribuire. Diventa dunque lecito per le donne impegnarsi nella jihad difensiva senza alcuna autorizzazione o presenza di un tutore maschio. Ibidem.
[115] INGRAM, Kiriloi M., “IS’s Appeal to Western Women: Policy Implications” cit., p. 6.
[116] POKALOVA Elena, Returning Islamist Foreign Fighters. Threats and Challenges to the West, cit., p. 170.
[117] BIGIO Jamille, VOGELSTEIN Rachel, Women and Terrorism. Hidden Threats, Forgotten Partners, cit., pp. 1-2.
[118] ZENN Jacob, PEARSON Elizabeth, “Women, Gender and the evolving tactics of Boko Haram”, cit., p. 46.
[119] BARTOLUCCI Valentina, Donne del Califfato. La figura femminile nello Stato Islamico, Fefè Editore, Roma, 2017, pp. 133-141.
[120] BIGIO Jamille, VOGELSTEIN Rachel, Women and Terrorism. Hidden Threats, Forgotten Partners, cit., pp. 1-2.
[121] Ivi, pp. 10-11.
[122] UNITED NATIONS OFFICE ON DRUGS AND CRIME, Handbook on Gender Dimension of Criminal Justice Responses to Terrorism, cit., p. 31.
[123] BIGIO Jamille, VOGELSTEIN Rachel, Women and Terrorism. Hidden Threats, Forgotten Partners, Council on Foreign Relations, New York, maggio 2019, pp. 5-7.
[124] Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha identificato come foreign fighters qualunque individuo che esca dal territorio di residenza o domicilio con lo scopo di partecipare, pianificare e preparare un atto terroristico. Con la risoluzione 2178 (2014) il Consiglio di sicurezza unisce il concetto di “combattenti stranieri” con quello nuovo di “combattenti terroristi stranieri”, una figura che differisce dalla storia, dalle radici e dalle motivazioni dei combattenti stranieri del passato. Comprende giovani uomini e donne, principalmente studenti, senza precedenti esperienze sul campo di battaglia o forti legami etnici o di parentela con la Siria o l’Iraq, spinti dalla noia, dalla disaffezione e dall’alienazione che li hanno portati a cercare avventure e uno scopo più grande nella loro vita, piuttosto che dall’ideologia e dalla religione estremista. Questo nuovo profilo di combattente straniero moderno, che si applica anche ai cosiddetti “lupi solitari”, implica che i combattenti stranieri siano considerati terroristi anche se non commettono fisicamente reati terroristici in quanto è sufficiente l’intenzione di perpetrare (cioè finanziare, pianificare o preparare) atti terroristici. Quindi, vale la pena sottolineare che è punibile non solo qualsiasi individuo che commette o intende commettere un atto terroristico; i combattenti terroristi stranieri non sono solo puniti per l’adesione all’organizzazione terroristica ma è punibile anche chiunque sostenga e faciliti le attività dei gruppi terroristici, finanziandoli, fornendo/vendendo loro armi e altro materiale, coadiuvandoli nel reclutamento o in altro modo. BASILEO Deborah, “From ‘foreign fighters’ to ‘foreign terrorist fighters’: the evolution of terrorism”, cit., pp. 156-157.
[125] BIGIO Jamille, VOGELSTEIN Rachel, Women and Terrorism. Hidden Threats, Forgotten Partners, Council on Foreign Relations, New York, maggio 2019, pp. 5-7.
[126] BLOOM Mia, “Bombshells: Women and Terror”, cit., p. 2.
[127] POKALOVA Elena, Returning Islamist Foreign Fighters. Threats and Challenges to the West, cit., pp. 170-177.
[128] Ivi, p. 172.
[129] BLOOM Mia, “Bombshells: Women and Terror”, cit., pp. 13-15.
[130] QUADARELLA SANFELICE di MONTEFORTE Laura, Perché ci attaccano. Al Qaeda, l’Islamic State e il terrorismo fai da te, Aracne editore, 2017, pag. 184; “Comment on arresting our Muslim sisters in France”, Inspire Guide, Is. 3, 10 settembre 2016.
[131] POKALOVA Elena, Returning Islamist Foreign Fighters. Threats and Challenges to the West, cit., p. 172.
[132] ORTBALS Candice D., POLONI-STAUDINGER Lori M., Gender and Political Violence, cit., p. 46.
[133] BLOOM Mia, “Bombshells: Women and Terror”, cit., pp. 15-16.
[134] ORTBALS Candice D., POLONI-STAUDINGER Lori M., Gender and Political Violence, cit., pp. 45-47.
[135] Ibidem.
[136] POKALOVA Elena, Returning Islamist Foreign Fighters. Threats and Challenges to the West, cit., pp. 170-177.
[137] SPENCER Amanda N.,”The Hidden Face of Terrorism: An Analysis of the Women in Islamic State”, cit., p. 74.
[138] ORTBALS Candice D., POLONI-STAUDINGER Lori M., Gender and Political Violence, cit., p. 43.
[139] UNITED NATIONS OFFICE ON DRUGS AND CRIME, Handbook on Gender Dimension of Criminal Justice Responses to Terrorism, cit., pp. 32-33.
[140] Ivi, 35-36.
[141] SPENCER Amanda N.,”The Hidden Face of Terrorism: An Analysis of the Women in Islamic State”, cit., pp.74-98.
[142] POKALOVA Elena, Returning Islamist Foreign Fighters. Threats and Challenges to the West, cit., p. 189.
[143] Ibidem.
[144] INGRAM, Kiriloi M., “IS’s Appeal to Western Women: Policy Implications”, cit., p. 6.
[145] UNITED NATIONS OFFICE ON DRUGS AND CRIME, Handbook on Gender Dimension of Criminal Justice Responses to Terrorism, cit., pp. 35-36.
[146] POKALOVA Elena, Returning Islamist Foreign Fighters. Threats and Challenges to the West, cit., pp. 185-186.
[147] PANUCCIO Erika, “Le donne di IS: l’illusione dell’emancipazione femminile”, Women in International security Italy, 5 dicembre 2017, disponibile al https://www.theatlantic.com/international/archive/2014/07/the-women-of- isis/375047/.
[148] POKALOVA Elena, Returning Islamist Foreign Fighters. Threats and Challenges to the West, cit., p. 189.
[149] TANK Pinar, “Kurdish Women in Rojava: From Resistance to Reconstruction”, Die Welt des Islams No 57, Centre for Islamic and Middle East Studies at the University of Oslo, Peace Research Institute Oslo , Leiden, 2017, p. 423.
[150] BENGIO Ofra, “Game Changers: Kurdish Women in Peace and War”, The Middle East Journal Vol. 70 No.1, Middle East Institute, 2016, p. 30, disponibile al http://dx.doi.org/10.3751/70.1.12, consultato in data 8 gennaio 2020.
[151] BENGIO Ofra, “Game Changers: Kurdish Women in Peace and War”, cit., pp. 30-31.
[152] TANK Pinar, “Kurdish Women in Rojava: From Resistance to Reconstruction”, cit., p. 423.
[153] Oggi, lo status delle milizie curde come organizzazione terroristica è una questione controversa. Alcuni Paesi e organizzazioni – tra cui Stati Uniti, Inghilterra, Unione Europea, Turchia e molti altri – hanno designato il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) come un gruppo terroristico per i suoi metodi di lotta non convenzionali anche contro obiettivi civili oltre che militari turchi. Tuttavia, altri Stati e organizzazioni – tra cui le Nazioni Unite, la Cina, la Russia e la Svizzera – hanno rifiutato di designare il PKK come gruppo terroristico ma consideralo piuttosto come parte belligerante in un conflitto armato. Inoltre, nel 2008, il Tribunale dell’UE ha chiesto al Consiglio dell’Unione Europea di rimuovere il PKK dall’elenco delle organizzazioni terroristiche straniere perché non sussistono prove sufficienti per includerlo, irregolarità sentenziata nel 2018 dalla Corte di Giustizia Europea e confermata dalla Corte di Cassazione di Bruxelles.
[154] TANK Pinar, “Kurdish Women in Rojava: From Resistance to Reconstruction”, cit., p. 406.
[155] BENGIO Ofra, Game Changers: Kurdish Women in Peace and War , The Middle East Journal Vol. 70 No.1, Middle East Institute, 2016, pp. 30-31.
[156] Ivi, p. 39.
[157] Ivi, p. 34.
[158] HANER Murat, CULLEN Francis T., BENSON Michael L., “Women and the PKK: Ideology, Gender, and Terrorism” in International Criminal Justice Review 1-23, cit., p. 4.
[159] Ivi, p. 5.
[160] BENGIO Ofra, “Game Changers: Kurdish Women in Peace and War”, cit., p. 39.
[161] TANK Pinar, “Kurdish Women in Rojava: From Resistance to Reconstruction”, cit., p. 427.
[162] HANER Murat, CULLEN Francis T., BENSON Michael L., “Women and the PKK: Ideology, Gender, and Terrorism”, cit., p. 12.
[163] TANK Pinar, “Kurdish Women in Rojava: From Resistance to Reconstruction”, cit., p. 406.
[164] HANER Murat, CULLEN Francis T., BENSON Michael L., “Women and the PKK: Ideology, Gender, and Terrorism”, cit., pp. 10-11.
[165] NILSSON Mark, “Kurdish women in the Kurdish–Turkish conflict. Perceptions, experiences, and strategies”, Middle Eastern Studies Vol.54 No.4, luglio 2018, disponibile al https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/00263206.2018.1443916, ultima consultazione 7 gennaio 2019.
[166] Ivi, p.9.
[167] BENGIO Ofra, “Game Changers: Kurdish Women in Peace and War”, cit., p. 38.
[168] HANER Murat, CULLEN Francis T., BENSON Michael L., “Women and the PKK: Ideology, Gender, and Terrorism”, cit., p. 18.
[169] TANK Pinar, “Kurdish Women in Rojava: From Resistance to Reconstruction”, cit., p. 423.
[170] HANER Murat, CULLEN Francis T., BENSON Michael L., “Women and the PKK: Ideology, Gender, and Terrorism”, cit., p. 18.
[171] Storicamente parlando, furono i curdi in Iran a fare da pionieri all’idea dell’uguaglianza di genere e della partecipazione delle donne al movimento nazionalista curdo. Tuttavia, queste attività cessarono con il crollo della Repubblica alla fine del 1946 e quindi, le donne curde in Iran attualmente sono in ritardo rispetto alle loro controparti nelle altre parti del Kurdistan continuando a soffrire di una doppia oppressione, quella della Repubblica islamica da un lato e della società curda tradizionale dall’altro. BENGIO Ofra, “Game Changers: Kurdish Women in Peace and War”, cit., pp. 40-42.
[172] Ivi, p. 34.
[173] Ivi, pp. 37-38.
[174] HANER, Murat, CULLEN Francis T., BENSON Michael L., “Women and the PKK: Ideology, Gender, and Terrorism”, cit., p. 18.
[175] TANK Pinar, “Kurdish Women in Rojava: From Resistance to Reconstruction”, cit., p. 426.
[176] BENGIO Ofra, “Game Changers: Kurdish Women in Peace and War”, cit., p. 46.
[177] Ivi, p. 31.
[178] Ivi, p. 46.
[179]HANER, Murat, CULLEN Francis T., BENSON Michael L., “Women and the PKK: Ideology, Gender, and Terrorism”, cit., p. 17.
[180] QUADARELLA SANFELICE DI MONTEFORTE Laura, “The role of women in Counter-Terrorism”, cit., pp. 35-38.
[181] BARSA Michelle, “Women, Gender, and the Rising Threat of Violent Extremism”, cit., pp. 13-16.
[182] QUADARELLA SANFELICE DI MONTEFORTE Laura, “The role of women in Counter-Terrorism”, cit., pp. 35-38.
[183] BIGIO Jamille, VOGELSTEIN Rachel, Women and Terrorism. Hidden Threats, Forgotten Partners, cit., p. 1.
[184] European Parliament’s Policy Department for Citizens’ Rights and Constitutional Affairs, Committee on Women’s Rights and Gender Equality, Radicalisation and violent extremism. Focus on women, cit., p. 33.
[185] OSCE – Gender Section -Office of the Secretary General – “From Commitment to Action”, Second OSCE Gender Equality Review Conference, Vienna, 12-13 giugno 2017, p. 15.
[186] NORVILLE Valerie, “The Role of Women in Global Security”, USIP Special Report No. 264, United States Institute for Peace, gennaio 2011, p.1.
[187] BIGIO Jamille, VOGELSTEIN Rachel, Women and Terrorism. Hidden Threats, Forgotten Partners, cit., p. 8.
[188] Ivi, pp. 7-9.
[189] Ivi, p. 8.
[190] UN Women, United Nations Entity for Gender Equality and the Empowerment of Women, UN Women Sourcebook on Women, Peace and Security, ottobre 2012, p. 2.
[191] OSCE – Gender Section -Office of the Secretary General – “From Commitment to Action”, cit., p. 13.
[192] BLOOM Mia, “Bombshells: Women and Terror”, cit., p. 19.
[193] ABOUL-EZZ Merna, “Feminism vs. multiculturalism: an insight into Islamic feminism”, The Graduate Institute Geneva, 15 novembre 2019, https://graduateinstitute.ch/communications/news/feminism-vs-multiculturalism-insight-islamic-feminism.
[194] Ibidem.
[195] Ibidem.
[196] OSCE, Organization for Security and Co-operation in Europe, Understanding the Role of Gender in Preventing and Countering Violent Extremism and Radicalization that Lead to Terrorism. Good Practices for Law Enforcement, cit., pp. 42-43.
[197] United Nations Security Council, Counter-Terrorism Committee Executive Directorate (CTED), Gender Dimensions of the Response to Returning Foreign Terrorists Fighters: Research Perspectives, cit., pp. 14-15.
[198] BARSA Michelle, “Women, Gender, and the Rising Threat of Violent Extremism”, cit., pp. 13-16.
[199] INGRAM, Kiriloi M., “IS’s Appeal to Western Women: Policy Implications”, cit., p. 10.
[200] INGRAM, Haroro J., “A “Linkage-Based” Approach to Combating Militant Islamist Propaganda: A Two-Tiered Framework for Practitioners”, cit., pp.4-5.
[201] ZHENG Catherine, “Women in ISIS: The Rise of Female Jihadists” in Harvard Political Review, 18 marzo 2017, http://harvardpolitics.com/world/women-isis-rise-female-jihadists/, consultato in data 12 dicembre 2019.
[202] United Nations Security Council, Counter-Terrorism Committee Executive Directorate (CTED), Gender Dimensions of the Response to Returning Foreign Terrorists Fighters:Research Perspectives, cit., pp. 18-20.
[203] OSCE, Organization for Security and Co-operation in Europe, Understanding the Role of Gender in Preventing and Countering Violent Extremism and Radicalization that Lead to Terrorism. Good Practices for Law Enforcement, cit., pp. 42-43.
[204] NORVILLE Valerie, “The Role of Women in Global Security”, USIP Special Report No. 264, United States Institute for Peace, gennaio 2011, p. 8.
[205] BIGIO Jamille, VOGELSTEIN Rachel, Women and Terrorism. Hidden Threats, Forgotten Partners, cit., pp. 7-10.
[206] NORVILLE Valerie, “The Role of Women in Global Security”, cit., p. 7.
[207] Ivi, p.1.
[208] BARSA Michelle, “Women, Gender, and the Rising Threat of Violent Extremism”, cit., pp. 13-16.
[209] OSCE – Gender Section -Office of the Secretary General – “From Commitment to Action”, cit., pp. 13-14.
[210] NORVILLE Valerie, “The Role of Women in Global Security”, cit., p.8.
[211] OSCE – Gender Section -Office of the Secretary General – “From Commitment to Action”, cit., pp. 13-14.
[212] BARSA Michelle, “Women, Gender, and the Rising Threat of Violent Extremism”, cit., pp. 13-16.
[213] NORVILLE Valerie, “The Role of Women in Global Security”, cit., p.8.
[214] BLOOM Mia, “Bombshells: Women and Terror”, cit., p. 19.
[215] United Nations Security Council, Counter-Terrorism Committee Executive Directorate (CTED), Gender Dimensions of the Response to Returning Foreign Terrorists Fighters: Research Perspectives, cit., pp. 18-20.
[216] OSCE, Organization for Security and Co-operation in Europe, Understanding the Role of Gender in Preventing and Countering Violent Extremism and Radicalization that Lead to Terrorism. Good Practices for Law Enforcement, cit., pp. 54-56.
[217] BIGIO Jamille, VOGELSTEIN Rachel, Women and Terrorism. Hidden Threats, Forgotten Partners, cit., p. 9.
[218] NORVILLE Valerie, “The Role of Women in Global Security”, cit., p. 8.
[219] UN Women, United Nations Entity for Gender Equality and the Empowerment of Women, UN Women Sourcebook on Women, Peace and Security, ottobre 2012, p.
[220] NORVILLE Valerie, “The Role of Women in Global Security”, cit., p. 7.
[221] BHATTACHARYA Srobana, “Gender, insurgency, and terrorism: introduction to the special issue” in Small Wars & Insurgencies No 30, Routledge, 19 settembre 2019, pp. 1077-1088, disponibile al https://doi.org/10.1080/09592318.2019.1649833, ultima consultazione in data 17 dicembre 2019.
[222] NORVILLE Valerie, “The Role of Women in Global Security”, cit., p.1.
[223] BHATTACHARYA Srobana, “Gender, insurgency, and terrorism: introduction to the special issue”. cit.. p. 1085.
[224] HEARNE Ellie B, “Participants, Enablers, and Preventers: The Roles of Women in Terrorism”, cit., p.12.
[225] POKALOVA Elena, Returning Islamist Foreign Fighters. Threats and Challenges to the West, cit., p. 188.
[226] BHATTACHARYA Srobana (2019), “Gender, insurgency, and terrorism: introduction to the special issue”, cit., p. 1078.
[227] BLOOM Mia, “Bombshells: Women and Terror”, cit., p. 11.
[228] QUADARELLA SANFELICE DI MONTEFORTE Laura, “The role of women in Counter-Terrorism”, cit., pp. 35-38.
[229] OSCE, Organization for Security and Co-operation in Europe, Understanding the Role of Gender in Preventing and Countering Violent Extremism and Radicalization that Lead to Terrorism. Good Practices for Law Enforcement, cit., pp. 48-49.
[230] HEARNE Ellie B, “Participants, Enablers, and Preventers: The Roles of Women in Terrorism” cit., p.13.
[231] PANUCCIO Erika, “Le donne di IS: l’illusione dell’emancipazione femminile”, cit..
[232] BHATTACHARYA Srobana (2019), “Gender, insurgency, and terrorism: introduction to the special issue” cit., p. 1080.
[233] POKALOVA Elena, Returning Islamist Foreign Fighters. Threats and Challenges to the West, cit., p. 189.
[234] TANK Pinar, “Kurdish Women in Rojava: From Resistance to Reconstruction”, Die Welt des Islams cit., p. 427.
[235] HANER, Murat, CULLEN Francis T., BENSON Michael L., “Women and the PKK: Ideology, Gender, and Terrorism”, cit., p.17.
[236] HEARNE Ellie B, “Participants, Enablers, and Preventers: The Roles of Women in Terrorism”, cit., p.13.
[237] OSCE, Organization for Security and Co-operation in Europe, Understanding the Role of Gender in Preventing and Countering Violent Extremism and Radicalization that Lead to Terrorism. Good Practices for Law Enforcement, cit., pp. 54-56.
[238] BIGIO Jamille, VOGELSTEIN Rachel, Women and Terrorism. Hidden Threats, Forgotten Partners, cit., p. 9.
[239] UN Women, United Nations Entity for Gender Equality and the Empowerment of Women, UN Women Sourcebook on Women, Peace and Security, ottobre 2012, p. 2.
[240] United Nations Security Council, Counter-Terrorism Committee Executive Directorate (CTED), Gender Dimensions of the Response to Returning Foreign Terrorists Fighters: Research Perspectives, cit., p. 22.
[241] QUADARELLA SANFELICE DI MONTEFORTE Laura, “The role of women in Counter-Terrorism”, cit., pp. 35-38.