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LO YEMEN, GLI HOUTHI E IL MAR ROSSO[1]
Amb. Giacomo SANFELICE di MONTEFORTE
Dello Yemen e degli Houthi se ne sapeva poco prima del feroce attacco di Hamas del 7 ottobre e della dura reazione israeliana contro Gaza.
A oltre tre mesi da quella data, tra i principali protagonisti di un temuto ampliamento del conflitto figurano in prima fila proprio gli Houthi, con i loro reiterati attacchi diretti dalla costa dello Yemen contro il naviglio mercantile in transito in quel Mar Rosso, che per gli inglesi un tempo era la “vena giugulare dell’Impero”.
La storia recente dello Yemen, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, è segnata da conflitti e turbolenze politiche interne, fino ad oggi.
La prima grave crisi fu la sanguinosa guerra civile che oppose per otto anni i monarchici dell’Imam Badr, fortemente rappresentati nei gruppi tribali del Nord, ai rivoluzionari repubblicani che nel 1962 scacciarono la dinastia degli Imam Zayditi shiiti, per fondare la Repubblica Araba dello Yemen, con Arabia Saudita ed Egitto come sponsor degli opposti partiti.
Per i successivi quaranta anni, pur con alti e bassi, il governo-regime del Presidente Ali Abdullah Saleh (1978-2012) ha garantito una certa stabilità interna e ottenuto credito internazionale per la collaborazione offerta agli Stati Uniti nella lotta contro Al Qaeda, che tentava alla fine degli anni Novanta di insediarsi nel Paese.
Ma, alla fine, il regime del Presidente Saleh, dopo aver inutilmente cercato di debellare militarmente proprio gli Houthi, apparsi in quegli anni sulla scena politica, ed essere stato contestato duramente dalla “Primavera araba yemenita”, uscì di scena nel 2011, passando ogni potere al suo Vice Presidente Abd-Rabu Mansur Hadi, che trovò rifugio in Arabia Saudita.
Così, caduto il Presidente Saleh, ormai largamente screditato, e fallito il tentativo di un passaggio indolore alla democrazia attraverso la “Conferenza del Dialogo Nazionale” (2013-2014) frutto della “Primavera yemenita”, gli Houthi presero il potere nel settembre 2014 ed il controllo della Capitale Sana’a, e del centro-nord dello Yemen.
L’arrivo degli Houthi al potere provocò, nel 2015, l’intervento di una coalizione araba guidata da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti che, con l’appoggio di Stati Uniti, Regno Unito e Francia, iniziarono il conflitto che ha devastato lo Yemen per i successivi 8 anni con bombardamenti indiscriminati ad infrastrutture e centri urbani, nella difficoltà di colpire un nemico sfuggente.
I danni provocati in Yemen dall’intervento armato dei Paesi del Golfo sono stati così gravi da provocare quella che le Nazioni Unite hanno definito una delle peggiori catastrofi umanitarie mai viste al mondo. Un Paese già povero, è stato ridotto in uno stato di povertà estrema, con 4 milioni di profughi e 20 milioni dei suoi abitanti (ovvero due terzi dell’intera sua popolazione) ridotti in condizioni di assoluto bisogno alimentare e sanitario.
Così, lo Yemen si trova oggi, ancora una volta, in uno stato di guerra (anche se al momento vige una tregua, precaria, ma sostanzialmente rispettata), ed è diviso tra fazioni politiche armate tra loro antagoniste: agli Houthi nel nord (appoggiati dall’Iran), si contrappongono le forze che fanno capo al “Southern Transitional Council” ad Aden (con il sostegno degli Emirati Arabi Uniti), mentre Tareq Saleh, nipote del Presidente omonimo (ucciso in uno scontro con gli Houthi), alla guida dei suoi “Guardiani della Repubblica” controlla la città di Hodeida e la sua fascia costiera sul Mar Rosso, senza contare altri gruppi politici minori.
Per districarsi da questo “ginepraio”, indotto dal suo stesso intervento armato, i Sauditi hanno creato nel 2022 un “Presidential Leadership Council” che vuole essere premessa di un minimo di dialogo, suscettibile di dare stabilità politica all’interno e speranze ad un negoziato di pace tra la Coalizione delle Monarchie del Golfo e gli Houthi, che appare bloccato dalla intransigenza delle rispettive posizioni.
Ma chi sono questi Houthi e da dove spuntano fuori?
Il movimento Houthi nasce negli anni Novanta con il nome di “Ansar Allah” (Sostenitori di Dio) tra i gruppi tribali più tradizionalisti del nord dello Yemen, una volta difensori della dinastia shiita dell’Imam Zayidita. Il loro leader Hussein Badreddin Al-Houthi, nel frattempo caduto negli scontri contro il governo yemenita, ha rilanciato l’identità e la pratica religiosa Zaydita, di orientamento shiita, con l’obiettivo di diffonderla in tutto il Paese.
Lo Zaydismo è una variante locale della Shiia ed è diffuso nel nord dello Yemen e nel sud dell’Arabia Saudita e vanta alcune diversità dottrinali non secondarie rispetto alla dottrina Shiia prevalente in Iran e nelle altre aree del Medio Oriente che lo praticano.
Due le motivazioni alla base della nascita e del successo di questo movimento: da un lato, combattere la corruzione diffusa sotto il regime del Presidente Saleh e la sua collaborazione con gli Stati Uniti nella “guerra al terrore” Qaedista e, dall’altro, opporsi e reagire al proselitismo della tendenza sunnita “wahabita”, attivamente perseguito e generosamente finanziato in Yemen dall’Arabia Saudita, attraverso la proliferazione di moschee e di scuole coraniche sunnite.
La predicazione del riformatore militante arabo Mohammad Ibn Abd Al-Wahab (vissuto alla metà del 1700), centrata sul ritorno della Comunità Sunnita alla purezza originale dell’Islam, ha trovato un formidabile alleato nella Dinastia dei Saud che, conquistato nel 1932 il controllo dell’intera Arabia a spese della concorrente Dinastia degli Hashemiti, hanno fatto di questa dottrina puritana e fondamentalista il credo ufficiale del loro Regno saudita, e ne sostengono attivamente il proselitismo all’estero.
In ogni caso, lo scontro tra Zaydismo e Wahabismo ha introdotto in Yemen, ormai da venti anni, un ulteriore fattore di instabilità e di attrito sia all’interno della società yemenita, già di per sé frammentata ed arretrata, sia tra lo Yemen ed il suo potente vicino Saudita.
Così, anche in un Paese come lo Yemen, una volta laico, repubblicano e religiosamente tollerante (dove Shiiti e Sunniti avevano sempre pregato indifferentemente nelle stesse Moschee), si è proposta la contrapposizione tra queste due confessioni dell’Islam, assumendo per di più connotazioni politiche fortemente radicali.
Il movimento Houthi ha infatti adottato come sua bandiera politica, sull’esempio della Repubblica Islamica di Iran, lo slogan “Dio è grande, morte all’America, morte ad Israele, maledizione agli ebrei, vittoria per l’Islam”.
Alla sbandierata militanza contro Israele e Stati Uniti, si accompagna, sul piano interno, una gestione fallimentare dell’economia del Paese ed una politica repressiva verso giornalisti, pacifiche manifestazioni di dissenso e diritti delle donne: per molti, triste presagio della volontà di istituire uno Stato Islamico.
Parole e comportamenti radicali e intransigenti che trovano pieno riscontro e credibilità soprattutto nelle grandi capacità militari e nella grandissima determinazione posseduta e dimostrata dai combattenti per il movimento zaydita, ma anche seguito tra i giovani yemeniti.
Se gli Houthi sono infatti riusciti a respingere, prima, le reiterate offensive del Presidente Saleh, e poi, dal 2015, quella della coalizione araba a guida saudita, non lo debbono solo agli aiuti militari ricevuti dall’Iran ed alla inaccessibilità delle regioni del nord dello Yemen, ma anche e soprattutto, all’adesione di molti giovani al risorto movimento Zaydita.
Infatti, questo movimento si è rivelato un potente catalizzatore del diffuso scontento maturato tra i tanti yemeniti che, non trovando spazio nel contesto della dinamica, ancorché disordinata e corrotta economia yemenita durante il regime di Ali Abdullah Saleh, si rifugiarono nel militantismo religioso di stampo radicale proposto dagli Houthi.
Quindi, per motivazioni religiose, per vocazione radicale e per le capacità militari acquisite in venti anni di scontri armati sia contro il Governo di Sana’a, sia contro la coalizione Saudo-emiratina, la pericolosità degli Houthi non può essere sottovalutata.
Porre fine alla minaccia che gli Houthi fanno gravare sul traffico mercantile nel Mar Rosso si presenta come obiettivo assai arduo, anche per quanto emerso negli ultimi tre mesi trascorsi dopo il fatidico 7 ottobre scorso.
Innanzitutto, non solamente le tattiche impiegate dalle forze Houthi, basate sulla grande mobilità delle loro piattaforme di lancio, rendono difficile per le unità alleate riuscire a neutralizzarle, ma è inoltre difficile intercettare gli armamenti loro destinati dall’Iran, che giungono attraverso una miriade di piccole imbarcazioni e pescherecci (i Dhow) che portando ogni sorta di merci, legali ed illegali, sottraendosi ad ogni controllo.
Ma, al di là di questi aspetti di carattere operativo, non meno preoccupanti sono, sul piano politico, gli effetti della grande popolarità che queste loro azioni armate, dichiaratamente a sostegno della causa palestinese, hanno guadagnato agli Houthi presso le opinioni pubbliche arabe ed oltre.
Le diffuse simpatie così ottenute potrebbero infatti rendere gli Houthi ancora più intransigenti e meno disposti a recedere dai loro attacchi marittimi, a maggior ragione ora che tali azioni sono dirette anche contro le forze aeree e navali della coalizione guidata dal “Grande Satana”, ovvero gli Stati Uniti.
Ma, soprattutto, se il confronto armato a Gaza dovesse protrarsi, vi è il rischio che, come sembrano temere in particolare a Riad, questo stato di cose possa avere una serie di conseguenze non gradite: ad esempio, far risaltare il militantismo pro-palesinese degli Houthi a fronte della sostanziale cautela mantenuta dai Sauditi, oppure complicare ulteriormente il già difficile negoziato di pace tra gli stessi Houthi ed i Sauditi, se non addirittura portare ad una ripresa delle ostilità tra gli irriducibili guerrieri zayditi e la coalizione araba del Golfo, con la rottura della tregua fin qui vigente.
Di qui, le raccomandazioni di prudenza che Riad avrebbe rivolto a Washington, preoccupata che la reazione delle forze americane in Mar Rosso sia calibrata opportunamente mantenendo, per quanto possibile, una stretta proporzionalità rispetto a quelle degli Houthi.
Inoltre, sul piano interno allo Yemen, la popolarità internazionale acquisita dagli Houthi in virtù dei loro attacchi a sostegno della causa palestinese, soprattutto in caso di una eventuale escalation degli scontri in Mar Rosso, potrebbe tradursi in un rafforzamento del regime (fin qui in perdita di consensi) da loro imposto su di una popolazione stanca e devastata da otto anni di guerra, inducendolo ad inasprire le misure repressive contro ogni forma residua di libera espressione.
Gli strumenti a disposizione di Stati Uniti ed Europa per porre rimedio alla grave minaccia ed alla pericolosità degli attacchi condotti al naviglio marittimo in Mar Rosso da questi combattenti Houthi, bellicosi e politicamente intrattabili, non sembrano essere né tanti, né di sicuro effetto.
Certamente, l’azione di contrasto militare appare quanto mai necessaria, anche se probabilmente non decisiva, viste le efficaci tattiche guerrigliere messe in atto dagli Houthi e le preoccupazioni arabe di derive politiche non desiderate in caso di una eventuale escalation degli scontri. Anche l’effetto di sanzioni finanziarie contro la loro leadership non sembra poter giocare altro che un ruolo complementare.
Quanto poi alla rinnovata iscrizione del movimento Zaydita nella lista delle organizzazioni terroriste da parte degli Stati Uniti, al di là dei suoi meriti propri, potrebbe avere effetti secondari indesiderati, quali rendere più difficile l’accesso della popolazione yemenita agli aiuti umanitari internazionali tanto necessari, anche nell’ottica di evitare che questo provvedimento sia percepito come “punitivo” nei riguardi della intera popolazione yemenita.
Per quanto problematica possa apparire, spetta soprattutto all’iniziativa diplomatica il duplice compito di concorrere a limitare le minacce in Mar Rosso, ma anche quello di predisporre un auspicabile ristabilimento di condizioni di stabilità e di pacifica convivenza non solo in Israele ed a Gaza, ma anche in Yemen e tra questo tormentato Paese e i suoi vicini del Golfo, una volta superata la crisi in corso.
Con riferimento al primo obiettivo, c’è sentore di un possibile coinvolgimento diplomatico della Cina per indurre Teheran affinché freni gli Houthi dal mettere in crisi una rotta marittima strategica che dall’Asia porta in Europa, ed oltre, tonnellate e tonnellate di merci cinesi: peraltro, gli esiti non sembrano scontati.
Ben più decisivo sarebbe la cessazione degli scontri a Gaza sulla base di intese di tregua concordate tra Israele ed Hamas: ai guerrieri Zayditi verrebbe infatti a mancare la motivazione principale di queste loro azioni aggressive, anche se rimarrebbero sostanzialmente inalterati lo stato di forte contrapposizione e le tensioni prepotentemente emerse nell’Arabia meridionale in questi ultimi otto anni e, in Mar Rosso, in questi ultimi tre mesi.
In buona sostanza, la diplomazia internazionale dovrebbe sollecitare una molteplicità di sforzi diplomatici aggiuntivi, per portare, attraverso soluzioni negoziali, stabilità e pace in tutta la penisola arabica.
Tra questi sforzi aggiuntivi, dovrebbe figurare innanzitutto quello di rilanciare il negoziato di pace tra Houthi e la coalizione araba guidata dall’Arabia Saudita, non appena le condizioni generali della crisi lo permetteranno.
Si tratta di un passaggio, certo difficile, ma suscettibile di abbassare stabilmente la tensione in tutta la regione, anche se l’intrattabilità delle posizioni negoziali tra le parti e l’impressionante ammontare dei danni lasciati sul terreno non lasciano certo ben sperare.
Il ruolo di maggiore responsabilità, per i motivi storicamente evidenti sopra ricordati, spetta certamente all’Arabia Saudita, già d’altra parte impegnata in questa direzione, ben conscia, si presume, dei vantaggi di chiudere il capitolo bellico con gli Houthi ed uscire da una situazione, da molto scomoda a potenzialmente molto preoccupante.
Un virtuoso precedente esiste ed è quello che vide l’opera di pacificazione che nel 1970 pose fine alla prima guerra civile yemenita grazie ad un autorevole e rispettato giurista yemenita, Abd Al-Rahman Al-Iriani poi Presidente della Repubblica che, con spirito di compromesso ed il sostegno della società civile yemenita, trovò modo di far cessare le ostilità ed aprire una stagione di pace e di sostanziale stabilità interna, durata per quarant’anni, fino al 2011, l’anno delle “Primavere arabe”.
Più oltre, un negoziato di pace concluso con successo potrebbe anche aprire la prospettiva di una pacifica integrazione dello Yemen in un contesto regionale dal quale questo Paese si differenzia per una molteplicità di fattori: quasi pari per popolazione all’Arabia Saudita, ma povero, collocato in una Penisola arabica di Paesi ricchissimi ma poco popolosi, repubblicano e fin qui laico (pur se ora governato in parte da un movimento shiita) tra Monarchie di stretta osservanza sunnita, nonché dotate di grandi giacimenti di petrolio e di gas, con il conseguente strapotere geopolitico che deriva loro da tale condizione.
Proprio guardando ai profondi contrasti che ancora dividono lo Yemen dagli altri Paesi della Penisola arabica, viene da chiedersi se le tensioni riformiste manifestate dalla attuale leadership al potere a Riad, proprio per la dichiarata ambizione di voler aprire un capitolo nuovo nella storia del Regno Saudita nel segno della modernità e di ulteriore progresso civile e sociale, non debbano misurarsi anche con il tentativo di risolvere il caso Yemenita, per una volta, con mezzi politici e diplomatici, e dare così un durevole contributo di stabilità e di pace all’intera regione.
Certo, la sfida si prospetta difficile ma ambiziosa: si tratterebbe per Riad ed i Paesi del Golfo di abbandonare una consolidata politica di “contenimento” dello Yemen basata sul sistematico ricorso ad un mix di pressioni politiche o economiche e, all’occorrenza, militari, i cui risultati drammaticamente negativi sono oggi sotto gli occhi di tutti: l’alternativa essendo piuttosto quella di optare per una strategia di integrazione politica ed economica scevra da discriminanti o pregiudiziali di carattere religioso o istituzionale.
Uno Yemen unito anziché frammentato, sviluppato anziché impoverito e integrato nella regione di appartenenza è all’evidenza nell’interesse sia dei Paesi arabi del Golfo, sia, più in generale, della Comunità internazionale intera, come la crisi che ha investito e continua a minacciare anche la navigazione in Mar Rosso ha appena dimostrato.
[1] LETTERA DIPLOMATICA n. 1369 – Anno MMXXIV, 1° febbraio 2024, CIRCOLO DI STUDI DIPLOMATICI