Scarica il file in pdf – occidente e il ritorno del multilateralismo- giugno 2023 – sanfelice
L’OCCIDENTE E IL MULTIPOLARISMO ZOPPO
NATO ed Unione Europea nell’attuale contesto internazionale, con la crisi della leadership russa e le nuove mosse geopolitiche cinesi, le mire della Turchia sul mondo sunnita e le aspirazioni dell’Iran su quello sciita, senza dimenticare i problemi economici degli Stati Uniti
Amm. Sq. Ferdinando SANFELICE di MONTEFORTE
Introduzione
Da un anno a questa parte le opinioni pubbliche occidentali si sono concentrate, quasi esclusivamente, sulla tragica invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Concepita come “Operazione Speciale”, rapida e brillante dal governo di Mosca, nello stile dei blitz del passato contro Budapest nel 1956 e contro Praga nel 1967, si è rapidamente trasformata in una guerra di trincea, con perdite umane talmente gravi da ricordare quanto avvenne nelle due Guerre Mondiali.
Come avvenuto spesso nella Storia, l’invasione russa dell’Ucraina, anziché materializzarsi in una vittoria rapida e decisiva, è finita per trasformarsi in una lotta all’ultimo sangue che sembra senza esito, e sta comportando una resa dei conti tra i leader russi, non solo a livello militare, capace di distruggere persino l’aura di invincibilità del vertice politico.
Il fatto che le milizie del gruppo Wagner abbiano lasciato Rostov tra gli applausi della popolazione, e che nessun reparto dell’Esercito abbia cercato di fermare la “marcia su Mosca”, poi interrotta nei pressi della capitale, pone dei dubbi sulla volontà del popolo russo a continuare a sopportare ingenti perdite umane per un obiettivo che appare sempre più illusorio.
Come osservava anni fa uno studioso, “le dittature mantengono la loro forza politica solo nel contesto di una pubblica aura di successo, cioè una dittatura non osa ammettere di aver fallito”[1]. La mancata vittoria della cosiddetta “Operazione Speciale” può costare cara alla dirigenza del Cremlino: i primi indizi dell’insorgere di una “Stanchezza della Guerra” da parte del popolo russo si vedono appieno.
Questa drammatica situazione, che segue di poco l’altrettanto tragica pandemia di COVID-19, ha innescato una dinamica perversa nelle relazioni internazionali: anzitutto, l’Occidente, malgrado sia ben lontano dal recuperare il livello di ricchezza di cui godeva prima della pandemia, si è schierato a sostegno del governo di Kiev, sia pure con diverse sfumature, sobbarcandosi in alcuni casi impegni notevoli.
Invece, molti altri attori, siano essi statuali o meno, si stanno muovendo nel panorama internazionale in modo spregiudicato, per valorizzare il proprio ruolo e la propria influenza sugli eventi mondiali, in totale libertà d’azione. Grazie alla loro abilità, alcuni tra questi attori sono riusciti a conseguire un livello di considerazione maggiore rispetto al passato[2].
Questi attori non si limitano a sfruttare le dinamiche direttamente legate alla guerra in Ucraina o alle conseguenze economiche del COVID, ma si avvantaggiano sempre più, grazie ad alcune conseguenze indirette del conflitto. Infatti, il vuoto di potenza che i contendenti ed i loro sponsor, focalizzati come sono su questa tragedia, stanno creando, diminuendo la loro presenza e i loro sforzi in teatri ormai considerati secondari, presenta per i nuovi attori internazionali vantaggi potenziali e opportunità che prima erano insperate.
Gli attori più attivi
Abbiamo parlato della Russia e della sua improvvida iniziativa. Le crepe sempre più vistose all’interno della leadership del Cremlino fanno pensare che sia sempre più vicina una crisi del Paese, con conseguenze drammatiche, come avviene ormai periodicamente in questa sfortunata Nazione.
Subito dopo viene la Cina. L’indebolimento della Russia, impegnata com’è nel conflitto, ha permesso a Pechino di mostrare al mondo la propria volontà di pace, cercando la mediazione tra le parti, pur nella consapevolezza che queste siano poco disposte ad accettare un compromesso qualsiasi.
Allo stesso tempo, però, la Cina sostiene, pur tiepidamente, il governo di Mosca, fornendo armamenti per lo sforzo bellico, in cambio di energia, mentre continua a invadere silenziosamente la Siberia Orientale, ceduta oltre un secolo e mezzo fa in esito ai “Trattati ineguali” di Aigun del 1858 e di Pechino del 1860.
Ma Pechino non guarda solo verso le ricchezze siberiane perdute. Sul massiccio dell’Himalaya continua il confronto con l’India per la “Guerra dell’acqua”: le sorgenti di quasi tutti i principali fiumi del continente asiatico, infatti, si trovano in quell’area caratterizzata dalle più alte montagne al mondo.
Per ora il confronto si limita a scambi di colpi tra pattuglie e al sostegno ai simpatizzanti politici per influenzare gli eventi negli Stati himalayani, malgrado i due governi centrali professino la loro volontà di mettersi d’accordo, ma la tensione è palpabile, anche per il desiderio neppure tanto nascosto, da parte del governo di Nuova Delhi, di recuperare i territori perduti nella guerra del 1962.
Come se non bastassero questi contenziosi, il governo di Pechino ha aumentato la pressione mediatica e militare su Taiwan, ceduta al Giappone nel 1896 e recuperata solo per breve tempo alla fine della Seconda Guerra Mondiale, per poi staccarsi di nuovo dalla madrepatria pochi anni dopo, quando divenne la sede del governo nazionalista di Chang Kai Shek, che vi trovò rifugio nel 1949, insieme a un gran numero di seguaci del suo partito, il Kuomingtang.
Mentre esercita pressioni affinché Taiwan rinunci alla propria indipendenza, il governo di Pechino continua a militarizzare alcuni scogli affioranti, al fine di poter pretendere che il Mar Cinese Meridionale venga riconosciuto come proprie acque interne, in dispregio delle convenzioni internazionali, inducendo alcuni Paesi occidentali a percorrere quelle acque nelle cosiddette “Freedom of Navigation operations” che finiscono sempre in collisioni più o meno serie tra navi da guerra.
Tutte queste azioni, in parte attuate di soppiatto e in parte pubblicamente annunciate, rispondono alla volontà di “santuarizzare” i mari circostanti, oltre a recuperare le terre perse durante il cosiddetto “secolo dell’umiliazione nazionale”, tra il 1833 e il 1949, nel quale la Cina “soffrì l’aggressione e le prepotenze dei Paesi occidentali”[3] che le strapparono i più ricchi territori alla sua periferia, annettendoli o assegnandoli al Giappone.
Nonostante le ripetute dichiarazioni del governo di Pechino, secondo il quale il Paese non scatenerà mai una guerra di aggressione, l’Occidente non si fida del revanscismo cinese, e lo ritiene un rischio da non sottovalutare. Non a caso, la Cina ha più volte contraddetto il proprio dichiarato pacifismo, non solo attaccando l’India nel 1962 – come si è visto – ma anche cercando di penetrare, attraverso il fiume Ussuri, nella Siberia sovietica nel 1968, e infine invadendo per breve tempo la parte nord del Vietnam nel 1979.
A conferma che queste azioni non sono iniziative sporadiche e occasionali, basti rileggere la dottrina strategica cinese, che è piena di riferimenti, fin dal 1980, sulla necessità di “santuarizzare” i mari circostanti il proprio territorio, partendo dal Mar Giallo fino al mar Cinese Meridionale. Le periodiche scaramucce intorno alle isole Senkaky/Diaoyutai e la militarizzazione delle Spratly e Paracel, che da scogli disabitati si sono trasformati in posizioni militari, sono un indice che già da tempo la Cina tende a spostare i propri confini marittimi verso l’alto mare.
Dal 1993, infine, la dottrina strategica cinese parla di “Guerre Limitate”, da scatenare tempestivamente prima che il resto del mondo reagisca. Anche per questo, la retorica di Pechino su Taiwan ha aumentato la preoccupazione occidentale, anche se, come è stato osservato di recente, “ogni analista obiettivo mostrerà che, per il prevedibile futuro, la Cina sarà priva di ciò che è richiesto per un’invasione anfibia tesa a controllare e occupare Taiwan”[4].
Per fortuna, le recenti dichiarazioni del nuovo Ministro della Difesa cinese Li Shangfu, secondo il quale “una guerra con gli Stati Uniti sarebbe un disastro insopportabile per il mondo”[5] sembrerebbero voler gettare acqua sul fuoco delle tensioni tra Washington e Pechino, anche se la guerra tra le due Potenze è già in corso sul piano economico. Pechino, infatti, ha drasticamente ridimensionato il proprio pacchetto di Buoni del Tesoro USA, mentre Washington sta importando sempre meno manufatti dalla Cina, puntando sull’industrializzazione del Messico, per un ventaglio di prodotti a basso contenuto tecnologico.
Dopo la Cina vediamo la Turchia, dove il Presidente Erdogan e il suo Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) hanno recentemente vinto, sia pure con un margine inferiore rispetto al passato, le elezioni politiche. Malgrado lo storico confronto/scontro tra le tre componenti principali del Paese, i modernisti, i tradizionalisti, cui appartiene il presidente Erdogan e i curdi, l’attivismo del Presidente è senza pari.
In campo internazionale, in particolare, si possono osservare due linee d’azione del Presidente Erdogan. La prima si materializza nell’impegno del governo turco per farsi riconoscere dal resto della galassia islamica come leader di quella parte del mondo. Purtroppo per Erdogan, il campo sunnita non sta mostrando troppo entusiasmo, non solo a causa delle pregresse rivalità e ai massacri perpetrati dal governo ottomano, ma anche perché l’Egitto e l’Arabia Saudita nutrono, a loro volta, forti ambizioni di leadership regionale, e vedono con sospetto il ritorno in forze del loro antico oppressore.
Invece, nel campo sciita, alla ricerca di un potente sponsor, il governo di Teheran ha accolto con piacere l’attivismo turco, e ne ha approfittato non solo per consolidare la traballante situazione del governo siriano, ma anche per lanciare iniziative monetarie alternative a quelle basate sul dollaro.
Nei confronti della Russia, poi, il governo di Ankara mantiene una posizione di non ostilità, agendo da mediatore tra le parti della guerra in Ucraina, con effetti positivi sulle opinioni pubbliche del Medio Oriente, specie dopo che Erdogan ha contribuito a scongiurare la crisi del grano ucraino, diretto verso i loro Paesi. Non è certo che gli sforzi di mediazione portino a risultati decisivi, ma comunque la strategia dei piccoli passi, attuata dal governo turco, sembra funzionare.
Mentre alcune Nazioni dei vari continenti si schierano a favore della Russia o dell’Occidente, la loro maggioranza rimane alla finestra, pronta ad aggregarsi alla fazione che risulterà vincente, pur votando, in sede ONU, contro l’aggressione russa all’Ucraina. La mozione di condanna, infatti, ha raccolto ben 141 voti favorevoli, anche se “i non favorevoli ammontano a una percentuale assai rilevante della popolazione mondiale”[6]. Tra i contrari, infatti, si annoverano Cina, India e Sud Africa, che si sforzano di tenere aperte le porte a un possibile dialogo con Mosca.
Molte Nazioni, comunque, sono vicine alle iniziative intraprese dalla Santa Sede, che da oltre un secolo è dedita alla riduzione delle tensioni internazionali e alle iniziative di pace, non sempre con successo, anche se la voce del Santo Padre ha effetti significativi non solo sui popoli in guerra, ma anche nei confronti dei terzi.
Ammaestrata dagli eventi del 1991, che videro la Santa Sede agire in sostegno della libertà dei popoli oppressi da Mosca, in questo ultimo anno il governo russo ha cercato di controbattere sul piano della narrativa religiosa la posizione netta del Papa a favore dell’Ucraina, convincendo il Patriarca ortodosso di Mosca a pronunciarsi in favore della “Operazione Speciale” contro l’Ucraina, ma i risultati di questa contro-narrativa non sembrano essere stati decisivi.
In definitiva, la frase irridente attribuita a Stalin, secondo il quale il Papa non contava, non avendo alcuna Divisione dell’Esercito[7], rischia di dimostrarsi erronea ancora una volta, dopo che San Giovanni Paolo II si era fatto interprete delle istanze dei popoli alleati a forza dell’URSS, e che volevano liberarsi di quel pesante giogo. Se l’URSS è implosa nel 1991, lo si deve anche alla Santa Sede.
Se per il Presidente Putin e per il popolo russo “il collasso dell’Unione Sovietica è la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo”[8] altrettanto non si può dire per i popoli che hanno riacquistato la loro libertà dopo il lungo servaggio successivo alla Seconda Guerra Mondiale, noto ai più con l’eufemismo “sovranità limitata”.
Abbiamo visto come la Turchia cerchi di conseguire una posizione dominante nell’ambito della “Galassia Islamica” ottenendo solo parziali successi. In generale, si può notare una sorta di tregua tra le componenti più estremiste, per intenderci quelle Jihadiste, e l’Occidente. Quanto durerà questo momento di pace è impossibile sapere, anche se queste componenti, in modo silenzioso, si stanno espandendo al di là del Medio Oriente, nell’Africa sub-sahariana, facendo proseliti e incrementando la loro influenza, grazie anche al ritiro occidentale dai territori maggiormente interessati da questa penetrazione.
Va ricordato, infine, che la crescita della tensione tra le Grandi Potenze ha favorito, ancora una volta, l’instabilità di molte regioni del mondo, le cui popolazioni cercano di regolare vecchi conti con altre etnie, puntando sulla diminuita influenza delle forze stabilizzatrici occidentali.
Un altro aspetto di interesse è il tentativo, da parte di numerosi Paesi dell’Asia e dell’America del Sud, non direttamente coinvolti nella sfida a tre tra USA, Russia e Cina, di acquisire maggior peso per influenzare gli eventi a loro favore, invece che rimanerne vittime. Si profila, infatti, una nuova versione dell’alleanza dei Paesi non allineati, a suo tempo proposta dalla Jugoslavia di Tito, questa volta in ambito BRICs.
Anche i maggiori Paesi africani sembrano seguire questa tendenza, al punto da proporsi recentemente come mediatori nella guerra tra Russia e Ucraina. Questa comparsa sul palcoscenico internazionale delle maggiori Nazioni africane è un segnale anche per noi, che non possiamo più considerarle un soggetto passivo, nel gioco tra potenze.
Neanche il Paese leader dell’Occidente, gli Stati Uniti d’America, se la passa bene, con una sempre più profonda spaccatura tra conservatori e progressisti, per non parlare dell’economia, sempre più gravata da un debito pubblico mostruoso, a fronte del quale ci vorranno anni di “austerità” per consentire al governo di Washington di disporre di sufficienti risorse economiche per influenzare gli eventi nel mondo. In questo quadro, la guerra economica con la Cina assomiglia a un’impresa disperata, che rischia di rovinare più chi l’ha scatenata che non la vittima designata.
In questo quadro dalle molte sfaccettature, e in questo fervore di attività, vale la pena esaminare cosa pensa di fare l’Occidente, per proteggere la propria sicurezza in questo mondo nel quale agiscono ormai molti, troppi attori con ambizioni spesso superiori alle proprie possibilità.
L’analisi dei documenti strategici più recenti della NATO e della UE, che sono sempre un indice attendibile delle intenzioni della collettività occidentale su come fronteggiare la situazione in atto, anche se alcuni di essi sono precedenti all’inizio di queste turbolenze nelle relazioni internazionali.
L’Unione Europea
Iniziando dal documento meno recente, l’ultima strategia europea di sicurezza è un corposo testo di ben 32 pagine, che risale al giugno 2016. La sua finalizzazione è quindi successiva all’occupazione russa della Crimea, e alla quasi contemporanea rivolta del Donbass, anche se di molto anteriore alla drammatica pandemia di COVID-19 che ci ha impoveriti e, ancor più, alla fallimentare “Operazione Speciale” scatenata dal Cremlino.
Il suo titolo è indicativo: “Shared Vision, Common Action. A Stronger Europe”, che suona come un appello alla coesione tra i Paesi Membri sulle questioni di politica estera e di sicurezza, appello che, purtroppo, come sappiamo, sarà ascoltato solo a periodi, negli anni successivi. Il sottotitolo, poi, “A Global Strategy for the European Union’s Foreign and Security Policy” potrebbe sembrare, a prima vista, un modo per dichiarare ambizioni da Grande Potenza, prefigurando l’intenzione di influenzare gli eventi in tutto il mondo.
In effetti, non si tratta di un eccesso di fiducia nelle capacità europee di agire a livello globale, cosa peraltro ancora lontana dalla realtà. Nella presentazione, infatti, viene fornita una giustificazione, sia pure parziale, e viene spiegato che “Global non debba essere inteso solo in un senso geografico. Si riferisce anche alla vasta panoplia di politiche e di strumenti che questa strategia promuove”[9]
Proseguendo nella lettura dell’introduzione, poi, si nota con piacere che la prudenza si riaffaccia in molti passi, come quando si ammette, saggiamente, che l’Europa non può agire da sola: “non è questo il tempo di poliziotti globali e di combattenti isolati”[10].
Il quadro che viene presentato, infatti, non è dei più tranquillizzanti, e il documento lo descrive in termini decisamente preoccupati, affermando che “viviamo in tempi di crisi esistenziale, all’interno e all’esterno dell’Unione Europea. A Est, l’assetto europeo di sicurezza è stato violato. Mentre il terrorismo e la violenza piagano il Nord Africa e il Medio Oriente, come anche la stessa Europa. La crescita economica deve ancora superare la crescita demografica in alcune parti dell’Africa, le tensioni di sicurezza stanno montando in Asia, mentre il cambiamento climatico provoca ulteriori sconvolgimenti”[11].
Dopo aver elencato i fini che si prefigge l’Unione, che sono quelli di garantire la pace, la sicurezza e la prosperità, favorire le democrazie e un ordine mondiale basato su regole, e proseguendo con l’elenco dei principi che si intende rispettare nelle iniziative dell’Unione, il documento passa a trattare quali priorità debbano essere considerate.
Si inizia, saggiamente, dai rapporti con la NATO, alla quale l’Europa deve collaborare in modo da “contribuire efficacemente agli sforzi collettivi (dell’Alleanza), come pure agire in autonomia se e quando necessario”[12]. La seconda priorità è la lotta contro il terrorismo, mediante uno scambio di informazioni e un’azione comune, collaborando con i Paesi del Nord Africa, del Medio Oriente, i Balcani Occidentali e la Turchia.
La terza priorità è la sicurezza cibernetica, per “mantenere uno spazio cibernetico aperto, libero e sicuro”[13].
La quarta priorità riguarda la sicurezza energetica, un campo nel quale l’Europa dovrà “diversificare le fonti di energia, rotte e fornitori, specie per quanto riguarda il gas, oltre a promuovere gli standard di sicurezza nucleare più elevati nei Paesi terzi”[14].
Le comunicazioni strategiche, infine, sono l’ultima ma non la minore priorità da perseguire, per “collegare la politica estera con i cittadini e comunicare meglio con i partner”[15].
Viene quindi riaffermata la volontà di mantenere un approccio integrato nei conflitti e nelle crisi, “impegnandosi nel peacebuilding, concentrando gli sforzi nelle regioni circostanti ad est e a sud, oltre a considerare ulteriori coinvolgimenti più lontano in casi specifici”[16].
Significativa, su questo aspetto è la precisazione che verranno usati “tutte le politiche e gli strumenti miranti alla prevenzione dei conflitti, la loro gestione e la loro risoluzione”[17]. Si riconosce, in sintesi, che per essere efficaci bisogna utilizzare tutte le capacità dell’Unione, e non solo quelle militari.
Nei confronti della Russia si precisa che il miglioramento dei rapporti dipenderà dal “pieno rispetto del Diritto Internazionale e dei principi alla base dell’ordine europeo di sicurezza, inclusi l’Atto finale di Helsinki e la Carta di Parigi”[18]. In particolare, il documento afferma che l’UE “non riconoscerà l’annessione illegale della Crimea né accetterà la destabilizzazione dell’Ucraina Orientale”[19].
Nei confronti dei Paesi del Mediterraneo e dell’Africa sub-sahariana, il documento prevede soprattutto una collaborazione per sedare i conflitti e rendere i Paesi stabili e prosperi.
Nei confronti della Cina, poi, il documento prevede un “impegno basato sul rispetto del diritto interno e internazionale, intensificando il commercio e gli investimenti, cercando un assetto di equilibrio, un appropriato rispetto della proprietà intellettuale, maggiore cooperazione sulle tecnologie avanzate e dialogo sulle riforme economiche, sui diritti umani e sull’azione climatica”[20].
Nelle conclusioni, si assicura che l’Unione intende sottoporre a periodiche revisioni, in modo da mantenerlo al passo con i tempi, anche se questo passo non è ancora stato compiuto, dopo quasi un anno e mezzo dall’inizio della “Operazione Speciale” voluta dal Cremlino.
Volendo commentare questo lavoro, nel quale fore la lunghezza va a scapito della possibilità di diffondere i suoi messaggi presso il grande pubblico, si nota che l’Unione è consapevole di non poter andare molto lontano da sola, anche se rivendica la possibilità di decidere altrimenti. L’esempio migliore di questa volontà è stato il lancio dell’Operazione EMASoH (European Maritime Awareness, Strait of Hormuz), anche nota come Operazione Agénor, che garantisce la libertà di navigazione e la sicurezza ai mercantili che transitano verso o dal Golfo Persico, attraverso lo Stretto di Hormuz.
Finora, tutte le Nazioni che gravitano sullo Stretto o dipendono dalla sua agibilità si sono dimostrate favorevoli alla missione, e la riduzione della tensione nell’area è indicativa di un successo notevole. Sta di fatto che l’area nella quale operano le navi da guerra dei Paesi dell’Unione è decisamente lontana, e questo comporta una limitazione nel numero delle unità in pattugliamento, ma anche la rinuncia a mantenere in zona una forza in grado di sostenere le unità che operano nello Stretto, nel caso la situazione si complichi e la tensione cresca.
Questo ci porta alla prima considerazione. Come diceva Mahan, “maggiore è la distanza, maggiore è la difficoltà di difendere o di attaccare”[21]. Spingere la propria azione troppo lontano comporta l’impossibilità di dispiegare forze notevoli, per cui vi è il rischio di agire con forze insufficienti, oppure di incontrare talmente tanti problemi logistici da ritrovarsi in uno stato di paralisi, per mancanza di mezzi o di rifornimenti.
Questa prudenza, peraltro, è la conferma di quanto affermato nel documento strategico precedente, del 2003[22], nel quale si affermava di volersi concentrare sul proprio vicinato, per allargare progressivamente l’area di stabilità intorno all’Europa.
Questo, appunto, è accaduto alla NATO in Afghanistan.
Il Concetto Strategico della NATO
Il nuovo Concetto Strategico dell’Alleanza, approvato al Vertice di Madrid il 29 giugno 2022, differisce profondamente da quello che lo aveva preceduto, nel 2010, per un tono molto meno pessimista e decisamente risoluto nel comunicare le linee d’azione che la NATO intende perseguire.
All’epoca, nel 2010, le difficoltà incontrate dall’Alleanza nella stabilizzazione dell’Afghanistan vennero ben descritte nella frase, in cui si affermava che “le crisi e i conflitti al di là delle frontiere della NATO possono causare una minaccia diretta alla sicurezza del territorio e delle popolazioni dell’Alleanza. La NATO, quindi, si impegnerà dove possibile e quando necessario, nel prevenire le crisi, gestirle, stabilizzare le situazioni post-conflittuali e sostenere la ricostruzione”[23]
Come si può notare dalle parole evidenziate (da chi scrive), una nota di pessimismo aleggiava nel testo, e compariva, nella sua pienezza, appunto in quel paragrafo sulle missioni di gestione delle crisi e stabilizzazione, attività che fino ad allora era stata la raison d’être dell’Alleanza post-Guerra Fredda.
Nel Nuovo Concetto Strategico, al contrario, già nella dichiarazione iniziale il tono è rassicurante: si afferma infatti che i Capi di Stato e di Governo “rimangono risoluti nel proteggere il miliardo di cittadini (dell’Alleanza), difendere i territori e salvaguardare la libertà e la democrazia. Sarà rinforzata l’unità, la coesione e solidarietà, costruendo sul durevole legame transatlantico fra le Nazioni e la forza dei valori democratici”[24].
Come poi sarà spiegato oltre, nel testo, più in dettaglio, questa dichiarazione introduttiva dei Capi di Stato e di Governo chiarisce di cosa si parli, mettendo di nuovo, dopo quasi trent’anni, la difesa collettiva come fine principale dell’Alleanza.
Il corollario, ben indicato all’inizio del testo, è l’importanza dei valori condivisi, come collante principale dell’alleanza, al di qua e al di là dell’Atlantico. Questi due aspetti, difesa collettiva e condivisione dei valori, son in effetti i cardini fondamentali sui quali dovranno poggiare tutte le iniziative che la NATO dovrà intraprendere nel futuro.
Anche se i compiti assegnati all’Alleanza (deterrenza e difesa, prevenzione e gestione delle crisi e sicurezza cooperativa) sono rimasti gli stessi, rispetto al precedente Concetto Strategico, appare evidente la loro diversa priorità.
Infatti, nel passare a esaminare il quadro geostrategico, il documento inizia proprio con la Russia, colpevole dell’aggressione all’Ucraina, anche se la NATO dichiara di “non cercare uno scontro e non pone una minaccia alla Federazione Russa. Continuerà a rispondere alle minacce e azioni ostili russe in modo unito e responsabile, rinforzando la deterrenza e la difesa per tutti gli Alleati, migliorando la resilienza contro le coercizioni russe e appoggiando i nostri partner a contrastare le interferenze e le aggressioni maligne.”[25]
Dopo aver posto la Russia come principale minaccia per l’Alleanza, il documento passa a considerare le altre minacce alla sicurezza. La maggiore di queste è, stando al documento, il terrorismo, definito come “la minaccia asimmetrica più diretta alla sicurezza dei cittadini e alla pace e prosperità internazionali”[26].
Seguono poi, come terza minaccia o per meglio dire un problema da affrontare, “i conflitti, la fragilità e l’instabilità in Africa e nel Medio Oriente, che toccano direttamente la sicurezza degli Alleati e dei Partner. Il vicinato meridionale della NATO, specie nel Medio oriente, nel Nord Africa e nelle regioni del Sahel, è di fronte a sfide interconnesse securitarie, demografiche, economiche e politiche”[27].
Solo dopo aver elencato le minacce e i problemi del fronte orientale e del vicinato meridionale, il documento parla di Cina, le cui “ambizioni dichiarate e le cui politiche coercitive sfidano gli interessi, la sicurezza e i valori (dell’Alleanza). La NATO resterà aperta a un impegno costruttivo con la Cina, inclusa la costruzione di una trasparenza reciproca, allo scopo di salvaguardare gli interessi di sicurezza dell’Alleanza. LA NATO lavorerà insieme, responsabilmente, per fronteggiare le sfide sistemiche poste dalla Cina alla sicurezza Euro-Atlantica e assicurare l’abilità durevole dell’Alleanza a garantire la difesa e la sicurezza degli Alleati”[28].
La conclusione del documento è l’affermazione che la NATO è “il modo migliore di assicurare il legame durevole tra gli Alleati europei e americani, e per contribuire alla pace e alla stabilità globali, condividendo equamente le responsabilità e i rischi per la nostra difesa e sicurezza”[29].
Si può concludere che, pur nel comprensibile rifiuto di porre limiti geografici alle future azioni della NATO, il documento rispecchia bene la risolutezza a difendere collettivamente gli Alleati, inclusi i Paesi membri dell’Europa Centro-Orientale, ex URSS e ex Patto di Varsavia, e mostra una volontà di agire con prudenza (il termine ricorrente è “responsabilità”) nella prevenzione e gestione delle crisi.
Quale collaborazione tra NATO e UE?
Se si mettono a confronto il quadro di situazione internazionale che è stato descritto e gli intendimenti della NATO e della UE in materia di sicurezza, appare chiaro come nessuna delle due Organizzazioni stia sottovalutando la gravità dei problemi da affrontare. Forse, il documento più realistico è il Concetto Strategico della NATO, anche perché è stato pubblicato nell’attuale situazione di conflitto senza limiti alle porte dell’Europa.
Si ritorna, però, al vecchio dilemma, che non sempre è stato affrontato dalle due Organizzazioni, che pur dichiarano di voler collaborare strettamente tra loro: come dividere i compiti?
L’UE, per dirla con una frase che l’On. Bonino non si stanca di ripetere, “è un gigante economico, un nano politico e un verme militare”[30]. Il suo soft power è senza pari, ma per raggiungere un consenso politico sulle linee d’azione da intraprendere sono sempre necessari lunghi mesi di negoziati, e sul piano militare mancano capacità che solo gli Stati Uniti posseggono. Da questa considerazione scaturisce, naturalmente, un corollario sulla divisione di compiti ideale tra le due Organizzazioni, ambedue espressioni dell’Occidente: che la NATO cerchi di non essere troppo “politica” ma privilegi il suo ruolo militare, mentre l’UE si dedichi alle crisi, specie quelle che hanno superato la cruenta fase conflittuale. In fondo, questo avviene già da qualche anno, sia pure su base occasionale, con la UE che, ad esempio, gestisce il fragile armistizio in Georgia, e la NATO che persegue, sia pure a prezzo di sforzi notevoli, la stabilizzazione del Kossovo.
Un vecchio proverbio recita “Chi vuol far l’altrui mestiere fa la zuppa nel paniere”. Se NATO ed Unione Europea si concentrassero su ciò che sanno fare meglio, i Paesi membri risparmierebbero notevolmente e riuscirebbero a incidere di più sugli eventi mondiali.
Conclusione
I due documenti strategici appena analizzati hanno qualcosa di importante in comune: essi, infatti, ci mostrano che le due Organizzazioni stanno seguendo le “regole auree” del multipolarismo, avendo preso atto della nuova situazione, che vede anche le superpotenze in affanno sul piano economico o su quello della credibilità militare.
Queste regole auree sono sostanzialmente due: la prima è che non si possono avere troppi nemici. Non è vero che, come si diceva quasi un secolo fa, “molti nemici, molto onore”. Di solito, se ci si caccia in questa situazione, si finisce male, esattamente come accadde all’Italia, quando decise di essere coinvolta nella Seconda Guerra mondiale.
Il corollario di questo principio, applicabile soprattutto alle Nazioni medio-piccole, come il nostro Paese, è “meglio avere nemici lontani e amici vicini, che non viceversa”. Bisogna dire che i nostri governi, negli scorsi decenni, hanno imparato questa lezione, avendo cura di non inimicarsi i nostri vicini. La stessa insistenza dell’UE sulla necessità di curare la stabilità e il benessere del nostro vicinato, ribadita anche nell’ultimo documento strategico, è la conferma di questo saggio approccio ai rapporti internazionali.
La seconda regola può essere sintetizzata dal motto del quotidiano vaticano “L’Osservatore Romano”, leggibile subito sotto il nome della testata: “Unicuique suum” (a ciascuno il suo).
Nel mondo multipolare, nel quale siamo ricaduti, dopo la breve illusione di una predominanza occidentale sul mondo, bisogna essere finemente discriminativi, classificando gli altri Paesi in modo più articolato, rispetto al passato. Di seguito un primo tentativo di classificazione, che ha lo scopo di spingere i lettori ad affinarla.
Ci sono anzitutto “gli sponsor”, i potenti (siano essi una Potenza o un’Organizzazione) ai quali abbiamo dato la nostra adesione. Questi ci forniscono beni e servizi, ma vogliono che seguiamo determinati comportamenti, che ci piaccia o no. Possiamo discutere con loro se sia possibile attenuare il loro rigore, ma non possiamo ignorare le pressioni che ci arrivano da loro.
Subito dopo vengono “gli amici” per i quali vale, anche nell’ambito delle relazioni internazionali, il vecchio proverbio “Dagli amici mi guardi Iddio”. Gli amici sono i Paesi che condividono i nostri stessi valori e hanno una comunanza di “interessi essenziali” con noi. Ciò non toglie che esistano aree di interessi divergenti, e bisogna fare attenzione a non farsi cogliere impreparati, quando in queste aree ci arrivano sgambetti o colpi bassi.
Seguono, poi, “i corrispondenti” con i quali intratteniamo buone relazioni, quasi sempre basate su scambi commerciali vantaggiosi per entrambi. Questi corrispondenti sono spesso preziosi, quando abbiamo bisogno del loro appoggio in questioni internazionali che ci coinvolgono particolarmente, come avvenne anni fa all’ONU quando l’Italia decise di affossare la riforma dell’Organizzazione, creando l’ormai famoso “Circolo del caffè”.
Sono due, però, le accortezze da seguire, con i mostri corrispondenti: la prima è quella della reciprocità, nota fin dai tempi dei Romani come “do ut des”. Sostanzialmente, l’appoggio dei corrispondenti va compensato con favori di valore simile. La seconda accortezza è che le richieste di favori ai corrispondenti non devono essere troppo frequenti, altrimenti si rischia di trovarsi di fronte a qualche rifiuto.
La quarta categoria è quella dei “sospettosi”, Paesi che nutrono nei nostri confronti una diffidenza, spesso legata a eventi del passato, nei quali il nostro comportamento nei loro confronti è stato quanto meno riprovevole. Questi Paesi, spesso ex colonie europee, vanno gestiti con infinita pazienza, e bisogna soprattutto rispettarne le suscettibilità, che non sono poche. Andare da loro, ad esempio, e non fare attenzione ai loro usi e costumi (come, ad esempio nei Paesi arabi, accavallare le gambe mostrando loro le suole delle scarpe) è la cosa più controproducente che si possa avere.
L’ultima categoria, naturalmente, è quella dei “nemici”. Attenzione! Ce ne sono di due tipi: i nemici permanenti, spesso per ragioni geopolitiche, e i nemici occasionali, animati da rancori o desideri di vendetta. Nei loro confronti, spesso, è inutile porgere il classico ramoscello di ulivo, dato che l’odio, a differenza dell’amore, è unilaterale. Non bisogna, quindi, lasciarsi sorprendere dai Paesi che ci odiano, e per questo è essenziale individuarli per tempo. Contro di loro l’arma migliore è la dissuasione: i loro governi devono capire che eventuali loro atti ostili sarebbero respinti con perdite. Quindi, bisogna disporre di uno strumento militare, di armi economiche, di una resilienza cibernetica e di una capacità di pubblica informazione che siano credibili, in modo da scoraggiarli.
Tutto questo si può notare dagli approcci differenziati che i due documenti strategici della NATO e della UE preannunciano. Se nella pratica gli organi decisionali seguiranno quanto preannunciato, l’Occidente potrà fronteggiare, con relativamente pochi affanni, la situazione che si è creata.
Come dicevano gli antichi, “in cauda venenum”. In tutta questa complicata opera in cui un Paese come il nostro cerca di sopravvivere in un mondo multipolare nel quale i Grandi sono dei giganti dai piedi d’argilla, ci si deve ricordare sempre che “la Storia è piena di esempi di Stati e di Imperi che hanno creato problemi di sicurezza intollerabili per altri, e che possono cadere vittime delle conseguenze di una cattiva gestione nella loro risposta ai classici dilemmi di sicurezza”[31].
Gli Imperi sorgono e tramontano con una velocità impressionante: pensate alla Spagna del XIX secolo e, più recentemente, alla Gran Bretagna che, nel corso di alcuni decenni dello scorso secolo è passata dallo status di Impero nel quale non tramontava mai il sole a quello di Potenza media regionale, con un’economia e una popolazione pari a Paesi come l’Italia.
Allearsi strettamente con un astro al tramonto, quindi, è sempre pericoloso, e bisogna soprattutto curarsi di essere in grado di sopravvivere, ed essere rispettati, anche quando ci si trova privi di questo sponsor. Ben venga, quindi, l’Unione Europea, che può costituire l’ancora di salvezza, nel caso di un crollo, sempre possibile di chi è il nostro “fratello maggiore”.
[1] C. S. GRAY, The Geopolitics of Superpower. The University Press of Kentucky, 1988, pag. 41.
[2] Per le conseguenze geopolitiche della pandemia sugli attori internazionali, statuali e non, si veda Sanfelice di Monteforte Ferdinando – Quadarella Sanfelice di Monteforte Laura, Il mondo dopo il COVID-19. Conseguenze geopolitiche e strategiche. Posture dei gruppi jihadisti e dell’estremismo violento, 2020, Milano, Mursia Editore.
[3] A. ERICKSON, L. J. GOLDSTEIN, C. LORD. China Goes to Sea. Naval Institute Press, 2009, pag. xxiv.
[4] H. ULLMAN. Three ways to ways to change world: govern better, calm down on China, undo BREXIT. UPI, 7 June 2023.
[5] BBC, Li Shangfu: War with US would be unbearable disaster, says China defence minister. 5 giugno 2023.
[6] M. de LEONARDIS, Una NATO rampante in un mondo diviso. In Rivista Marittima, Ottobre 2022, pag. 9.
[7] “Quante Divisioni ha il Papa?” è la nota frase che avrebbe pronunciato Stalin a Yalta.
[8] L. MIRACHIAN, Putin e l’Occidente, in AAVV. Il Mondo intorno a noi. Riflessioni di Ambasciatori nel Circolo di Studi Diplomatici. Greco & Greco Editori, 2017, pag. 111.
[9] EU, Shared vision, common action, a stronger Europe. June 2016, pag.3.
[10] Ibid. pag. 4.
[11] Ibid. pag. 9.
[12] Ibid. pag. 12.
[13] Ibid. pag. 14.
[14] Ibid.
[15] Ibid. pag. 15.
[16] Ibid. pag. 18.
[17] Ibid.
[18] Ibid. pag. 21.
[19] Ibid.
[20] IBid. pag. 24.
[21] A. T. MAHAN, Strategia Navale. Ed. Forum Relazioni Internazionali, 1997. Vol. I pag. 232.
[22] EU, Strategia Europea in materia di Sicurezza (Un’Europa sicura in un mondo migliore) 12 dicembre 2003.
[23] NATO Strategic Concept “Active Engagement, Modern Defence”, 2010, para 20.
[24] NATO Strategic Concept, 2020, pag. 1.
[25] Ibid. pag. 4.
[26] Ibid.
[27] Ibid.
[28] Ibid. pag. 5.
[29] IBid. pag. 11.
[30] Frase pronunciata, recentemente, a “Mattino Cinque News” il 22 marzo 2022.
[31] C. S. GRAY, The Geopolitics of Superpower. The University Press of Kentucky, 1988, pag. 93.