Scarica il file in PDF – tesi savastano APPROFONDIMENTI SUL TERRORISMO
Analisi del contagio jihadista in occidente e della fenomenologia operativa
Marcello Savastano
(tesi Master in “Geopolitica della sicurezza”, Università degli Studi Niccolò Cusano UNICUSANO – a.a. 2016-2017 – relatore Prof. Laura Quadarella Sanfelice di Monteforte)
PREMESSA
CAPITOLO 1: LE RAGIONI DELLA SUADENZA JIHADISTA
- Il social network tattico
- Applicazione militare dei social: una possibilità di counter-intelligence.
- Sulla persuasività del messaggio jihadista
- La politicizzazione della ummah
- Creazione ed individuazione di un nemico interno
- Il “brand” jihadista strategico
CAPITOLO 2: FISIONOMIA DEL NEMICO INTERNO E “SALAFIZZAZIONE” DELLA SOCIETÀ
- Sul salafismo ed il relativo “precipitato” europeo
- Purificazione sociale e demonizzazione
- Salafismo ed ordine pubblico del Califfato: il canto delle sirene
CAPITOLO 3: L’INDIVIDUALISMO DELLA RADICALIZZAZIONE OCCIDENTALE
- Breve storia del jihadismo europeo e lo “spontaneismo” di Inspire
- Psicodinamica della radicalizzazione: un’ipotesi ricostruttiva
- Controllo della devianza
- Percorso di radicalizzazione violenta
- Il bifrontismo del terrorismo “fai-da-te”: l’homegrown terrorist ed il foreign fighter
- Lone Wolf: analisi del modello operativo
CONCLUSIONI
PREMESSA
Gli anglofoni definiscono Othering il processo cognitivo attraverso il quale un gruppo sociale ne etichetta e ne denigra un altro, al fine di evidenziarne in termini deleteri l’alterità negativa rispetto a sé stesso. Un termine sintetico che, tuttavia, offre un’ampia gamma di riflessioni sociologiche, politiche e, finanche, criminologiche (nel senso lato di studio della devianza). Il “Terrorismo”[1] si è da sempre alimentato di questa particolare metodologia dell’identificazione sociale[2], evolvendo anche nelle forme più acute della demonizzazione del diverso e del nemico: questo è particolarmente evidente, peraltro, nel caso del terrorismo islamista ove, essendo la religione il primo motore da cui prendono le mosse atti di violenza, tutto si riduce ad una eterna lotta tra il male ed il bene, il giusto e l’ingiusto. Tra il Dar al-Islam e il Dar al-Harb.
Ma l’othering, a differenza della demonizzazione, si situa in una fase precedente, sicuramente causale e sicuramente necessaria: in poche parole, il mettere da parte, distanziando una categoria sociale dalla propria ed etichettandola come “peggiore”, precede cronologicamente il demonizzarla. Questo passaggio è di una certa importanza se si considera che il terrorismo islamico ha provocato proprio questo effetto sul sistema di credenze occidentali. L’othering arabo è, anzi, il principale effetto collaterale degli attentati jihadisti: il percepire una diversità denigratoria verso l’Islam, ma anche verso lo stesso salafismo, è diventato un ingrediente fondamentale (e l’avverbio non è casuale) per le politiche populiste dell’Europa e del Nord America. L’insinuarsi della xenofobia nell’approccio sociale è tra gli effetti collaterali più perniciosi e subdoli del terrorismo islamico, ovvero la fobia (phobos) del diverso (xenos). Il “terrorismo” genera questa fobia che, come tutte le fobie, non è altro che una paura illogica.
Questa paura illogica è la stura di buona parte delle derive istituzionali, politiche e giuridiche del post Undici Settembre in Occidente[3], su cui sostanzialmente si articola la “guerra al terrore” (war on terror), espressione accuratamente aggirata dall’amministrazione Obama e ora tornata in voga, la cui genesi ed inaugurazione mediatica risale al Presidente Bush esattamente dieci giorni dopo gli attentati, il 21 settembre 2001.
Nella sua atipicità, la “guerra al terrore” si è posta come un tertium quid tra la guerra tradizionale, cui si applicano le Convenzioni di Ginevra, ed il terrorismo, cui si applica il diritto penale interno, giustificando la disapplicazione di entrambi[4]. Un nuovo percorso in cui, nella sua totale illibatezza critica[5], trovano spazio misure come il Patriot Act[6] o l’istituzione di carceri a là Guantanamo, e altre che sarebbe inutile elencare, perché in quelle citate trovano già il loro paradigma.
La sistematica manifestazione di queste “aberrazioni” civili – in seno all’Occidente – ha comunque una sua coerenza e il senso, a parere di chi scrive, è quello di un nuovo corso storico, di cui si stanno saggiando gli effetti. Il che Ci colloca in una sorta di “neo-medioevo”, nel quale siamo ancora troppo avviluppati nella sua estrinsecazione per poterlo osservare da una certa distanza. Non si può infatti semplicemente parlare di regressione della civiltà occidentale, dal momento che la path-dependence del divenire storico si snoda attraverso una inesorabile linearità e, come corollario, ne discende che la compressione di libertà e diritti costruiti in secoli di storia civile non può avvenire tout court, ma sempre con una deliberata e consapevole volontà di modificazione. La sensibilità giuridica diventa, in risposta alla fobia, puro cinismo apologetico.
Per cui, l’egida dell’antiterrorismo occidentale, basato sostanzialmente su una frenetica attività di normazione liberticida, pur promettendo un’invulnerabilità dagli attacchi jihadisti, di fatto innalza esclusivamente la soglia di sicurezza individuale di un gradiente infinitesimale, dando solo un senso di rassicurazione sociale, in termini quindi di percezione di sicurezza collettiva, ma non protegge affatto dalla minaccia reale una sola entità biologica[7].
Se così è, bisogna riconoscere che l’unico modico per curare una paura illogica è ricondurla ad una logica. La logica naturale della paura è il difendersi da una minaccia reale, appunto. Nei più tradizionali approcci analitici, il primo passo che occorre intraprendere per restituire effettività alla sensazione di pericolo è soppesare, definire ed argomentare in che cosa consista questa minaccia reale. Nel caso del terrorismo (soprattutto c.d. “molecolare”), si tratterà di riscoprire o identificare l’altro, lavando la patina di pregiudizio provocata dall’othering: questa operazione cognitiva, probabilmente, aiuterà a guardare con maggiore lucidità il fenomeno del jihadismo globale contemporaneo. Non è semplice.
Non è semplice perché è una disputa millenaria tra due emisferi culturali, occidente ed oriente, impregnati di una dualità che ha trovato, simbolicamente, le sue epifanie storiche a Poitiers, Lepanto e Gerusalemme… Una storia fatta di contrapposizione (si direbbe) irriducibile e che, ad un certo punto, ha visto crescere uno scarto tra gli standard sociali dell’uno e dell’altro[8].
Eppure la contemporaneità si caratterizza da una rottura degli argini geografici. È il caso dei flussi migratori, mai così massicci, che hanno di fatto modificato la compattezza antropologica di due universi impenetrabili e, negli anni, ha aperto la strada ad un nuovo modello di multiculturalismo, ovviamente per adesso solo in Occidente[9].
Le Information and communication technologies (I.C.T.)[10], in generale, e i social network, in particolare, hanno fatto il resto, rendendo secondario lo spostamento fisico, lasciando quindi che le idee e le ideologie viaggiassero da una parte all’altra del globo senza necessità di gambe che le sorreggessero. Ma anche dando la possibilità di creare canali di comunicazione tra individui estremamente distanti tra loro, senza che la formulazione del messaggio si diradasse o di disperdesse in mille rigagnoli esegetici: Al Qaeda e IS[11] hanno sapientemente usato questa risorsa per reclutare e propagandare. La virtualità delle relazioni tra i vai hub della rete, quindi, ha poi assurto a dignità di una strategia universale, svincolata dal regionalismo delle singole tattiche terroristiche: l’intuizione qaedista, così, di fornire una piattaforma ideologica e logistica si è evoluta al punto da trovare una perfetta collocazione ubiqua (come si argomenterà) e trasversale, coinvolgente nuovi adepti al di là di uno spazio fisico dove consumare materialmente la lotta, come ad esempio la Siria o l’Iraq, o delle radici ambientali il cui background rende estremamente complessa una compatibilità con l’Islam radicale, come ad esempio l’Europa ed il Nord America. Stiamo sperimentando la pervasività del jihadismo in ambienti del tutto neutri alla “causa” del jihad, e questo provoca smarrimento ed inquietudine. Appunto: quell’othering demonizzante da cui siamo partiti, e che ci può condurre solo alla xenofobia.
L’Othering abbiamo detto essere un termine sintetico che, per complessità dei contenuti racchiusi, trova difficilmente una coincidente traduzione terminologica in altre lingue. In italiano, ad esempio, non esiste un involucro lessicale capace di contenerne la semantica esatta: tuttavia, facendo leva sulla radice “other”, ovvero “altro”, una traduzione dal forte impatto evocativo si potrebbe azzardare. Othering come Alterazione, quindi il processo di rendere “altro”. Meccanicamente, e quindi lasciando intatto l’etimo nei due idiomi, una traduzione di questo genere è perfetta. Ma l’impatto evocativo nella nostra lingua è ancora più pregnante se si valuta l’effetto sociale, e quindi il tema trattato in questa Tesi. Il termine “alterare” indica, precisamente, “modificare l’essenza, l’aspetto o la funzionalità di qualcosa specifico, peggiorandoli”, ovvero “falsificare, contraffare”[12], il che non è propriamente l’othering anglofono, o lo è in parte. Una società affetta da othering è una società alterata. L’Occidente si è alterato a causa del jihadismo, diventando altro da sé. Il caso di Guantanamo Bay, come già accennato e di cui si parlerà succintamente per il valore simbolico che ha assunto al dischiudersi del nuovo millennio, restituisce questo senso di alterazione, ovvero di modifica peggiorativa dell’essenza, questa volta, giuridica e civile. Non è un rinnegare sé stessi, ma è uno scoprire una modificazione del proprio genoma culturale che, modificatosi con le esperienze del nazifascismo, nel costituzionalismo postbellico sembrava aver trovato la massima consacrazione storica. Il che era avvenuto, ma ora si è alterato, dando linfa a politiche antiterrorismo del tutto nuove, frutto di una nuova percezione del rapporto libertas-sicuritas che, inevitabilmente, segna una nuova stagione, quella a cui ci stiamo affacciando, la stagione del “contagio jihadista”.
Un “neo-medioevo”, quindi, che consente di riflettere anche su un ulteriore criterio metodologico, che costituisce una chiave di lettura indispensabile del lavoro che seguirà: il jihadismo in generale e il jihadismo di Al Qaeda e di IS, in particolare, non sono ancora materiale “storiografico”. La storia, intesa semplicemente come lo scorrere del tempo, non li ha ancora sgrondati della loro carica emotiva, per cui da materiale di “cronaca” non sono ancora diventati materiale “scientifico”, “storiografico”. Ciò che accade nel mondo occidentale alterato, contagiato lo stiamo sperimentando momento per momento. Non c’è quella distanza cronologica che ci permette di diagnosticarne le cause profonde e gli effetti lontani, secondo l’intuizione erodotea, se non in via di prima approssimazione. La complessità del fenomeno la avvertiamo dai sintomi transeunti, siano essi le radicalizzazioni on line o gli attacchi dei loner nel cuore delle capitali europee. Rispetto a questi sintomi, probabilmente, il primo dovere analitico è quello di rassegnarli e categorizzarli, ricostruendone un ordine sistemico. Una logica, si diceva, per scemare la fobia.
Nel corso della Tesi si cercherà di sviscerare, in particolare, le ragioni del contagio jihadista in Occidente, il che rende – auspicabilmente – la fobia meno illogica e, di conseguenza, si proverà a mitigare il senso di paralisi dinnanzi ad un’ipotesi ricostruttiva dei modelli operativi e psicodinamici del terrorismo islamista.
CAPITOLO 1. LE RAGIONI DELLA SUADENZA JIHADISTA
- Il social network tattico
Occorre chiedersi il perché dell’invasione, da parte delle organizzazioni terroristiche, e dell’IS soprattutto, del mondo del web, e dei social network in particolare. “È un po’ come se centinaia di radioamatori nascosti in un’isola sperduta nell’oceano irrompessero a sorpresa con le loro trasmissioni, a brevi intervalli su tutte le nostre principali frequenze radio, saturandole […]”[13].
Alcune considerazioni generali possono facilitare nell’individuazione di un focus di analisi, su cui incentrare il contesto argomentativo. I social, dotati di naturale pervasività, si insinuano anche negli angoli più marginali dell’ambiente sociale, donando linfa e presunzione di centralità a chi vive nelle contraddizioni della periferia. È, infatti, in quel labirinto molecolare all’ombra della luce sociale che si annidano l’alienazione e la polverizzazione della comunità ed è lì che i social network svolgono la loro funzione “storica”: dimenticati per secoli negli slums, nelle banlieue, nelle borgate, i cittadini “marginali” (laddove la marginalità è sempre una prospettiva rispetto all’amministrazione del potere centrale) ritrovano un nuovo angolo da cui misurare la distanza dal cuore della città/delle città, dalla rete dei servizi che, se prima arrivava via via più diradata nell’allontanarsi dal core urbano, ora – attraverso la telematica – sembra insistere ovunque, con la stessa intensità e uguale prestigio. È l’illusione virtuale dell’ubiquità e dell’immediatezza, pertanto, a riconfigurare il senso di appartenenza individuale alla “società dei social”, intesa come piattaforma relazionale virtuale in cui l’abbandono lascia il posto ad una nuova dignità del posizionamento fisico dei luoghi.
A ben vedere, questa neonata percezione soggettiva, che si irradia a partire da una inedita metafisica collettiva (il web), ovvero questo nuovo sistema di credenze su cui fondare le relazioni umane, ha totalmente sovvertito il senso di “simmetria” dell’intelaiatura urbana e, con sé, il senso dei luoghi ha perso parte della propria carica simbolica[14], ricollocando il rapporto il rapporto centro-periferia anche nelle città. L’“asimmetria” è il nuovo modello spaziale anche del conflitto, d’altronde, e coerentemente a quanto è stato notato da osservatori più attenti in tema di comunicazione[15], quella dell’IS è una guerra asimmetrica anche sul piano mediatico, non solo su quello virtuale. Il web ha sfumato i margini delle periferie, facendo immaginare ed avvertire agli abitanti dei quartieri disintegrati la sensazione dell’agorà, sia essa di Raqqa o di Milano, assecondando la natura tipicamente ubiqua della “sostanza” virtuale. L’esasperazione del web, col mito correlato della centralità della propria individualità rispetto alla rete delle persone che vi partecipano, comporta la frammentazione del tessuto urbano e sociologico e la ricomposizione di questi su chiave egocentrica. E su chiave eterea. Un egocentrismo etereo. Una frammentazione culturale riassorbita dall’io-socialnetwork, inesistente fenomenologicamente ma narcisisticamente funzionale ad una proiezione del sé.
Una condizione del genere è facilitata dal fatto che non c’è responsabilità sull’etere, perché la persona è sganciata dalle sembianze fisiche che la caratterizzano inequivocabilmente e, quindi, da un’identità universalmente distinguibile. E anche perché, soprattutto, non esistono “azioni virtuali”, se non come stridente ossimoro, la cui enfasi lessicale è svuotata di qualunque significato pratico. Un profilo social manca di humanitas. Manca, cioè, della libertà di decidere come trasformare l’ideazione in azione. Nessuno è realmente responsabile di quello che accade sul web. Meglio: nessuno si sente realmente responsabile di quello che accade sul web, o di quello a cui contribuisce affinché accada. Questo agevola anche l’introduzione in sistemi di informazione che, un tempo, erano protetti da un’aurea di proibizione. Il senso del proibito (come del pudore) costituiva una vera e propria cortina di resistenza, un guscio, in grado di proteggere il mantra di un framework informativo e di dissuadere da intrusioni ingenue chi non era cognitivamente preparato a reggerne il peso o l’orrore. Ora l’accesso è facilitato dalla pressoché incoercibile fruibilità del messaggio introdotto su internet, che si insinua ovunque. La propaganda, in passato, veicolava un messaggio estetico, finalizzato a rendere attraente o accettabile un regime. Ma non sviscerava il senso politico del regime stesso. Veicolava ideologie, non idee. E soprattutto lo faceva in maniera generalista, interagendo per categorie di persone, e non individualmente. Oggi la nuova propaganda, quella dell’IS, veicola un senso di responsabilità “religiosa” rispetto al jihad, e l’utilizzo del social network fa sì che essa si “attagli” o “reagisca” col singolo sostrato culturale, identitario ed esistenziale dell’utente. Lo fa senza escludere nessuno: il coinvolgimento è ubiquo e trasversale, quindi nessuno ha responsabilità di secondo ordine, perché tutti – uno per uno – sono contemporaneamente entrati nella cognizione della guerra da combattere e dei motivi che ne sottendono lo sforzo bellico, finanche il sacrificio della propria vita. Non è una semplice chiamata alle armi. Si può vivere senza una sovrastruttura filosofica: altri terrorismi richiedevano una sorta di aristocrazia culturale per poterne accedere agli scopi. Il comunismo o il fascismo non sono beni necessari dell’uomo. Il senso di Dio lo è certamente. La galassia jihadista smercia attraverso la propaganda non una visione politica in sé ma, soprattutto, diffonde un bene primario, una fede in cui credere, una religione da praticare e a cui ascriversi attraverso l’azione.
E qui il loop telematico trova sfogo, regalando un’azione all’egocentrismo etereo, capace di spiegare l’efficienza militare del social network. Lo stratega della rete, agendo individualmente sull’utente informatico, percepisce che senza la possibilità di azione (sul piano della virtualità non c’è movimento) non c’è responsabilità. Non c’è manovra. E senza responsabilità non c’è libertà: il vero trionfo tattico del terrorismo che attrae sui social consiste nell’aver gratificato la solitudine dell’individuo marginalizzato, dandole una dimensione (il web) e un’opportunità (l’ideologia jihadista) di rivincita, disimpegnandolo dal tessuto sociale in cui vive e, dopo averne portato all’estremo il percorso di rivalutazione esistenziale, paralizzandolo. E questo avviene soprattutto in “Occidente”, ammesso che esso esista come ambiente fisico e non piuttosto come brand ideologico al quale contrapporsi, dove la fruibilità dell’internet è maggiore che in altre parti del globo.
I contenuti mediali dei social dell’IS, interagendo sul singolo individuo e sulla volontà di “smarginalizzarsi”, gli offrono quindi la possibilità di creare un mondo su misura, in cui il sacrificio individuale per il jihad lo ricolloca al centro dell’universo, un universo virtuale che può costruire al prezzo dell’azione. L’inattività, la paralisi, ad un certo punto terminano in un acting-out. La radicalizzazione esplode nella scelta di uscire dal web e, in qualche modo (e si vedrà in quali), entrare a far parte della vita reale, del conflitto reale. Questa nuova propaganda è “biopolitica”, nel senso foucaultiano, perché – pur nell’asservimento ideologico avvenuto on line – occorrono corpi che combattano o si facciano esplodere, come delle smart bombs, nei meandri più impervi se non impossibili da raggiungere con eserciti. Come ad esempio il teatro Bataclan, la redazione di Charlie Hebdo, il lungomare di Nizza o La Rambla di Barcellona….
Per cui, come è stato intuito[16], per quanto fattori di discriminazione e integrazione socio-economica non vadano ignorati, è più utile cercare le radici della radicalizzazione di un soggetto nel suo profilo psicologico e nella sua ricerca di un’identità altrove. Il nuovo palcoscenico è l’Islamic State, al pari di una Terra Promessa[17] o di una El Dorado; una nuova dimensione su cui rifondare se stessi. È la dimensione reale di cui il mondo virtuale ne è solo un’anticipazione profetica e in cui, partecipandovi, si accede ad una nuova centralità. In quest’ottica, unirsi a IS non è un atto razionale, ma un gesto emotivo[18], frutto della radicalizzazione (da intendersi anche nell’evocativo significato di mettere radice).
- Applicazione militare dei social: una possibilità di counter-intelligence.
Non tutto il male viene per nuocere.
Esporsi sistematicamente sui social ha anche i suoi potenziali vantaggi investigativi (e non solo) nel campo della lotta al terrorismo. Certamente fungono da catalizzatore della propaganda ma, proprio in relazione a questa, il monitoraggio dei partecipanti al mondo multimediale è anche un indice statistico del contagio ideologico jihadista. Si noti che è impossibile fornire numeri esatti data, tra le varie complicazioni, l’arbitrarietà di certe categorizzazioni e la difficoltà di ottenere dati inoppugnabili. In base a quest’attività di ricognizione sui social network, ad esempio, è stato stimato[19] che siano almeno una quarantina, forse una cinquantina i soggetti attivamente coinvolti in questa nuova scena jihadista autoctona italiana.
Certamente: i cc.dd. “leoni da tastiera”, nella maggior parte dei casi, non lasciano mai seguire azioni concrete alle intenzioni, più o meno terrificanti piuttosto che terroristiche, dichiarate su una chat. Ma è un “indice di attrattività” quello che ci interessa ricavare dall’analisi dei social, un indice di attrattività che, se opportunamente sviluppato, può costituire una nuova frontiera delle indagini sotto copertura, dello spionaggio, dell’undercovering[20].
È d’altronde proprio il massiccio utilizzo di canali tradizionali e postmoderni di comunicazione a rendere l’IS (che spicca decisamente su Al Qaeda per il sapiente “handling” dello strumento mediatico) che ci consente di conoscere l’IS stesso. Come nel caso di un quadro d’arte agli occhi di un clinico, è la capacità di apprezzare le singole componenti che costruiscono l’estetica, e non l’estetica stessa, ad essere la principale fonte di interesse. Il disegno raffigurato appare senz’altro significativo, perché veicola un messaggio. Ma lo spirito speculativo si aziona a partire dalla tela che lo contiene, e dalle considerazioni su chi ne ha intessuto gli orditi, chi ne ha preparato i colori sulla tavolozza, chi ha deciso un’angolatura di raffigurazione e non un’altra; ancora: il motivo che spinge a dipingere, l’idea stessa di applicare una cornice piuttosto che un’altra, di che legno è fatta, perchè è laccato o meno, di che colore è stata immaginata la parete su cui appenderlo, chi ne ha inciso gli orpelli e perchè è a un chiodo e non a due… E l’elenco delle domande sull’anatomia di un quadro potrebbero potenzialmente continuare all’infinito.
È da questa attitudine decostruttiva che emerge un carico di informazioni indirette su cui si fonda l’ipotesi anatomica dell’organizzazione terroristica. L’unico modo di accedervi nel mantra criminogeno, sgomberando il campo dal fumo multimediale. Si pensi al caso, peraltro molto rappresentativo in chiave prettamente giuridica perché è una delle prime applicazioni giurisprudenziali dell’art. 270 quater c.p. (arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale), che recentemente ha riguardato tre cittadini albanesi, colpiti da ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa il 26 febbraio 2015 dall’Ufficio GIP del Tribunale di Brescia, in quanto ritenuti responsabili di aver tentato di arruolare nelle fila di un gruppo jihadista uno straniero di nazionalità marocchina. La disamina dell’attività investigativa, e del riverbero giudiziale, risulta particolarmente interessante perché tiene conto – finalmente dopo la riforma del d.l. 7/2015 – che il materiale perfezionamento dell’arruolamento in ambito di jihadismo molto spesso non avviene per mezzo di collegamenti “diretti”, bensì attraverso la rete internet, elemento che certo rende difficile la concreta individuazione di un sinallagma tra i protagonisti, giacché l’accordo giuridico sfugge a logiche tradizionali, avvenendo in uno spazio virtuale.
In particolare[21] i tre albanesi, di cui uno solo effettivamente residente in Italia, avrebbero svolto “attività di propaganda e indottrinamento circa l’ideologia jihadista”, ricercando sul web eventuali adepti e individuando in particolare due cittadini marocchini. Una volta stabilito il contatto, i tre indagati avrebbero verificato l’effettiva disponibilità degli arruolandi “mediante scambi di messaggi e materiale inneggiante al terrorismo islamico e alla pratica del martirio” e fornito loro “supporto logistico in territorio albanese”, al fine di facilitarne l’arrivo in Siria e la conseguente partecipazione al conflitto armato. Il provvedimento restrittivo, basato un imputazione di tentativo di 270 quater, risulta il frutto di un’articolata attività investigativa che ha consentito la captazione di messaggi ed elementi informativi da cui si è dedotta l’univocità e l’idoneità delle azioni poste in essere dagli indagati al fine di un possibile reclutamento del soggetto da loro “agganciato”. Punto di vista interessante, perché riconosce la natura di reato a condotta libera dell’art. 270 quater, così aumentando l’efficacia nel caso di ricostruzione delle ramificazioni dei profili operativi dei social: “[…] la norma deve essere interpretata così da ricomprendere tutte le condotte poste in essere nel territorio dello Stato italiano che contribuiscano all’arruolamento. In questa prospettiva devono ritenersi rilevanti, a titolo esemplificativo, la presa di contatto con i combattenti all’estero in modo da organizzare l’arrivo in loco dell’aspirante, nonché il concreto ausilio prestato eventualmente sotto il profilo informativo, per oltrepassare i confini degli Stati ove sono in corso le operazioni terroristiche, ove poi vi sia stato l’effettivo inserimento dell’arruolato nella formazione combattente”. Pronuncia cautelare, questa, che fa eco alla sentenza della Corte di Cassazione Sez. 1^, nr. 1072, emessa l’11 ottobre 2006 (depositata il 17 gennaio 2007): sentenza fondamentale, relativa alla cellula qaedista lombarda di “Ansar Al Islam”, perché cristallizza i criteri generali di valutazione cui le corti di merito devono attenersi nella valutazione della sussistenza di profili di responsabilità penale ex art. 270 bis nei confronti di militanti di gruppi terroristici internazionali. Per quanto ci riguarda, la Corte precisa che: “[…] la struttura organizzata deve presentare un grado di effettività tale da rendere almeno possibile l’attuazione del progetto criminoso e da giustificare, perciò, la valutazione legale di pericolosità, correlata alla idoneità della struttura al compimento della serie di reati per la cui realizzazione l’associazione è stata istituita. In caso contrario, ossia se la struttura associativa fosse concepita in termini generici, labili ed evanescenti, l’anticipazione della repressione penale finirebbe col colpire, attraverso lo schermo del delitto associativo, il solo fatto dell’adesione ad un’astratta ideologia […]”. Come si evince, il ruolo dei Tribunali non è facile, essendo schiacciato il giudice tra l’incombenza del rule of law e la sostanza virtuale delle condotte incriminate: da cui la difficoltà per gli inquirenti di condensare indizi concreti, che rispondano al paradigma probatorio dell’art. 192 c.p.p.. Certamente, la valutazione della pericolosità sociale attiene anche alle sedi della prevenzione amministrativa (si pensi alle espulsioni di presunti foreign fighters), ma solo in quella penale la ricostruzione del fatto storico assume un ruolo preminente, poiché costitutiva del riconoscimento della colpevolezza. E la ricostruzione del fatto significa il disvelamento dei meccanismi di funzionamento del jihadismo attecchito in Italia[22]: l’analisi dei percorsi criminosi che conducono da un soggetto ad un altro, attraverso la decostruzione delle reti telematiche, può apparire evanescente agli occhi del rigoroso principio costituzionale della presunzione di innocenza. In attesa di un allineamento tra sensibilità storica, legislativa ed interpretativa, tutto l’unbundling della catena del terrore resta patrimonio degli investigatori e delle società di intelligence.
Tornando alla possibilità di decostruzione attraverso l’analisi del social, in ogni caso e come si è detto in precedenza, è la disgregazione sociale da questi causata a consentite alla propaganda ed al reclutamento islamista di infiltrarsi negli interstizi più sottili del “compatto” mondo occidentale. Questo, come ogni meccanismo capillare, può far seguire ad una prima fase di irrorazione una seconda di filtrazione e riassorbimento. Il che crea delle cellule, tutto sommato, avulse dalla fonte principale, addirittura atomiche, ma ad essa del tutto somiglianti. Trasfigurando il principio in istruzioni operative, si consideri il manuale di addestramento di Al Qaeda, la 5° lezione recita: “[…] l’Organizzazione adotterà metodi di raggruppamento in celle. Essa dovrà essere composta da molte celle i cui membri non hanno la conoscenza gli uni degli altri. In questo modo se un membro verrà catturato, le altre celle potranno continuare normalmente la loro attività […]”. L’implementazione su piattaforma web di questo principio è l’esatta fisionomia associativa assicurata dai social network.
Come è stato notato, una rete sociale nella sua forma più elementare ed astratta è un insieme di punti (nodi) uniti da segmenti (link). I nodi sono gli individui, i link sono le relazioni tra nodi, formali o informali, stabili o temporanee, definite o casuali. Le reti reali si sviluppano in modo spontaneo e sono caratterizzate dal fatto che i nodi non sono tutti uguali tra loro come pure i link. Ci sono nodi che possiedono una particolare capacità di attrarre su di loro i link da altri nodi interni o esterni alla rete. Questa capacità è chiamata fitness[23]. L’hub è un nodo con molti collegamenti grazie alla sua elevata fitness. È un riferimento all’interno della sua rete e l’architetto della sua evoluzione.
La trasposizione grafica di una social network produce un effetto di questo tipo:
- una zona centrale (10% dell’intera rete) composta di attori molto coinvolti nella comunità;
- una zona frammentata (20% dell’intera rete) composta da piccoli gruppi in cui non è presente un forte senso di appartenenza alla comunità, ma con cui spesso si identificano;
- una zona isolata (70% dell’intera rete) comporta da individui (lurker) che formano un gruppo passivo che orbita intorno alla comunità monitorandone l’attività.
L’applicazione di tecniche di profiling ad una struttura telematica siffatta consente, nel campo delle analisi investigative, di risalire ad una individuazione dei “ruoli” rivestiti nelle organizzazioni terroristiche jihadiste, in particolare per quanto riguarda IS, che ha fatto di questi nuovi canali multimediali una incredibile cyber weapon. Quindi, nella zona centrale, cuore dell’attività della rete, in corrispondenza dei vari hub, emergono individui che assumono notevole influenza all’interno della comunità; spesso possono non essere personaggi pubblici all’interno dell’intera rete, ma rispettati a livello locale, essi occupano i percorsi brevi per le informazioni diffuse all’interno della loro comunità. I sottogruppi a loro direttamente associati assumono un ruolo critico per la continuità di diffusione delle informazioni attraverso l’intera rete. A causa della loro posizione tra le comunità di rete, questi ultimi attori sono mediatori naturali di informazione e collaborazione. Tali nodi non risultano essere al centro di ogni singolo sottogruppo sociale, ma invece risiedono nella periferia di tali comunità. I lurkers, infine, per la tipologia di attività e per il particolare ruolo rivestito nel flusso informativo (puramente passivo), possono essere identificati nell’homegrown terrorist o nel foreign fighter autoctono, in ambiente non necessariamente occidentale, la cui opzione operativa, in assenza di feedback con l’hub o relativi sottogruppi (clusters) è quella del lone actor[24]. Così è raggiunto l’intento programmatico prima citato del manuale di addestramento di Al Qaeda, ovvero mettere in condizione e motivare gli individui ad agire al di fuori di qualsiasi visibile catena di comando[25].
- Sulla persuasività del messaggio jihadista
a. Politicizzazione della ummah
Al Qaeda, prima, e l’IS, poi, hanno quindi avuto la capacità di trasformare internet in un terreno su cui applicarsi tatticamente. Lì hanno alimentato un ribellismo anti-establishment, che riconduce ad una logica unitaria i singoli atti di violenza, sfruttando la polverizzazione sociale fornita dai social e il senso di alienazione che ne deriva, o di cui comunque ne è un effetto lo stile di vita occidentale. Lo studio sulle tipologie di lone wolfes fornito da alcuni studiosi, e su cui ci si soffermerà più avanti, mette in luce proprio questo appeal delle organizzazioni terroristiche jihadiste. La capacità di legare in un unico tessuto programmatico ogni atto di violenza è – in un certo senso – la rivendicazione del diritto di odiare, di annichilire il mondo intero, d’altronde “La scintilla è partita qui in Iraq, e il suo calore continuerà ad intensificarsi – se Dio vuole – fino a quando brucerà le armate crociate a Dābiq”[26], così individuando un paradossale zenit, pressoché (volutamente) inarrivabile.
Per riuscire nello scopo di persuadere così diffusamente ed intensamente dell’ideologia islamista, al pari di altri e diversificate organizzazioni terroristiche, quelle della galassia jihadista si sono servite della creazione di un linguaggio fatto di simboli. La forza evocativa del simbolo rispetto al segno risiede appunto nel margine di indefinitezza che distanzia l’oggetto simbolico dal suo significato: quel margine, quello slot, viene riempito dalle credenze, dalla cultura, dalle esperienze della persona che ne svolge l’esegesi. E quindi, in un certo senso, viene “individualizzato”, dando la possibilità ad ogni fruitore di infondere parte di sé stesso nell’ermeneusi e nella creazione di significato. In questo modo, il simbolismo diventa una forma di “estensione di sé”, ovvero un’auto-concettualizzazione. Ma possiamo spingerci anche oltre, e considerare il simbolismo come un modo di “costruire” la propria identità[27]. Tale dinamica si presta ictu oculi all’egocentrismo etereo, narcisisticamente progettato, che abbiamo detto essere il principio disgregante nelle città occidentali. In altre parole, mentre un segno rappresenta qualcosa di chiaro e non richiede particolare immaginazione, il simbolo è impregnato di creatività inconscia, fondamentalmente connessa all’immaginazione umana.
In tal senso, assume un ruolo determinante la “centralità del nemico” voluta, in tutti i modi, dall’IS[28], anche più che di Al Qaeda, che si staglia al di sopra dell’intera galassia jihadista per tecnica e risultato prodotto, trasformando l’astrazione dell’ostilità in magnetismo per il reclutamento di nuovi adepti e arma psicologica per l’uomo occidentale. Secondo il linguaggio dei simboli, la definizione (caratterizzazione) di un “nemico” consente all’IS (e ad Al Qaeda) di individuare un’immagine rafforzativa della propria credibilità, ovvero, tecnicamente, un CRED (credibility-enhancing display)[29]. Come detto, il radicalismo islamico – al pari di ogni fondamentalismo religioso – nasce proprio dalla volontà di eliminare tutti gli infedeli, quindi gli estranei alla ummah, che col proprio individualismo minano la devozione dovuta ad Allah, inquinandola col rischio di secolarizzazione. Tale contaminazione è iniziata a partire dal momento in cui le potenze europee hanno assoggettato buona parte del Dar al-Islam ed è continuata anche dopo il processo di decolonizzazione, a motivo della straordinaria potenza radioattiva della moderna civiltà industriale[30], ovvero una civiltà imperialistica a vocazione ecumenica, nel senso che, oltre ad esportare in ogni dove merci e tecnologie, esporta idee, valori e modelli di comportamento[31]. Un modello sociologico del tutto secolarizzato, in cui non c’è traccia di religiosità quale perno delle scelte individuali: di questo virus il fondamentalismo islamico se ne è accorto e, pertanto, antepone il jihad come antidoto. In queste coordinate, lo scontro tra civiltà è uno scontro tra bene e male, giusto ed ingiusto, pio ed empio. La guerra deve essere senza campo e totale, à la Clausewitz, capace di entrare anche nell’anima di chi è chiamato a compierla, setacciandone la purezza della vocazione e la disponibilità al sacrificio. D’altronde, in un manicheismo siffatto non c’è spazio per gli ignavi, per cui tutto il mondo è spaccato esattamente i due, pur se promiscuamente sparpagliato in termini etno/geografici. Individuare il nemico vuol dire stabilire il confine, eliminarlo, pur inasprendo fino al disumano il vortice della violenza, vuol dire eliminare barriere al partito di Allah.
Con tale sillogismo, Al Qaeda e IS hanno politicizzato il concetto di ummah, internazionalizzando la lotta alla luce del CRED. Per avere un effetto emotivo, ancora una volta, hanno fatto ricorso ad un simbolo: se la ummah è popolo dei giusti e dei pii, a contrapporsi ad essa non può che essere un’immagine internazionale di ingiustizia ed empietà, sintesi del mondo occidentale, ovvero Guantanamo Bay[32]. Al-Zawahiri, in particolare, si avvantaggiò dello scandalo del campo di detenzione americano per costruire un simbolo per tutti i musulmani, costretti a subire le torture e le sevizie da parte della malvagità occidentale. Le foto di Abu Ghraib, in questa stessa direzione, non potevano che rafforzare il processo di simbolizzazione in parola, rendendo plastica ed inequivocabile, universale, l’immagine del sopruso e dell’umiliazione subita dal popolo arabo. Da lì in avanti, i filmati delle decapitazioni (altro simbolo ex se della lotta islamista) ritrarrano infedeli col caratteristico abito arancione dei prigionieri di Guantanamo. Anzi: nel palinsesto sciorinato sistematicamente nelle produzioni video, l’abito fatto indossare dalle vittime nel caso delle esecuzioni è una tunica della stessa tonalità cromatica delle tute indossate dai prigionieri islamici, ma la foggia è quella di un dishdasha[33]. La promiscuità degli abbinamenti colore-foggia, in questo modo, veicola un messaggio di vendetta e rivincita, peraltro in tono beffardo e quasi irrisorio[34]. La necessità, come è evidente, è quella di creare in fil rouge tra gli avvenimenti, mai scissi tra loro e invece correlati storicamente, come se fossero su un piano di continua rivelazione e progressiva catarsi mondiale per mano del jihadismo.
b.Creazione ed individuazione di un nemico interno
Alla facilità metodologica con cui è possibile individuare il nemico esterno, ne segue un’altra leggermente più elaborata per la selezione e l’espunzione del nemico interno alla ummah.
Su tutti, vale la pena considerare il ricorso sistematico al takfir[35] che, affrancandosi dall’eccezionalità del suo utilizzo, è divenuto – attraverso la propaganda IS e di altri gruppi qaedisti – una vera e propria arma di protezione da interpretazioni dell’Islam, e quindi del Corano, diverse da quelle indicate da Al-Baghdadi.
In breve, il “takfirismo” è un’ideologia che, appunto, si basa sulla pratica del “takfîr” o perlomeno che la ritiene una componente essenziale del proprio credo ed assetto ideologico, nonché del modo di agire dei suoi adepti. Il “takfîr” è assimilabile, mutatis mutandis, alla “scomunica” papale del credo cattolico, applicata esclusivamente nei confronti di un soggetto dichiaratosi appartenente ad una religione diversa dall’Islam dopo esser stato musulmano. Come è noto, in ambito islamico, non esiste una chiesa così come viene intesa in termini cattolici e di conseguenza la suddetta dichiarazione non possiede alcun valore canonico. Detto questo, è pur vero che nell’Islam, così come nel disegno del monoteismo e della profezia più in generale, esistono dei parametri entro i quali il credente è tenuto ad identificarsi. La mancata identificazione con questi parametri, però, non legittima la scomunica arbitraria proveniente da parte di un settore della comunità islamica. Ciò significa che il soggetto avente gravi problemi dottrinali viene di fatto escluso dalla comunità dei credenti “per principio” e non per mezzo delle inferenze e espressioni azzardate degli uomini[36].
Ancora più brevemente: attraverso il takfirismo si legittima il ricorso alla violenza non solo nei confronti del nemico “esterno”, ma anche nei confronti del nemico “interno”, della ummah non allineata al messaggio ed alla devozione del capo-profeta Al-Baghdadi. Diventa un antidoto teologico al fratricidio musulmano: è la linea di discernimento, nella guerra totale, tra la pazzia e la strategia.
Nello squallore della violenza veicolata dai media, infatti, emerge una volontà ben precisa, di taglio militare, a cui assurge la disumanizzazione del nemico voluta dai mujaheddin chiamati a compierla, al di là dell’estetica feroce tipica delle psy-operations e di cui, storicamente, già se ne era saggiata l’incidenza operativa. Distruggere il nemico “interno” è una rappresentazione strategica della purificazione. È la catarsi del popolo inquinato da un Islam eterodosso. Nel continuo sforzo (jihad, appunto[37]) di attuazione del progetto politico non c’è spazio neanche per ostacoli intestini. Questa prerogativa, si noti, distingue in maniera molto significativa l’ideologia sottesa alla visione del mondo (e della ummah) tra IS ed Al Qaeda (tacciata dalla prima organizzazione, infatti, di essersi allontanata dalla retta via). Nell’universalismo che caratterizza entrambe le vocazioni politiche, infatti, Al Qaeda ha storicamente preferito individuare come nemico l’Occidente guidato dagli Stati Uniti, indicati come nuovi crociati[38] e i loro alleati giudei (nemici lontani): ovviamente, ma senza mai costituire una priorità, non sono dimenticati musulmani sunniti o sciiti che osteggiano l’attività jihadista, oltre che i fedeli di altre religioni residenti in paesi con maggioranza musulmana. L’IS, di contro, allinea tutti alla medesima distanza dal plotone di esecuzione.
In questo c’è una “rivoluzione” apportata dalla formazioni politiche jihadiste più recenti che, a differenza di quelle tradizionali, tendono a leggere il progetto della loro attività sociale in chiave etica e de-territorializzata[39], essendo il fronte della battaglia ovunque: questi movimenti propongono una lettura del mondo non più fondata su una separazione tra un campo dell’Islam (dar al-Islam), definito dalla presenza di un sistema politico retto da musulmani, e una terra della guerra (dar al-harb). È lo stesso IS che tiene a ribadire questa visione nel primo numero del suo giornale Dabiq quando parla di un “mondo diviso in due campi”: da un lato, si staglia il campo dell’Islam e della fede (dar al-Islam), ovunque si trovino musulmani e mujaheddin che sostengono la causa; dall’altro, si estende il campo della miscredenza (kufr) e dell’ipocrisia, composto da ebrei, crociati, i loro alleati e con loro il “resto delle nazioni e delle religioni kufr, tutte quante guidate dall’America e dalla Russia, e mobilitate dagli ebrei”.
Emerge quindi che l’IS è alla “disperata” e continua ricerca di un nemico vicino, a differenza di Al Qaeda. L’individuazione di un nemico vicino, fisicamente e (finanche) spiritualmente, ma inesorabilmente “diverso” (ecco il takfir), assume una duplice valenza strategica, come si diceva, che l’allontana dalla paranoia bellica o, semplicemente, dalla pazzia: da un lato, infatti, permette di strutturare un contesto costante di allerta, ovvero di mobilitazione costante della popolazione dello Stato Islamico, il che diventa l’humus anche di una predisposizione all’uso della violenza incalzante e, come rivelano le immagini trasmesse attraverso internet, “genetica”, perché impresso culturalmente come pattern comportamentale alle nuove generazioni; dall’altro, la guerra psicologica attraverso i media e la comunicazione permette ad IS di “internazionalizzare” il conflitto, elevando una immediata violenza regionale ad un paradigma universale di violenza e brutalità. La “salafizzazione” sociale, come si vedrà, riveste questo fondamentale compito di armonizzazione.
- Il “brand” jihadista strategico
Quanto precede ci consente di approdare ad un’ultima considerazione sulla “suadenza” jihadista, al-qaedista in origine e ora portata avanti con maggiore rigore metodologico da IS: la valenza attrattiva del jihad si fonda anche e soprattutto sul sapiente utilizzo di motivi propriamente pubblicitari, prima ancora che propagandistici tout court. È il marketing applicato alla strategia militare.
In questo senso il social network è un tassello tattico che si inserisce nel più ampio ed eterogeneo mosaico della strategia del terrore islamista. Come è stato notato[40], per ottenere la vittoria, laddove sul piano del marketing con “vittoria” intendiamo la fidelizzazione del cliente, è necessario gestire due piani paralleli, quello della strategia militare e quello della strategia mediatica. La guerra mediatica (dell’IS, in particolare), poi, si sciorina attraverso due modalità esattamente speculari alla guerra reale: l’attacco in campo aperto, attraverso i media tradizionali ed i social web; la guerriglia e gli attentati, attraverso l’electronic jihad, altrimenti detto “cyberterrorismo”.
L’intuizione di Osama Bin Laden, in effetti, è stata proprio quella di creare, attraverso Al Qaeda (“La Base” in arabo), un tipo di branding del jihadismo universale, fino a quel momento teorizzato da Sayyid Qutb (1906-1966) in termini puramente teorici. In sostanza, nel caposaldo dottrinale del qutbismo, “Milestone”, si esprime l’idea basilare dell’eccessiva noncuranza, mollezza, accumulatasi nel corso degli ultimi secoli, da parte della ummah, il che si è tradotto nella sostanziale dimenticanza di “quanto dovuto” ad Allah. La trasformazione in termini politici di una “catarsi” popolare era, quindi, la riaffermazione delle sharj’a nella terra dell’Islam, e l’annientamento di ogni principio di corruzione: sia esso vicino (mussulmani apostati, governi apostati ed il loro correlato sistema valoriale) o lontano (infedeli, civiltà non islamiche o regimi non religiosi imposti ai mussulmani)[41].
Si è così formato il background ideologico, l’obiettivo di produzione, che il 23 febbraio 1998 Osama Bin Laden riassume in una fatwa dal titolo “Jihad contro i giudei ed i crociati”, condensante la nuova prospettiva globale dei jihadismo, che addita come obiettivi gli USA e i suoi alleati occidentali. Da questo momento in poi, Al Qaeda si svilupperà nel senso di offrirsi come una piattaforma logistica e politica a chi, riconoscendosi spiritualmente nel task, è alla ricerca di un “marchio” ideologico nel quale trovare coerenza identitaria: sorge e si sostiene – attraverso tutte le iniziative terroristiche, dagli attentati alla propaganda – la c.d. “brand awareness”, ovvero la “notorietà della marca”, di Al Qaeda, che diventa virale. “[…] Al Qaedism is the symbol of “jihad brand” that offers a political and a religious basis on which Muslims can revitalize long-established Islamist doctrine. It refers to the complex mélange of sumbolical, religious, and cultural priciples that provides the support on which Al Qaeda hangs its tactics and strategies […] Al Qaeda has become a brand in jihad franchising: a distribution model with low financial risks but high gratification reward […]”[42].
Il nuovo terrorismo emerso con vigore storico dall’Undici Settembre si caratterizza proprio per questo carattere di globalità e per le sue modalità organizzative, in contrapposizione a quello strettamente ideologico dell’Otto-novecento[43]. Si organizza, vale a dire, in forme molecolari, in franchising, classica strategia del marketing. Gli imprenditori del terrore locali, cioè, raggiungono la visibilità globale ottenendo marchi affermati (Al Qaeda, IS, Califfato…), così formando delle consociate, imprese affiliate a quel marchio, simbolo di adesione alla mission ed alla vision della Casa-madre.
L’attenzione all’audience da parte delle organizzazioni terroristiche rivela proprio questa volontà di affermarsi come soggetti “definiti” e, allo stesso tempo, “permeabili” nel mercato identitario, ovvero nell’ampio scenario offerto a soggetti alla ricerca di una dimensione. La religione, in questo senso, diventa secondaria rispetto agli obiettivi più profondi dell’essere umano di ascriversi ad una categoria sociale, ovvero di dare un senso alla propria esistenza, disciplinandola mediante dei criteri comportamentali. Il jihadismo globale, attraverso la diffusione del brand e l’assorbimento in esso dei riti religiosi islamici, esporta soprattutto modelli comportamentali, prim’ancora che spirituali. Il martirio e l’assassinio, in nome di Allah e per Allah, sottendono certamente una percezione fideistica da parte dell’autore nel messaggio divino veicolato dai gruppi terroristici, ma, nel contempo, riproducono soprattutto modelli comportamentali[44] la cui emulazione è sollecitata dalla sovrastruttura mediatica e dal web. In tal senso il massiccio utilizzo di palinsesti di tipo televisivo, ad esempio, da parte dello Stato Islamico, restituisce una sensazione di inesorabilità al destinatario dello “spettacolo”, o dello “spot”, restando nella semantica pubblicitaria. Su tutti, significativo testimonial-emblema della crudeltà del Califfato è senz’altro Jihadi John, il boia incappucciato, con l’accento britannico, divenuto tristemente celebre nel 2014, allorché si mostrava al mondo come l’assassino di alcuni dei prigionieri stranieri dello Stato Islamico, tra cui il corrispondente di guerra James Wright Foley e il giornalista Steven Sotloff, entrambi di nazionalità americana. Nello studio dell’impianto comunicativo, il solito BALLARDINI[45] rileva che sarebbe fin troppo semplicistico e superficiale ritenere che i video delle decapitazioni siano degli “spot”, ma si deve riconoscere ugualmente in questi prodotti di comunicazione l’uso della stessa logica di delle stesse tecniche di persuasione.
Ricollocandoci su un piano più generale, il brand management del terrorismo ambisce in tutti i modi a persuadere la clientela, al pari di qualsiasi altro attore imprenditoriale. Per farlo, deve fornire un’identità pubblica dei propri scopi e della propria raison d’être, utile a fidelizzare la clientela, fornendole saldezza intenzionale, criteri di comportamento e premialità finale. Jihadi John, attraverso la densità del messaggio comunicativo, fortemente simbolico, ottiene tutti questi scopi: il volto travisato con accento britannico, per fornire una prima speditiva esegesi, incarna la possibilità che dietro quel mascheramento possa esserci qualsiasi cittadino anglofono, anche chi sta guardando il video, e la decapitazione dell’infedele vestito del colore di Guantanamo, immagine dell’ingiustizia e della sopraffazione occidentale[46], assurge alla capacità redentiva di un intero popolo, la ummah, attraverso la violenza.
Mitizzazione ed identità del marchio jihadista si pongono, così, su un orizzonte consequenziale, fortemente attrattivo, creatore di un’immagine pubblica. Dagli studi economici di BALMER e WILSON[47], per maggior chiarezza, è possibile trarre tre profili essenziali per le organizzazioni terroristiche:
- l’identità desiderata (o identità ideale): l’immagine idealizzata che il leader ha dell’organizzazione terroristica e che cosa dovrebbe diventare con la propria leadership;
- l’identità percepita: ovvero la pubblica opinione sull’organizzazione terroristica. Come si è detto, l’audience ha un ruolo essenziale nella strategia del terrore ed il pubblico è il referente cruciale della strutturazione comunicativa;
- l’identità progettata: id est l’apparenza che l’organizzazione terroristica trasmette al pubblico – sia consapevolmente che in via subliminale – attraverso la comunicazione ed il simbolismo.
La definizione di questi tre profili gioca, quindi, un ruolo decisivo nell’implementazione di pattern comportamentali, che è l’obiettivo primario dei gruppi jihadisti. Su questo si sostanzia l’affiliazione operativa dei relativi network o dei loners, assecondando una formula di collaborazione tra soggetti che, non partendo da zero, si riconoscono in un marchio già affermato ed estremamente affidabile in termini di devozione ad Allah e lotta al nemico.
Detto ciò, c’è però una differenza tra fondamentale tra il modello di franchising di Al Qaeda e quello dell’Islamic State[48]. Al Qaeda ha voluto utilizzare le nuove organizzazioni affiliate in funzione delle sue priorità: attaccare i Paesi occidentali per costringerli a smettere di sostenere regimi arabi “apostati”, che senza l’appoggio dei Paesi occidentali sarebbero pronti ad essere conquistati. Questo ha funzionato veramente solo con il suo ramo yemenita, ovvero Al Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP). Lo Stato Islamico non ha alcun problema ad attaccare con i suoi sostenitori ed attivisti di base i Paesi Occidentali, ma la sua priorità principale, quella di costruire il Califfato, quindi la creazione di uno stato “realmente” islamico “qui e ora”[49], e che già evidente nel famoso slogan “Rimanere ed Espandersi”.
In definitiva, l’implementazione operativa dei social network è tattica militare, fare in modo che chi vi acceda arrivi all’azione terroristica, in ossequio al brand della propaganda e del reclutamento, è la vera strategia, quella che sta contagiando l’Occidente.
CAPITOLO 2. FISIONOMIA DEL NEMICO INTERNO E “SALAFIZZAZIONE” DELLA SOCIETÀ
- Sul salafismo ed il relativo “precipitato” europeo
Ai fini delle Nostra analisi, appare opportuno scandagliare meglio i connotati salienti del movimento salafita, almeno quelli che sono stati in grado di influenzare geneticamente il jihadismo internazionale e, attraverso una riproposizione degli stigmi culturali tradizionali (in primis semiotici e simbolici), attecchire in Occidente. Si noti che la trattazione del salafismo e della connaturata volontà di salafizzazione della società (in primo luogo applicazione della legge islamica) da parte degli adepti al movimento assume un’importanza straordinaria e, troppo spesso, sottovalutata, ai fini dell’individuazione delle cause del contagio islamista in Europa. Il salafismo[50], nelle sue sembianze di movimento intellettuale, si insinua agevolmente nelle maglie della tolleranza europea, e lì si annida in seno al multiculturalismo ed al melting pot civile delle società contemporanee. Questo perché, innanzitutto, il salafismo resta un’aspirazione di natura non violenta e, quindi, facilmente assimilabile anche da parte delle frange più conservatrici. E poi perché, come è stato notato[51], in questo modo il salafismo e gli altri fondamentalismi stanno riempendo un vuoto in Europa ed in Occidente in generale: i metodi contemporanei di insegnamento delle scuole salafite funzionano. Essi coniugano l’indottrinamento elitario del Corano con l’uso dei nuovi media ed un linguaggio giovanile anche volgare. Il che, ancora una volta, crea un simbolo, ovvero la mitizzazione del “salafita” quale persona stimata nell’ambito della propria comunità e frutto di una catarsi, innanzitutto, morale. Questo è un paradigma particolarmente attrattivo per soggetti alla ricerca di una nuova identità, per ripristinare il prestigio ai loro occhi e a quelli dell’ambiente di appartenenza. I nuovi criteri per l’indottrinamento, peraltro, si sono sgrondati dell’aurea intellettualistica, così aprendosi ad una platea più ampia di potenziali nuovi accoliti, e questo vale soprattutto per IS, al quale è del tutto indifferente il pregresso tenore di vita del neofita, purché esprima fedeltà al Califfato[52]. Il salafismo, in questa guisa, è diventato una “veloce doccia purificatrice sia religiosa sia sociale”[53], non necessariamente conducente al jihadismo[54], ma sicuramente in grado di apportare un nuovo, e sotterraneo, modo di guardare il mondo, del tutto in contrasto con la tradizione culturale occidentale.
In linea generale, la classica suddivisione del movimento salafita, pur nella sua valenza principalmente didascalica, è dovuta a un ricercatore americano, WIKTOROWICZ[55], che ne ha individuato tre particolari gruppi al suo interno:
- i “puristi”: questo primo gruppo è numericamente il più vasto. Il loro primario obiettivo è “mantenere puro l’Islam come descritto dal Corano, dalla Sunna e dal consesso dei Compagni” e ritengono qualunque intervento a livello politico un’innovazione illegale; per questo rifiuto a un intervento nella vita pubblica sono stati denominati da alcuni i “quietisti”. Vista questa loro posizione iniziale è facilmente comprensibile che identifichino come jihad lo sforzo pacifico verso una purificazione della religione attraverso l’insegnamento e la propaganda (da’wa) e non con rivolte armate;
- i “politici”. Questo gruppo è formato, secondo l’analisi di Wiktorowicz, da studiosi salafiti influenzati dal pensiero dei Fratelli Mussulmani, in particolar modo da Sayyid Qutb, e per i quali per dare un giudizio legale vincolante si deve anche considerare il periodo storico e politico in cui si vive. Lo strappo tra i puristi e i politici avvenne con la fatwa con cui nel 1991 gli Americani furono autorizzati a risiedere in basi militari in Arabia Saudita. Questo evento fu vissuto come la dimostrazione che i “puristi” non erano in grado di comprendere la realtà moderna e, di conseguenza, non erano in grado di emettere corrette sentenze religiose. I “politici” al contrario, avevano sia le conoscenze religiose sia politiche per applicare nel modo più corretto i precetti salafiti all’interno del mondo contemporaneo. Si spinsero anche oltre arrivando ad affermare che avevano responsabilità di discutere la politica e di criticare se necessario un leader che non rispondeva ai dettami islamici. I politici prendono parte alla vita politica dei Paesi in cui risiedono e diffondono la loro agenda riformatrice tramite petizioni e manifestazioni;
- i “jihadisti”. L’ultima fazione dei salafiti è quella formata da chi ritiene che la violenza (atti di terrorismo, rapimenti o guerra aperta) sia uno strumento legittimo per la costruzione dello Stato Islamico che, a sua volta, è il cardine per la protezione della purezza dell’Islam. Si può far risalire l’origine di questo gruppo all’invasione russa dell’Afganistan del 1979, “momento cruciale”[56], quando molti salafiti combattenti furono influenzati da gruppi più estremisti come dalle ali più radicali dei Fratelli Mussulmani. Il loro indottrinamento politico avvenne sul campo di battaglia con chiari effetti sul loro pensiero[57].
Tutte e tre le fazioni concordano sulle fonti del diritto e sulla necessità di mantenere puro l’Islam; quello su cui dissentono è l’interpretazione della situazione in cui ciascuna norma dovrebbe essere applicata.
La classificazione di WIKTOROWICZ è universalmente accettata perché rispetta gruppi esistenti in realtà, ma negli ultimi anni ha subito alcune critiche perché definita troppo rigida e perché non spiega i complessi rapporti tra i tre gruppi. Non è raro, infatti, che membri dei “quietisti” passino attraverso una fase “politica” e che “jihadisti” diventino poi “quietisti”.
Questa fluidità dei gruppi costituisce il punto nevralgico del rischio portato in Europa dalle Scuole Salafite: per dei neofiti può essere semplice iniziare un percorso “purista” incentrato sullo studio della religione per poi scivolare verso un corso più militante.
Ancora, bisogna tener presente quando si parla di salafismo che il movimento è privo di una gerarchia. Si tratta, infatti, di un network segmentato e decentralizzato: un insieme di cellule e microgruppi che condividono gli ideali ma che non sono necessariamente in contatto gli uni con gli altri. Più importante ancora, non prendono ordini da nessuno. In termini economici, il proselitismo in Europa è appoggiato dall’Arabia Saudita cui si devono molte delle Moschee edificate. Queste moschee si presentano come apolitiche e contrarie alla violenza ma predicano un totale distacco dalla “corrotta” Europa. Ciò che fanno ovviamente non è illegale ma la predicazione di questo tipo d’idee rende semplice lo scivolamento di alcuni versi posizioni più radicali, verso il salafismo jihadista[58]. D’altronde, come accennato, occorre comprendere che certi messaggi posseggono in nuce una potenza esplosiva, pur nella loro spoglia puramente intellettuale e fittiziamente apolitica. La considerazione, ad esempio, del kafir, dell’infedele, in via esclusivamente peggiorativa rispetto a sé stessi, o la divisione del mondo in terra dell’Islam e terra degli infedeli sono già concetti sufficienti ad annullare qualsiasi possibilità di dialogo e di conciliazione. Un manicheismo antropologico, geografico, ideologico e sociologico conduce necessariamente ad un conflitto. La pretesa di purificazione sociale contiene il germe della devastazione.
- Purificazione sociale e demonizzazione
Merita cenno di approfondimento la tematica affrontata sul “nemico” interno, ovvero – in altri termini – le “minoranze prese di mira”, appena tracciata nel capitolo che precede, proprio per i punti di contatto col fenomeno attrattivo che IS suscita nei riguardi dei foreign fighters e dei homegrown terrorists occidentali. In fin dei conti, la mitizzazione dello “Stato Islamico”, ed il suo consequenziale magnetismo nei confronti di individui esogeni, inizia proprio dall’estrema semplificazione delle regole sociali, nell’eliminazione del grigiore applicativo della norma coranica, della sharj’a, e prosegue con l’individuazione di chi non accetta altra credenza che quella nell’unicità (tahwid) nella via degli antichi (salaf). La soppressione militaristicamente chirurgica di microelementi spuri, nel rendere luminosa la collettività che ne rimane bonificata, alimenta nello stesso momento l’auto-considerazione di appartenere ad un popolo “eletto”, incontaminato. Entrare a far parte di quella santa schiera anche col martirio, è il sicuro privilegio a cui l’uomo illuminato deve tendere (di questa tensione psicodinamica si parlerà appresso).
Basandosi sulla propria interpretazione giurisprudenziale dell’Islam, IS ritrae gruppi sunniti o comunità che rigettano di giurare fedeltà al proprio khalifa (califfo) come murtaddin (apostati), o mumtanin (astenuti). La prima definizione di norma diventa propria di quei gruppi che hanno combattuto Al Qaeda e IS fin dall’inizio, come le tribù di al-Anbar di Abu Nimr, al-Jaghaiffa e Ajjubour. Le tribù che invece abitavano nei territori controllati da IS e rifiutavano la sua protezione erano dichiarati “astenuti”, come nel caso della tribù Shueitat di Deir al-Zur in Siria, definita “gruppo di astenuti” e quindi decimata da IS.
Chiaramente, tra i nemici interni alla ummah del Califfato rientrano le comunità sciite della regione. Solitamente indicate coll’appellativo rawafid[59], in virtù delle loro posizioni ritenute antitetiche rispetto a quelle dell’Islam ortodosso sunnita, gli sciiti sono ben presto divenuti l’obiettivo principale delle operazioni lanciate da quella che era allora conosciuta come Al Qaeda in Iraq. I massacri perpetrati dalle forze di Al Zarqawi ai danni della comunità sciita irachena hanno contribuito in misura determinante all’emergere di una deriva settaria che, seppur presente e storicamente radicata nello scenario mediorientale e legata a precise dinamiche geopolitiche, è stata da questi ridestata e amplificata[60].
Quindi, la salafizzazione della società trova la sua espressione più tragica nel modo in cui vengono trattate le minoranze non sunnite. Attraverso un’interpretazione letterale delle scritture, i cristiani e gli ebrei sono stati obbligati a scegliere se convertirsi all’Islam o pagare un tributo allo stato[61]. Il 17 luglio 2014 il diwan (ovvero un organismo amministrativo paragonabile al Minestero) di IS gli ha concesso una terza opzione: la partenza rapida dalla città, lasciandosi dietro tutti i propri averi, così completando il regime discriminatorio loro riservato dalla norma coranica, la dhimma (protezione).
La minoranza degli yazidi è stata trattata ancora più duramente, dal momento che IS la considera “politeista”, eretica, e quindi da cancellare, come emerge dalle pagine di Dabiq. Il gruppo ha inoltre pubblicato un pamphlet in cui sono state dettagliate le regole per la schiavizzazione delle donne yazidi, secondo una peculiare interpretazione della sharj’a[62], funzionale ad un genocidio. Peggiore il destino delle donne druse o alawite[63]: essendo musulmane, non possono essere ridotte in schiavitù, ma in quanto eretiche devono o convertirsi al sunnismo o morire.
Analogamente è accaduto per quel che concerne la lotta ingaggiata da IS ai danni delle confraternite sufi e ai santuari a esse associate. Si tratta di una posizione tutt’altro che esclusiva del movimento fondato da Al-Zarqawi e che s’inserisce nel solco di una visione dicotomica del mondo che tende a considerare i sufi e la mistica spesso a loro associata come eterodossa, espressione evidente della contaminazione cui il credo islamico è stato esposto nei secoli.
L’interesse esplicito o mediatico dell’Occidente per queste minoranze non fa che aggravare la situazione, facendole apparire come “agenti del nemico”. L’esempio più evidente è quello dei cristiani d’Oriente, di cui gli occidentali enfatizzano l’identità confessionale per venire loro in aiuto[64], con un catastrofico effetto boomerang.
A completare la lista di proscrizione, ancora, si trova tutta un’ampia serie di attori che, sebbene appartengano al mondo islamico sunnita, non riconoscono l’autorità di Al-Baghdadi: capi tribù, imam e capi di stato, ma anche semplici credenti, divengono quindi, a causa di questa posizione, obiettivi legittimi del jihad armato promosso dal movimento.
In ultimo, fanno la loro comparsa nella bellum omnium anche movimenti islamisti che, pur condividendo un retroterra dottrinale parzialmente comune, non sono disposti a seguire la via tracciata dal Califfato e a riconoscerne la supremazia: leggasi la Fratellanza musulmana, ma anche allo stesso network qaedista, accusato a più riprese di aver smarrito la retta via[65].
Una chirurgia religiosa e sociologica così complessa lascia intatte solo pochissime categorie, le cui devozione e fedeltà al Califfo sembrano essere tratti distintivi, oltre che i viatici della salvezza. Eppure l’individuazione sistematica di un nemico ha una logica di fondo che ne indirizza la caparbietà, e ancora una volta questa logica appartiene al brand, al mercato dell’odio. Trovare il nemico in una guerra di religione vuol dire setacciare ogni angolo del mondo per stanare il diavolo: il diavolo non si rieduca; il diavolo va eliminato. Questo principio di demonizzazione, correlato alla volontà di purificazione, non lascia spiragli alla gradazione della violenza, che deve essere estrema e definitiva. Data l’impostazione statuale che IS si impone, essa deve essere anche esemplare, spettacolare. Nella lettura foucaultiana del supplizio[66], il corpo del condannato doveva diventare l’emblema della potenza repressiva dello Stato, di chi doveva sorvegliare e punire, e le relative caratteristiche di esibizione pubblica dovevano servire agli astanti da monito, per fugare dubbi sull’inesorabilità della pena inflitta e, soprattutto, sull’appartenenza fisica e spirituale del criminale al boia. Serviva, surrettiziamente, anche a dare uno sfogo sociale alla violenza, alla “voglia della forca” da parte del popolo, più o meno inconsciamente e perversamente attratto dal dolore e dal castigo dell’empio. La spettacolarizzazione della violenza, catapultata sul web da IS come se fosse la settecentesca piazza della ghigliottina europea, serve a pubblicizzare la barbarie per attrarre un audience: ad avvicinarsi saranno i “giovani disadattati che trovano nella violenza la loro realizzazione: quello che normalmente provano smembrando gli avversari mentre giocano ai videogiochi è ora proposto nelle terre dello Stato Islamico, il cui nemico è ucciso con ogni possibile fantasia […]”[67]. La strategia mediatica, ancora una volta quindi, punta ad accrescere la brand awareness, sprigionando l’ennesimo magnetismo verso la marginalità occidentale.
- Salafismo ed ordine pubblico del Califfato: il canto delle sirene
Ma l’appeal politico dell’IS nasce ancora dalla contrapposizione tra l’ordine interno dell’apparato statuale (quello che viene rappresentato mediaticamente in Occidente), ed il disordine esterno della guerra totale, che non sembra scalfire minimamente la tecnologia governativa. La “salafizzazione” della società è, in questo senso, la dimostrazione pragmatica dell’efficacia della cura politica proposta dalla nomenklatura di Al-Baghdadi ad un gruppo di consociati uniti nella fede, e altrimenti in preda all’anarchia. Nel riprodurlo quale modello vincente, l’IS mostra all’esterno la sua potenza organizzativa e amministrativa, a mo’ di guscio coriaceo in grado di annientare dubbi sulle capacità di policy, e assurgendo così ad ulteriore indice di attrazione.
Nel primo numero della già menzionata rivista Dabiq, del 29 giugno 2014, in fin dei conti, quello che viene tracciato è un lucido piano politico, schematizzato in cinque fasi: hijrah, immigrare in un paese con una debole autorità centrale; jama’ha, reclutare e addestrare; destabilizzare il regime taghut (disobbediente/ateo), al punto di condurlo al completo collasso[68]; tamkin, ovvero riempire i vuoti e consolidare il territorio; khilafah, cioè formare un vero e proprio Stato (Islamico). Lo schema, riconducibile ad Abu Mus’ab Al-Zarqawi, di cui già storicamente è apprezzabile una graduale verificazione, come è stato acutamente intuito[69], non sembra affatto il discorso di qualche autorità spirituale, ma si direbbe piuttosto la trascrizione di un briefing del Pentagono. L’Islamic State, o meglio, il “Califfato” è, quindi, frutto della sapiente implementazione per mano dell’uomo di un disegno divino: e l’armonico funzionamento intestino rientra in questo rivelato equilibrio universale.
“Salafizzazione” e “ordine pubblico”, quindi, si inseriscono in un innovativo rapporto causa – effetto, in cui però, rispetto al salafismo tradizionale, si aggiungono venature tipicamente jihadiste. D’altronde, Il salafismo contemporaneo, in termini generali, ha attratto una platea sempre crescente, non solo in aree a maggioranza islamica, ma anche all’interno di comunità islamiche europee. Le ragioni sono svariate, ad iniziare dalla pretesa di semplicità, autenticità e superiorità morale fatte proprie dal salafismo[70]. In questo senso di appartenenza ad una comunità di eletti si annida ancora una volta il principio della frammentazione sociale occidentale, col conseguente superomismo che sospinge la chiamata al martirio o l’emigrazione verso le fila dell’esercito di Al-Baghdadi di singoli individui, scardinati dall’emarginazione della periferia europea (e non solo) e ricollocati nel centro nevralgico del Daesh.
Osserva, al riguardo, lo studioso olandese Roel Mejer che: “[…] in un’era confusa, il salafismo trasforma gli umiliati, i sottomessi, i giovani arrabbiati, i migranti discriminati o colore che sono politicamente repressi in una setta scelta (al-firqa al-najiya) che immediatamente ottiene accesso previlegiato alla Verità”[71].
Tradotto in termini “amministrativi”, l’ostentazione mediatica del salafismo applicato rappresenta la presa di coscienza da parte dell’IS del fatto che la legittimità non è assicurabile solo con l’uso della forza e, attraverso la propaganda, dimostra la soddisfazione degli abitanti che vivono sotto il suo controllo. Una sorta di custumer’s satisfaction per jihadisti di tutto il mondo, un canto delle sirene per l’immigrazione ed il reclutamento di foreign fighters. Nei suoi territori, IS ha impiegato enormi risorse per assicurare il rispetto delle norme che, pur nell’idiosincrasia con valori liberali, si sono dimostrate “efficaci nel porre fine all’impunità diffusa e al clima di instabilità che aveva investito intere regioni”[72]. L’obiettivo è raccontare al mondo, come un canto delle sirene omerico, quale incredibile risultato di civiltà puramente islamica sia stato possibile conseguire.
L’escamotage propagandistico di cui il giornalista John Cantlie ne è la carnificazione, ad esempio, nasce da proprio da questa teleologia. Il reporter britannico rapito in Siria insieme a James Foley nel novembre 2012, infatti, e rimasto ostaggio dell’IS, è il protagonista del palinsesto televisivo made in Daesh, dell’emittente Al-Furqan, “LEND ME YOUR EARS”, in cui, utilizzando un raffinato linguaggio critico mutuato da una professionalità consolidata negli ambienti occidentali, in sostanza, commenta la faziosità delle notizie riportate sui media europei e statunitensi sulla brutalità gratuita e l’invivibilità dello Stato Islamico, facendo da anchorman in prima persona: ora viaggiando sorridente in moto, ora ironizzando sui bombardamenti, ora girando su un’auto della polizia. Sarcasmo e relax: armi potentissime per guardare dall’alto il complottismo dei miscredenti e, allo stesso tempo, neutralizzare dubbi su raffigurazioni infernali dei territori conquistati da Al-Baghdadi.
Altro esempio, questa volta ancora più esplicito, è la realizzazione di una brochure turistica[73] dello Stato Islamico. Accettate le premesse, questa scelta di marketing territoriale non deve stupire: attraverso l’account twitter @Wilaiat_Halab (poi sospeso) si accede a 31 pagine a colori e in arabo che, a settembre 2014, illustrano la vita nella provincia di Aleppo. Nessun fucile e nessun morto ma statistiche economiche e demografiche, immagini di fiumi tranquilli e campi ricchi di raccolto, visioni di forni automatizzati che sfornano pane e scuole che insegnano ai bambini sotto la bandiera nera di IS. Il successo è evidente anche nelle interviste raccolte in quei mesi in quella provincia dove gli abitanti sostengono che finalmente con IS si può comprare il gasolio a buon prezzo e la giustizia è assicurata: “I recently (22 agosto 2014) had the opportunity to speak to a friend in Manbij, a small city in Aleppo of about 100,000 (pre-war) under exclusive Islamic State (IS) control since January 2014 (when the organization was still ISIS). He told me about how IS cadres were administering the city and about what Manbijis think about the new political order. (…) “In Manbij, people see that the IS is “getting comfortable”, and that the trappings of statehood appear stronger every day. The IS public administration includes several types of police, courts and ad-ministrative bodies. The group provides services and undertakes development projects. IS collects taxes in the form of zakat and redistributes some of the money to the poor… Recently, IS has begun shipping fuel from fields it recently captured in Dayr al-Zawr province and selling it at fixed discounted rates in Aleppo”.
Talora queste “incredibili” iniziative sono portate avanti da non appartenenti ai diwan del Califfato, avendo matrice privata[74]: il che spiega il parossismo di questa tipologia di marketing turistico. A differenza della più subdola propaganda, trasmessa via web, serie TV o su magazine, dove non viene mai negata del tutto la violenza “necessaria”, l’esasperazione dei vantaggi edonistici, l’enfatizzazione di aspetti legati all’ozio pressoché arcadico, sembra quasi grossolano e ridicolo. Una regressione delle tecniche persuasive. Tuttavia non può sfuggire l’effetto “normalizzante” auspicato e che, in ogni caso, torna in linea con l’ordine pubblico voluto, attraverso la salafizzazione sociale, in territori attraversati dal conflitto armato. Più “seria”, infatti, risultano altri messaggi veicolati da organi ufficiali del Califfato, come nel caso della sistematica comunicazione della rivista Islamic State News, pubblicata da Alhayat Mediacenter, che dal mese di giugno 2014 mostra con una cadenza periodica i successi della compagine di Al-Baghdadi presentando non solo le vittorie militari ma anche gli aiuti in favore dei civili: “[…] questo tipo di comunicazione, nell’ambito del progetto generale, ha la doppia valenza di mostrare al mondo la qualità della vita nel califfato ma, soprattutto, di attrarre famiglie di combattenti stranieri, per andare a costituire la sua fedele popolazione”[75].
CAPITOLO 3. L’INDIVIDUALISMO DELLA RADICALIZZAZIONE OCCIDENTALE
- Breve storia del jihadismo europeo e lo “spontaneismo” di Inspire
Nel primo capitolo ci siamo soffermati sul background dottrinale su cui il jihadismo, con particolare riguardo all’IS, ha edificato la propria strategia del terrore, ramificandosi successivamente in Europa attraverso la crescita progressiva della proprio appeal. Qui, la storia dell’installazione di cellule jihadiste ha avuto tempistiche diverse e diversi gradi di profondità a seconda della regione in cui ha attecchito, graduandosi in ragione della proteiforme natura culturale, identitaria, demografica ed economica del vecchio continente. Ne è derivato uno sviluppo diacronico delle esperienze di radicalizzazione e di reclutamento e, in tale scenario, l’Italia ha registrato un significativo ritardo delle epifanie operative homegrown, oltre che una minore intensità complessiva dell’aggressione ideologica.
Volendo ripercorrere per sommi capi la storia, per quello che conta ai fini della Nostra analisi, dello sviluppo jihadista in Europa, si può individuare una prima fase tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, quando alcune centinaia di militanti si stabilirono nel continente. In cerca di rifugio dalla repressione cui erano sottoposti nei loro paesi d’origine, veterani del jihad afghano contro l’URSS e membri di varie organizzazioni jihadiste mediorientali e nordafricane cercarono e, nella maggior parte dei casi trovarono, asilo politico in vari paesi europei. Questa prima fase del jihadismo europeo è caratterizzato da un forte grado di separazione da un punto di vista operativo dei vari gruppi, foriero di un forte margine d’indipendenza reciproca: la coordinazione assumeva un senso laddove venisse richiamato un senso “nostalgico” di appartenenza etnica, e quindi manifestazioni di supporto, mai di tipo operativo. Ancora, importante caratteristica del neonato jihadismo europeo era la propria struttura ben definita e gerarchica. I gruppi algerini, egiziani e tunisini, i più attivi in Europa all’epoca, erano organizzati in base a una rigida catena di comando, attraverso la quale una leadership centralizzata dirigeva un sistema preordinato di cellule in tutti gli aspetti delle loro attività[76]. Allo stesso modo, i ruoli e le responsabilità all’interno delle cellule stesse erano predefiniti e rigidamente divisi[77].
Infine è importante notare che durante questa prima fase la maggior parte dei network jihadisti presenti in Europa non manifestò alcuna intenzione violenta nei confronti dei paesi ospitanti, visti perlopiù come temporanee ed estremamente utili basi operative. Un fervore antioccidentale era ben visibile nei sermoni e nella propaganda dei jihadisti. neo-europei, i quali si scagliavano a parole contro quelle che percepivano come la pochezza dei valori morali, la laicità, le politiche estere e la discriminazione contro i musulmani delle varie società europee. Ma l’obiettivo dei militanti dell’epoca erano solo i regimi dei paesi d’origine. I paesi europei vennero risparmiati dagli attacchi salvo quando venivano percepiti come direttamente coinvolti nei conflitti nel mondo arabo[78].
La seconda fase del jihadismo europeo si sviluppa in sincronia con la nuova filosofia di lotta introdotta, nell’universo arabo, da Osama Bin Laden e Ayman Al Zawahiri che, nel 1998, come già preannunciato, creano una piattaforma jihadista globale ufficializzata con l’annuncio della formazione del “Fronte islamico mondiale contro gli ebrei e i crociati”.
Al di là del suo reale peso specifico, il fronte del 1998 passerà alla storia soprattutto per la dichiarazione che accompagna la sua nascita[79]: nell’appello del 1998 il leader saudita non si limitava a chiedere l’espulsione degli infedeli dalla Penisola Arabica, ma invitava l’intera comunità islamica a colpire gli alleati, e a saccheggiare le loro ricchezze in ogni luogo ove se ne presentasse l’occasione, così da costringerli ad abbandonare i territori del dar al-islam. In questo modo, la “chiamata” si estendeva oltre i limiti riconosciuti dalla giurisprudenza, superando al tempo stesso l’interpretazione classica del jihad armato, universalizzandosi. Erano gli albori degli attentati dell’11 settembre 2001.
Il progetto di Al Qaeda costitutiva la formalizzazione di un fenomeno che si era lentamente sviluppato negli anni novanta nei campi d’addestramento afghani, sui campi di battaglia della Bosnia, della Cecenia e del Kashmir e in alcune delle moschee più radicali d’Europa.
Grazie a queste interazioni i vari gruppi jihadisti presenti in Europa cominciarono a cooperare tra di loro con crescente intensità, passando dallo scambiarsi semplice aiuto morale a rapporti concreti. L’altra innovazione apportata da Al Qaeda all’epoca fu la convinzione che la migliore strategia per scalzare i regimi del mondo islamico fosse far cessare gli aiuti economici e militari provenienti dagli Stati Uniti e da altri paesi occidentali.
L’attacco alle Torri Gemelle è il colpo più duro che la nuova dicotomia “noi-loro” potesse inferire per dare sostanza militare, in un contesto asimmetrico, alle intenzioni del leader arabo. Trasfigurandosi, la distruzione del Word Trade Center è la caduta del muro di umiliazione e provincialismo in cui, fino ad allora, era stato relegato il fenomeno jihadista agli occhi dell’Occidente. In questo senso, diventa il “simbolo” della nuova dimensione mondiale. Un brand per il terrore e un vessillo per il revanscismo mediorientale. In particolare, per tutto il mondo arabo salafita, diventa il simbolo della ghazwah[80]: e ciò crea, attraverso il simbolismo, un sapiente collegamento tra il passato sacro e il presente[81]. Anche nelle sue dichiarazioni relative alle tragiche conseguenze degli eventi dell’11 settembre, Bin Laden ha fatto ampio ricorso a immagini vivide e a una simbologia accattivante, ritagliata ad uso e consumo della società dell’informazione. Su questa influenza dottrinale e propagandistica (o, usando la lessicologia prima suggerita, in termini di marketing[82], su questa brand awareness) si diffonde il nuovo messaggio, proseguito anche dopo la morte del leader storico nel 2011 e la presa di potere di Ayman Al Zawahiri, nel pieno delle primavere arabe.
Ma ritorniamo al settembre 2001: l’impatto sull’opinione pubblica mondiale restituì alla politica occidentale la consapevolezza di un virus che, nel frattempo, si era diffuso all’interno del proprio corpo sociale, trovando spazio in quegli interstizi lasciati nell’ombra e che, ora che il corso della storia era esploso tra le mani dei vincitori, dovevano essere riportati alla luce, per quanto possibile.
In quegli interstizi, attraverso strumentazioni tecnologiche di stampo post-moderno, aveva iniziato a colmare i vuoti anche il web, e quindi il mondo virtuale aveva iniziato, prismaticamente, a diffondere l’eco di angoli remoti del globo, dando gli effetti di ubiquità ed istantaneità del messaggio “on line”. Il mondo dell’informazione post-moderna stava trasformando il battlefield tradizionale. E le organizzazioni terroristiche della galassia jihadista furono tra le più sapienti utilizzatrici di questa nuova logica del conflitto, di questa inedita “guerra ibrida”[83]. È, quindi, l’esplosione degli asset mediatici a caratterizzare il jihadismo del nuovo millennio, con una capacità tecnica gradatamente crescente (IS spicca nettamente su Al Qaeda per know-how e disinvoltura nell’impiego/realizzazione di materiale propagandistico) e una consequenziale pervasività in Europa e latu sensu nel mondo extra-arabo.
Gli effetti in termini sociologici furono, principalmente, tre:
- in primo luogo, la nascita (o l’emersione agli occhi delle Autorità) di piccoli e diffusi nuclei e network di jihadisti autonomi nel nord e centro Europa, composti da individui nati e cresciuti paesi occidentali e, quindi, lì radicalizzatisi. L’ondata di repressione interna di immigrati musulmani di prima generazione insediatisi e operanti a partire dagli anni Novanta, infatti, consentì di scardinare le cellule operative più evidenti e, quindi, è a partire dal controllo di immigrati di seconda e terza generazione, sociologicamente europei ma culturalmente trapiantati, che inizia una nuova sfida civile al terrorismo;
- in secondo luogo, il ricorso alla rivendicazione della violenza da parte dei leader qaedisti di episodi di attacchi isolati (i c.d. lone wolf) nelle città occidentali, come atto di ascrizione ad un piano unitario dello spontaneismo derivato dalla radicalizzazione;
- la promozione ed il reclutamento, talora self-recruitment: obiettivi indiretti della fascinazione dell’universo jihadista e, in special modo, dell’IS, ottenuto, principalmente attraverso il massiccio utilizzo dei social. I foreign fighters diventano, per questo motivo, una vocazione trasversale ed universale.
In breve, era nato il jihadismo autoctono europeo.
In un contesto “virtualizzato”, caratterizzante questa nuova fase storica, molti dei network jihadisti possedevano (possiedono) caratteristiche simili. Sebbene le eccezioni non siano rare, molti dimostravano scarsi legami con le grandi moschee; non avevano, perlomeno all’inizio della loro attività, alcuna connessione con gruppi jihadisti strutturati, e internet rivestiva un ruolo cruciale in tutte le loro attività, dalla radicalizzazione alla fase operativa (di cui si parlerà a breve).
In quest’ottica, sempre più “eterea”, il magazine qaedista Inspire (di cui la rivista Dabiq, stampata da IS, ne costituisce un’evoluzione, in quanto meglio rielaborata ed inserita nella galassia mediale) riveste un ruolo determinante, si potrebbe dire rivoluzionario. Inspire è, innanzitutto, in lingua inglese e, in seconda battuta, si presenta con una accattivante veste grafica. Per cui il target dichiarato è il mondo anglofono dei giovani, moderni e radicali. È diffuso su ogni piattaforma disponibile, ovvero cartacea, on line e via forum e chat. Quello che sconvolge, in ogni caso, sono i contenuti, spogliati – attraverso l’informalità (apparente) dell’estetica e la diffusione capillare – di ogni clandestinità e, al contrario, declassati a semplici istruzioni dal taglio generalista.
I temi trattati sono della promozione, del reclutamento e del training: quest’ultimo specifico aspetto, di fatto, apre storicamente la strada al c.d. “terrorismo fai-da-te”, il cui ispiratore è Anwar Al Awlaki, leader pro-tempore di AQAP, il cui viscerale odio per gli Stati Uniti si trasformò in questa nuova metodologia di combattimento, attualmente da considerarsi il maggior rischio reale per l’Occidente, e sùbito sposata e assorbita nelle filosofie di guerra qaediste dallo stesso Al Zawahiri, almeno dal settembre 2013 e di IS, a partire da uno storico discorso di Adnani del settembre 2014[84]. È nella rivista Inspire dell’edizione del gennaio 2011 che trova una prima fondamentale concettualizzazione la “borderless area” della lotta jihadista, in cui trova pieno spazio di legittimazione la nozione di Lone Wolf: nell’articolo si evidenziano, specificatamente, i singoli attentati dei “loners”[85] Roshonara Choudhry e Taimur Abdulwahab Al-Abdaly e si assume che i loro attacchi siano parte della ribellione globalizzata (globalised insurgency) e dell’idea dell’assenza di confine (borderless idea) che Al Qaeda sta tentando di promuovere[86]. L’obiettivo è chiaramente quello di colmare il gap esistente tra la natura casuale dell’esplosione violenta da parte di questi individui e la prospettiva jihadista globale.
Nella rivista, ancora, sono indicate le tecniche più svariate per “militarizzare” fondamentalisti self-reliant, che vanno dalla fabbricazione di una bomba casalinga alla manutenzione del kalashnikov. In sintesi, con Inspire si assiste a un altro salto di qualità nella produzione mediale del jihad e ancor più prende corpo la nuova struttura flessibile dei gruppi terroristici che si formano “on demand”, autodidatti, per essere indirizzati su nuovi soft target con operazioni che devono essere organizzate in proprio. È significativo ricordare che il numero 10 di Inspire, del marzo 2013, indica tra i 10 “most wanted” proprio Stéphane Charbonnier, direttore di Charlie Hebdo ucciso nell’attacco del 7 gennaio 2014 a Parigi[87].
Ovviamente, l’editoria del jihad si compone anche di altre riviste e magazine, l’ultima in ordine di comparizione è Rumiyah[88], ma in termini generali, a partire da Inspire, i linguaggi d’influenza utilizzati principalmente per incentivare attacchi dei “lupi solitari” hanno dei connotati ricorrenti, che vale la pena evidenziare:
- il livello intellettuale di queste riviste è paragonabile a quello di altri periodici del mercato di massa e si rivolgono ad un pubblico ragionevolmente ben istruito;
- i segni di un cambiamento in direzione editoriale dopo la morte di un responsabile sono chiaramente visibili in Inspire. I nuovi attori cambiano a ogni numero, ma in linea di massima si somigliano tutti. Spesso lo stile di scrittura è simile in tutti gli articoli anche quando c’è un cambio di proprietà, e quindi è probabile che il periodico sia scritto da una singola persona o da un gruppo molto ristretto;
- l’intensità di linguaggio jihadista è aumentata in maniera costante negli ultimi numeri di Inspire, dopo essere stata molto più stabile all’inizio[89].
- Psicodinamica della radicalizzazione: un’ipotesi ricostruttiva
a. Controllo della devianza
La diffusione del modello fai-da-te è quindi avviata da Al Qaeda e successivamente ripresa da IS, che con la rivista Dabiq intensifica anche la trasmissione di criteri operativi[90]. Non solo: l’Islamic State, a differenza della prima rete terroristica, non bada all’estrazione salafita o – in generale – allo stile di vita pregresso dell’attentatore e, anzi, abbraccia e rivendica ogni attentato consumato in Occidente (o in territorio vicino[91]) come proprio, di fatto incrementando il proprio prestigio mediale del terrore mondiale. L’interesse è duplice, e sempre in linea con lo scopo di mantenimento della brand awareness di cui si è parlato in precedenza: da una parte, infatti, sussiste una utilità dei gruppi terroristici (si pensi al Boko Haram nigeriano, da sempre ripudiato da Al Qaeda[92] e poi accettato, previo giuramento di fedeltà al leader, tra le coorti del Califfato) o dei giovani attentatori, laddove i primi ottengono una collocazione identitaria e i secondi un brand-egida di rilievo quale “IS”; dall’altra è lo stesso gruppo di Al-Baghdadi che, allargando le maglie della rivendicazione, moltiplica esponenzialmente la propria esposizione mediatica e ingrossa le fila dei combattenti stranieri[93]. Quello che viene richiesto (da Adnani) è solo un preliminare giuramento di fedeltà al Califfato. Si noti, peraltro, che per molti homegrown terrorist è indifferente agire in nome di Al Qaeda o per IS[94] e che, per il primo network, quello che conta sembra essere la promozione del jihad piuttosto che la pubblicità del proprio “marchio”.
Lo spostamento del focus strategico sul web, quindi, che rende l’ideologia facilmente accessibile e crea agevoli network tra fondamentalisti di tutto il mondo, conduce alla radicalizzazione anche “al di fuori della Moschea”, il che rende ovviamente ancora più difficile il controllo sulla minaccia terroristica autoctona.
Sorge così la questione del tutto contemporanea della radicalizzazione “via web”[95], ovvero i meccanismi attraverso i quali gli individui cambiano i loro atteggiamenti adottando un comportamento potenzialmente deviante ancorato ad un’ideologia radicale o estremista[96]. In relazione a questo particolare processo, è opportuno distinguere tra definizione teorica e percezione pratica: talora, infatti, può trattarsi di una semplice espressione identitaria (come l’uso del niqab), ma un’espressione del genere può essere percepita come la manifestazione di una radicalizzazione religiosa. “Ciò significa che l’analisi della radicalizzazione deve tenere conto della percezione collettiva, in altre parole del contesto dell’opinione pubblica in un dato momento e del suo grado di tolleranza nei confronti di alcune espressioni o manifestazioni di radicalità”[97].
Tuttavia l’impiego della “percezione collettiva” come criterio discriminante rischia di inficiare uno sceveramento adeguato del contagio ideologico in Occidente, stante la labilità o il condizionamento psicologico di certe categorizzazioni, per cui, ai fini di un’analisi precisa della criminogenesi terroristica, è più utile valorizzare unicamente la radicalizzazione che sfocia in azioni violente, rifuggendo la semplice affermazione identitaria dell’individuo. D’altronde, l’indice in commento per valutare la radicalizzazione di un determinato gruppo sociale può rivelarsi tutt’altro che un efficace strumento di analisi, innanzitutto poiché sganciato da indici certi e misurabili. La pratica religiosa islamica, ex se, rifugge dall’automatico scadimento nel fondamentalismo, per cui, se già per via della radicalizzazione “on line” è impensabile un’equazione sociale del tipo tot moschee tot network jihadisti, il mero conteggio di segni esteriori di espressioni identitarie di stampo religioso (es. il taglio della barba salafita, la scelta dell’abbigliamento, la lettura di testi coranici…) può solo avere un ruolo orientativo, ma non di più.
Ancora, si consideri la prassi della dissimulazione (taqiyya) che – a jihadizzazione avvenuta – impone ai neofiti del terrore di non ostentare i segni esteriori del loro estremismo, per meglio infiltrarsi nelle società prese di mira. Questo principio, ereditato dalla storia religiosa dei primi musulmani, è stato adattato al contesto attuale per diventare mutevole (multitasking) tecnica di guerra psicologica: non dire (kitman), non mostrare (tawriya), mentire (kidhba), agire con astuzia (hila), adattarsi (muruna). L’inganno a beneficio di Dio[98]. Il che vale ancora una volta ad inquinare il valore della percezione collettiva nella misurazione del contagio.
Si assume quindi che il numero complessivo dei soggetti radicalizzati in un dato ambiente sociale, perché percepiti collettivamente come tali, non coincida con la somma risultante da un ipotetico calcolo algebrico della psicodinamica individuale, in ragione della quale abbiamo diverse gradazioni del percorso di radicalizzazione e diversi, se non addirittura nulli, esteriorizzazioni della conversione all’islamismo violento. La taqiyya si rivela anzi come una variante inversamente proporzionale tra la percezione collettiva e la radicalizzazione individuale esteriorizzata.
E poi, in interiore homine habitat veritas: per cui un’analisi riferita alla collettività nel suo insieme ha importanza solo in un àmbito di valutazione delle effettive istanze securitarie (siano esse politiche o giudiziarie), richieste da un determinato ambiente in base ai segnali esteriori del comportamento umano, perché in questo modo consente un controllo della devianza, nel senso struttural-funzionalista di comportamento anomalo sotto il profilo statistico[99]. La devianza è, a questo livello di epidermide sociale, il principale effetto “misurabile” del contagio jihadista in Occidente. Il resto, nel calderone delle securitarismo demagogico, diventa pregiudizio e xenofobia[100].
La devianza che ci è utile per misurare il fenomeno è il segmento che separa il comportamento e lo stile di vita del singolo da quelli genericamente accettati nell’ambiente sociale in cui è inserito, e che rappresentano il parametro della normalità. Il concetto è particolarmente spendibile nella definizione delle dinamiche psicologiche, non necessariamente sfocianti in episodi criminosi (laddove più correttamente occorre parlarsi di delinquenza), che sottendono i diversi comportamenti distonici rispetto ad un canone di conformità giuridica. Correttamente, invece, si debbono considerare devianti quei comportamenti che suscitano, da parte dei singoli e della società, reazioni di intensa disapprovazione e censura con richiesta di sanzione[101]. Si ricomprendono in questo tipo di devianze – fondate su una scelta c.d. “psicologizzata” e, quindi, consapevole/colpevole – tutti i delinquenti, nonché, ad esempio, i tossicomani e, ovviamente, i terroristi.
L’intensa disapprovazione e la richiesta di sanzione risultano pertanto criteri fondamentali per identificare, fra le varie condotte contrarie alle norme legali o di costume, quelle che più propriamente meritano la qualificazione di “devianza”: questa, in ultima analisi, esprime un giudizio di valore, una valutazione morale negativa, in funzione dei principi etici di comune accettazione. La peculiarità del controllo sociale della devianza provocata dal jihadismo consiste, quindi, nell’operazione di discernimento “etico”, prima ancora che “normativo” del percorso di radicalizzazione soggettivo, atteso che non può considerarsi l’avvicinamento all’Islam tout court causa della devianza o effetto della stessa. Nella società occidentale liberale, in cui il weberiano politeismo dei valori impone l’eclettismo come condizione necessaria per affrontare un dialogo civile, diventa quindi importante individuare segni comportamentali in grado di fondare solo una ragionevole prognosi di radicalizzazione islamista. Il fallimento di politiche poliziesche, di cui Guantanamo ne è il monumento[102] per tutte le ragioni di cui si è già parlato, ne sono una dimostrazione alquanto evidente.
Certamente, l’ambiente e quello che accade nell’interazione individuo-rete (reale o virtuale),
assume un rilievo decisivo nel controllo di questo tipo di devianza, anche se non risolutivo. Tuttavia esso fornisce una base valutativa di partenza su cui è possibile, con tutta la fallacia delle teorie predittive, che una personalità predisposta alla radicalizzazione islamista trovi terreno fertile e possibilità di azione.
b. Percorso di radicalizzazione violenta
Volendo individuare un modello psicodinamico di radicalizzazione violenta nel contesto occidentale-europeo, pur nella consapevolezza dell’estrema “duttilità” dello stesso, è sicuramente importante considerare – come premessa metodologica – che i casi empirici utilizzati hanno già varcato la soglia della radicalizzazione violenta, sconfinando nell’impegno violento. È importante evidenziarlo perché, una diversa strutturazione del modello potrebbe essere utile a scopi trattamentali: ma non è questo il tema che ci occupa, al limite quanto si descrive ha una utilità prognostica e, infine, ricognitiva, delle esperienze investigative maturate.
Tra queste, molto significativo è il modello a 4 stadi del NYPD[103]. Il documento, valente soprattutto in ambiente operativo al fine di una rapida diagnosi investigativa e le consequenziali scelte giudiziarie (ad esempio: rimandare l’intervento risolutivo, l’arresto, e continuare a monitorare il radicalizzato e la rete in cui è inserito), venne costruito da analisti della polizia statunitense sulla base di un approfondito studio di 11 profili di jihadisti di Al Qaeda ed identifica, appunto, quattro livelli psicodinamici:
- stadio di pre-radicalizzazione: la vita della persona prima dell’adozione di un’ideologia jihadista presenta elementi di vulnerabilità, così come l’ambiente sociale riveste un ruolo significativo, costituendo terreno fertile per l’introduzione nel processo di radicalizzazione. Nei casi esaminati dagli analisti newyorkesi, la maggior parte degli individui sono “sotto traccia” (unremarkable), svolgono lavori ordinari, hanno una vita ordinaria e hanno una piccola, se non nessuna storia criminale alle spalle;
Aggiungiamo due considerazioni ad abudantiam rispetto all’ossatura in descrizione:
- in questa fase è sempre presente un certo grado di autonomia da parte dell’individuo[104]: la propaganda è senz’altro fondamentale e, a questo livello, attecchisce sul fondo cognitivo, come s’è detto, diventando il sostrato di una iniziale e consapevole rivalutazione delle proprie credenze, al punto da spingersi all’individuazione di un network di riferimento (solitamente labilmente collegato al core vero e proprio della galassia jihadista);
- la velocità del passaggio dal processo di pre-radicalizzazione a quello di identificazione è in funzione del consolidamento individuale nell’ambiente sociale: per cui la diacronia nel contesto europeo o nel rapporto centro-periferie in città appartenenti allo stesso sistema statuale è da ricondursi alla disgregazione del senso di inserimento da parte di soggetti, non necessariamente sbandati o psicopatici, ma comunque attirati da un altrove rispetto ad una Weltanshauung ormai avvertita incongruente. Ha un certo peso, ad esempio, l’attrazione per il rap o l’hip hop, ovvero esperienze di prisonizzazione, laddove è facile che l’inserimento in una subcultura carceraria provochi un “distacco” dal precedente background[105].
- stadio di identificazione: la persona comincia ad allontanarsi dal suo vecchio sé e ad associarsi con altri che condividono la stessa ideologia. Il catalizzatore di questa “ricerca religiosa” è la consapevole apertura cognitiva al jihadismo, di cui la pre-radicalizzazione ne è il presupposto aurorale. A questo livello agiscono i diversi fattori di spinta motivazionale: economici (perdere un lavoro, non riuscire ad elevarsi nella scala sociale); sociali (alienazione, discriminazione, razzismo); politici (conflitti internazionali); personali (ad es. la morte di una persona cara).
Si è parlato di evasione[106], nel senso di volontà centrifuga da una situazione di debolezza socio-ambientale, per i motivi elencati. Il che spiega, tra l’altro, la rapporto funzionale tra disintegrazione dell’identità sociale, sublimazione dell’identità personale attraverso la metafisica del web, e condizioni oggettive di disagio esistenziale: la spinta evasiva è dalla realtà verso l’irreale, sia esso – nel caso dell’islamismo violento – la religione in chiave jihadista, o l’idea di uno Stato utopisticamente salafita in cui immigrare.
Studi criminologici hanno opportunamente evidenziato, al riguardo, l’importanza dell’identificazione nel gruppo lungo il percorso di preparazione all’attentato suicida: “[…] in tutta la fase di progettazione dell’atto criminale l’aspirante suicida deve annullare le pulsioni di sopravvivenza e le emozioni relative all’identità del proprio sé: si deve invece riconoscere nell’identità del proprio gruppo”[107].
- lo stadio dell’indottrinamento: è questa la fase in cui l’individuo intensifica le sue credenze, adotta totalmente l’ideologia salafita-jihadista e arriva alla conclusione, apodittica, di dover prendere parte alla “causa” attraverso l’azione. A questo livello assume rilevanza la figura di un mentore, a differenza del primo stadio dove, invece, l’opzione di perseguire un pathway radicale è strettamente individuale (autonomo e centrifugo): l’identificazione in un gruppo di simili, quindi, incoraggia e rafforza il nuovo punto di vista maturato. Si noti che la facilità dell’indottrinamento è dovuta non solo alla relativa predisposizione cognitiva che le precedenti fasi hanno provocato ma, soprattutto, alla riduzione intellettuale della dottrina ai minimi termini, il che ne rende la diffusione trasversale anche in ambienti lowbrow, non accademici e, in definitiva, poveri (il che è coerente con l’evasione). La pervasività della propaganda e del reclutamento di Al Qaeda e IS, già se ne è parlato, esplode proprio attraverso l’impiego di un linguaggio generalista, accattivante e pubblicitario, fortemente simbolico e, allo stesso tempo, estremamente semplicistico, essendo ridotto l’interrogativo del libero arbitrio all’alternatività dell’opzione male-bene, il che esclude la complessità della contingenza, ma restituisce un senso di pienezza dottrinale, dogmatica al questuante, anche il più umile[108].
Sempre a proposito di capillarità, si consideri che l’individuazione delle cause che agevolano l’indottrinamento si traduce nell’individuazione geografica dei cc.dd. hotbeds of recruitment, ovvero i centri di reclutamento.
In altre parole, le coordinate composte dal disagio sociale, dalla presenza di aree abitate da gruppi culturalmente ristretti di giovani socialmente vulnerabili, spesso mancanti di un senso di scopo o di appartenenza all’infuori della loro cerchia, la marginalità urbana e (elemento non da sottovalutare) la possibilità/velocità di connessione ad un rete internet[109], e quindi l’alfabetizzazione informatica della popolazione residente, sono spesso gli orditi che compongono le nuove geografie del reclutamento: la virtuale visualizzazione di questi indici lascia emergere una mappatura del reclutamento jihadista, composta da una rete di epicentri[110] la cui importanza si acuisce in compresenza di luoghi “tipici” dell’incubazione salafita o, latu sensu, islamica, come moschee, centri culturali musulmani e luoghi di culto adibiti alla preghiera (garage, appartamenti privati…). Una ricerca portata avanti nel senso prospettato, ad esempio, consente di avallare in via sperimentale l’ipotesi metodologica suggerita: allargando la maglia della ricerca a tutto il globo, THE SOUFAN GROUP individua i principali hotbeds del reclutamento in zone che, in effetti, riuniscono – seppure con intensità diverse – tutti gli indici summenzionati: “[hotbeds of recruitment] have emerged scattered within the global influx. Some are small, like Lisleby district of Fredrikstad in Norway; others are well-established incubators and radiators of extremist behavior, such as Bizerte and Ben Gardane in Tunisia; Derna in Lybia; the Pankisi Gorge in Georgia; and the Molenbeek district of Brussels”[111].
- lo stadio della jihadizzazione: operazione finale che porterà il soggetto a considerarsi mujahadin, accettando incondizionatamente il sacro dovere di combattere[112]. A questo livello il reclutato sente di dover agire in nome della nuova ideologia acquisita, per cui gli “atti di avanzamento[113]” consisteranno in pianificazione, preparazione ed esecuzione. Mentre le altre fasi del processo di radicalizzazione potrebbero prendere luogo gradualmente, oltre due o tre anni, questa in disamina può avere un’evoluzione molto rapida, anche solo qualche mese o settimana per avere corso.
Anche qui si ritiene opportuno esprimere una considerazione, del tutto peculiare e, verosimilmente, frutto dell’indottrinamento “rapido” sponsorizzato mediante il web e “svenduto” per pura volontà propagandistica dalle scuole salafite europee di nuovo conio[114]: la jihadizzazione comporta l’accettazione del martirio, l’istihhad in arabo, traducibile verbatim come “martirio scelto autoimposto”, e in sé riassume un simbolo del terrorismo islamico e della pratica fondamentalista, essendo l’estremo dono della propria vita ad Allah, tributo eroico e di devozione per antonomasia. Recentemente si è parlato di “islamikaze”[115]. Applicato alla tattica militare, l’istihhad (anche detto shahid) è la personificazione delle “bombe intelligenti” e, per tale motivo, assume anche un grande valore pratico, oltre che ideologico, per il jihadismo militante degli homegrown terrorists. In una specie di esaltazione religiosa, tra gli anni intercorrenti tra l’Undici Settembre ed il 2010, l’istihhad (martirio-suicidio) è diventato un gesto desiderato ed atteso, “quasi fosse un atto di sublimazione individuale, un vivere la morte per la morte”[116]. In quest’ottica sono gli attacchi ceceni con diffuso uso di candidate donne, gli attacchi in Spagna ed in Arabia Saudita. Eppure la cronaca recente degli attentati, ad esempio francesi, di Charlie Hebdo o della discoteca Bataclan, ma anche quello del lungomare di Nizza, dei mercatini di Natale a Berlino o della Rambla di Barcellona (…), seguendo le indicazioni fornite dalle riviste “on line” utilizzano materiale non esplosivo, anzi: o si spara a raffica su gente comune o la si travolge con veicoli di grossa cilindrata. Il non usare esplosivo, facendosi esplodere, ha un inequivocabile pur se recondito comune denominatore degli attentatori, ovvero la volontà di sopravvivenza. Il che, si badi, non vuol dire non essere disposti al martirio, ma la scelta operativa serve anche a preservare l’attentatore da una morte immediata e, laddove la fuga avesse esito positivo, scongiurata. La secolarizzazione del Paradiso attraverso l’istituzione del Califfato, probabilmente, apre anche questa alternativa a chi si affaccia alla radicalizzazione e ne intravede i benefici terreni: ne consegue l’effetto ibrido e del tutto contemporaneo di un’islamizzazione maturata in ambienti occidentali, fortemente inclini ad un edonismo contingente e di cui ne resta una traccia umbratile. Il “canto delle sirene”[117] spinge l’islamikaze alla terra dell’Islam, alla vita gloriosa guadagnata provocando la morte, ma non alla morte.
La schematizzazione proposta, ovviamente, si presta a diversi approfondimenti e, all’interno di ogni fase, sarebbe possibile selezionare ed argomentare numerose ramificazioni: il che rischierebbe di sfarinare, in ragione del variegato solipsismo che caratterizza i singoli processi di interazione uomo-ambiente-radicalizzazione, il senso di questa rassegna criminologica.
Quello che è utile riscontrare in questa sede è l’incredibile plasticità che la fase dell’indottrinamento ha assunto grazie all’uso del web da parte delle organizzazioni del terrore. A ben vedere, anzi, l’indottrinamento è il margine in cui i nuovi strumenti telematici – in assenza di collettività centripete a cui l’individuo possa riferirsi – si sono inseriti per ottenere una spinta centrifuga nei contesti urbani europei. Le esperienze di radicalizzazione autoctona italiana, ad esempio, ovvero Mohamed Jarmoune, Anas el-Abboubi e Giuliano Delnevo[118], pur se in ritardo rispetto allo scacchiere occidentale complessivo, rivelano proprio questa attitudine di nuovo conio: Internet più che Moschea.
Il caso Jarmoune, in questo senso e volendo restare in Italia, è paradigmatico: il giovane di Niardo, condannato nel maggio 2013 a 5 anni e 4 mesi di reclusione in base all’art. 270 quinquies del Codice penale, può essere considerato il primo caso di jihadista autoctono “puro” in Italia giudicato da un Tribunale. Come è stato opportunamente evidenziato[119], Jarmoune è “sociologicamente italiano”[120]. Nonostante nato in Marocco, Jarmoune giunse in Italia da bambino e perciò la maggior parte della sua socializzazione (e quindi radicalizzazione) è avvenuta nel bresciano. Inoltre le sue caratteristiche collimano con quelle tipiche dei jihadisti autoctoni: radicalizzato autonomamente, non frequentava moschee, non aveva legami con gruppi strutturati e utilizzava internet come piattaforma principale per le sue attività[121]. La parabola bresciana è quindi interessante perché, nella storia della radicalizzazione del giovane, pur se l’intervento delle Autorità, antecedente all’eventuale acting-out, lascia il dubbio storico sull’effettiva jihadizzazione e conseguente predisposizione al martirio, rivela come l’evoluzione psicodinamica sia sottotraccia e, soprattutto, indipendente dalla prossimità di luoghi tradizionali di culto islamico.
- Il bifrontismo del terrorismo “fai-da-te”: l’homegrown terrorist ed il foreign fighter
Il “salto” nell’ultima fase individuata del NYPD differenzia le categorie dell’homegrown terrorist e del foreign fighter. La medaglia del terrorismo salf-made è “bifronte” perché l’azione violenta è rivolta, in un caso, all’interno del contesto sociale in cui la radicalizzazione ha avuto luogo e, nell’altro, si unisce a scenari esterni, lontani o lontanissimi dalla terra madre.
Più in generale, comunemente si indica come terrorismo “fai-da-te” “quello commesso in modo autonomo in Occidente da giovani che si sono autonomamente radicalizzati”[122].
Più nel dettaglio, il terrorista homegrown si è radicalizzato ed addestrato direttamente in Occidente e il processo di radicalizzazione, come prima descritto, si è catalizzato attraverso l’imponente mole di materiale dottrinale e tecnico-operativo reperito sul web. Solitamente diventa un lone wolf (rectius: sceglie di perseguire questa modalità operativa) per la difficoltà di ottenere un sostegno logistico da cellule jihadiste, utili a strutturare un piano maggiormente sofisticato, o comunque perché, come detto, sente di poter ascrivere il gesto violento ad una strategia universale e molecolare allo stesso tempo.
Il foreign fighter, invece, è un’espressione sintetica (di matrice giornalistica) di un “concetto duplice”[123], giacché contempla, sul piano operativo, due tipologie di soggetti ed altrettanti scenari/percorsi distinti:
- soggetti occidentali musulmani (e non-musulmani che si convertono) e poi partono per raggiungere gli scenari di guerra dell’IS (attualmente prevalentemente Iraq e Siria): in particolare, questi alimentano le azioni tattiche di combattimento convenzionale e di guerriglia sul campo e devono avere un pattern emotivo specifico;
- soggetti occidentali (musulmani e non musulmani) che costituiscono cellule operative in territorio occidentale (Europa, USA e Australia). Essi possono offrire supporto logistico ma anche attivare azioni militari come nel caso della strage di Charlie Ebdo o, sempre in Francia, nell’attacco del 13 Novembre 2015. Alcuni di loro, infatti, sperimentato un’esperienza di combattimento in Iraq o in Libia, e rientrando possono applicare le conoscenze acquisite (c.d. returnees): questa componente del “ritorno”, inoltre, accentua ulteriormente la cicatrice identitaria aperta dal jihadismo, alimentandone il disagio sociale e scemandone le possibilità di una riamalgama ovvero di una mitigazione della radicalizzazione.
La loro speciale capacità di mimetizzazione nel tessuto sociale occidentale (si è parlato prima di taqiyya), di cui ne conoscono le dinamiche essendo il loro milieu di riferimento sociologico, li rende difficilmente intercettabili.
La minaccia rappresentata dal foreign fighter rischia di diventare sul suolo euro-occidentale ancora più pervasiva in considerazione del crescente indice di attrattività dell’IS: rispetto ad Al Qaeda, infatti, e a latere rispetto la più seducente strategia comunicativa e la minore “selettività” degli accoliti di cui si è parlato, il gruppo di Al-Baghdadi ha da offrire, a chi si unisce alle fila del suo esercito, un apparato semi-statuale, organizzato in modo tale da poter garantire una godibilità (si direbbe: transeunte e non solo metafisica) di benefici economici, quali una terra da coltivare, una casa da abitare, una moneta di proprio conio e l’onore che spetta al guerriero sacro (etc…). Questa considerazione costituisce una cifra di lettura importante: la motivazione per queste persone di unirsi a gruppi di estremisti violenti in Siria e Iraq resta più personale che politica[124]. Per arrivare a questo risultato, l’IS ha sviluppato una specifica propaganda fondata su una combinazione di vittimismo, contestazione e spirito rivoluzionario. Non solo: è stata elaborata una vera e propria teologia dell’emigrazione islamica (hijrah) sul modello dell’ascensione ebraica (aliyah)[125].
Una Terra Promessa ampiamente sponsorizzata[126] che genera e richiama un estremismo radicale europeo a sé, addirittura con un’influenza maggiore rispetto alle società nord-africane e mediorientali a maggioranza islamica. Di fatti, da un’analisi dei flussi di combattenti stranieri nelle fila dello Stato islamico emerge un trend costante per tutti i paesi occidentali, che indica chiaramente come un cittadino europeo di fede islamica ha molte più possibilità di radicalizzarsi e andare a combattere la guerra santa in Siria/Iraq di un suo correligionario che vive in un paese mussulmano[127].
Tuttavia, volendo considerare anche l’altro effetto del ritorno dei foreign fighters, se accettiamo l’idea – peraltro basata su evidenze fattuali – che questi si uniscano al jihad siriano e iracheno sulla base di un’idea mitizzata dello Stato Islamico, allora dobbiamo tener conto anche della demitizzazione che l’impatto con la realtà inevitabilmente comporta. Come è stato notato: “[…] The understanding of motivation, both of those who join and of those who leave, remains of key importance, not just in helping to ensure the deployment of scarce resources to where they are most needed, but also in identifying returnees who can undermine the appeal of the Islamic State by speaking with credibility and authority about its true nature […]”[128].
Il rientro dei combattenti del Califfato tuttavia, si presta a più pronostici, per cui non è opportuno fossilizzarsi, in questa sede, su una conseguenza piuttosto che un’altra: l’esperienza della guerra, vista alla stregua di un kantiano assoluto morale nel sistema etico islamista, diventa la base di nuova ricostruzione identitaria, per cui è verosimile che le esperienze individuali si diversificheranno a seconda della maggiore o minore intensità con la quale le vicende di morte e devastazione abbiano attraversato la psiche del singolo foreign fighter. Al momento l’esistenza di IS fornisce vitalità politica allo slancio bellico, la disillusione susseguente ad un crollo del progetto statuale, oltre ad una diaspora dei soldati, sarà la nuova sfida mediatica qaedista.
- Lone Wolf: analisi del modello operativo
Se homegrown terrorist e foreign fighter sono le tipologie che definiscono le modalità con le quale i neofiti jihadisti, radicalizzati ed addestrati, prendono normalmente parte al conflitto islamista (in un certo senso, l’eziologia dell’azione violenta), il Lone Wolf appartiene al campo della fenomenologia tattica, perché definisce una delle plausibili estrinsecazioni operative (o militari) dell’attentato terroristico.
Sull’argomento non esiste molto in letteratura, sia a causa dello scetticismo che a volte accompagna i percorsi giudiziari di accertamento del fatto, la cui soglia per l’attivazione di una rilevanza penale è molto superiore ai c.d. “atti preparatori”, sia a causa della natura talora ambigua degli attentati perpetrati dai lupi solitari, le cui motivazioni difficilmente sono univocamente inquadrabili nel jihadismo violento, piuttosto che nella complessa psicopatologia del mass murderer (assassino di massa). Per convenzione, infatti, pur compiendo in concreto un eccidio come il Lone Wolf, dalla categoria del mass murdering sono escluse le stragi di tipo terroristico, mafioso o di guerra, poiché determinate azioni sono dettate da motivi estrinseci e non da motivazioni intrinseche dello stragista, tipicamente non razionali. Quindi, ogni volta che questi eccidi hanno una motivazione riscontrabile nel reale, il che non significa giustificabile, e non solo nella psiche del soggetto, non sono riconosciute come stragi effettuate da assassini di massa. Paradossalmente una strage in guerra fatta per fini personali con motivazioni insite nell’esecutore e non per scopi bellici comporterebbe la classificazione in un’azione di un mass killer[129]. Questa distinzione, che in sostanza separa una categoria psicopatologica dall’azione militare[130], è condivisa anche da Marc SAGEMAN con specifico riferimento agli attentati maturati in ambiente terroristico islamista: “[…] there are two kinds of Lone Wolves, real lone wolves and mass murderers”, laddove “real lone wolves are usually “part of a virtual community”, while the mass murderers have their own personale “insane” ideology”[131]. Pur se chiara dal punto di vista didascalico, tuttavia, va ammessa la sostanziale difficoltà nel rintracciare elementi che possano ineluttabilmente ascrivere i singoli episodi di omicidio di massa, o omicidio-suicidio, ad una categoria piuttosto che un’altra.
Tuttavia, prescindendo dalle motivazioni del gesto, che rendono fumosa la possibilità di un inquadramento criminogenetico certo, dal punto di vista operativo, l’analisi della dinamica degli attentati terroristici rivendicati dai gruppi jihadisti, soprattutto in Nord America ed in Europa, consente di disegnare dei modelli operativi ricorrenti[132]. Innanzitutto, due sono le caratteristiche comuni: la prima che gli individui o i gruppi usano l’ideologia estremista islamista come giustificazione; la seconda che gli stessi apparentemente pianificano la loro operazione da soli. Data questa piattaforma nozionistica, vengono individuate quattro categorie:
- Solitario (Loner)
In quest’ambito, il solitario è colui che pianifica o cerca di pianificare un atto di terrorismo usando la copertura dell’ideologia estremista islamica: tuttavia, pur servendosene per fornire una spiegazione per il proprio comportamento, questi non sembra abbiano alcuna connessione o contatto con gli estremisti, se non che attraverso un largo consumo passivo di internet o degli influssi sociali. Non c’è, quindi, nessuna prova di comando e controllo esterni e, allo stesso tempo, è alquanto impossibile verificare a che livello l’ideologia in disamina abbia pervaso l’attentatore, ovvero fino a che punto questa costituisca una scusa per mascherare problemi psicologici o sociali. Come esempi di questa categoria, l’Autore cita Nicholas Roddis (2007) ed Andrew “Isa” Ibrahim (2009). In entrambi i casi si tratta di soggetti che non hanno completato alcun attacco terroristico, pur avendo assemblato – preferibilmente attraverso internet –una cospicua mole di materiale per l’indottrinamento e l’azione suicida. Nelle abitazioni di Roddis e Ibrahim, in particolare, la polizia trovò tutto l’occorrente per fabbricare esplosivi, con l’eccezione dell’acido che avrebbe consentito di completare un dispositivo di tipo TATP[133], nonché diverso materiale sull’islamismo. Se nel caso di Roddis non è chiaro se sia stata la radicalizzazione jihadista a determinarlo ad agire, e non invece problemi sociali di disadattamento, nel caso di Ibrahim non c’è dubbio che essa sia stata la causa scatenante, anche se nella sua anamnesi figurano problemi legati all’abuso di sostanza e dissidi in famiglia, che gradualmente l’hanno portato ad una vita indigente.
Altro caso è quello di Hesham Mohammed Ali Hedayat, che il 4 luglio 2002 aprì il fuoco all’Aeroporto Internazionale di Los Angeles, uccidendo due persone e ferendone altre. Le indagini sul suo conto evidenziarono uno stato di depressione dovuto al fallimento della sua attività imprenditoriale, all’abbandono della sua famiglia, trasferitasi in Egitto, e alla solitudine vissuta il giorno del suo compleanno. È altresì poco chiaro che egli si sia riferito alla qaedismo[134].
In ultimo, il caso di Roshonara Chouldrhy, responsabile dell’assassinio del parlamentare britannico Stephen Timms il 14 marzo 2010 dimostra delle peculiarità che la distinguono dai precedenti loners: pur essendo culturalmente musulmana, nonché chiaramente e dichiaratamente radicalizzata (rivelando particolare attenzione per le predicazioni di Anwar Al-Awlaki), non era un’emarginata sociale, svolgendo l’incarico di insegnante part-time in una scuola islamica della propria comunità.
In breve, si includono nella categoria dei loner individui isolati che cercano di perpetrare un atto di terrorismo usando qualche tipo di ideologia radicale islamista come giustificazione. La loro natura isolata comporta che sia difficoltoso definire il chiaro parametro ideologico che sottende ciò che rivendicano, ma chiari sintomi consentono di affermare che vi sia stato un certo indottrinamento, in generale definibile come jihadista.
- Lupo solitario (Lone Wolf)
In questo gruppo rientrano gli individui che, pur se apparentemente concludono le loro azioni terroristiche senza alcuna influenza esterna, di fatto dimostrano un qualche collegamento con i gruppi jihadisti operativi. Ruolo chiave è giocato dal mondo on line che, in assenza di collegamenti fisici, surroga la funzione di una struttura vera e propria di comando e controllo. È chiara, in questo caso, la radicalizzazione islamista e, in generale, si tratta di individui che cercano conforto nell’ideologia estremista: questa, normalmente appresa da auto-didatti, viene rinforzata attraverso il colloquio virtuale con gli estremisti operativi.
Come esempi di questo prototipo operativo, vengono citati Nicky Reilly (2008), Krenar Lusha (2008) e Nidal Malik Hassan (2009).
Nel primo caso, al pari di Roddis e Isa Ibrahim, l’attentatore non è riuscito a portare a compimento il suo piano: pur avendo allestito dispositivi esplodenti ed essendo arrivato in un ristorante, qualcosa andò storto e l’armamentario gli esplose prima che riuscisse ad aprire la porta del bagno, provocando quindi solo panico e spavento, ma nessun ferito. La polizia, successivamente, documentò contatti con individui appartenenti al radicalismo islamico combattente, che l’avevano scovato attraverso il proprio canale YouTube.
Nel caso di Lusha, pur non essendovi certezza di una catena di comando e controllo esterna, diverse evidenze indicano che lo stesso fosse inserito in una rete di cinque sospetti jihadisti, costituitosi in un gruppo proclamatosi “Al Qaeda in Britain”, avente, tra l’altro, lo scopo di uccidere il Primo Ministro inglese Gordon Brown. È poco chiaro cosa Lusha stesse progettando nei dettagli; la polizia, spaventata dal tono estremamente pericoloso delle conversazioni intrattenute dall’indagato, decise di intervenire immediatamente, rinvenendo nella sua abitazione diverso materiale islamista, compresi video che mostrano come fabbricare un detonatore col telefono cellulare, vesti-kamikaze ed altri accessori terroristici. L’esito investigativo, comunque, propende per la definizione dello stesso quale jihobbyst: ovvero un individuo che emerge senza un’assistenza, un training o un supporto da parte di altri elementi ufficialmente riconosciuti da Al Qaeda[135]. Non di meno, Lusha operava da solo all’interno di un contesto immediato, nel quale fruiva di contatti sia on che off-line con altri estremisti.
In ultimo, Nidal Malik Hassan, ufficiale dell’US Army, che il 5 novembre 2009 uccise 12 commilitoni ed un civile, ferendo contestualmente altre 30 persone, prima di togliersi la vita. Il motivo del gesto non è ancora stato del tutto stabilito. Tuttavia, è stato dimostrato che aveva contatti email regolari con Anwar Al-Awlaki: i due si erano incontrati quando Hassan frequentava la moschea di Falls Church, in Virgina, negli anni tra il 2000-2002, assistendo ai suoi sermoni. Awlaki fu velocissimo ad elogiare Hassan sul suo blog sulla scia dell’attacco, rivelando così, in un certo senso, l’esistenza di una adeguata catena di comando e controllo.
- Lupo solitario in branco (Lone Wolf Pack)
Con questa “etichetta”, si intende definire un gruppo di individui che si è auto-radicalizzata attraverso l’ideologia jihadista. Seppure l’allocuzione possa sembrare paradossale, questa sottocategoria è stata definita in più modi similari, tra cui spicca quello utilizzato da Sageman di “bunch of guys”, che dà anche il nome alla teoria in virtù della quale alcuni gruppi si formino, si radicalizzino e poi cerchino di unirsi al jihad. Mutuando le parole di Sageman con questo processo si intende: “[…] social affiliation with the jihad accomplished through friendship, kinship, and disciplineship; progressive intensification of beliefs and faith leading to acceptance of the global Salafi jihadi ideology; and formal acceptance to the jihad through the encounter of a link to the jihad”[136].
Ciò che distingue il gruppo in disamina dal più ampio genus del terrorismo islamista è che, in ogni caso, gli appartenenti non compiono l’ultimo passaggio, ovvero creare contatti con terroristi operativi ovvero, seppure esistente, non è tale da assicurare un immediato obiettivo operativo. Questo significa che gli stessi restano nel contesto dei terroristi “solitari”, dal momento che mancano di una formale connessione sia con il core di Al Qaeda e IS, sia con i loro affiliati.
Tre sono i case studies inquadrabili nell’alveo in discussione: Mohammed Game, Abdelaziz Mahmoud Kol e Imbaeva Israfel (2009), ritenuti colpevoli di aver complottato l’attacco alla base militare di Santa Barbara a Milano; Jihad Hamad e Youssef el Hajdib (2006), che lasciarono borse esplosive su dei treni a Colonia; e i cc.dd. “Fort Dix”, gruppo arrestato dall’FBI statunitense nel 2007.
Rimandando in altra sede a lettura più approfondita della relativa cronaca giudiziaria, quello che si può osservare analizzandone la sostanza operativa è che, in tutti i casi, qualche livello di comunicazione esterna era presente (principalmente attraverso internet), ma non appare chiaro fino a che punto gli attentatori fossero soggetti ad una direzione di forze esterne. I loro piani criminosi sembrano essere partoriti nella loro mente e nelle dinamiche del gruppo di appartenenza.
- Attentatore individuale (Lone Attacker)
L’ultimo gruppo all’interno di questo dataset è quello costituito dagli attentatori individuali: questi sono personaggi che, pur operando da soli, sono chiaramente inseriti in una catena di comando e controllo jihadista, sia essa il core o di un gruppo affiliato. A differenza del “Lupo solitario” del “Lupo solitario in branco”, chi appartiene a questa sottocategoria ha contatti con estremisti attivi ed operativi, piuttosto che generiche connessioni on line o aspirazioni nel senso. Ancora, questi soggetti sono senza dubbio pervasi di ideologia jihadista e sono coinvolti attivamente in network più ampi, che forniscono loro dispositivi esplosivi ed il munizionamento necessario per perpetrare l’attacco terroristico. In un certo senso, non sono “soli” affatto, se non nell’azione operativa finale. Nell’articolo, l’Autore ammette che: “[…] In many ways, their inclusion within the context of this article can appear pointless, given the fact they are clearly not loners in anything except their final action […] they are in fact simply one-man terror cells dispatched by terror groups. Their inclusion, however, is intended to highlight the distinction between such small terror cells and the broader community of Lone Wolves […]”[137].
Tra la schiera di possibili esempi, vengono citati Richard Reid (2001) e Umar Farouk Abdulmutallab (2009). Il primo, radicalizzatosi durante la sua permanenza in carcere, a seguito di un periodo di viaggi internazionali, perlopiù rimasti oscuri, si recò in Afghanistan dopo l’11 settembre 2001, per poi andare in Europa (Parigi e Bruxelles), avvantaggiandosi peraltro di diversi passaporti, ottenuti facilmente. L’attentato sul volo 63 dell’American Airlines fallì a causa del sospetto di alcuni passeggeri e dell’equipaggio di bordo, che lo bloccarono prima che riuscisse ad azionare il detonatore collegato all’esplosivo nascosto nelle scarpe che aveva indosso. Le indagini misero in luce che, pur giovando del supporto di altri jihadisti, l’intenzione di Reid era in ogni caso quella di concludere l’azione terroristica da solo. Abdulmutallab, di contro, nigeriano e appartenente ad una famiglia agiata, seguì un percorso di radicalizzazione poco chiaro ma, sicuramente, la predicazione di Al-Awlaki ebbe un ruolo determinante e, verosimilmente come per Nidal Malik Hassan, contatti interpersonali diretti. La notte del Natale 2009, il giovane jihadista, pronto al martirio, venne fermato dall’equipaggio e dai passeggeri del volo Northwest 253 della Dealta Airlines, partito da Amsterdam alla volta del Michigan, mentre cercava di accendere a bordo dell’esplosivo.
È interessante notare che, in entrambi i casi, gli attentatori cercano di concludere l’attacco da soli, seppure sia suffragato da prove il loro inserimento in network jihadisti di più ampio respiro.
Per i quattro modelli descritti, è facile notare, si è andati alla ricerca dell’archetipo operativo attraverso l’analisi di ricerche scientifiche sull’argomento. A questi modelli, infatti, si possono grosso modo ascrivere tutti i casi di cronaca più recenti e, ancora, aggiungere alcune considerazioni tratte da una più aggiornata rilettura del terrorismo “fai-da-te”, laddove l’accentuazione di alcuni aspetti mediatici da parte di IS e Al Qaeda e l’analisi del background dei singoli attentatori, consente di raggruppare gli attentati in due macroaree, ovvero: attacchi condotti da Al Qaeda-IS e attacchi solo ispirati da queste organizzazioni[138]. Fondamentale è, comunque, notare che c’è sempre un certo grado di autonomia iniziale da parte del jihadista che, appunto, decide di approcciarsi al percorso di radicalizzazione[139] e, dall’altra, un certo grado di promiscuità operativa nella conduzione di alcuni attentati (homegrown terrorists e foreign fighters). È soprattutto IS a sfruttare le azioni ed l’istihhad degli attentatori, che sempre più spesso, appunto, agiscono “in branco” e non come “lupi solitari”, rivelando qualche forma di collegamento vitale con network jihadisti.
Orbene, la distinzione che ne deriva è tra gli attacchi di Parigi e Bruxelles 2014-2016 e quelli del giugno-luglio 2016.
Sono attacchi la cui diversità si percepisce, si diceva, proprio per il tono di risalto mediatico utilizzato per la rivendicazione.
In particolare, per gli attacchi della prima serie, la rivendicazione avviene mediante l’agenzia di stampa ufficiale di IS. Si parla in prima persona a mo’ di bollettino di guerra stilato da organismi statuali impegnati in un conflitto e, a fugare ogni dubbio sull’appartenenza degli attentatori alla schiera di Al-Baghdadi, vengono presentate foto inedite dei martiri, ritratti in tuta mimetica, sintomo della loro presenza anche negli scenari operativi dell’Iraq e della Siria, e illustrati dettagli sconosciuti alla stampa occidentale. Si è, dunque, alla presenza di collegamenti certi con IS e, nello specifico, si tratta di returnees che, una volta reimmessi nei circuiti sociali di origine, conducono azioni para-militari (anche) unitamente a terroristi homegrown (gruppi misti). Per le caratteristiche evidenziate, quindi, si può parlare senza dubbio di Lone Attackers, nel senso che gli attacchi di Parigi e Bruxellese hanno avuto un coordinamento da parte dei vertici di IS, ancorché probabilmente, come si evince dai numerosi errori commessi, le cellule godevano di una certa autonomia nella scelta e conduzione degli attentati.
La scia di attentati del giugno-luglio 2016 in Europa e negli Stati Uniti, invece, differisce per motivi analoghi ma di segno opposto: le rivendicazioni infatti non sono con tono autoreferenziale ma, pur inneggiando al sacrificio ed alla grandezza del gesto, più sommessamente sono veicolate da organi di stampa non ufficiali (ma comunque molto autorevoli) del Califfato, ovvero Amaq, premettendo che le informazioni provengono da fonti interne. Come è stato acutamente osservato[140], alcuni elementi significativi emergono dall’analisi del linguaggio utilizzato: l’espressione dirimente utilizzata per rivendicare un attentato è “executed the operation in response to calls the target nations in the coalition fighting the Islamic State”, ovvero “executed the operation in response to calls to target countries belonging to the crusader coalition”, nel caso dell’omicidio del prete francese. Con questa espressione IS afferma che i giovani attentatori hanno agito in risposta all’appello lanciato da Adnani nel maggio 2016. L’agenzia Amaq quindi lascia intendere, attraverso l’esegesi dell’impostazione prescelta, che i lone wolves autonomamente decidono di colpire, rispondendo ai proclami di IS, creando un sinallagma col programma del Califfato mediante il giuramento di fedeltà. Uno o due giorni dopo gli attacchi (tranne nel caso di Nizza che costituisce un unicum) Amaq ha sempre diffuso un video in cui gli attentatori prima di entrare in azione giuravano fedeltà: questo lascia evincere l’esistenza di collegamenti, almeno attraverso un contatto preliminare, tale da far configurare elementi tipici del Lone Wolf Pack, quale prototipo operativo di riferimento.
CONCLUSIONI
Se il jihadismo è un “contagio”, allora resta da chiedersi quale sia la possibile cura. Ammesso, ovviamente che l’assioma sia vero e, quindi, una cura esista. Probabilmente, al pari di ogni indagine scientifica, occorre individuare la ripetizione dei sintomi che abbiamo individuato, scandagliato ed analizzato in altri contesti storici (laddove, si soggiunge come in premessa, non esiste ancora una storiografia del Nostro Tempo) e, da lì, comprendere quale terapia adottare e di che natura essa debba essere.
Giuridica? Ma il contrasto al terrorismo insegna che la reazione nomopoietica è sempre emergenziale e, talora, schizofrenica, se non addirittura contraddittoria rispetto alla storia giuridica del nostro Paese e, in un contesto più ampio, dell’Occidente nella sua interezza (pur dovendosi constatare una sostanziale e profonda diversità dei tessuti giuridici europei tout court ed anglosassoni). Il che esclude che la modificazione giuridica degli ordinamenti statali, che passa dal rapporto conflittuale tra libertà e sicurezza, possa organicamente affrontare il fenomeno jihadista, senza compromettere l’essenza stessa della proprio costituzionalismo, e del proprio consumato liberismo, frutto di una storia secolare nata, tra l’altro, dalla riflessione illuminista e dal coping dei totalitarismi. Quanto detto riguardo Guantanamo nel corso dell’elaborato dovrebbe bastare a condensare plasticamente l’immagine del concetto.
Sociologica? Eppure il problema, ad esempio, dell’educazione attraverso le cc.dd. “agenzie informali” (istituzione scolastica, forze dell’ordine, apparato giudiziario…) non è sufficiente, per sé solamente, a surrogare il ruolo delle famiglie, intendendo famiglie di immigrati ormai inserite negli orditi demografici occidentali e, dalla seconda generazione in poi, sempre più collegati a reti relazionali e civiche stabili, il che provoca una necessaria assimilazione, anche se da esiti incerti: se auspicabilmente, infatti, potrebbe sintetizzarsi un nuovo modello di convivenza, non può comunque ignorarsi il rischio che certi milieu restino chiusi, ermetici, e quindi in grado di costituire delle spine nel fianco di modelli maggioritari, laddove l’aculeo è proprio il sentimento di minaccia identitaria.
Militare? L’asimmetria del conflitto sembra escludere il ricorso a modelli tradizionali di conflitto bellico. Il “nemico” è trasversale e, talora, invisibile. L’intelligence prende il posto degli eserciti schierati nella battaglia campale, suturando gli spazi e confondendosi tra le supposte livree. Anche il conflitto in Siria ed in Iraq allarga i propri spazi, diventando una fucina ideologica che, attraverso la descritta pervasività mediatica, approda in contesti del tutto estranei, come appunto l’Occidente. Il problema militare non può essere l’unica risposta, quindi, anche nella considerazione della “cultura della morte” a cui i jihadisti sono vocati e che, quindi, non potrebbe mai portare ad una “tregua” in termini tradizionali. La “demonizzazione” del nemico, anzi, comporta la necessità dell’eliminazione totale dello stesso, così espandendo infinitamente l’orizzonte della cessazione della “guerra”. Il jihad della spada, d’altronde, non è altro che la consacrazione di questa aspirazione millenaristica. E poi, se anche la risoluzione arrivasse manu militari nei territori di guerra, il problema del salafismo potenzialmente violento che ha ormai attecchito a macchia di leopardo in tutto il mondo, e dell’uso dell’ambiente internet per le comunicazioni, il comando ed il controllo, se non addirittura solo per perpetuare l’emulazione da parte di giovani alla ricerca di un alterego purificato, resterebbe e, ancora una volta, sposterebbe il conflitto nelle città, senza che sia necessaria una condizione di guerra dichiarata.
Dall’analisi storica e politica, invece, emergono due principali paradigmi di riferimento, a cui il jihadismo potrebbe assomigliare per alcuni connotati e per i meccanismi di funzionamento, pur essendo del tutto peculiare per il risultato finale, e per eccezionalità del sincretismo operativo, mutuato dal fanchising, come si è argomentato. Da tali paradigmi, di fatto, stanno prendendo le mosse gli “antidoti” al contagio jihadista.
In termini di contrasto, infatti, si registra l’assimilazione del terrorismo islamista agli archetipi del sistema mafioso e dell’ideologia totalitaria fascista. La sovrapponibilità dei fenomeni, pur non potendo essere precisa[141], fornisce comunque una chiave di lettura e di raffrontabilità utile alla comprensione di come e perché il jihadismo, pur nelle sue mentite spoglie di movimento ultracontemporaneo, in realtà abbia già una sua maturità nelle impostazioni dottrinali che lo sostengono e che ne rendono particolarmente perniciosa la diffusione.
Non può sfuggire al riguardo che, per quanto concerne il nostro Paese, il contrasto interno, ad esempio, già si basa sullo strumentario normativo utilizzato all’epoca in cui a questi fenomeni si è deciso di porre una frizione, eventualmente riaggiornato e rimesso a nuovo. È il caso della Procura Nazionale Antimafia, ora Procura Nazionale Antimafia e Antiterrorismo. Può bastare? Probabilmente potrà essere efficace nel momento in cui anche i dispositivi propriamente investigativi siano in grado di adeguarsi, adattarsi ad un contesto che – tra l’altro – non ha matrice indigena, ma è stimolato da una minaccia esogena, nonché del tutto ed inevitabilmente sconosciuta: la gestione investigativa della mafia[142] italiana ha come suo cardine le Procure Distrettuali, in grado di fornire una risposta immediata sul territorio o, comunque, di essere potenzialmente in grado di guardare dall’alto l’estrinsecazione delle dinamiche delinquenziali su base territoriale, in cui si intersecano flussi economici anche internazionali ma che, comunque, hanno un loro radicamento locale[143]. Il terrorismo islamista, tipicamente glocale, non risponde a questa logica, né storicamente né operativamente. Anzi: il reclutamento è subdolo, non rituale, e le modalità di aggressione sono indiscriminate, non orientate al controllo ed al consenso sociale, di cui godono i gruppi criminali di stampo mafioso. Il web propaga ideologie apparentemente innocue, allaccia programmi individuali e collettivi da una parte all’altra del mondo e, questa volta, senza l’obiettivo primario della massimizzazione del profitto. L’obiettivo è la distruzione del nemico in quanto tale. In questo senso, ma anche in altri che non si approfondiranno in questa Tesi, il jihadismo è l’ultima delle ideologie totalitarie del XX secolo. Il fascismo islamico, come è stato definito da Hamed Abdel-Samad, condivide questa potenza (auto)distruttrice con le ideologie totalitarie di massa, e l’ammirazione (tra tutti e a titolo di esempio) di al-Hasan al-Banna, fondatore dei Fratelli Musulmani, per Hitler e Mussolini ne è sintomo diretto, che rifugge un retrogusto esclusivamente aneddotico.
Da quanto precede, allora, resta da trarre una conclusione: sia la mafia, da sempre nutritasi di omertà ed intimidazione, sia il totalitarismo, vocato alla dogmatica devozione al duce/fuhrer (califfo), hanno incrinato la loro egemonia militare ed ideologica nel momento in cui, dall’interno del sistema stesso in cui esercitavano potere e controllo, le crepe della dissidenza sono emerse alla superficie, solcando l’epidermide apparentemente coriacea che le nascondeva. O, meglio, che le soffocava. Secondo tale principio, è stata l’antimafia sociale a sconfiggere definitivamente il mito dell’infallibilità di Cosa Nostra, provocandone il decadimento, così come la sopravvivenza di un’alternativa politica intestina al totalitarismo (di destra o di sinistra) ha fatto sì che lo stesso si sbriciolasse colpo dopo colpo.
Entrambi gli antidoti, in verità, esistono già in nuce. Un antijiahdismo militante si sta facendo largo, anche se finora troppo timidamente, in seno alle comunità islamiche europee e, le primavere (o “autunni”, come definiti provocatoriamente da L. QUADARELLA SANFELICE DI MONTEFORTE[144]) arabe sembrano mostrare un tendenza rivoluzionaria da cui, prima o poi, potrebbe nascere una nuova consapevolezza civile mediorientale.
Argomentando ancora una volta l’uso dei social network come possibile prisma da cui traguardare il fenomeno nella sua interezza, questi ci insegnano, da un lato, che costituiscono un appiglio (lo si è definito) “tattico” per i terroristi “in remoto”, ma anche che la capacità di veicolare idee e sensibilità ha un flusso biunivoco, che consente alle giovani generazioni arabe di avere un’alternativa all’ambiente sociale reale. La virtualità, per loro, diventa anche un luogo da cui osservare l’altra faccia della medaglia, un “Occidente-non-demone”. In fin dei conti, la demonizzazione appartiene alla metafisica e, il web, oggi, costituisce una inedita tipologia di metafisica. Posti sullo stesso piano etereo, l’infedele demonizzato e l’uomo occidentale si pongono agli occhi dell’osservatore più critico come uguali mistificazioni della natura umana, entrambe prive di significato concreto, alla luce della fluidità e della relatività di certe categorizzazioni. “Homo sum, humani nihil a me alienum puto” (Terenzio): l’indignazione, inserita in un flusso comunicativo biunivoco, servirebbe a sfrondare il provincialismo della devastazione, parificando le vite umane di Raqqa, Mosul, Berlino, Londra o New York. L’indignazione, anzi, creerebbe le condizioni di un isolamento dei vertici dalla base (si considerino, ancora una volta, le parabole dello stragismo mafioso degli anni ‘80 e ’90 in Italia e della disillusione postbellica nei totalitarismi degli anni ’30 in Europa) ed una delegittimazione ideologica degli attacchi.
Da questa impostazione, il contagio jihadista si estinguerebbe con un nuovo senso critico, strutturato su un’indignazione non emozionale ma, al contrario, molto razionale e disincantata. Allora, la cura esiste ed è “epidemiologica”. Nel senso ippocrateo, epidemeion si riferisce ad una malattia che sta “visitando un popolo”.
Il primo vero epidemiologo moderno, John Snow, medico inglese che aprì la grande tradizione della medicina preventiva anglosassone, svolse, in due occasioni, a metà del XIX secolo, indagini epidemiologiche sul colera quando ancora non ne era noto l’agente eziologico[145]. Il suo esempio testimonia come già nel XIX secolo, pur in possesso di mezzi scarsissimi (mancanza di registri, censimenti, ecc.) si era tentato lo studio di varie malattie e ci insegna che l’indagine epidemiologica non richiede la conoscenza dell’agente eziologico ma cerchi piuttosto di fornire indizi per individuarlo. L’intuizione e l’azzardo salvarono un popolo: non passarono molti anni dagli studi di Snow, infatti, che Robert Kock giunse all’isolamento, proprio dall’acqua, del Vibrio cholerae.
Questo, in buona sostanza, è stato il tentativo accademico che ha animato l’intera Tesi.
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[1] Inteso senso puramente glossologico, dal latino terrere: spaventare o tremare; col suffisso francese isme che indica il praticare qualcosa.
[2] Si pensi a quanto sostenuto da J. MATUSITZ, Symbolism in terrorism, Rowan&Littlefield, London, 2015, pag.140 e segg.
[3] Volendo usare la tassonomia degli effetti suggerita da M. BARBERIS, Non c’è sicurezza senza libertà – il fallimento delle politiche antiterrorismo, Il Mulino ed., Bologna, 2017, pagg. 59-68.
[4] In tal senso cfr. M. BARBERIS, op. cit., pag. 61.
[5] Poi semplicemente ribattezzata “antinomismo” (antinomianism), volendo indicare la sistematica violazione del diritto internazionale e costituzionale compiute dall’amministrazione Bush, frutto di ostilità di principio al rule of law (cfr. L. DE CAUTER, Entropic Empire, cit., pagg. 38-41).
[6] Acronimo di Uniting and Strenghtening America by Providing Appropriate Tools Required to Intercept and Obstruct Terrorism: si tratta di un provvedimento minuziosissimo (sebbene emanato in soli quattro giorni tra il 23 ed il 26 ottobre 2001, composto di 132 pagine), diventato l’archetipo di tutte le misure antiterrorismo successive (M. BARBERIS, op. cit., 66), col quale si dispiega una rete inestricabile di controlli sulla vita delle persone, funzionali all’accumulazione di una quantità infinita di dati, quantità talmente cospicua da divenire, nel pratico, anche difficilmente gestibile.
[7] Che resta più esposta – in termini di probabilità – ad una morte per colpa di un incidente stradale o per il diabete.
[8] Sull’anomalia europea, dovuta alla scongiurata asiatizzazione dell’Impero Romano d’Occidente si è soffermato in particolare L. PELLICANI L., L’occidente e i suoi nemici, Rubbettino ed., Soveria Mannelli (CZ), 2015, pag. 22 e segg..
[9] nel Medioriente, ad esempio, oltre ad una generale difficoltà di integrazione di elementi sociali avulsi dalla tradizione autoctona, c’è Israele a dare l’immagine di quanto sia ideologicamente ed aprioristicamente ardua un’ipotesi di convivenza, per via, innanzitutto, della forte emotività che suscita il peso di uno Stato occidentale trapiantato in pieno Dar al-Islam.
[10] Cfr. F. BENCARDINO – M. PREZIOSO, Geografia economica, McGraw-Hill Comp., Milano, 2006: “[…] A partire dagli anni Cinquanta l’innovazione tecnologica si è sostanziata in una naturale convergenza tra l’informatica e le telecomunicazioni, favorendo appunto lo sviluppo di tecnologie informatiche e della comunicazione, oggi comunemente chiamate information and communication technologies […]. Le ICT consentono di abbattere i costi derivanti dalla frizione spazio-tempo e di rendere le comunicazioni fruibili in tempo reale, in quanto la comunicazione è sempre e ovunque possibile” (ibi., cit., pag. 225).
[11] Con l’acronimo “IS” si indica l’Islamic State, ovvero il nome che l’organizzazione di Al Baghdadi si è data a partire dalla proclamazione del Califfato nel giugno 2014 (allorquando perse la delimitazione territoriale che era propria dell’Islamic State in Iraq and Sham).
[12] Cfr. dizionario Zanichelli, ed. 2015.
[13] Vds. B. BALLARDINI, ISIS – Il marketing dell’Apocalisse, Baldini&Castoldi, 3° ed., 2015, pag. 95 e segg. (cit.).
[14] Così, nel concreto, accade che nelle città i negozianti impoveriscano le vetrine del corso centrale, stornandone l’attrattività estetica per i consumatori in luoghi (o, meglio, non-luoghi) come i centri commerciali; ancora: un luogo di culto prescinde da un’immagine tradizionale collegata ed esso (una chiesa o una moschea…), trovando una base spirituale e un rinnovato senso di appartenenza spirituale, ad esempio, in appartamenti privati.
[15] Vds. B. BALLARDINI, op. cit., pag. 95.
[16] Cfr. L. VIDINO, Il jihadismo autoctono in Italia: nascita, sviluppo e dinamiche di radicalizzazione, ISPI, Milano, 2014, pag. 99 e ss.
[17] Cfr. ad es. L. QUADARELLA SANFELICE DI MONTEFORTE, Perché ci attaccano. Al Qaeda, l’Islamic State e il terrorismo “fai da te”, II ed., Aracne editrice, Canterano (RM), 2017, pag. 55 e segg.. L’Autrice ricava da questa possibilità di offerta una differenza sostanziale tra AQ e IS: “[…] IS offre loro [ai giovani reclutandi, n.d.a.] una sorta di “Terra Promessa”. Una terra promessa nella quale si assicurano ai giovani soldi, potere, armi, donne, e, per i più “spirituali”, la corretta applicazione della Legge Islamica; alle famiglie, infine, è offerta una casa ed un lavoro, un luogo dove crescere i propri figli secondo i dettami dell’Islam ed al riparo dai “non-valori” dell’Occidente. Si tratta di un fenomeno che AQ, non avendo mai avuto il controllo su alcun territorio […], non aveva ovviamente mai conosciuto […]” (ibi., cit., pag. 55).
[18] Cfr. TSG, “Foreign fighters. An update assessment of the flow of foreign fighters into Syria and Iraq”, The Soufan Group, 2015. In particolare, approfondendo il discorso del reclutamento, viene opportunamente inferito: “[…] the existence of these hotbeds [of recruitment] results from the personal nature of recruitment. Joining the Islamic State is not a ractional act so much ad an emotional one, and the involvement of family or a close acquaintance in the radicalization process is a frequent determinant of the outcome.”
[19] Cfr. L. VIDINO, op. cit., pag. 79 e ss.
[20] Quest’ultimo classificabile come “un vero e proprio metodo osservazionale ideale per studiare dall’interno un sistema così complesso e, spesso, impenetrabile, come quello delle organizzazioni criminali […]” (così A. INTINI, A.R. CASTO, D.A. SCALI, Investigazione di polizia giudiziaria. Manuale delle tecniche investigative, VII ed., Laurus-Robuffo ed., Roma, 2006, pag. 115, cit.)
[21] Per un’analisi dettagliata di questi casi, ci si riferisce in particolare alla rassegna giurisprudenziale operata da F. ROBERTI, L. GIANNINI, Manuale dell’Antiterrorismo, evoluzione normativa e nuovi strumenti investigativi, Laurus Robuffo, Roma, 2016; per quello che Ci occupa vds. pag. 151 e segg.
[22] Limitiamoci alle Corti italiane, giacché ogni Paese del mondo occidentale (pur in una fondamentale, o talora farisaica, uniformità) sta maturando una propria reazione giuridica in base alle esperienze dirette degli attacchi terroristici.
[23] Sinteticamente, la fitness è l’attitudine di un nodo ad attrarre legami da altri nodi e creare le condizioni per dare velocemente alla rete una certa configurazione di link tra i nodi.
[24] La disamina dei modelli è affrontata infra cap. 3 par. 4.
[25] Cfr. B. HOFFMAN, citato in N. GIBBS, The Fort Hood killer: terrified…or terrorist?, Time, 11 novembre 2009: “[…] Al Qaeda’s new strategy is to empower and motivate individuals to commit acts of violence completely outside any terrorist chain on command.” (cit.).
[26] Frase attribuita ad Abu Musab al-Zarqawi, riproposta su ogni numero della rivista Dābiq.
[27] Cfr. J. MATUSITZ, op. cit., pag.7 e segg..
[28] Particolarmente illuminanti sono le considerazioni di A. PLEBANI, P. MAGGIOLINI, in La centralità del nelmico nel califfato di Al-Baghdadi¸in M. MAGGIONI, P. MAGRI (a cura di), Twitter e jihad: la comunicazione dell’Isis, ISPI, Ed. Epoké, Novi Ligure (AL), 2015, pag. 29 e ss.
[29] Vds. J. MATUSITZ, op. cit.: “[…] When the display of physical symbols is used to generate profound levels of commitment to a movement, a terrorist case, a religious belief, or shared values, or when the objective is to foster solidarity and in-group effort, such display of symbols is called credibility-enhancing display (CRED) […]” (cit. pag. 10).
[30] Cfr., in terminis, L. PELLICANI, op. cit., pag. 337.
[31] Cfr. anche G. SPEZZAFERRO, Il Mito, il Sogno, la Storia: confini trasversali, in G. LIZZA, a cura di, Paneuropa, geografia e storia di un’idea, UTET Università, Torino, 2008: “[…] Lo strumento privilegiato del missionarismo a stelle e strisce è la cultura. Quando la cultura non fa breccia, si ricorre alla politica delle cannoniere. La cultura americana è affascinante e suadente. È un grande contenitore dalla quale ciascuno può estrarre – viene facile l’immagine del cilindro dello Zio Sam – libertà e supermercato, democrazia e mito del self made man, individuale ricerca della felicità e realtà virtuale. […] Eppure, qualcuno resiste. Nessuno lo ha ancora convinto che quella cultura gli porterebbe benessere e felicità. L’american way of life gli è estraneo. […]. Se qualcuno non accetta liberamente di vivere secondo il modello americano (che nel frattempo è diventato occidentale in senso lato, tant’è che include il Sol Levante) lo dovrà accettare per forza […]” (ibi., pag. 201, cit.).
[32] Vds. J. MATUSITZ, op. cit., pag. 27.
[33] La dishdasha o anche kandura, qamees o semplicemente thawb, è un indumento lungo fino alle caviglie, di solito con maniche lunghe, simile ad un accappatoio. Generalmente è indossata dagli uomini musulmani, per lo più nel mondo arabo. Si tratta normalmente di un abito di cotone, ma possono essere utilizzati anche materiali più pesanti, come la lana, soprattutto in climi freddi (fonte Wikipedia.it).
[34] Cfr. B. BELLARDINI, op. cit., pag. 142 e segg..
[35] Il takfir identifica l’atto di dichiarare infedele (kafir, da cui comporre il termine takfir) una persona o una pratica. Per l’Islam, la dichiarazione di takfir rappresenta una grave accusa e comporta delle serie conseguenze sia per l’accusatore, il quale può vedersi rivolgere la medesima accusa qualora la sua dichiarazione fosse giudicata falsa, sia per l’accusato, passibile di morte.
[36] Funditus, cfr. l’articolo-intervista Il pericolo del “takfirismo”: intervista all’Hujjatalislam Abbas di Palma (https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=50060).
[37] Letteralmente, in lingua araba, jihad significa sforzo, impegno, in quanto deriva dal verbo jahada (sforzarsi). Il jihad fi sabili-llah è lo sforzo, l’impegno sulla Via di Allah.
[38] Come è stato notato (B. BALLARDINI, op. cit., pag. 197), il presidente americano George W. Bush, il 16 settembre 2001, scendendo dall’elicottero presidenziale, pronunciò la battuta più infelice della sua carriera, definendo la guerra al terrorismo una “crociata”: in questo modo, involontariamente ma con estrema efficacia, veniva avallato in termini dal fortissimo contenuto teologico e storico il “gioco” (o “giogo”, volendo essere più caustici) dicotomico dell’ideologia jihadista. A tal riguardo, vds. anche J. MATUSITZ, op. cit.: “[…] It is not difficult for Salafis to fall back on the symbolism of the historical legacy of the Christian-les Crusades – representing the apogee of Christendom’s clash with Islam. Not only do the Crusades symolize Muslims’ long-lasting circumstances of oppression and disinheritance; […]. The term “Crusades” serves to associate a historic military campaign with a present-day enemy” (ibi., cit., pag. 173).
[39] Così, A. PLEBANI, P. MAGGIOLINI, op. cit., pag. 32.
[40] Cfr. B. BALLARDINI, op. cit., pag. 18 e segg.
[41] Il che in nuce è quanto si è detto in precedenza sul nemico vicino e lontano: spogliato di ogni considerazione empirica o transeunte resta questa fisionomia essenziale, fondante del qutbismo, e l’applicazione storica – ora ripresa da Al-Baghdadi attraverso una rivisitazione in chiave egemonica dello statehood del Califfato – trae slancio sempre da questo intento programmatico.
[42] Cfr., funditus, J. MATUSITZ, op. cit., pag. 171 (cit.).
[43] Cfr. M. BARBERIS, op. cit., pag. 57.
[44] Definiti biopolitici in premessa.
[45] B. BALLARDINI, op. cit., pag. 141.
[46] E abbiamo analizzato quanto questo sia stato importante per “creare” un nemico.
[47] Vds. J. BALMER, A. WILSON, Corporate Identity: There Is More to It than Meets the Eye, in International Studies on Management & Organization, 2008, 28(3), 12-31, la cui trattazione è ripresa, specificatamente nel campo dell’impiego concettuale da parte delle organizzazioni terroristiche, anche da J. MATUSITZ, op. cit., pag. 239 e segg.
[48] Cfr. B. BALLARDINI, op. cit., pag. 33.
[49] Vds. anche A. PLEBANI, Jihadismo globale, ed. Giunti, Milano, 2016, pag. 106 e segg
[50] Nella sua accezione classica, per “salafismo” (dall’arabo salaf ṣāliḥ «antenati pii») è da intendersi come movimento politico-religioso orientato ad una riforma purista dell’Islam. Più precisamente, esso è “[il] Movimento riformista islamico (arabo Salafiyya), sorto in Egitto verso la metà dell’Ottocento e ispirato al pensiero di Ǧamāl al-Dīn al-Afġānī (1837-1897), che postulava la rivivificazione dell’Islam attraverso il ritorno alle fonti originarie (Corano e sunna del profeta), tramite uno sforzo interpretativo (īǧtihād) per adattare le norme coraniche alla vita moderna, l’unità della comunità islamica attraverso un sistema democratico e l’avversione verso i particolarismi nazionalisti” (da Enciclopedia Treccani).
[51] Cfr. H. ABDEL-SAMAD, Fascismo Islamico, Garzanti s.r.l., Milano, 2017, pag. 148 e ss.
[52] Cfr. L. QUADARELLA SANFELICE DI MONTEFORTE, op. cit.: “[…] qualsiasi giovane può diventare un “soldato del Califfato” e scegliere di andare a combattere nel teatro siro-iracheno o divenire un terrorista “fai-da-te” in nome del Califfato, anche la sua condotta di vita non ha sino ad allora risposto ai canoni del “puro Islam”. Anche grazie a questa “politica” IS ha attratto a sé decine di migliaia di giovani, provenienti da tutti i continenti […]” (ibi., pag. 38). In ciò, si noti, si annida una delle differenze sostanziali tra Al Qaeda e IS.
[53] Sic! H. ABDEL-SAMAD, op. cit., pag. 149 (cit.).
[54] Si rimanda più avanti nel testo alla trattazione della “radicalizzazione” (cap. 3 par. 2).
[55] Cfr. Q. WIKTOROWICZ, Anatomy of the Salafi Movement, Routledge, Taylor & Francis Group, Washington, D.C., 2006.
[56] Cfr. S. SCARANARI, op. cit., pag. 80: “[…] per l’elaborazione del salafismo jihadista l’invasione dell’Afghanistan è un momento cruciale. Sull’esempio di Muhammad che invita i primi seguaci a emigrare in Etiopia per evitare di dover abiurare alla propria fede, i dotti conservatori avevano insegnato che seguire l’islam era più importante che vivere nella propria patria. Ma questo invito era possibile quando si doveva emigrare da territori relativamente piccoli e verso zone limitrofe. Con l’Afghanistan non è più possibile sostenere questa tesi e quindi occorre scendere in campo e riconquistare la propria terra proprio come hanno fatto gli iraniani […]” (ibi., pagg. 80-81 cit.). I campi afghani sono “l’incubatrice sociale e religiosa dell’islam radicale globale perchè misero in contatto, e amalgamarono, una vasta gamma di militanti su posizioni radicali formatisi nei movimenti di resistenza e gli oppositori ai regimi politici” (così D. COOK, Storia del jihad. Da Maometto ai giorni nostri, Einaudi ed., Torino, 2007, pag. 193, cit.).
[57] “[…]The jihadi faction, those supporting the use of violence to establish Islamic states, emerged during the war in Afghanistan against the Soviet Union. This conflict functioned as a dangerous incubator by exposing Saudi Salafis (and others) to the radical and politicized teachings of the Egyptian Muslim Brotherhood and related splinter groups (the Islamic Group, Islamic Jihad, etc.) in a context of military training and warfare. Unlike the politico exposure to Ikhwani analysis at the universities, the jihadis received their political training on the battlefield. As a result, their introduction was imbued with an emphasis on politics as warfare, something they later brought back to their own countries” (Q. WIKTOROWICZ, op. cit., pag. 225, cit.)
[58] Cfr. l’articolo di M.G. PASQUALINI, Salafismo in Europa, fortuna e pericolosità, consultabile sul sito web http://www.osservatorioanalitico.com/?p=5024.
[59] Ovvero: coloro che rifiutano, termine che non compare nel Corano a differenza di altri vocaboli impiegati per identificare il nemico.
[60] Una posizione, quella espressa dal gruppo, che si è distanziata significativamente da quella propria della galassia jihadista alqaedista che – pur non nutrendo particolari simpatie per la comunità sciita – non ha mancato di criticare aspramente e a più riprese la scelta del gruppo
[61] La tassa di sottomissione, la jizya.
[62] Così H. HASAN AL-QAEAWEE, Il modus operandi di Isis: il messaggio politico, la propaganda e l’indottrinamento, in M. MAGGIONI – P. MAGRI (a cura di), Twitter e Jihad: la comunicazione dell’Isis, ISPI, Milano, 2015, pag. 160
[63] Cfr. S. SCARANARI, op. cit., pag. 127.
[64] Così M. GUIDERE, Il terrorismo islamista in 100 mappe, BUS ed., Gorizia, 2017, pag. 129.
[65] Cfr. A. PLEBANI, op. cit., pag. 37.
[66] Cfr. M. FOUCAULT, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi ed., Torino, 2014, laddove è utile trarre qualche riflessione generale sul legame tra il corpo del condannato e la spettacolarizzazione della violenza, voluta dall’apparato di repressione dello Stato (uno Stato che, si badi, non ha ancora rifondato la propria concezione punitiva sul tempo, da cui la reclusione e la nascita della prigione) “[…] L’esecuzione pubblica viene percepita come un torbido focolaio, dove la violenza si riaccende. La punizione tenderà dunque a divenire la parte più nascosta del processo penale. Le conseguenze sono numerose: essa lascia il campo della percezione quotidiana, per entrare in quello della coscienza astratta: la sua efficacia deve derivare dalla sua fatalità, non dalla sua intensità visibile. La certezza di essere puniti: questo, e non più l’obbrobriosa rappresentazione, deve tener lontani dal delitto. La meccanica esemplare della punizione muta i suoi ingranaggi: la giustizia non si addossa più pubblicamente la parte di violenza che è legata al proprio esercizio. Che essa pure uccida o colpisca, non è più la glorificazione della propria forza, è un elemento intrinseco che è obbligata a tollerare, ma sul quale le è difficile dare testimonianza. Le notazioni dell’infamia si ridistribuiscono: nel castigo-spettacolo, un confuso orrore sgorgava dal patibolo, avviluppava insieme boia e condannato: e se questo orrore era sempre pronto a trasformare in pietà o in gloria l’onta che veniva inflitta al suppliziato, ritorceva regolarmente in infamia la violenza legale del carnefice. Oramai lo scandalo e la luce si divideranno altrimenti, è la condanna stessa a marchiare il delinquente del segno negativo ed univoco: pubblicità, quindi, dei dibattiti e della sentenza; quanto all’esecuzione, essa è come una vergogna supplementare che la giustizia si vergogna ad imporre al condannato. Se ne tiene dunque a distanza, tendendo sempre ad affidarla ad altri, e sotto il vincolo segreto […]” (ibi., cit., pag. 10 e segg.).
[67] Così L. QUADARELLA SANFELICE DI MONTEFORTE, op. cit., pag. 136 (cit.). Si soggiunge, al riguardo, che la c.d. gamification è una delle diverse tecniche persuasive utilizzate da IS per avvicinare i giovani agli stilemi del jihadismo: videogame “educativi” (cfr. ad esempio B. BALLARDINI, op. cit., pag. 125 e segg.), col malcelato intento di avvicinare al jihad quanti più aspiranti mujaheddin. In questo modo la gamification diventa un facilitatore comunicativo per l’assunzione di comportamenti desiderati da chi somministra l’attività ludica (cfr. M. LOMBARDI, IS 2.0 e molto altro: il progetto di comunicazione del califfato, in M. Maggioni – P. Magri (a cura di), op. cit., pag. 110) Nel videogioco Grand Theft Auto (nato e sviluppato in ambienti statunitensi e totalmente ridisegnato da IS: nell’originale gli eroi sono criminali di strada che spesso si scontrano con la polizia, mentre nella versione islamista, a cui fa sfondo un ipotetico Iraq, campeggiano convogli militari colpiti da bazooka) il testo introduttivo spiega con spudorato candore: “Le cose che farete in questo gioco, noi le facciamo dal vivo sul campo di battaglia” (B. BALLARDINI, ibi., pag. 127).
[68] Situazione definita anche tawahhush (caos).
[69] B. BALLARDINI, op. cit., pag. 236.
[70] Cfr. L. VIDINO, op. cit., pag. 14.
[71] Così R. MEIJER, Global Salafism: Islam’s New Religious Movement, New York, Columbia University Pres, 2009, cit., pag. 13.
[72] così A. PLEBANI, op. cit., pag. 97.
[73] L’espressione è di M. LOMBARDI, op. cit., pag. 116.
[74] Il riferimento è alla guida turistica del Califfato divulgata come ebook, pubblicata dal sedicente jihadista britannico Abu Rumaysah al Britani nel 2015. Va detto che la guida non presenta alcuno dei loghi solitamente utilizzati dal centro media dell’IS per diffondere i comunicati “ufficiali”: l’esperto di antiterrorismo Charlie Winter ha spiegato, parlando a The Indipendent che “la guida turistica non sembra in linea con le pubblicazioni ‘ufficiali’ dell’Isis, ma assomiglia di più all’opera di un giovane autore in erba in cerca di visibilità” (http://www.independent.co.uk/news/world/middle-east/isis-tourist-guide-british-jihadist-abu-rumaysah-publishes-e-book-comparing-self-declared-caliphate-10260868.html).
[75] Così M. LOMBARDI, op. cit., pag. 117 (cit.).
[76] P. R. NEUMANN – B. ROGERS, Recruitment and Mobilisation for the Islamist Militant Movement in Europe, King’s College London, December 2007.
[77] P. NESSER, “How Did Europe’s Global Jihadis Obtain Training for Their Militant Causes?”, Terrorism and Political Violence, vol. 20, 2008b, pp. 234-256.
[78] A dimostrazione di questa dinamica va considerato il fatto che gli unici attacchi contro un paese europeo perpetrati in questa prima fase furono gli attentati che insanguinarono la Francia tra il 1994 e il 1995. Si trattò di una campagna orchestrata da militanti algerini per punire il governo francese per il suo supporto al governo di Algeri durante la guerra civile che aveva flagellato il paese nordafricano in quegli stessi anni.
[79] Cfr. A. PLEBANI, op. cit, pag. 57 e segg.
[80] Vds. J. MATUSITZ, op. cit., pag. 172. La ghazwah è il nome usato per indicare l’attacco, il raid, condotto da Maometto nel 627 contro i miscredenti ed i giudei, al termine del quale un numero imprecisato, ma oscillante tra i 600 e i 700 prigionieri, fu decapitato.
[81] “[…] The direct relationship between the sacred past and the present is the core of the Salafi jihadists’frame of mind”, Q. WIKTOROWICZ, op. cit., pag. 207 (cit.).
[82] Cfr. supra cap. 1 par. 4.
[83] L’espressione è di M. LOMBARDI, IS 2.0 e molto altro: il progetto di comunicazione del califfato, in M. Maggioni – P. Magri (a cura di), op. cit., pag. 121 e segg.
[84] Cfr. L. QUADARELLA SANFELICE DI MONTEFORTE, op. cit., pag. 87.
[85] Nell’analisi dei modelli operativi (cap. 3 par. 4) si fornirà maggiore chiarezza sul significato empirico della parola.
[86] M. AL-SAN’ARI, Roshonara and Taimur: followers of the borderless loyalty, Inspire, Winter 1431, January 2010.
[87] Così M. LOMBARDI, op. cit., pag. 114.
[88] con riferimento all’appellativo “romani” o più semplicemente Roma, è giunta alla sua nona edizione. I contenuti della rivista ricalcano le azioni dei miliziani del Califfato, i proclami degli sceicchi, le esegesi coraniche e indicazioni anche abbastanza banali per arrecare danno all’Occidente infedele e incutere terrore nei lettori. La rivista è stata pubblicata con cadenza fissa fino alla caduta di Mosul (giugno 2017).
[89] in terminis, B. BALLARDINI, op. cit., pag. 117 e segg..
[90] Cfr., tra gli altri, L. SEMERARO, Lo Stato islamico: fenomeno non ancora totalmente espresso e compreso, in in P. QUERCIA (a cura di), I foreign fighter europei – Contributi per una riflessione strategica, CASD – CeMiss, Roma, 2015: “[…] L’importanza della strategia propagandistica era stata percepita anche da al-Qaeda, tanto da definire gli addetti del settore “guerrieri della jihad mediatica”; tuttavia, la struttura messa in piedi da IS si differenzia per l’elevata qualità dei prodotti (probabilmente frutto di una partecipazione attiva di personale occidentale), nonché per le tecniche usate (particolarmente evidenti nella produzione dei video). Tali caratteristiche hanno reso la sua comunicazione più vicina agli standard moderni e per questo con maggiore appeal sulle nuove generazioni […]” (ibi., cit., pag. 56).
[91] Si veda, per il concetto di “nemico vicino” agli occhi di IS, quanto precedentemente detto.
[92] Rectius: il rapporto tra i due gruppo terroristici, mai idilliaci, si rompono definitivamente e platealmente nel marzo 2015, allorché Al Qaeda tenta di boicottare le elezioni nigeriane ed il capo Shekau promette fedeltà ad Al-Baghdadi.
[93] Soprattutto a partire dalla seconda metà del 2014 aumenta decisamente il numero di jihadisti schierati con IS, tra cui anche alcuni che rinnegano precedenti dichiarazioni di affiliazioni con Al Qaeda (cfr. L. QUADARELLA SANFELICE DI MONTEFORTE, op. cit., pag. 32; 37 e segg.).
[94] Cfr. L. QUADARELLA SANFELICE DI MONTEFORTE, op. cit., pag. 90, laddove si richiama l’esempio del diario di Ahmad Khan Rahami, responsabile delle esplosioni con pentole a pressione-bomba che hanno terrorizzato New York e il New Jersey tra il 17 ed il 20 settembre 2016: nelle pagine del documento, infatti, si leggono i nomi di Al Awlaki (AQAP) e Adnani (IS)
[95] In generale, sono stati individuate tre forme di radicalizzazione: 1) il “conservatorismo arcaico”, ovvero una tendenza comune in gruppi di immigrati che provengono da zone rurali e patriarcali con un basso grado di scolarizzazione; la violenza che scaturisce da questo tipo di violenza non è solitamente rivolta verso il paese di residenza, ma verso “apostati” della comunità; 2) l’ “evasione”, di solito percorsa da appartenenti a classi sociali deboli che, proprio per questo, evadono alla ricerca di condizioni di vita adeguate; 3) l’ “avanguardismo religioso”, basato sull’autoconsiderazione di essere apripista di una rivoluzione politico-religiosa; la qual cosa gli fa assumere un atteggiamento di distacco rispetto ai gruppi islamici tradizionali (cfr. funditus H. ABDEL-SAMAD, op. cit., pag. 152 e segg.).
[96] Definizione tratta da M. LOMBARDI, op. cit., pag. 93, che continua: “[…] Sebbene il radicalismo non possa essere considerato un sinonimo di “terrorismo”, il processo che spinge gli individui ad abbracciare delle ideologie di stampo radicale è di fondamentale importanza in quanto rappresenta il primo e cruciale passo verso l’estremismo violento.” (ibi., cit.).
[97] Vds. M. GUIDERE, op. cit., pag. 144 (cit.).
[98] Come argutamente definita da H. ABDEL-SAMAD, op. cit., pag. 125.
[99] Vds. G. PONTI, Compendio di criminologia, IV ed., Raffaello Cortina ed., Milano, 1999, pagg. 114-128; 236.
[100] Sulla xenofobia quale derivazione dell’othering abbiamo già parlato in premessa. Qui si richiama il concetto al solo scopo di distinguere l’attenzione pregiudiziale al fenomeno jihadista dall’attenzione analitica allo stesso.
[101] Sic G. PONTI, op. cit., pag. 237.
[102] Opportunamente, M. BARBERIS: “[…] benchè ospiti ormai solo una cinquantina di prigionieri, è probabile che il carcere resti: come monumento non tanto alla sicurezza, quanto all’impotenza del costituzionalismo” (op. cit., pag. 53).
[103] M. D. SILBER – A. BHATT, Radicalization in the West: The Homegrown Threat, NYPD, 2007, pag. 22 e segg.
[104] Cfr. in questo senso anche L. QUADARELLA SANFELICE DI MONTEFORTE, op. cit., pag. 76.
[105] L. FLEGO, A. POMILLA, V. MASTRONARDI, Profilo Criminologico del terrorista “homegrown”: strumenti e tecniche di prevenzione e contrasto al nuovo terrorismo islamico, in Rassegna di Psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia Forense, Vol. 20 nr. 1-2015, Università Roma “La Sapienza”, Roma, 2016, pag. 243 che, a proposito dei tratti comportamentali dei terroristi homegrown, inferiscono: “[…] i più giovani di essi non vanno sovente in moschea, ma hanno frequentato o frequentano tipici ambienti di aggregazione giovanile, locali e musicali tra cui, come rilevato in alcuni casi e ben evidenziato dai mass media, quelli rap. […] Il possibile terrorista e il moderno giovane attentatore spesso frequentano ambienti del rap per la stessa motivazione dei loro giovani “nemici” occidentali: l’ambiente rap è un luogo di “subcultura” ed il rap è simbolo di opposizione all’establishment e di esaltazione delle realtà povere e “sottomesse” da un sistema ingiusto […]” (ibi., cit., pagg. 243-244).
[106] H. ABDEL-SAMAD, op. cit., pag. 153.
[107] Così L. FLEGO, A. POMILLA, V. MASTRONARDI, op. cit., pag. 198 (cit.).
[108] La tematica, ancora una volta, ripercorre le riflessioni già svolte in tema di scuole salafite in Occidente (cap. 2), in cui la raffinatezza della dottrina tradizionale sta via via lasciando il posto alla semplificazione teorica ed alla modernizzazione del linguaggio, onde garantire maggiore diffusione (e propaganda), con sostanziale diversità tra Al Qaeda e IS in ordine alla verifica del tenore di vita dell’aspirante kamikaze o combattente.
[109] Il problema della logistica telematica è assolutamente rilevante nell’ottica del reclutamento mediante la diffusione di contenuti mediatici su canali virtuali (c.d. dijihad): il fatto che sia la leva principale in Occidente è, anzi, correlato proprio a questa disponibilità logistica ed infrastrutturale. Occorre tenere conto del fatto che in Iraq manca quasi totalmente l’infrastruttura di rete e che in Siria l’internet ad alta velocità è disponibile sono negli Internet Point pubblici, che sono guardati a vista. L’unica vera infrastruttura capillare è invece data dai cellulari, che tuttavia non ricevono dappertutto: è una specie di intranet portatile che supplisce la mancanza di connettività (cfr., in terminis, B. BALLARDINI, op. cit., pag. 79).
[110] Al Cap. 1 par. 2 abbiamo parlato di hub e di fitness proprio per indicare la dinamica di questa geometria.
[111] THE SOUFAN GROUP, Foreign fighters – an updated assessment of the flow of foreign fighters into Syria and Iraq, December 2015, pag. 10, (cit.).
[112] Cfr. G. B. PALERMO, V. M. MASTRONARDI, Il profilo criminologico – dalla scena del crimine ai profili socio-psicologici, Giuffrè ed., Milano, 2005, laddove si definisce questo “dogma” risultante dall’indottrinamento “overvalued idea”: “[…] una delle più marcate caratteristiche del terrorista è di aver aderito ad una dottrina che egli ha supervalutato […]. Per ragioni strettamente legate al suo intenso indottrinamento (brainwashing), il terrorista vede il suo bersaglio non come un essere umano, bensì come uno strumento di cui si può disporre” (ibi., cit., pagg. 343-344, cit.).
[113] “furtherance” nel linguaggio degli Autori del NYPD.
[114] Che, come si è detto, preferiscono svuotare le nozioni coraniche da un intellettualismo eccessivamente elaborato e capzioso, che potrebbe renderle troppo distanti dalla piazza dei giovani alla mera ricerca di una ridefinizione identitaria rapida ed efficace. D’altronde, lo si ribadisce, è lo stesso IS a preferire chiunque sia disposto a giurare fedeltà al Califfato, piuttosto che solo coloro i quali siano puri islamici, immacolati ed salafiticamente “ortodossi”, con evidenti ricadute benefiche sull’appeal.
[115] Vds. J. MATUSITZ, op. cit., pagg. 191-193: “[…] The terms istihhadi, shahid, and martyr have recently been referred to as Islamikaze, a portmanteau of “Islam” and “kamikaze”. “Islamikaze” is the new brand of Islamic suicide terrorists. It is now clear that labeling such people as mere “suicide terrorists” is not sufficiently precise. “Islamikaze” denotes the Islamic martyrs’ existential concern to kill all enemies – by using any means, including being absolutely willing to sacrifice thei own lives in the process ” (ibi., cit., pag. 194).
[116] S. SCARANARI, op. cit., pag. 97 (cit.).
[117] Così abbiamo definito questa speciale capacità di marketing territoriale e religioso dell’IS in Cap. 2 par. 3.
[118] Cfr. L. VIDINO, op. cit., pag. 49 e segg..
[119] Cfr. L. VIDINO, op. cit., pag. 60.
[120] Cfr. L. VIDINO, op. cit., “[…] Non esiste una definizione universalmente accettata, ma la caratteristica comunemente utilizzata per stabilire se un soggetto sia autoctono o meno è il fatto che sia nato o cresciuto nel paese preso in esame. L’elemento chiave è, in sostanza, il fatto che il soggetto sia stato socializzato nel paese, mentre la sua cittadinanza non costituisce elemento rilevante. […] Il termine “italiani sociologici” è perciò usato per descrivere tutti coloro che sono cresciuti e socializzati in Italia, siano essi cittadini italiani o meno” (ibi., cit. pag. 79).
[121] Cfr. l’articolo di LUDOVICO M., Jihadista arrestato, progettava attentati, ne Il Sole24Ore del 16 marzo 2012: “Un terrorista, ma anche un hacker «di altissimo livello» dicono fonti qualificate. Marocchino, 20 anni, in Italia da quando ne aveva sei. Il dato più inquietante: insospettabile. È arrivato vicino, ma molto vicino, a eseguire un attentato alla sinagoga di Milano in via Guastalla. Organizzazione tutta on line, virtuale, cambiando di continuo identità per sfuggire al rischio di essere identificato via web. In realtà la Polizia di Stato l’aveva beccato da un pezzo e lo teneva sotto osservazione. Più tempo passava, più informazioni preziose si riaccoglievano. Tecnica di intelligence, più che di investigazione poliziesca, irreprensibile. Si aspettava con ansia l’indizio di un collegamento, di una cellula, di un gruppo organizzato. Tracce o poco più, e l’attesa scorreva. […] Quando però gli uomini della Digos di Brescia, insieme ai poliziotti dell’Antiterrorismo inviati da Roma e agenti d’intelligence di rinforzo, hanno visto che Mohamed Jarmoune insisteva nel monitoraggio con Google Heart e Google Map della sinagoga – accessi, sistemi di sorveglianza, orari, particolari – è stato un attimo, o quasi. D’accordo con la procura, è scattato l’arresto. Prima che fosse troppo tardi […]” (ibi., cit.).
[122] Così L. QUADARELLA SANFELICE DI MONTEFORTE, op. cit., pag. 75 (cit.).
[123] Così M. STRANO, Foreign figher: strategie di intelligence e psico-tecnologie per a comunicazione strategica e il reclutamento, in P. QUERCIA (a cura di), I foreign fighter europei – Contributi per una riflessione strategica, CASD – CeMiss, Roma, 2015.
[124] Cfr. THE SOUFAN GROUP, Foreign fighters – an updated assessment of the flow of foreign fighters into Syria and Iraq, December 2015, pag. 6.
[125] Vds. M. GUIDERE, op. cit., pag. 149 e segg..
[126] Cfr. quanto si è detto sul canto delle sirene (Cap. 2 par. 3).
[127] In questo senso, cfr. P. QUERCIA Il richiamo della jihad nei paesi dell’Unione Europea e l’indice di radicalizzazione jihadista, in P. QUERCIA (a cura di), op. cit., pag. 32.
[128] THE SOUFAN GROUP, op. cit., pag. 7, cit.. Si tornerà all’utilità della “demitizzazione” nelle Conclusioni.
[129] Così V. MASTRONARDI, Manuale per operatori criminologici e psicopatologi forensi, V ed., Giuffrè ed., Milano, 2012, pag. 420.
[130] Cfr. Anche L. FLEGO, A. POMILLA, V. MASTRONARDI, op. cit., laddove si rileva che l’analisi pisco-sociologica e criminologica del terrorista islamico “homegrown” tipo e le biografie dei terroriste oggetto dello studio degli Autori evidenziano che i soggetti non sembrano essere caratterizzati da personalità “anomale”, ovvero non sono affetti da psicopatologie (ibi., pag. 242).
[131] M. SAGEMAN citato in R. PANTUCCI, A typology of Lone Wolves: preliminary analysis of Lone Islamist Terrorists, ICSR, marzo 2011, pag. 5.
[132] Per una digressione più dettagliata sull’argomento vds. R. PANTUCCI, op. cit., pag. 13 e segg.: in questa sede verranno riportati i gangli fondamentali della concettualizzazione tassonomica proposta dal citato Autore.
[133] Il perossido di acetone (o TATP) è un perossido organico e un potente esplosivo
primario. È diventato, per antonomasia, l’esplosivo dei jihadisti.
[134] Anzi, PANTUCCI conclude l’analisi sul caso ammettendo che: “[…] given the fact nthat such shootings are relatively common in the United States, it is unclear whether he would be rightly included in the dataset of Loners within the context of this article […]”.
[135] La definizione di jihobbyst è di J. BRACHMAN, in Global Jihadism: Theory and Practice, Routledge, 2008.
[136] M. SAGEMAN, Understanding Terror Network, University of Pennsylvania Press, Philadelphia, 2014, pag. 135 (cit.).
[137] R. PANTUCCI, op. cit., pag. 30 (cit.).
[138] Cfr. L. QUADARELLA SANFELICE DI MONTEFORTE, op. cit., pag. 139 e segg..
[139] Vds. quanto detto a proposito della psicodinamica della radicalizzazione.
[140] L. QUADARELLA SANFELICE DI MONTEFORTE, op. cit., pag. 170.
[141] Acutamente A. BALSAMO individua l’ “ibrida polivalenza” che accomuna il fenomeno criminale mafioso e del terrorismo jihadista: “[…] entrambi caratterizzati da […] connotati che superano la dimensione delittuosa e svelano la radicata persistenza di modelli culturali di comportamento, della compresenza di elementi di innovazione ed elementi di continuità […] dalla combinazione di attività economiche legali ed illegali, dalla intensa potenzialità di destabilizzazione del sistema democratico” (Decreto Antiterrorismo e riforma del sistema delle misure di prevenzione, in Diritto Penale Contemporaneo, Milano, 2012).
[142] Si passi questo termine sintetico per indicare la complessa ed eterogenea fenomenologia della criminalità organizzata, sia essa connotata o meno dal metodo o dall’agevolazione mafiosa.
[143] Non possono che condividersi le riflessioni di G. SPANGHER in merito all’efficacia delle Procure Distrettuali nel contrasto al terrorismo: “[…] Il terrorismo implica sicuramente più intelligence e meno giurisdizione; mentre il fenomeno della criminalità organizzata si muove maggiormente sul versante dell’attività giurisdizionale. Pertanto, desta qualche perplessità la scelta di limitare a gruppi di lavoro le attività dei procuratori antiterrorismo dentro le procure distrettuali. Probabilmente, sarà affidato alle nuove unità di sostituti della procura nazionale antimafia e antiterrorismo una più incisiva attività di coordinamento.” (G. SPANGHER, Gli assi portanti, processuali e di prevenzione, della legge antiterrorismo, in Studium Iuris, 12-2015, Wolters Kluwer, CEDAM, pag. 1402, cit.).
[144] Cfr. L. QUADARELLA SANFELICE DI MONTEFORTE, op. cit., pag. 25: “[…] i due concomitanti fattori del prevedibile iniziale vuoto di potere e del tentativo di applicazione/imposizione di valori che non sono propri del Medioriente avrebbero generato, o meglio riacceso, lotte intestine per la supremazia nel mondo islamico. Lotte che, non va mai dimenticato, coinvolgono e sconvolgono in primis le popolazioni locali” (ibi., cit.).
[145] John Snow, nella prima epidemia del 1857 osservò che tutti i casi erano distribuiti attorno ad una sola delle numerose pompe erogatrici di acqua potabile della City londinese. Da qui dedusse il possibile ruolo dell’acqua nella diffusione della malattia e, ordinando la chiusura della famosa Broad Street Pump, riuscì a porre fine all’epidemia e ad identificare l’acqua stessa come veicolo di trasmissione dell’ancora sconosciuto agente eziologico del colera. Alcuni anni più tardi, un altro episodio di colera colpì soltanto i quartieri meridionali della città; grazie alle nozioni precedentemente acquisite, Snow concluse brillantemente la sua indagine epidemiologica, non solo scoprendo che la maggior parte dei contagiati era stata rifornita di acqua potabile dalla Southwark and Vauxhall Company, ma risalendo anche alle modalità del contagio: e cioè al fatto che quest’ultima impresa di distribuzione attingeva l’acqua dal Tamigi, contaminata dalle fognature, alla sua uscita dalla città, mentre la società concorrente, la Lambeth Company, tra i clienti della quale si erano registrati solo pochi casi di colera, la attingeva all’entrata della città.