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LA DIFFICILE EREDITÀ DEL 2022:
COSA ASPETTARSI NEL 2023
Amm. Sq. Ferdinando SANFELICE di MONTEFORTE
1. Introduzione
Uno tra i fenomeni più ricorrenti, nei rapporti tra Stati e popoli, è l’alternanza di periodi di relativa calma con fasi drammatiche in cui le crisi e i conflitti si susseguono e si moltiplicano con una velocità impressionante, tanto da far temere che ogni equilibrio di potenza sia destinato a crollare, con nuovi attori che si affacciano alla ribalta e vecchi protagonisti che decadono in modo irreversibile, specie quando decidono di lanciarsi in imprese superiori alle loro forze. L’aspetto più drammatico è che questi rivolgimenti generano un bagno di sangue tale che la demografia dei contendenti ne risente per i decenni successivi.
Spesso, basta un evento traumatico per scatenare, quasi in una reazione a catena, queste tragedie, un fenomeno che gli storici hanno chiamato “l’effetto Sarajevo”, in ricordo di quanto accadde nell’estate del 1914, quando l’attentato contro l’Arciduca d’Austria Francesco Ferdinando scatenò la Prima Guerra Mondiale, al termine della quale il panorama geostrategico del mondo era profondamente cambiato.
Questo è ciò che il 2022 ci lascia: un profondo cambiamento del panorama geopolitico, insieme a un approfondimento delle ostilità tra Potenze e tante altre Nazioni più piccole.
Eppure, fino a due anni fa, potevamo credere in una pacificazione a livello mondiale, con i rapporti tra le Potenze che erano, tutto sommato, buoni, e la globalizzazione che stava favorendo il commercio tra i continenti e tra i popoli, distribuendo tra tutti gli attori coinvolti le ricchezze che derivavano da questo interscambio. Certo, molti si lamentavano del fatto che questa ridistribuzione non avvenisse in modo equo – almeno dal loro punto di vista – ma vi erano due vantaggi, in quella situazione di commercio tra tutti gli attori mondiali, vantaggi che ora sembrano prossimi a scomparire.
Il primo vantaggio, per usare le parole di Braudel era che “Una grande civiltà non può vivere senza un’ampia circolazione. Beni, merci, tecniche, tutto a poco a poco transiterà attraverso le rotte marittime”[1]. Questo è un fenomeno noto, fin dal Medioevo: infatti, due attori che stabiliscono scambi commerciali tra loro imparano a conoscersi, e ognuno di loro capisce il retroterra culturale e l’identità (o meglio la civiltà) che caratterizza la controparte. Una maggiore comprensione tra civiltà diverse è, quindi, il primo vantaggio offerto dal commercio, specie da quello tra continenti diversi.
Il secondo vantaggio della globalizzazione era l’incremento del livello di “interdipendenza”. Accade quasi sempre che i vari attori impegnati nello scambio di beni e servizi finiscano per dipendere gli uni dagli altri, per quanto riguarda i prodotti e la tecnologia. Questa interdipendenza spinge (o almeno dovrebbe spingere) a non farsi troppo male, anche in caso di contenziosi.
Le aspettative, dietro la creazione di legami di interdipendenza sono sempre state alte. Ad esempio, il 4 luglio 1962 il Presidente americano John F. Kennedy, nel suo discorso di Filadelfia, affermò che gli Stati Uniti, “agendo da soli, non possono stabilire [un sistema di] giustizia in tutto il mondo; non possono assicurare la propria tranquillità in Patria, né provvedere alla difesa comune, promuovere il benessere generale, né assicurare la benedizione della libertà a loro stessi e alla posterità. Ma se uniti alle altre Nazioni libere, essi possono conseguire tutto ciò e anche di più. Possono assistere le Nazioni in via di sviluppo nello sbarazzarsi del giogo della povertà, possono equilibrare il commercio mondiale e i pagamenti al livello più alto possibile di crescita. Possono creare un deterrente sufficientemente potente da scoraggiare ogni aggressione, e infine possono aiutare nel conseguimento un mondo di diritto e di libera scelta, mettendo al bando il mondo di guerra e di coercizione”[2].
Anche se, all’epoca, il Presidente americano cercava di incrementare l’interdipendenza degli Stati Uniti solo con l’Europa, alcune Nazioni del Vecchio Continente, come la Germania e l’Italia, applicarono con successo questo approccio nei confronti dell’Unione Sovietica, riducendo così le tensioni esistenti tra i due Blocchi contrapposti.
L’implosione del mondo sovietico, nel 1991, diede la stura a una serie di instabilità e di conflitti tra attori secondari, tesi a risolvere vecchie pendenze, rimaste congelate per effetto del confronto bipolare. Quello che si sperava di ottenere, però, con la globalizzazione, era una tale generalizzazione dell’interdipendenza da attutire i contrasti e creare un modus vivendi tra le Potenze tale da resistere alle spinte di queste ultime verso una competizione senza limiti.
Il 2022, purtroppo, ha messo fine a queste speranze.
- I vecchi rancori
Mentre fin troppi governi parlavano di pace eterna, e continuavano ad accumulare debiti, approfittando di questa situazione che sembrava durevole, i più avveduti erano consapevoli che, malgrado tutto ciò, il revanscismo e la voglia di rivalersi dei soprusi subiti in passato, tra i Grandi del mondo, covava sotto la cenere.
La leadership russa, anzitutto, parlava, nel 2005 dell’implosione dell’URSS come della “catastrofe geopolitica più grande del secolo, causa della proliferazione dei movimenti separatisti interni alla Russia: per il popolo russo fu un’autentica tragedia”[3]. In effetti, numerose repubbliche dell’Unione sovietica si erano staccate da Mosca, alcune scegliendo la piena indipendenza, altre accettando una forma più lasca di associazione con il loro antico padrone. Il risultato fu una sensibile diminuzione del territorio sul quale la nuova Federazione Russa poteva esercitare la sovranità assoluta, rispetto al passato.
La dirigenza cinese, da parte sua, insisteva da vari anni sulla necessità di affrancarsi dalle catene del “secolo delle umiliazioni” – il periodo tra il 1833 e il 1949, nel quale la Cina era stata costretta a firmare i cosiddetti “Trattati Ineguali” che l’avevano privata di una serie di territori strategici, come Hong Kong, Macao, Taiwan e la Siberia Orientale – sia pure affermando di non voler riconquistare i territori con la forza.
Per converso, l’avvio, da parte del governo cinese, dell’ambizioso progetto di commercio intercontinentale, noto come “La Nuova Via della Seta” appariva, agli occhi di molti, come la dimostrazione che Pechino fosse una convinta fautrice dell’interdipendenza e dell’attenuazione delle tensioni in atto. Vi erano, però, alcuni segnali discordanti, come la pretesa cinese di rendere il mar Cinese Meridionale un mare interno, e le minacce reiterate nei confronti dei governi di Taiwan, che la Cina si ostinava – e si ostina – a considerare parte del proprio territorio, malgrado ogni evidenza.
Il terzo attore che mostrava segni di volere una rivalsa era la cosiddetta “Galassia Islamica”, che aveva perso la propria compattezza con la fine dell’Impero Ottomano – distrutto, è bene precisare, dalle lotte intestine – e anelava a riconquistare un posto tra le Potenze mondiali, malgrado la propria debolezza interna, accentuata dalla sempre più profonda spaccatura tre la Sunna e la Shia.
Infine, scendendo di livello, anche il numero di attori, statuali e non, che covavano risentimenti per passati torti subiti era rimasto elevato, malgrado gli sforzi dell’Occidente di sedare questi contenziosi, mediante operazioni di stabilizzazione, e di calmare le acque, grazie alla globalizzazione.
In definitiva, sotto la cenere covava una “tempesta perfetta” anche se si sperava che, al massimo, le tensioni avrebbero dato origine a “guerre ibride” a carattere limitato.
- La degenerazione dei contenziosi
Con un mondo nel quale gli attori, grandi e piccoli, continuavano a intrattenere rapporti quanto meno urbani, facendo finta di non vedere i pugnali che venivano affilati nell’ombra, è bastato lo scoppio della pandemia, da noi conosciuta con l’acronimo di COVID-19 (Coronavirus Disease, 2019) per scoperchiare il pentolone delle rivendicazioni e provocare le tragedie cui stiamo assistendo.
Si è trattato di un flagello la cui durata lo assimila alle più gravi pandemie della Storia e, come nel passato, le sue conseguenze sulla demografia e sulle economie mondiali sono state devastanti. Il peggio è che nessuno è in grado di certificare la fine della diffusione del contagio, neanche dopo tre anni di sofferenze.
Non ci si può quindi meravigliare per il ripetersi, dopo oltre un secolo, di un contenzioso senza limiti, che tende a propagarsi, coinvolgendo sempre più attori, in modo preoccupante. La pandemia di COVID-19, come tutte quelle che l’hanno preceduta[4], ha infatti spinto alcuni attori della scena internazionale a scommettere sull’indebolimento dei loro avversari, e cercare di conseguire (o recuperare) posizioni di preminenza, sicuri che i rischi che avrebbero corso, rispetto ai tempi normali, sarebbero stati decisamente minori. Questa aggressività, nel nostro caso, è stata un fenomeno che sta coinvolgendo sia i Grandi del mondo, sia altri attori, a livello inferiore, tutti intenti a cercare di risolvere, a proprio vantaggio, vecchie pendenze con i loro nemici secolari.
La scintilla che ha provocato questo incendio devastante è stata l’invasione dell’Ucraina, da parte della Russia. Si è verificato, quindi, quasi una sorta di ripetizione delle dinamiche che, nel 1914, portarono alla Grande Guerra, anche allora innescate da un evento che, secondo chi lo aveva subito – l’Impero austro-ungarico – era intollerabile.
Oggi come allora, questa spirale di violenza è stata innescata dal prevalere dei cosiddetti “sentimenti forti”, quali l’odio e la voglia di rivalsa, all’interno di alcuni governi, che normalmente dovrebbero essere guidati dalla razionalità e non dovrebbero trascurare il calcolo strategico, l’unico modo, sia pure imperfetto, per evitare di lanciarsi in imprese senza esito. A differenza di quanto avvenne allora, la “spirale di violenza” finora ha coinvolto solo indirettamente gli altri Paesi, ma certo il conflitto e le sue ripercussioni non sono circoscritte al teatro di guerra, e il rischio di spiralizzazione è sempre vivo.
Che il Mediterraneo allargato sia l’epicentro di questi drammi è, purtroppo, una situazione ricorrente. La sua posizione, al centro della “Isola del Mondo”, la massa continentale euro-asiatico-africana, rende questo bacino il luogo nel quale molte tensioni si scaricano, come una serie di fulmini che travolgono tutto ciò che incontrano sulla loro strada.
Dietro questo fenomeno, definito da Sua Santità Papa Francesco come “la Terza Guerra Mondiale a pezzi” vi è stata – come si è visto – la decisione del Cremlino di invadere l’Ucraina, per l’ennesima volta dal XVII secolo, scatenando una reazione di rigetto, a livello mondiale. Per portare a termine questa invasione, contraria a ogni principio del Diritto Internazionale, però, la Russia ha dovuto rinunciare al controllo di altre aree del mondo di proprio interesse e ha deciso di prendere le parti delle popolazioni sciite. In tal modo, il Cremlino, creando un “vuoto di potenza” in aree prima controllate dalle proprie forze e dai propri alleati, ha liberato energie represse che stanno sconvolgendo una serie di territori del Levante e del Sahel.
La “Galassia Sunnita”, in particolare, vede di nuovo la Russia come il proprio nemico, vuoi per i massacri nel teatro siriano, vuoi per la vicinanza con l’odiato Iran sciita, vuoi, infine, per la passata penetrazione economico-militare in alcune zone del continente africano, Sahel in primis. Qui il gruppo Wagner aveva svolto un importante ruolo sul piano securitario, anche su mandato di alcuni regimi locali, svolgendo però opera di penetrazione degli interessi russi.
Guardando, inoltre, al mondo sciita, persino Nazioni come l’Azerbaijan che, in teoria avrebbero dovuto essere alleate della Russia hanno approfittato della situazione per regolare i conti in sospeso con gli alleati storici del Cremlino, come l’Armenia.
Le componenti estremiste dell’Islam, nel frattempo, hanno ripreso la loro espansione, penetrando in tutte le aree dove la popolazione islamica vede con favore la loro presenza, sventando i tentativi delle Potenze di influenzare aree, finora ancora soggette all’influenza occidentale.
A questo si aggiunge il fatto che i cosiddetti “conflitti congelati”, come quello del Nagorno-Karabak, si sono riaccesi, fin troppo vicino al Caucaso e all’Asia Centrale, per cui la Russia sta rischiando di ritrovarsi, ancora una volta, a rischio di perdere territori conquistati ormai più di un secolo fa, per non parlare di aree nelle quali essa aveva mantenuto un minimo di influenza.
- L’evoluzione in atto
Agli osservatori più accorti, questa sequenza di rivolgimenti fa pensare che, dietro alla decisione di scatenare l’ “operazione speciale” vi sia stata la volontà russa di distruggere tutto, anche sé stessi, pur di conseguire risultati considerati essenziali: l’allontanamento dell’Ucraina dal suo oppressore secolare è stato infatti considerato talmente inaccettabile dalla dirigenza del Cremlino da spingerla a rischiare il tracollo dell’intera Nazione, la Russia, appena risorta dall’implosione dell’Unione Sovietica.
L’Occidente, da parte sua, nonostante sia gravato da debiti sempre più elevati, frutto dell’imprevidenza dei propri governanti, si è schierato a difesa dell’Ucraina, in nome dei principi fondanti delle Nazioni Unite, e sta sostenendo il governo di Kiev, e tutto il popolo ucraino, in questa lotta titanica, senza badare a spese. Si può quindi dire che anche l’Occidente sta dando fondo alle proprie risorse, malgrado queste siano state decurtate dagli effetti della pandemia.
Tra i due litiganti, come al solito, il terzo gode. La Cina, con la sua posizione di intermediario tra l’Occidente e la Russia, sta traendo vantaggi notevoli almeno sul piano potenziale, commerciando con tutti e continuando la propria penetrazione in altri continenti, come l’Africa e l’America Meridionale.
Ma neanche la Cina naviga in acque tranquille. A parte la perdurante crisi pandemica, che la affligge e che rischia di far crollare la sua economia, con il conseguente rischio di far ripiombare il Paese nella povertà e nell’instabilità, vi sono numerosi altri fattori che impediscono alla dirigenza cinese di dormire sonni tranquilli.
In particolare, la principale preoccupazione della dirigenza di Pechino, oggi, è la sorte futura del grande progetto noto come “La Nuova Via della Seta” che avrebbe dovuto assicurare al suo popolo una durevole prosperità, oltre a creare legami commerciali e diplomatici durevoli tra le varie economie mondiali.
Pechino vede con paura il rischio di un mondo nel quale potrebbero convivere due distinte sfere di interscambio commerciale, con la parte del mondo controllata dall’Occidente in grado di fare a meno della Cina e un emisfero russo-cinese rinchiuso in sé stesso, anche commercialmente. Questa prospettiva, infatti, è ben presente nella mente della leadership cinese, che non ha interesse né a commerciare solo con la Russia, suo “nemico naturale”, né tantomeno e tagliare i ponti gettati verso l’Occidente.
Naturalmente, anche la Cina persegue l’obiettivo di recuperare territori persi in passato, anche se la sua aggressività è – almeno per ora – limitata a dimostrazioni di forza nei confronti di alcuni di questi, come Taiwan, rinviando le proprie rivendicazioni ufficiali verso la Siberia Orientale a data da destinarsi, anche se persegue una silenziosa penetrazione di quei territori, rimpiazzando i Russi che li hanno abbandonati con manodopera cinese, resa disponibile in abbondanza.
L’Occidente, da parte sua, sta lentamente superando la crisi energetica, dovuta alla propria cecità, differenziando finalmente le proprie fonti di approvvigionamento, e sta consolidando i propri rapporti con la “Galassia Sunnita”, compresa quella parte estremista vicina ad Al Qaeda, che, in cambio dell’Emirato afghano, ha di fatto, deciso una tregua nella “guerra per procura”, scatenata ormai vent’anni fa con il via libera concesso sia alla pirateria, sia alle componenti del terrorismo jihadista.
La “Galassia islamica” non è più forte come nel recente passato, visto che è da tempo preda di dissidi interni, come quelli tra l’Egitto e la Turchia, e vede continuare la lotta senza fine tra l’Iran e l’Arabia Saudita, ma soprattutto è sempre più preda di una rivoluzione, animata dalla sua componente femminile, che mette in discussione la sua struttura sociale interna, congelata da secoli. Queste debolezze sono il fattore primario che ne sta limitando la proiezione verso altre zone del mondo, interrompendo un’espansione, condotta con metodi “soft”, come il denaro e la cultura, iniziata negli ultimi decenni.
Nel Levante, in particolare, alcune Nazioni, come il Libano, rischiano il collasso, non solo a causa della loro profonda crisi economica, ma anche per la difficoltà a gestire queste dinamiche rivoluzionarie, che le hanno sommerse con masse di profughi, la cui presenza ha aggravato gli scontri tra opposte componenti del corpo sociale, rischiando di far nuovamente saltare la difficile coesistenza interconfessionale. In definitiva, il Libano, che nel passato aveva trovato il benessere grazie al ruolo di ponte che collegava l’Occidente con il Levante, sul piano economico e finanziario, sta passando, ormai da troppo tempo, da una crisi all’altra, senza trovare pace.
Merita apprezzare, però, come la Giordania sia l’unico Paese dell’area che sta gestendo con efficacia questi cambiamenti e queste tensioni, pur essendo costretta a ospitare una massa di profughi, di vecchia e di recente data, il cui numero spaventerebbe i governanti europei.
La Turchia, dal canto suo, pur essendo tormentata dalla lotta tra le sue tre componenti principali, il modernismo, il tradizionalismo e l’indipendentismo dei Curdi, è costretta ad assumere un atteggiamento ambiguo, mentre sta sfruttando la situazione, sul piano internazionale, agendo da moderatore dei conflitti in corso nell’area, anche se permane il sospetto che quest’apertura sia un tentativo di conseguire maggiore libertà nella “repressione” contro i curdi.
In Iran, la rivolta femminile ha innescato un movimento rivoluzionario più ampio, tale da coinvolgere non più solo i giovani, come già avvenuto nel passato, ma anche larghe fasce della popolazione, profondamente insoddisfatte del più che quarantennale dominio della classe clericale, che riesce per ora a mantenere il potere solo grazie alle violenze dei “Guardiani della Rivoluzione”. Questa dura repressione favorirà l’implosione del Regime degli Ayatollah solo se la popolazione continuerà a resistere e manifestare in modo coeso anche nelle zone più rurali del Paese.
Allargando lo sguardo, come spesso è avvenuto nella Storia è il sud del mondo a rimetterci maggiormente: le vittime principali sono infatti l’Africa, sempre meno sostenuta dall’Occidente e tentata di ribellarsi al nuovo padrone cinese, e l’America Meridionale, che da decenni non è più in grado di ripetere il miracolo economico di cui ha goduto tra le due Guerre Mondiali e vede molti governi traballare.
Non bisogna dimenticare, infine, che questa diffusa instabilità non favorisce il commercio marittimo, minacciato, tra l’altro anche da sanzioni e marcato dalla crescente insicurezza in alcuni dei suoi nodi strategici, a partire da Bab-el-Mandeb, solo per citare l’instabilità e i problemi securitari che continuano a venire dal conflitto dimenticato dello Yemen, un altro Paese da cui dipende la sicurezza della Regione del Mediterraneo.
- Cosa aspettarci dall’anno nuovo
Prevedere come finirà questa instabilità generale, che sta sfociando in un massacro generalizzato, non è facile. Di sicuro, la Russia è destinata a un ulteriore declino, qualcosa che è il pericolo ricorrente di questa Nazione, che più volte è rollata sotto il peso delle proprie contraddizioni interne. Il suo immenso territorio, infatti, la rende la Nazione più vasta al mondo, malgrado le secessioni avvenute con l’implosione dell’Unione Sovietica, ma la sua popolazione è estremamente ridotta, rispetto alle necessità di controllare e sfruttare le immense ricchezze naturali che il proprio territorio possiede.
L’invasione dell’Ucraina le sta facendole pagare un prezzo oltremodo sanguinoso – si parla di oltre 100.000 caduti in combattimento – e questo si ripercuoterà, nei prossimi decenni, sulla propria situazione demografica. Non parliamo, poi, dell’economia russa: le sanzioni occidentali, unite alla collaborazione cinese solo di facciata, stanno creando un divario tecnologico, a causa della perdita di interdipendenza con l’Occidente, destinato a far ripiombare la Russia nell’arretratezza, che renderà impossibile il proprio sviluppo negli anni a venire.
In tutto questo terremoto, una parte del mondo, e in particolare l’Africa e il Medio Oriente, sta ben attenta a non prendere posizione a favore dell’Occidente o della Russia, ed è alla ricerca di nuovi sponsor che ne assicurino lo sviluppo, fino ad ora garantito dalla saggia politica di tenere il piede in due scarpe, ottenendo dai due contendenti il massimo supporto possibile.
Qualunque sia l’esito della guerra in corso in Ucraina, il mondo si ritroverà con un potente in meno, e con molti attori minori che si sentiranno liberi di togliersi quei sassolini dalle scarpe, che li tormentavano da tempo. Corriamo il rischio, quindi, di vedere di nuovo una situazione simile, ma ben più grave, a quella che si verificò dopo il 1991, con l’instabilità che si propagò, quasi come un incendio fuori controllo, in molte aree del mondo – in primis nei Balcani.
La speranza che l’anno nuovo porti a una riduzione dei conflitti esistenti è ancora viva, ma ci vorrà tutta la pazienza dei governi e a un’azione perseverante da parte di tutti, affinché il mondo trovi di nuovo la pace che sembrava vicina solo due anni fa.
L’Italia, nel suo piccolo, può essere determinante in questo, grazie alla stima di cui gode, da parte di gran parte del mondo, per il suo atteggiamento di apertura nei confronti di tutti – le Grandi Potenze e gli attori minori – dimostrato degli scorsi decenni.
[1] F. Braudel, Il Mediterraneo, Ed. Bompiani, 1987, pag. 57.
[2] J. F. KENNEDY, Declaration of Interdependence (speech), Bulletin of the European Community, August 1962, n* 55.
[3] Vds, Che rapporto ha Putin con l’Unione Sovietica, ne IL POST, 24 febbraio 2022.
[4] Si veda Sanfelice di Monteforte F., Quadarella Sanfelice di Monteforte L., Il mondo dopo il COVID-19. Conseguenze geopolitiche e strategiche. Posture dei gruppi jihadisti e dell’estremismo violento, Mursia, Milano, 2020.