scarica il file in pdf – tesi carrozza g APPROFONDIMENTI SUL TERRORISMO
ATTACCO ALLA CULTURA
Giulia Carrozza
(tesi Master in “Geopolitica della Sicurezza”, Università degli Studi Niccolò Cusano UNICUSANO – a.a. 2018-2019 – relatore Prof. Laura Quadarella Sanfelice di Monteforte)
Introduzione
Cap. 1 ICONOCLASTIA
- Iconoclastia islamica – Fonti e confutazioni
- Iconoclastia cristiana – Cenni
Cap. 2 I SITI ARCHEOLOGICI
2.1 Distruzioni e violenze in Iraq e Siria
2.2 Cenni sulle distruzioni in Libia e in Yemen
Cap. 3 REPERTI ARCHEOLOGICI PER IL FINANZIAMENTO DELL’IS
3.1 I saccheggi e i trafugamenti
3.2 Le rotte del contrabbando di reperti
Cap. 4 EFFETTO DISTRUZIONI E TRAFUGAMENTI
4.1 Reazioni nel mondo arabo
4.2 Reazioni nel mondo occidentale
Cap. 5 LE LEGGI E GLI UOMINI
5.1 Convenzioni internazionali
5.2 Due diverse sentenze
5.3 I Monument Men di Iraq e Siria
5.4 L’Italia in prima linea per la difesa della cultura
5.5 Restauri e ricostruzioni – Cenni
Conclusioni
Foto
Bibliografia
Siti Consultati
INTRODUZIONE
“Con l’espressione metaforica di “Mezzaluna Fertile” gli storici sono soliti indicare un territorio dalla configurazione semicircolare che si estende dal Mar Rosso al Golfo Persico e che ha come estremi opposti la valle del Nilo ad Ovest e le valli del Tigri ed Eufrate ad Est”[1].
L’area in questione vide la nascita delle prime città economicamente e socialmente definite con la razionalizzazione dei sistemi di coltura agricola, le prime organizzazioni statali complesse e la diffusione della scrittura.
E’ proprio in questa zona, quindi, che si trovano importantissimi siti archeologici che, specialmente in Siria e Iraq, sono stati saccheggiati e danneggiati, a volte irrimediabilmente, dagli appartenenti al sedicente Stato Islamico.
La cancellazione del passato preislamico, esercitando l’iconoclastia, non è il solo scopo prefissato dagli aderenti all’IS, infatti, anche i mausolei islamici sciiti, come per esempio la moschea costruita sulla tomba di Giona a Mosul (Nebi Yunus), sono stati distrutti in quanto non in linea con il “purismo” islamico wahhabita predicato dal Califfato. Ci sono poi alcuni monumenti, come per esempio il Leone di Allat[2] situato davanti al museo archeologico di Palmira, che devono la loro distruzione principalmente al fatto che sono stati utilizzati dai precedenti presidenti di Siria ed Iraq come simboli politici (a questo proposito si segnala che anche Saddam Hussein a suo tempo aveva riproposto una rilettura del passato in chiave nazionalistica)[3].
Questo vero e proprio “attentato” alla cultura è stato variamente giustificato da una interpretazione strettamente wahhabita del Corano e degli hadith[4] mentre, in realtà, in entrambi i testi non emergono condanne esplicite verso le immagini quanto una preoccupazione che queste possano divenire oggetti di culto[5].
In base a questa pretesa di purismo sono state effettuate le distruzioni non solo di idoli pagani e di templi (di religioni che oggi non professa più nessuno) ma anche di mura e altre costruzioni antiche, devastazioni di musei come quelli di Mosul e di Palmira nonché di moschee e mausolei sciiti colpevoli di assecondare una specie di “culto dei santi”.
Si parla di pretesa di purismo in quanto, per esaltare le loro azioni, sono gli stessi distruttori che usano proprio le immagini di tali antichi manufatti per propagandare lo scempio da loro effettuato.
Bisogna, inoltre, sottolineare che le devastazioni sono di solito perpetrate a danno di grandi costruzioni (templi, palazzi, mura) o statue colossali (quali per esempio i lamassu[6]), mentre viene risparmiato tutto ciò che può essere fonte di guadagno. I reperti più piccoli o comunque parti di bassorilievi “smembrati” per essere più facilmente occultabili, vengono trafugati con il fine di venderli per l’autofinanziamento del terrorismo.
Ci sono poi le cosiddette “licenze di scavo” che Daesh vende a caro prezzo[7] permettendo così la compromissione delle stratigrafie di scavo di siti millenari[8] sempre per la ricerca di nuovi reperti da immettere sul mercato e foraggiare la propria economia.
La comunità internazionale risulta emotivamente provata da tutti questi eventi mentre almeno una buona parte dell’opinione pubblica araba fruitrice dei social sembra apprezzare le gesta distruttive. La popolazione locale, tranne coloro che per sbarcare il lunario approfittano degli scavi clandestini, è quella che ha vissuto nel quotidiano i monumenti ora distrutti e che ovviamente prova un certo senso di destabilizzazione nel veder sparire i propri riferimenti culturali e territoriali.
Le politiche poste in essere dalle varie organizzazioni internazionali volte a non far verificare o comunque, a contenere tali scempi, al momento sembrano poter fare molto poco in un sistema di conflitto asimmetrico di questa portata.
Infine, un discorso a parte merita la figura dell’archeologo Khaled al Asaad, ex direttore del sito archeologico di Palmira nonché uno dei massimi esperti internazionali delle antichità della città detta “la sposa del deserto” che, rifiutandosi di rivelare il nascondiglio di alcuni antichi reperti d’epoca romana, dopo un mese di torture, è stato brutalmente decapitato ed esposto in una delle piazze della città. I jihadisti lo accusavano di essersi occupato di idoli e di aver partecipato a convegni internazionali con degli infedeli[9].
Come questo grande uomo, sia in Siria che in Iraq, si sono schierati archeologi, studiosi, dipendenti di musei e semplici cittadini che, sfidando l’ira wahhabita, hanno dimostrato quanto tenevano alla storia e alla cultura della zona mesopotamica, vera e propria testimonianza dell’inizio della civiltà nel mondo.
I CAPITOLO – ICONOCLASTIA
- Iconoclastia Islamica – Fonti e confutazioni
Lo Stato Islamico autoproclamatosi il 29 giugno 2014 occupava un territorio a cavallo tra l’Iraq centrosettentrionale e la Siria nordorientale. L’enclave terroristica, che si sovrapponeva in questo modo vasti territori appartenenti all’antica Mesopotamia[10], si è caratterizzata, tra le altre cose, per un’iconoclastia senza precedenti che gli occupanti hanno agito verso testimonianze storiche e religiose facenti parti della memoria collettiva, oltre che per le violenze sulle minoranze etniche e religiose che abitavano in quei luoghi.
Nell’islamismo la maggior parte dei fedeli appartiene a quattro scuole giuridiche più importanti: tre sunnite ed una sciita. La scuola sunnita hanifita[11] è la più antica e consta di oltre un terzo dei credenti e riguardo all’interpretazione dei sacri testi lascia ampio margine al giudizio individuale dell’esperto di diritto secondo la buona ragione; la scuola moderata shafita[12] e quella sciita giafaritica[13] mantengono il razionalismo; invece segue il diritto consuetudinario del tempo del Profeta la scuola malikita[14].
Secondo la propaganda jihadista sarebbe propria dell’Islam la demolizione di simboli di culti politeistici o la distruzione di mausolei funerari. I miliziani, infatti, sostengono che tutte le scuole giuridiche coraniche sarebbero unanimi nel condannare le moschee funerarie viste come luoghi di idolatria ma, in effetti, sarebbero solo i wahhabiti[15], che si rifanno alla scuola giuridica hanbalita[16], quelli che seguono pedissequamente questo dettame dottrinale.
Formatasi dopo il 750 d.C. la scuola giuridica sunnita hanbalita viene fondata dal teologo giureconsulto Ahmad ibn Hanbal[17] ed è la più conservatrice e sostenitrice di un tradizionalismo religioso assoluto e che, proprio per il rigore che la caratterizza, è la meno diffusa tra i mussulmani. Abn al Wahhab ha promosso questa impostazione teologica in tutta l’Arabia Saudita alleandosi nel 1744 con l’emiro Muhammad ibn Sa’ud[18] (fondatore del primo stato saudita) facendo sposare i loro figli. Tale alleanza ha permesso all’emiro di conquistare un immenso territorio e al teologo di diffondere gli ideali di purificazione dell’Islam. Quest’ultimo per redigere la propria dottrina si è ispirato anche agli scritti di Ibn Taymiyyah e di Ibn al Jawziyyah, due teologi siriani vissuti tra il 1200 e il 1300 che sostenevano il divieto di costruire mausolei e moschee sulle tombe e la necessità della loro distruzione qualora fossero stati edificati.
Per questa scuola, ora seguita anche dagli aderenti al sedicente Stato islamico, i credenti devono ritornare alla purezza primigenia e tombe e santuari sono visti come simbolo di politeismo per cui vengono additati come miscredenti i mussulmani che sono legati alla venerazione di santuari e tombe, ovvero principalmente gli sciiti o i sufi o anche i sunniti stessi se seguono queste pratiche.
In realtà solo dopo la predicazione di al Wahhab il culto dei santi e dotti del mondo islamico, fino ad allora praticato dalle popolazioni della penisola araba, venne visto negativamente e cominciarono le distruzioni.
Si pensi che per ben sette secoli dalla predicazione di Maometto nessuno studioso di diritto islamico si era espresso negativamente su tali mausolei. Le distruzioni avvenute nei primi secoli dell’Islam erano dovute principalmente a motivi politici e non religiosi mentre, per esempio, il sacco di Kerbala effettuato da parte delle armate wahhabite di Ibn Sa’ud nell’aprile del 1802 è stato testimonianza di come il fanatismo religioso si sia unito a potere politico e bramosia di ricchezze[19].
Per quanto riguarda invece la distruzione in antico di mosaici di chiese cristiane si rileva che: “gli attacchi erano in generale dettati non certo da un timore specifico per le figure quanto piuttosto dalla valenza dottrinale da esse espressa, in particolare l’enfasi sui dogmi della Trinità e della natura divina del Cristo, fortemente osteggiati dai mussulmani”[20].
Relativamente al Corano e agli Hadith questi testi non presentano una posizione ben definita contro le immagini intese come rappresentazioni di esseri viventi che possiedono un soffio vitale, quanto un invito a limitarsi ad usarle in specifici contesti in modo da evitare l’idolatria. Il libro sacro va contro questa pratica basandosi sia sul fatto che solo Dio è creatore e quindi, ogni forma di imitazione da parte umana sarebbe blasfema, e sia sull’unicità di Dio che non ammette altre divinità. Idee simili all’ebraismo ma con una differenza: i divieti nella Bibbia sono chiari, infatti nei comandamenti dettati a Mosè Dio ammonisce “Non avrai altri dei di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna (…) Non ti prostrerai davanti a loro…” (Es 20,3-5), mentre nel Corano questi divieti non sono mai resi espliciti[21]. Nel testo sacro dei musslim, infatti, non si trova alcun fondamento alla dottrina wahhabita adottata dallo Stato Islamico che possa giustificare la distruzione di mausolei legati al culto delle grandi figure storiche del mondo mussulmano mentre si rileva una forte preoccupazione di fondo per la tutela dei luoghi di preghiera in quanto tali, siano essi cristiani, ebraici o mussulmani[22] secondo il versetto 22,40 del Corano[23] stesso.
Inoltre, per alcuni teologi dell’età ommayade e addaside il divieto di rappresentare immagini si riferirebbe soltanto alla rappresentazione fisica di Dio[24].
La Maggiorelli[25], fa rilevare, comunque, che “la condanna delle immagini si trova però nella tradizione post coranica degli Hadith, che appaiono in versioni differenti nella tradizione sunnita rispetto a quella sciita, che accetta di più le immagini….. ritroviamo poi la condanna delle immagini nelle interpretazioni di giuristi del IX e X secolo, come rivendicazione identitaria rispetto al mondo cristiano e bizantino. Ed è alla tradizione post-coranica che si rifanno i fondamentalisti islamici che condannano le opere d’arte in cui sono rappresentate figure umane. In particolar modo aborriscono le statue, in quanto immagini che hanno un’ombra come gli esseri viventi e per questo potrebbero essere oggetto di venerazione”[26].
Riguardo alla figura di Maometto anche questa viene utilizzata per giustificare la distruzione delle statue sulla base che egli distrusse i 360 idoli pagani conservati nella Ka’ba quando nel 630 conquistò la Mecca. Ma anche per questo racconto esistono tradizioni biografiche contrastanti secondo cui il Profeta delegò il compito ai suoi seguaci e comunque, non distrusse le immagini di Gesù, di Maria, di Abramo e tanto meno toccò la Pietra Nera[27].
Tra i primi episodi di distruzione da parte degli estremisti islamici che hanno avuto una certa rilevanza mediatica, anche con reazioni da parte dell’UNESCO, è d’obbligo segnalare quello avvenuto il 12 marzo 2001 in Afghanistan dei Buddha di Bamiyan da parte dei talebani e quello del giugno-luglio 2012 relativo ai mausolei sufi in Mali da parte dell’organizzazione qaedista Ansar Dine. Nel primo caso la devastazione, in una terra in cui il buddhismo non si professava più da tempo, era stata determinata dalla volontà di eliminare le testimonianze del passato della zona[28] e per dare forza alla conquista talebana della regione e alla persecuzione della minoranza sciita hazara considerata eretica. Le due statue giganti erano alte una 38 m. e l’altra 56 m. ed erano state scolpite nella roccia rispettivamente 1800 e 1500 anni fa[29]. Riguardo, invece, ai mausolei dedicati ai maestri sufi di Timbuctù, la loro devastazione è cominciata il 30 giugno del 2012 quando gli estremisti di Ansar Dine hanno prima distrutto i mausolei di Sidi Mahmoud Ben Amar, Sidi El Mokhtar e Alfa Moya per poi proseguire nei giorni successivi con le tombe della moschea di Djinguereyber e soprattutto, con la distruzione della porta di ingresso della moschea di Sidi Yahya che una leggenda locale voleva rimanesse sempre chiusa per scongiurare la fine del mondo. Ovviamente anche queste azioni sono state giustificate dal fatto che secondo i Difensori della Fede (Ansar Dine) i mausolei per celebrare i “santi” sufi non dovevano essere costruiti e quindi, andavano distrutti[30] (perseguitando così anche i seguaci sufi).
Nel 2006 come ricorda Brusasco[31] “la furia neowahhabita si è scagliata contro gli ‘orpelli’ conservati nel piccolo edificio di forma cubica della Ka’ba (il ‘cubo’), il luogo più sacro dell’Islam sito al centro del sacro recinto della Mecca, i cui ornamenti di seta, i tendaggi e le iscrizioni intagliate su legni pregiati sono andati purtroppo distrutti” lo stesso studioso così continua: “oppure, recentemente, quando si è pianificato di obliterare l’altro santuario panislamico dell’al-Munawwara ‘l’Illuminata’ moschea di Medina, in origine la storica dimora di Muhammad, adibita a santuario dopo la morte del Profeta nel 632. Il tutto avveniva mentre l’indignazione si levava alta nel mondo islamico e feroci accuse piovevano sia da parte degli sciiti sia dei sunniti”.
A questi episodi si aggiungeranno negli anni successivi quelli iracheni, siriani, yemeniti e libici che verranno trattati nel capitolo successivo.
Tanto premesso, in un mondo globalizzato, dove l’immagine conta più della parola in quanto suscita un’emozione diretta, e l’introduzione di nuove tecnologie mediatiche investe lo stesso mondo mussulmano, lo Stato Islamico ha cominciato ad eliminare le testimonianze di culture diverse così come le costruzioni antiche proprio per fiaccare nel morale le minoranze che abitavano quelle terre e dominarle.
La popolazione locale, anche quella islamica “ortodossa” secondo le idee wahhabite, abituata a “vivere” giorno per giorno gli antichi monumenti è stata destabilizzata, mentre la distruzione di moschee islamiche non conformi al wahhabismo e di edifici sacri di altre religioni ha provocato pure notevoli problemi spirituali alle minoranze che per altro sono state anche violentemente perseguitate.
In tutto ciò si rileva però una grande incongruenza, una mancanza di coerenza nel seguire lo stesso credo wahhabita, perché i jihadisti si sono serviti delle stesse immagini, per così dire “prima e dopo la cura distruttiva” per pubblicizzare la devastazione effettuata al fine di raccogliere nuove adesioni per la loro “causa” senza porsi il dilemma: saranno ancora viste e “adorate” queste immagini nella loro ultima versione che tra l’altro si può riprodurre più e più volte? Diventeranno dei cult, dei feticci della cultura e saranno ancora ammirate per questo? E’ un uso improprio dei presunti idoli che porterà nuovamente ad alimentare l’idolatria culturale di cui lo Stato Islamico accusa l’occidente e allo sfruttamento delle tanto vituperate immagini da parte jihadista per farsi pubblicità e reclutare nuovi adepti?
L’estremismo jihadista, infatti, accusa il mondo occidentale di professare una forma nuova di idolatria: l’amore per il bello, basandosi anche sul fatto che quando sono stati distrutti i Buddha di Bamiyan[32] la giustificazione talebana è stata che le istituzioni occidentali erano disposte a sborsare molto denaro per mettere in sicurezza sculture preislamiche ma non avrebbero dato nemmeno un centesimo per salvare la vita di uomini, donne e bambini afghani. A questo riguardo si cita Paolo Brusasco[33] che sul libro: “Dentro la devastazione. L’ISIS contro l’arte di Siria e Iraq” scrive che “Anche oggi, nel marzo 2017, mentre infuria la battaglia per la liberazione di Mosul, le centinaia di famiglie uccise nei bombardamenti aerei alleati sono taciute, come dimenticate. Queste considerazioni certo non vogliono giustificare gli attacchi vandalici contro arte e storia perpetrati dai jihadisti, ma piuttosto chiarire come non esista un’avversione incondizionata del mondo islamico per le immagini, quanto reazioni di varia natura che mutano a seconda dei contesti, delle narrazioni, degli eventi. Dire il contrario significherebbe non riconoscere che, proprio come le piramidi, i Buddha di Bamiyan e le statue di Mosul sono state ammirate da milioni di mussulmani, prima che un fattore storico contingente ne determinasse la distruzione. Una distruzione che è rottura con il passato e non certo continuità con la tradizione islamica”[34].
Tanto premesso, si può pensare che con il pretesto delle immagini e con l’accusa del nuovo tipo di idolatria professata nel mondo occidentale lo Stato Islamico abbia effettuato una politica di sistematica pulizia etnica praticata contro le comunità minoritarie locali considerate eretiche o se mussulmane apostate. Per raggiungere questo fine ha sfruttato l’annichilimento del patrimonio culturale iracheno e siriano di epoca islamica e preislamica visto quale simbolo identitario della regione o comunque, perché era stato utilizzato dei precedenti regimi per reclamizzare la propria politica.
- Iconoclastia Cristiana – Cenni
Anche nel primo periodo di affermazione del Cristianesimo i simboli del politeismo pagano ormai al tramonto vennero distrutti, come pure, successivamente, c’è stata una fase iconoclasta in cui anche le immagini sacre vennero eliminate.
Comunque, per capire il rapporto dei cristiani, specie quelli delle origini, con le immagini bisogna sottolineare che anch’essi nutrivano una certa diffidenza verso le rappresentazioni in quanto, come gli Ebrei, temevano che queste divenissero oggetto di idolatria.
Non esistendo una vera e propria arte cristiana, all’inizio coloro che volevano rappresentare i contenuti della nuova religione si sono serviti dello stile greco-romano mutuando simboli e motivi dall’arte romana pagana. Essi hanno riveduto l’interpretazione spirituale di antichi miti pagani, si sono serviti anche di simboli, specialmente di quelli relativi a culti solari, e grazie a ciò sono riusciti ad elaborare una serie di figure che esprimevano concetti morali[35].
Nel IV secolo con l’affermarsi del Cristianesimo nel territorio dell’impero (nel 313 con l’editto di Milano Costantino riconosceva ai cristiani la libertà di culto e nel 380 con l’editto di Tessalonica Teodosio elevava il Cristianesimo a religione di Stato) con l’adozione del credo niceno si affermava la consustanzialità di Gesù al Padre e la sua incarnazione (I Concilio di Nicea del 325) e quindi, la possibilità di rappresentarlo come uomo. Ciononostante la questione delle immagini venne sempre trattata con cautela fra i pensatori cristiani influenzati anche dalle idee platoniche[36].
Nell’VIII secolo ci fu una grave crisi religiosa in seno alla Cristianità, con pesanti conseguenze sia per Roma che per Costantinopoli, dovuta al particolare valore simbolico che i Bizantini attribuivano alle immagini. Infatti, nella Chiesa greca del periodo, il culto delle immagini dei santi era particolarmente sentito, tanto più che alcune icone erano considerate acheropite[37]. Le immagini sacre avevano assunto valenza di culti locali portando pellegrinaggi, guadagni e prestigio ai monasteri in cui erano conservate. Il tutto influenzava nettamente il governo della Chiesa bizantina. D’altra parte c’erano anche delle tendenze contrarie soprattutto nei territori orientali dell’impero culla, a loro volta, di fermenti religiosi che sostenevano un ritorno al contenuto evangelico originario con la condanna del lusso e delle ricchezze ecclesiastiche. Questo movimento era detto Pauliciano[38] ed una delle sue principali rivendicazioni era la distruzione delle immagini sacre. Questi diversi orientamenti con l’avvento di Leone III Isaurico presero il sopravvento. Quest’imperatore era originario dell’Anatolia meridionale, una terra influenzata dalla cultura aniconica tipica dell’ebraismo e dell’islamismo. Egli cercò, quindi, di diminuire il potere dei monasteri favorendo la dottrina iconoclasta promulgando nel 726 un editto contro il culto delle immagini facendo anche prediche con cui cercava di convincere il suo popolo ad accettare questa riforma. Egli fece anche rimuovere l’immagine di Cristo sopra la Porta Bronzea del palazzo imperiale (il malcapitato ufficiale imperiale incaricato di ciò venne ucciso dal popolo inferocito) cercando così di far accettare le sue disposizioni anche alle autorità religiose. Il patriarca Germano rifiutò l’iconoclastia ma venne costretto all’esilio e sostituito dal patriarca Anastasio più filoimperiale. Ci fu, quindi, “un periodo di durissime lotte tra gli iconoclasti, capeggiati dall’imperatore e i tradizionalisti; intere province si ribellarono, sorsero usurpatori, furono lanciati anatemi, mentre Leone III tentava di riportare l’ordine ricorrendo a deportazioni di massa e massacri”[39]. Nelle regioni occidentali, più attaccate alla tradizione romana, era consuetudine rappresentare nei mosaici e nelle pitture il volto di Cristo e i pontefici romani vedevano questa dottrina iconoclasta come una causa di nuovi conflitti e divisioni e che poneva le basi anche per la riaffermazione del potere imperiale in Italia e soprattutto sulla Chiesa romana limitandone così le prerogative sugli altri episcopati occidentali. Così papa Gregorio II, sia per le profonde radici che il culto delle immagini aveva in Italia, sia per rendere la Chiesa di Roma sempre più autonoma da Costantinopoli da dove l’imperatore pretendeva di esercitare la propria autorità in materia religiosa, difese le immagini sacre. Nei territori bizantini in Italia ci furono numerose rivolte e sia nell’Esarcato[40] che nella Pentapoli[41], ci furono ammutinamenti di truppe e destituzioni di comandanti di nomina imperiale. Seguì, quindi, una fase di stasi subito dopo un sinodo lateranense con cui si decretò Anastasio deposto e gli iconoclasti scomunicati. Praticamente: “la Chiesa di Roma, tradizionalmente fedele all’imperatore d’Oriente, che fin allora aveva riconosciuto come unico imperatore ‘romano’ di pieno diritto, poneva le basi per un distacco da Costantinopoli che si sarebbe via via approfondito fino a diventare incolmabile”[42].
Ma il massimo sostenitore dell’iconoclastia, che cercò di giustificare teologicamente, nonché promotore della distruzione di tutte le icone fu Costantino V, figlio dell’Isaurico. Nonostante la fazione iconodula con a capo Giovanni Damasceno avesse confutato punto per punto tutte le affermazioni pro distruzione delle immagini e avesse, comunque, evidenziato le forti resistenze che la politica imperiale in merito stava incontrando nelle province occidentali (e anche presso lo stesso clero di Costantinopoli), Costantino V persistette nelle sue opinioni. Infatti, dopo aver convocato un concilio promulgò un editto imperiale con cui ribadiva l’obbligo di rimozione delle icone dalle Chiese decretando l’arresto di coloro che si opponevano. Comunque, visto anche che in quegli anni ci fu la massima crisi del potere bizantino in Italia (nel 751 Ravenna era stata presa dai Longobardi per cui ci fu la fine dell’Esarcato) da una parte l’imperatore non chiese l’approvazione del pontefice e dall’altra papa Zaccaria si preoccupò di difendere l’autonomia della sua Chiesa dai Longobardi. La disputa teologica, ormai solo da parte orientale, divenne marginale. Il papa espresse solo una formale condanna degli atti e delle successive deliberazioni del concilio promosso a suo tempo da Costantino V. I successori di Zaccaria “lasciarono che l’iconoclastia compisse il suo corso in Oriente, evitando di intervenire nella disputa e aspettando che essa giungesse al suo inevitabile fallimento, preannunciato dalle acute divisioni e dalle forti resistenze presenti all’interno dello stesso clero orientale”[43].
La politica iconoclasta venne abbandonata in Oriente sotto l’imperatrice Irene che tramite un ulteriore concilio svolto a Nicea “sancì la fine delle persecuzioni e delle distruzioni delle icone ristabilendo l’ortodossia all’interno di tutti i territori dell’impero bizantino”[44]. Era la rivincita non solo degli iconoduli ma anche del monachesimo contro il quale la riforma iconoclasta era stata diretta.
Comunque, rimase una certa cautela sulle immagini anche in Occidente perché quando nel Medioevo gli affreschi nelle chiese vennero considerati come la Bibbia degli ignoranti, il clero esercitò una rigida sorveglianza su ciò che veniva raffigurato e per evitare libere interpretazioni con le prediche ne diffuse il preciso significato dottrinale[45].
II CAPITOLO – I SITI ARCHEOLOGICI
2.1 Distruzioni e violenze in Iraq e Siria
Come sostiene la giornalista Simona Maggiorelli nel suo libro “Attacco all’arte. La bellezza negata”: “L’archicidio, la decapitazione di statue e la devastazione di templi, la damnatio memoriae non sono eventi nuovi nella storia, ci sono stati per ragioni politiche fin dai tempi più antichi, ma il fenomeno a cui stiamo assistendo oggi è l’uso della devastazione del patrimonio culturale allo scopo di distruggere l’identità dell’‘altro’, in maniera lucida e sistematica, e non come ‘effetto collaterale’ di manovre di guerra o di eserciti in ritirata”[46]. Infatti, in Iraq dopo il 10 giugno 2014, con la conquista di Mosul e il 29 giugno con la proclamazione da parte di al Baghdadi della nascita del Califfato[47] venne avviata una dura politica di epurazione etnico-religiosa.
I primi a essere perseguitati furono proprio i mussulmani sciiti seguiti da tutte le minoranze sia etniche che religiose come gli shabak[48], i mandei[49], i turcomanni[50] e gli yazidi[51] ovviamente i curdi ed infine anche i cristiani assiri della piana di Ninive.
Insieme alle violenze sulla popolazione sono cominciate le devastazioni del patrimonio culturale iracheno di epoca assira, classica e islamica nonché medievale cristiana.
Tra le distruzioni di antiche e celebri costruzioni dell’architettura islamica irachena si segnalano particolarmente quelle relative a quei siti simbolo della pacifica coesistenza in Iraq delle tre grandi religioni monoteistiche come per esempio l’esplosione nel luglio 2014 della moschea medievale edificata sulla tomba attribuita tradizionalmente al profeta biblico Giona[52]. Qui si riunivano a pregare insieme sia mussulmani che cristiani e ebrei. L’importante mausoleo sorgeva sulla collina di Nebi Yunis ovvero una delle acropoli dell’antica città assira di Ninive[53].
Sempre a Ninive sono state danneggiate due sculture colossali i lamassu ovvero geni protettori della porta del dio Nergal, androcefali dal corpo taurino alato.
A Mosul è stato devastato il locale museo archeologico dove sono state distrutte sculture partiche provenienti da Hatra[54] mentre alcuni reperti assiri facilmente esportabili all’estero per le loro dimensioni più contenute sono stati trafugati per essere venduti clandestinamente.
Sempre a Mosul è stato demolito il mausoleo dell’imam Yahya ibn alQasim, come anche la tomba dell’imam Ibn Hassan Aoun alDin le cui costruzioni risalgono al XIII secolo, mentre a Samarra è stato distrutto il mausoleo dell’imam Dur dell’XI secolo.
Nella stessa città è stata fatta esplodere la Grande Moschea di Nur ad-din (Jama’an – Nuri al Kabir), l’annessa madrasa e il minareto al-Hadba (il gobbo). Il celebre minareto pendente, precedentemente scampato alla furia jihadista, è stato distrutto nel luglio 2017 in quanto simbolo rappresentato sulle banconote irachene da 10.000 dinari e soprattutto per la leggenda popolare che vedeva nell’inclinazione del manufatto un atto di ossequio all’ascesa al cielo di Maometto[55], credenza ritenuta non islamica dai “puristi” wahhabiti.
Nel quartiere al Mushahada di Mosul nel luglio 2014, nonostante la difesa degli abitanti è stato distrutto con i bulldozer il santuario dedicato a Sheikh Fathi, un santo appartenente al credo sunnita[56].
Ad Hatra, una città carovaniera del deserto iracheno, capitale di un regno arabo a cavallo fra gli imperi partico e romano, sono state distrutte le sculture architettoniche che decoravano le facciate degli edifici (è stato diffuso un video in cui si documenta la distruzione a colpi di martello e kalashnikov di statue e mascheroni ornamentali) ed inoltre, il sito archeologico ha subito gravissimi danni in quanto sono stati utilizzati dei bulldozer per radere al suolo ampi settori e danneggiare monumenti.
A Nimrud[57], la Kalhu capitale dell’impero assiro nel IX e VIII secolo a. C., è stato fatto esplodere il palazzo maggiormente conservato dell’antica Assiria ovvero quello di Assurnasirpal (anche qui sono stati utilizzati bulldozer e cariche di esplosivo) mentre non si hanno più notizie dei rilievi di gesso che ne decoravano le pareti (probabilmente trafugati anch’essi).
A nordest di Nimrud nel marzo 2015 è stato fatto saltare in aria il monastero siriaco cattolico di Mar Behnam e Mart Sarah. Prima occupato dalle milizie del califfato (che nel luglio 2014, dopo aver intimato ai pochi monaci rimasti di andarsene, distruggevano le croci l’altare e le statue deturpando i muri con graffiti), poi trasformato in base militare (vista la sua posizione strategica a 30 Km da Mosul) ed infine, distrutto il 19 marzo 2015. Esso vantava una delle più ricche ed antiche biblioteche della chiesa siriaca con straordinari codici miniati in lingua aramaica, siriaca ed araba che vanno dall’età medievale al XX secolo e che fortunatamente sembrano essere stati messi in salvo[58].
Per quanto riguarda la Siria anche qui “il patrimonio culturale è fortemente compromesso”, infatti, “immagini satellitari mostrano che, sebbene a vari livelli, molti dei diecimila siti archeologici siriani sono stati interessati dai saccheggi, dalla costruzione di basi militari e dagli scontri tra le forze di Assad e le diverse fazioni ribelli”[59]. In più “Il direttore del Dipartimento di Antichità siriano ha affermato che oltre settecentocinquanta siti risultano particolarmente compromessi”[60] tra questi ci sono tutti i siti dichiarati Patrimonio mondiale dell’umanità dall’UNESCO[61] iscritti nel giugno 2013 nella lista dei siti in pericolo come la città vecchia di Damasco, Aleppo, Bosra[62], Palmira[63], il Krak des Chevaliers[64] e gli antichi villaggi della Siria del Nord unendo così sia i siti distrutti dai miliziani del Califfato che quelli distrutti dai bombardamenti delle forze governative e alleate.
Ma vediamo ora cosa dice l’archeologo Daniele Morandi Bonacossi[65] nell’articolo “Un patrimonio decapitato” da lui scritto nel 2015 relativamente alle distruzioni dell’IS: “Significativi danni sono stati registrati nel teatro romano di Bosra, nel sito di età ellenistica e romana di Palmira – dove in agosto l’IS ha fatto saltare i templi di Baalshamin e di Bel – e del suo museo (dove la statua della dea Allat è stata distrutta dall’IS nel giugno del 2015), nel castello crociato del Crac dei Cavalieri e nelle cosiddette Città morte di epoca tardoantica della Siria nordoccidentale. La città ellenistica e romana di Apamea con il suo lungo cardo di stile corinzio è stata saccheggiata in modo irrimediabile da scavi clandestini che hanno interamente distrutto il sito, devastandone anche le parti non ancora fatte oggetto di scavi archeologici. Nella Siria orientale sotto il controllo dell’IS due città d’importanza cruciale per la storia e l’arte della Siria di età preclassica e classica, Mari e Dura Europos, sono egualmente oggetto di scavi illegali estesissimi. Il confronto fra le immagini satellitari dei siti riprese nel 2012, quando la regione non era ancora caduta sotto il controllo dell’IS, e nel 2014 hanno rivelato, soprattutto a Dura Europos, la presenza di migliaia di buche scavate da tombaroli, la cui attività ha completamente distrutto il sito. Gravi saccheggi sono documentati anche nelle città di epoca assira di Tell Sheikh Hamad, Tell Ajaja e Tell Hamidiyah nella valle del fiume Khabur, il maggior affluente dell’Eufrate”.
Per tanto alle devastazioni effettuate dallo Stato Islamico sopradescritte si aggiungono tutte quelle distruzioni conseguenza della guerra in corso, con Jihadisti che avevano occupato alcune zone della Siria, forze governative e anche forze russe che le hanno riconquistate.
Distruzioni che hanno interessato anche Aleppo, la seconda città della Siria, con la sua cittadella (alla cui distruzione hanno concorso sia le bombe scagliate dal regime di Assad che i tunnel bomba scavati dai jiahdisti), l’Hammam Yalbougha del 1488, le moschee e madrase Khusrawiya e Sultaniyah, il Gran Serail sede del governatore della città, il Khan as-Shouneh del 1546, gli storici quartieri di Salaheddin, di al Sha’ar e di al-Bayada e l’incendio del suq medievale di al-Madina (il più esteso ed antico mercato coperto del mondo), Ebla pesantemente bombardata dall’aviazione russa e soprattutto Raqqa, scelta come capitale del nuovo Califfato perché già capitale dell’antico Califfato abbaside e dove, dopo la sua liberazione[66] si sono potuti vedere i severi danni arrecati al suo patrimonio storico artistico dovuti sia da interventi di milizie armate ribelli che da bombardamenti alleati.
Anche in Siria l’IS ha voluto, comunque, colpire i luoghi simbolo di dialogo interreligioso come per esempio il monastero di Mar Elian, a metà strada Tra Damasco e Palmira, che a giugno 2015 è stato distrutto con le ruspe, colpendo così anche la comunità locale nota per la sua tolleranza religiosa in merito alla quale l’archeologa restauratrice Emma Loosley racconta di un mito: “All’origine erano due tribù, poi, con l’avvento dell’Islam, una divenne mussulmana e l’altra rimase cristiana, ma un patto tra di loro sanciva che se una delle due religioni avesse sopravanzato l’altra, i suoi seguaci avrebbero sempre assistito i fratelli in minoranza”[67].
2.2 Cenni sulle distruzioni in Libia e Yemen
Per quanto riguarda la Libia la mancanza di un’identità comune e la suddivisione in tre zone geopolitiche, l’instabilità interna e la disgregazione delle istituzioni non permettono una buona gestione del patrimonio storico culturale di quel Paese.
La situazione si presenta diversa secondo le zone: in Tripolitania i siti archeologici in genere non sono stati sottoposti ad atti vandalici, tranne in qualche rara occasione; in Cirenaica invece la comunità locale vuole riappropriarsi dei terreni espropriati a suo tempo durante l’età coloniale, quindi, al fine di ricavare lotti di terreno edificabile, vasti settori della grande necropoli di Cirene che si trovano al di fuori della zona protetta, sono stati spianati con le ruspe; nel Fezzan la situazione è piuttosto preoccupante relativamente all’arte rupestre mentre come sostiene l’archeologo Morandi Bonacossi, i marabutti[68] sono stati distrutti come anche hanno subito danneggiamenti le moschee ad essi collegate.
Vista la situazione critica della Libia Il DoA[69] ha provveduto a spostare in luoghi più sicuri i reperti conservati fino al 2015 nei musei archeologici ed etnografici. Inoltre, proprio perché questi oggetti rischiano, comunque, il trafugamento e l’immissione nel commercio illegale di arte antica l’ICOM[70] ha provveduto a redigere una lista rossa di emergenza degli oggetti culturali libici a rischio mentre è sempre compito del DoA monitorare e provvedere alla sicurezza delle aree archeologiche protette anche se secondo l’articolo: “La distruzione di un pezzo di storia” del 2 settembre 2017 pubblicato sul sito del Post si segnala che non essendoci più un ministero che sia in grado di occuparsi dei tesori archeologici del paese il sito archeologico di Leptis Magna è difeso solo da una banda locale malconcia e male armata[71].
Anche in quello che era il regno della regina di Saba ovvero lo Yemen, a seguito del conflitto civile tra i ribelli sciiti Houthi e una coalizione araba a guida sunnita saudita pro governativa (guerra di cui i media internazionali hanno parlato pochissimo), si è verificato in realtà un vero e proprio scempio che ha lasciato il segno sia sugli Yemeniti che sul loro patrimonio storico culturale, infatti, basti pensare che per snidare i ribelli sciiti la coalizione sunnita ha distrutto ben 36 siti archeologici[72].
Anche a Sana’a, la capitale, ci sono state nel marzo 2015 parecchie esplosioni dovute ad attacchi portati dall’Isis o altri gruppi fondamentalistici come Al Qaeda che, oltre ad uccidere 142 persone, hanno distrutto: le tipiche case-torri in mattoni e pietre costruite come quelle risalenti all’età preislamica, parte del palazzo reale di Ilisharah Yahdub un sovrano sabeo del III secolo d.C. e un’intera sezione del Museo archeologico cittadino.
Anche un capolavoro dell’ingegneria idraulica costruito probabilmente nel VII secolo a.C. ovvero la grande diga[73] dell’antica città sabea di Marib è stata colpita, come anche le mura della città fortificata preislamica di Baraqish e alcuni templi ipostili, tra cui quello di Nakra[74] che era stato restaurato nel 2004 dall’archeologo Alessandro de Maigret[75], sono stati distrutti.
La stessa organizzazione dell’UNESCO ha denunciato i danni subiti dai centri storici delle città di Saada, Mukalla e Taez, dal castello di alQahira del X secolo oltre che la distruzione del museo di Dhamar.
Anche in Yemen si parla di distruzioni mirate, infatti, Mohannad al-Sayani, direttore della Yemen’s General Organization of Antiquites and Museums, sostiene che i fondamentalisti per motivi ideologici, puntano a distruggere il patrimonio culturale yemenita come l’Isis in Iraq e Siria.
III CAPITOLO – REPERTI ARCHEOLOGICI PER IL FINANZIAMENTO DELL’IS
3.1 I saccheggi e i trafugamenti
In Siria, dal marzo 2011 le missioni archeologiche che operavano nel Paese, per questioni di sicurezza, hanno interrotto i loro lavori di ricerca sul campo, lasciando così mano libera ad azioni di scavo illecito effettuate al fine di recuperare reperti che sono stati indirizzati verso il mercato nero della vendita illegale di antichità.
Infatti, secondo l’articolo di Davide Nadali[76] in forma Urbis n.7/8 di Luglio/Agosto 2017, il clima di insicurezza e instabilità politica dell’intera regione ha fatto allentare o impedire anche il controllo delle forze di polizia preposte alla tutela dei beni culturali in aree all’epoca ancora non tornate sotto il controllo del governo di Damasco. Gli stessi funzionari e archeologi della DGAM[77] non potevano svolgere i loro compiti di monitoraggio e valutazione dei danni se non a rischio della propria vita.
Secondo lo studioso sopracitato, l’ISIS con la diffusione dei video delle varie distruzioni voleva non solo propagandare mediaticamente l’annientamento della diversità culturale ma anche promuovere scavi illeciti dei siti archeologici dell’area. A prova di ciò ricorda che dopo la riconquista di Mosul da parte dell’esercito iracheno sono stati recuperati, nel museo distrutto della città, dei permessi di scavo rilasciati da un autoproclamato ministero per le antichità. In questi documenti erano indicate anche le percentuali di oggetti trafugati che dovevano essere consegnati per poter essere in seguito venduti ed investiti.
Naturalmente diversi tell ovvero le colline artificiali nate dai crolli delle costruzioni in mattoni crudi di antiche città, di cui il paesaggio della Siria e dell’Iraq è disseminato, sono state oggetto di attacchi sistematici, spesso con vere e proprie campagne di scavo organizzate da bande che operavano sul territorio proprio grazie ai già citati permessi dello Stato Islamico che dava loro l’appoggio e la protezione per agire indisturbati.
Ovviamente è inutile dire che tali scavi clandestini essendo stati effettuati massicciamente da individui incapaci di comprendere il senso più profondo dell’arte e che vedevano in questi solo un mezzo per arricchirsi e/o finanziare il nuovo Califfato, non sono stati fatti rispettando la stratigrafia e la morfologia dei siti ma con l’uso di macchinari che le hanno seriamente compromesse.
Per Paolo Brusasco[78], che cita i bollettini di ASOR[79], generalmente si tende a sottolineare la sola responsabilità dell’IS per i saccheggi in Siria invece, secondo i dati forniti dall’organizzazione già nominata, le depredazioni sarebbero state più diffuse nelle zone controllate dall’opposizione per il 27% e dai curdi dell’YPG[80] per il 28%, nell’area che era controllata dall’IS per il 21% e nell’area di pertinenza governativa per il 16%. Sebbene più diffusi nelle due prime due aree, i trafugamenti più massicci e devastanti si sono verificati sia nella zona jihadista che in quella controllata dall’esercito di Assad.
L’archeologo continua sostenendo che la mancanza di una forte autorità governativa di controllo territoriale ha favorito le aree curde e quelle controllate dall’opposizione per i saccheggi improvvisati della popolazione locale per necessità di sopravvivenza[81], mentre le aree più brutalmente depredate risultano essere quelle controllate rispettivamente dall’IS e dal regime di Assad che hanno entrambe promosso “i furti sistematici di antichità”[82]. A questo riguardo cita come esempio da una parte Ebla, Apamea e Palmira “saccheggiate sotto l’occhio compiacente delle forze del regime siriano dopo essere state trasformate in basi militari”[83] e dall’altra Mari, Dura Europos e Tell es Sinn che sono state letteralmente riempite di buche di scavi clandestini dell’IS.
Sempre lo stesso studioso racconta di come i jihadisti a Tuttul, un sito dell’età del Bronzo vicino a Raqqa, hanno “sperimentato la rimozione di intere porzioni di suolo archeologico, sino a due ettari, per procedere in seguito al saccheggio con tutta tranquillità in luoghi sicuri”[84].
Simona Maggiorelli cita nel suo libro[85] l’UNESCO il quale ha rivelato che il fatturato generato dallo smercio al mercato nero dei reperti si potrebbe aggirare intorno ai 7 miliardi di dollari.
3.2 Le rotte del contrabbando di reperti
Secondo un articolo di Roberto Bongiorni[86] è in atto da tempo una specie di contrabbando digitale molto fiorente che ha creato nuove opportunità per i trafficanti di oggetti archeologici o artistici generando anche il trafugamento su commissione.
Per il giornalista di “Il Sole 24 Ore” si comprese subito che per mantenere in piedi lo Stato Islamico sarebbe occorso un flusso costante di finanziamenti diversificati. Così fonti di queste variegate rendite furono, oltre che dovute al petrolio e alle tasse imposte alla popolazione, anche i riscatti, le rapine e il trafugamento di beni archeologici.
L’ISIS autorizzava e spingeva la popolazione a scavare per poi appropriarsi all’inizio del 20% del ricavato dalla vendita dei reperti ritrovati per poi pretendere tutto l’importo.
A questo riguardo anche Alberto Savioli, archeologo e membro del progetto Land of Niniveh dell’Università di Udine, intervistato da Sara Lucaroni dell’Espresso[87], segnala che lo Stato Islamico aveva istituito un particolare comparto per i bottini di reperti antichi situato sul confine turco a Manbij. Nel 2014 sembra che tale ufficio abbia cominciato ad organizzare gli scavi clandestini concedendo permessi e imponendo tasse del 20% sul ricavato. Successivamente sono stati assunti operai e archeologi locali mentre chi scavava senza licenza veniva punito.
I reperti trafugati passavano le frontiere di Libano e Turchia o stipati in camion che trasportavano cibo o aiuti umanitari, o nascosti tra i profughi e finivano, dopo essere passati per le mani di intermediari indipendenti o di fiducia dei miliziani (che avevano il compito di trovare compratori stranieri in cambio di una provvigione di vendita dal 10 al 25%), nei paesi dell’Est Europa (Bulgaria e Romania) oppure verso Bangkok o Singapore e nelle case di persone facoltose o gallerie d’arte dell’Europa occidentale come Inghilterra Germania, Svizzera e Stati Uniti mentre gli oggetti d’arte islamica prendevano la via dei Paesi del Golfo[88].
Lo stesso Bongiorni dà notizia che nel 2017 secondo la polizia bulgara ben 20 grandi gallerie d’arte dell’Europa occidentale commerciavano reperti contrabbandati. Comunque, prima di proporre gli oggetti trafugati alla vendita occorre far passare un lungo periodo di tempo (da 6 a 10 anni) durante il quale viene fabbricata la “storia” dell’oggetto con falsi certificati di cessioni e passaggi di proprietà[89].
Ma ben presto le cose cambiarono, infatti, per contrabbandare gli oggetti antichi non catalogati ovvero non provenienti da musei o collezioni d’arte, i trafficanti preferirono passare all’utilizzo dei social media per rendere più difficile stabilire la provenienza degli antichi manufatti.
Bongiorni parla, sempre nell’articolo citato nella relativa nota, di un esperto: Amr al Azm, professore di storia e antropologia mediorientale all’Università di Shawnee (Ohio), che, con i suoi colleghi, si dedica tramite il progetto Athar, a monitorare i trafugamenti delle opere antiche tracciando le rotte del contrabbando e seguendo i social media coinvolti.
Questo lavoro risulta, comunque, molto difficoltoso sia perché alcuni post consigliano su come individuare i siti archeologici e come scavare, sia per seguire le transazioni in quanto sarebbero coinvolti almeno 90 gruppi su Facebook. Inoltre, una volta segnalata l’offerta o la richiesta dei reperti, la trattativa viene proseguita tramite WhatsApp e questo rende più difficile tracciarne l’acquisto.
Per Sara Lucaroni dell’Espresso[90] il Califfato ha potuto occuparsi delle compravendite mediante il controllo delle quotazioni degli antichi oggetti tramite l’uso di WhatsApp, Facebook ma anche di Amazon, di eBay e del “Deep Web”, aprendo e chiudendo rapidamente chat, pagine e profili.
La stessa giornalista segnala che secondo il Wall Street Journal c’è un giro di vendita degli antichi manufatti online per un valore di oltre 10 milioni di dollari e l’80% di questi che viene messo in vendita proviene da furti o da contraffazioni.
L’archeologo Brusasco racconta anche di come WhatsApp sia sempre più utilizzata dai gruppi jihadisti e di come abbiano proposto tramite quest’applicazione la vendita di reperti trafugati a giornalisti che per realizzare servizi sul contrabbando d’antichità si sono finti acquirenti[91].
IV CAPITOLO – EFFETTO DELLE DISTRUZIONI E DEI TRAFUGAMENTI
4.1 Reazioni nel mondo arabo
La traduzione di Stefania Gliedman di un articolo originale di Emma Cunliffe e Luigi Curini pubblicato su The Conversation[92] tratta di uno studio patrocinato dalle Università di Newcastle e di Milano pubblicato dalla rivista Antiquity che ha permesso di verificare l’effetto che hanno avuto i video con cui le milizie dello stato Islamico hanno diffuso le varie devastazioni da loro perpetrate.
Immagini come quelle relative alla distruzione di Palmira sono diventate subito virali e se nel mondo occidentale hanno sollevato un’ondata di indignazione, nel mondo arabo una parte considerevole degli utenti dei social media[93], ha, invece, dimostrato il proprio assenso a tali azioni.
Per catalogare nella giusta maniera le reazioni positive, negative e neutrali e per meglio comprendere le giustificazioni date per lo schierarsi pro o contro le distruzioni, i responsabili dello studio hanno fatto utilizzo di una tecnica manuale detta “sentiment analysis” la quale permette di tener conto degli idiomi nonché delle sfumature ironiche, sarcastiche o scettiche del parlare che normalmente non sono rilevate dagli algoritmi.
Sono stati, quindi, analizzati un milione e mezzo di tweet in lingua araba trattanti l’argomento; esaminati molti reportage, immagini e video relativi a resoconti di distruzioni condivisi sui social, come anche episodi venuti alla luce solo per merito di immagini satellitari. Inoltre, sono stati inclusi dei casi specifici di demolizione a scopo di ricostruzione o “riqualificazione” per testare come anche tali situazioni avessero pesato sull’opinione che pubblico di lingua araba esprimeva nei confronti degli esecutori. Secondo tale ricerca circa un quinto[94] dei tweet erano favorevoli agli attacchi al patrimonio artistico.
Siccome la distruzione di Palmira ha avuto una risonanza mediatica molto alta nei media occidentali i ricercatori hanno voluto vedere in che modo quest’avvenimento avesse impattato sul risultato del loro lavoro, per cui hanno rivolto la propria attenzione ad un sottogruppo di dati relativi alle reazioni alla distruzione di siti archeologici, cercando quelle favorevoli. Hanno poi studiato i dati togliendo la variabile Palmira al fine di stabilire se gli utilizzatori dei social approvassero l’attacco a quel sito archeologico in particolare o ai siti di valore artistico in generale.
Per avere un quadro d’insieme bisogna dire che nel frattempo di quando si è svolto lo studio la situazione di Palmira sotto il Califfato si era così evoluta: nel maggio 2015 l’IS conquistava la moderna città di Tadmur e il vicino sito archeologico e trasformava l’antico teatro romano in una lugubre scena per esecuzioni di massa per poi proseguire radendo al suolo il tempio di Baalshamin, danneggiando il tempio di Bel e l’Arco di Trionfo, distruggendo ben 11 tombe a torre e decapitando Khalad al-Assad ex direttore del sito archeologico. I vandalismi, comunque, proseguirono ben oltre il periodo preso in considerazione dallo studio[95], infatti, subito dopo veniva preso di mira il museo e anche la seconda occupazione della città[96] ha visto effettuare altri saccheggi e devastazioni.
Tutti questi episodi hanno portato all’accalorarsi delle conversazioni in Rete. Nonostante ciò, si è potuto stabilire che la distruzione di Palmira non ha ricevuto un maggior numero di commenti favorevoli rispetto a quelli relativi ad avvenimenti analoghi avuti in altri luoghi d’interesse artistico culturale ed inoltre, non ha neanche scalfito gli apprezzamenti nei confronti del Califfato.
Sempre secondo lo studio in esame, lo Stato Islamico ha approfittato della grande risonanza mediatica su Palmira per mettere a segno un’efficace strategia al fine di assoldare altre reclute ma, nello stesso tempo, non ha dimostrato coerenza e continuità. Infatti, rivendicando solamente l’attacco ai due templi palmireni e divulgando una foto di Khalad al-Assad giustiziato ed un video sulla devastazione al museo e tacendo su altri atti vandalici, soprattutto quelli relativi alla seconda occupazione della città, che sono stati scoperti e diffusi dai giornalisti o per mezzo del monitoraggio di immagini satellitari, ha dimostrato di non saper sfruttare appieno il potenziale propagandistico che si era creato.
Infine, al di là di Palmira, su Twitter una grossa fetta di utilizzatori di lingua araba, è risultata favorevole agli attacchi all’arte. Essi vedono in questi episodi vandalici una forma di umiliazione verso le popolazioni locali. Reazioni negative più forti ci sono state, invece, relativamente agli attacchi a cimiteri e siti islamici.
4.2 Reazioni nel mondo occidentale
Per il mondo occidentale l’idea di patrimonio culturale va ben oltre la storia e investe, come sostiene Brusasco[97], la coscienza stessa dei popoli, le memorie e i legami ancestrali con i luoghi del passato, per tanto, quando le milizie del Califfato distruggono materialmente una testimonianza del passato, con quella cancellano anche tutto un sistema di valori immateriali ad essa legati. La distruzione del patrimonio non permette di tramandare nel tempo e nello spazio tali valori intrinsechi e quindi, sono le comunità locali che per prime, sicuramente, risentono della perdita ma anche il mondo occidentale che ha sempre ritenuto la Mesopotamia la culla della civiltà ne soffre e rimane sconvolto per l’enormità del gesto.
Più volte durante il corso della storia le vicende dell’Europa prima greca e romana, poi medievale e quindi moderna e contemporanea si sono intrecciate con quelle del territorio preso in esame, come anche le tre principali religioni monoteistiche abramitiche hanno preso vita e si sono sviluppate in queste zone, producendo anche degli inevitabili punti di contatto tra loro. Tutto ciò ha fatto si che la perdita della varietà e della ricchezza culturale, sia come distruzione di manufatti dell’uomo, che come sparizione di usi e costumi propri di minoranze etniche o religiose, per finire con le persecuzioni e quindi, annientamento o dispersione dei gruppi minoritari, è vista da buona parte delle persone occidentali, almeno da quelle istruite, come una vera iattura. A questo riguardo anche l’archeologo Paolo Brusasco sostiene che c’è stato un condizionamento dell’immaginario collettivo grazie all’impatto mediatico delle distruzioni delle opere antiche, di siti archeologici e monumenti[98].
Naturalmente proprio perché l’occidente è piuttosto materialista esistono anche persone non istruite o comunque, poco “illuminate” che pensando soltanto al denaro non solo rimangono indifferenti alla problematica ma addirittura sfruttano la situazione per ottenere ulteriori guadagni come per esempio gli stessi trafficanti di opere d’arte e soprattutto i compratori finali degli oggetti trafugati che vedono solo il proprio interesse.
Gli archeologi che fino al 2011 circa avevano seguito le varie missioni archeologiche in Siria ed Iraq sono stati i primi a far sentire le loro voci d’allarme in occidente, seguiti dai portavoce delle varie istituzioni, come per esempio Irina Bokova, direttrice generale dell’UNESCO, che unitamente al segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, subito dopo la distruzione del sito iracheno di Nimrud, con un comunicato, hanno affermato che “la distruzione deliberata del patrimonio culturale è un crimine di guerra” e facevano appello ai “responsabili politici e religiosi della regione a sollevarsi contro questa barbarie”[99].
Sempre l’UNESCO dopo la distruzione di Hatra ha stigmatizzato l’accaduto dicendo che costituiva: “una svolta nella spaventosa epurazione culturale del patrimonio dell’Iraq, un attacco diretto contro la storia delle antiche città arabe, a ulteriore conferma del ruolo assunto dalla distruzione del patrimonio nella propaganda dei gruppi estremisti”[100].
Ovviamente anche e soprattutto la perdita di vite umane non ha prezzo, ma è ugualmente importante poter trasmettere alle generazioni future quella memoria collettiva che ha visto partire da quest’area la civilizzazione di cui l’IS, ma anche tutti gli altri attori ad esso contrari ci stanno privando.
Al fine di tutelare il patrimonio culturale e le diversità artistiche soprattutto dopo lo scempio verificatosi in Medio Oriente, l’UNESCO ha promosso Unite4Heritage di cui fa parte una task force tutta italiana i cui componenti sono chiamati “Caschi Blu della Cultura” e che vedono nelle proprie file restauratori, archeologi e tecnici scientifici guidati dai Carabinieri del Nucleo Tutela del Patrimonio Culturale. Questa equipe di specialisti è pronta ad intervenire rapidamente per la protezione di monumenti e siti archeologici messi a rischio in caso di conflitti e situazioni di emergenza[101].
V CAPITOLO – LE LEGGI E GLI UOMINI
5.1 Convenzioni Internazionali
Sin dai tempi più antichi i conflitti armati hanno contribuito alla distruzione e alla dispersione di opere d’arte. Il diritto di saccheggio di uno stato conquistato, infatti, era sancito anche da clausole contenute negli armistizi per cui lo sconfitto doveva “risarcire” lo stato vincitore tramite la cessione di parte del proprio patrimonio storico artistico (jus predae) che il vincitore poteva incamerare oppure distruggere in segno di disprezzo verso il paese vinto. Basta pensare per esempio, senza andare tanto indietro nel tempo, alla campagna d’Italia napoleonica dove le truppe francesi, hanno fatto man bassa in quasi tutti gli Stati italiani dell’epoca di capolavori artistici. Il generale Bonaparte, infatti, aveva stabilito che le confische delle opere d’arte rientrassero tra le clausole degli armistizi e dei trattati di pace ed erano considerate come “contributi di guerra per la liberazione degli Stati italiani dai regimi assolutistici”[102]. Solo nel maggio del 1814, con Napoleone esiliato all’Elba, cominciarono le trattative diplomatiche per la restituzione del maltolto, ma la Francia resisteva. Poi ci furono i Cento giorni ed infine Waterloo e nonostante che Talleyrand invocasse la validità dei vari trattati con cui la Francia era venuta in possesso dei preziosi oggetti artistici, gli Stati che avevano subito la confisca, sostenuti con forza dai diplomatici inglesi, furono parzialmente soddisfatti.
Fu, infatti, grazie al Congresso di Vienna che “per la prima volta il diritto internazionale affermò il principio che i beni culturali di una nazione non possono, in nessun caso, essere oggetto di predazione bellica o di risarcimento”[103].
Nel 1907 la 2^ Conferenza Internazionale di Pace dell’Aja ha cercato di definire uniformemente il concetto di “saccheggio” e di imporne il divieto per il futuro agli Stati contraenti.[104] Prima di allora per la protezione del patrimonio artistico e culturale si seguivano i dettami del Regolamento allegato alla 2^ Convenzione dell’Aja del 1899 con cui si prescriveva che, durante le azioni di guerra come assedi o bombardamenti, debitamente segnalati con simboli speciali e ben visibili si dovevano risparmiare per quanto possibile, purché non fossero utilizzati militarmente, gli edifici religiosi, artistici e storici o comunque, con valore scientifico ma anche quelli destinati alla beneficenza e all’assistenza come gli ospedali.
Durante la già citata conferenza del 1907 vennero stipulate la 4^ e la 9^ Convenzione con cui sono stati imposti leggi e usi sulla guerra terrestre e sul bombardamento a terra da parte di forze navali nonché il divieto di bottino.
Tra le due guerre mondiali ci sono stati tentativi oltre che di governi, enti internazionali e anche associazioni private di predisporre testi più incisivi (come per esempio nel 1918 il progetto della Società Olandese di Archeologia[105] o quello dell’Office International des Musées del 1938[106]).
Nonostante ciò, durante la 2^ guerra mondiale è stato praticato il saccheggio delle opere d’arte, da parte dell’esercito nazista che ha praticato una sistematica spoliazione dei beni artistici dei territori da esso occupati. Violazioni stigmatizzate dalla Carta di Londra dell’8 agosto 1945 che istituiva il Tribunale Militare Internazionale di Norimberga, secondo cui, fra gli altri, venivano decretati crimini di guerra anche il saccheggio di proprietà pubbliche e private nonché le distruzioni di centri abitati non giustificate da necessità militari.
Nel 1949 l’UNESCO promosse una serie di studi e di consultazioni a livello di esperti e rappresentanti governativi da cui prese corpo la Convenzione dell’Aja del 1954 che è il primo trattato esclusivamente dedicato ai beni culturali nei conflitti armati ed è praticamente un vero e proprio “Codice dei beni culturali” entrato ormai a fare parte del diritto internazionale consuetudinario. La Convenzione si occupa della conservazione fisica dei beni culturali durante i conflitti mentre il Protocollo ad essa allegato tratta degli stessi beni una volta finita la guerra. Tale protocollo non prevede che gli oggetti artistici esportati dal territorio occupato siano trattenuti dal vincitore a titolo di riparazione ma ne riafferma l’obbligo di restituzione. Inoltre è previsto l’obbligo di indennizzo per eventuali possessori inconsapevoli di beni da restituire.
Per quanto riguarda il campo d’attuazione, questo non tiene conto di fatti accaduti precedentemente all’entrata in vigore del trattato stesso (7 agosto 1956) che risulta applicabile “ai conflitti armati internazionali che sorgano tra due o più Parti Contraenti, anche se lo stato di guerra non sia riconosciuto da una o più di esse. Nel caso di conflitto armato non intenzionale, sorto nel territorio di una delle parti, ognuna delle parti in conflitto sarà tenuta ad applicare almeno quelle disposizioni della Convenzione che si riferiscono al rispetto dei beni culturali…. sono prese in considerazione solo le situazioni in cui vengono utilizzate le armi convenzionali classiche. Come per le altre Convenzioni del diritto umanitario, la questione delle armi di distruzione di massa e di quelle nucleari viene lasciata da parte”[107]. Prima di tutto è stata rideterminata la definizione di bene culturale che comprende i mobili ed immobili di grande importanza per il patrimonio culturale dei popoli, riportando anche un elenco esemplificativo di monumenti, siti archeologici ed opere d’arte, come pure quegli edifici la cui effettiva e principale destinazione è di conservare ed esporre i beni culturali nonché i centri monumentali ovvero centri comprensivi di un gran numero di beni culturali. Detti beni sono considerati culturali a prescindere dal valore dell’oggetto in sé o dall’importanza del bene stesso. I Paesi contraenti si impegnano al rispetto dei beni culturali sia che questi si trovino sul proprio territorio o su quello degli altri Stati contraenti, astenendosi dall’utilizzarli per scopi che potrebbero danneggiarli o distruggerli fatta salva la necessita di salvare la vita ai soldati impegnati in un’azione militare in uno di quei beni. I contraenti si impegnano ad introdurre “fin dal tempo di pace, nei regolamenti o istruzioni ad uso delle truppe, disposizioni atte ad assicurare l’osservanza della presente Convenzione e ad inculcare, fin dal tempo di pace, nel personale delle proprie Forze Armate, uno spirito di rispetto verso la cultura ed i beni culturali di tutti i popoli”[108]. Infine il trattato prevede anche una protezione da accordare ad un numero limitato di rifugi destinati alla protezione di beni culturali mobili, ai centri monumentali e a beni immobili di massima importanza. La protezione generale accordata ai beni culturali è simboleggiata da un segno raffigurante uno scudo con la punta verso il basso inquadrato in una croce di sant’Andrea in blu e bianco mentre per la protezione speciale è prevista la ripetizione per ben tre volte in formazione triangolare.
Il trattato finora citato è stato rivisto in seguito alla Conferenza generale dell’UNESCO del 1991 volta a migliorare la protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale e alla fine del 1997 quando vengono fissati i principali punti di revisione che porteranno alla Convenzione dell’Aja del 1999 con la quale è stato adottato un nuovo Protocollo, che trattando materie già regolamentate, era ritenuto, comunque, come un aggiornamento di quello del 1954. L’ambito di applicazione previsto da questo secondo Protocollo si estende anche ai conflitti armati non internazionali, si ribadisce l’obbligo degli Stati contraenti ad “assumere fin dal tempo di pace, tutte le misure precauzionali necessarie alla protezione dei beni culturali dagli effetti – danneggiamento, distruzione, etc. che si prevede un conflitto possa arrecare agli stessi”[109]. Nell’ambito della protezione dei beni culturali nei territori occupati è proibito alle truppe occupanti sia di effettuare scavi archeologici che di permetterlo a terzi anche se in collaborazione con le autorità nazionali del Paese occupato. È altresì ribadito “il divieto di esportare o di permettere l’esportazione illecita, la rimozione o il trasferimento della proprietà di beni culturali, storici e scientifici, così come la loro distruzione”[110].
Esiste anche la Convenzione UNESCO stipulata a Parigi nel 1970 concernente le misure da adottare per interdire e impedire l’illecita importazione, esportazione e trasferimento di proprietà dei beni culturali ratificata da 132 Stati. Essa prende in considerazione come beni culturali i beni che “a titolo religioso o profano, sono designati da ciascuno Stato come importanti per l’archeologia, la preistoria, la storia, la letteratura, l’arte o la scienza”[111]. Agli Stati ratificanti è richiesto di adottare nel proprio territorio misure di protezione predisponendo o aggiornando la legislazione nazionale, gli specifici database, gli inventari, la polizia specializzata. Il personale presso le dogane e i codici di condotta per i commercianti”[112]. Gli Stati aderenti devono, inoltre, promuovere lo sviluppo e la creazione di istituzioni culturali e delle loro collezioni e devono, comunque, avviare delle campagne educative e di sensibilizzazione nonché controllare il movimento dei beni culturali predisponendo certificati per l’esportazione e utilizzando il divieto di importazione di beni trafugati da musei o istituzioni applicando sanzioni penali e creando in caso di disastri naturali o situazioni di saccheggi dei registri da cui si evinca l’origine di ciascun bene. Detti Stati si impegnano a restituire, a determinate condizioni, i beni rubati illecitamente esportati e di promuovere la cooperazione internazionale in merito.
La Convenzione UNIDROIT[113] sui beni culturali rubati o illecitamente esportati approvata a Roma il 24 giugno 1995 è complementare, nell’ambito del diritto privato della Convenzione UNESCO. Essa ha introdotto l’obbligo della restituzione sia nell’ambito del furto che in quello dell’esportazione illegale di beni culturali rinvenuti nel territorio di uno Stato aderente. Riguardo al primo caso il possessore di un bene culturale rubato e ritrovato in uno stato contraente deve restituirlo, mentre per ottenerne la restituzione il proprietario illegittimamente privato del possesso, pubblico o privato che sia, deve dimostrarne il furto. Nel secondo caso il bene culturale, che dopo il furto è stato trasferito all’estero, deve essere restituito dal possessore come previsto dalla Convenzione dietro la corresponsione di un equo indennizzo qualora il detentore dimostri la propria buona fede per il fatto che non sapeva e che non avrebbe potuto ragionevolmente sapere dell’esportazione illecita dell’oggetto al momento dell’acquisto. Per quanto riguarda la situazione in cui si trovano i reperti archeologici provenienti da scavi clandestini o da scavi regolari ma poi sottratti illecitamente questa è equiparata al furto. Se, invece, il proprietario legittimo di un bene culturale lo trasferisce in un altro Stato violando le leggi sull’esportazione, l’oggetto stesso può essere sempre recuperato qualora lo stato d’origine riesca a dimostrarne sia l’importanza culturale, sia il danno causato verso gli interessi culturali del Paese in questione dall’illecito trasferimento[114].
Infine il 12 marzo 2019 anche il Parlamento Europeo ha approvato un regolamento con cui ha normato l’importazione di beni culturali in Europa. Con la responsabilizzazione degli importatori e dei compratori che dovranno dimostrare la trasparenza delle proprie azioni, la direttiva in questione ha permesso la tutela nei Paesi Europei dei beni culturali di Paesi terzi e il contrasto del traffico illecito di opere d’arte e quindi, nel caso dei reperti originari delle zone irachene e siriane, di porre un freno al conseguente finanziamento del terrorismo. Secondo la relatrice del regolamento, l’eurodeputata Alessia Mosca, “Il regolamento imporrà controlli e trasparenza sulle importazioni di beni culturali per agevolarne la restituzione ai popoli a cui sono state sottratte, e impedire che questi traffici sostengano riciclaggio, evasione fiscale e attività terroristiche”[115].
5.2 Due diverse sentenze
La Corte Penale Internazionale dell’Aja ovvero il tribunale penale più importante del mondo, che per proprio statuto si può occupare di crimini di guerra, di genocidi e crimini contro l’umanità o può attivarsi su casi segnalati dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e che può intervenire solo relativamente ai paesi partecipanti e su fatti avvenuti dopo la sua fondazione avvenuta nel 2002[116], il 27 settembre 2016 ha emanato una sentenza importantissima nella giurisprudenza internazionale con cui rafforza anche le prese di posizione dell’UNESCO. Ha condannato a nove anni di carcere Ahmad al-Faqi al-Mahdi, miliziano del gruppo qaedista di Ansar Dine, reo confesso di aver attaccato in Mali e più precisamente a Timbuctù nel 2012 ben nove mausolei sufi come apri strada all’attacco all’antica biblioteca della città, famosa per custodire una collezione di antichi manoscritti (XIII-XVII sec.). Sebbene questa sentenza abbia ravvisato per la prima volta un crimine di guerra nella distruzione dei beni culturali, come sostiene Brusasco, la stessa non potrà venire applicata relativamente alle vicende siriane ed irachene perché i due Paesi interessati non rientrerebbero sotto la giurisdizione di tale tribunale in quanto non sono fra gli Stati aderenti allo statuto[117].
Sempre lo stesso studioso segnala che la corte criminale centrale di Baghdad il 13 novembre 2017 ha sentenziato la condanna a morte di un jihadista dell’IS che ha “partecipato attivamente a diversi atti criminali terroristici inclusa la distruzione intenzionale e il trafugamento di pregiati reperti del Museo di Mosul”[118] ovviamente l’archeologo conclude con il dire che: “La condanna a morte per un crimine contro il patrimonio culturale è una misura senza precedenti nella storia del diritto internazionale, dettata da leggi speciali sull’antiterrorismo che sono frutto della situazione drammatica interna al paese”. Sempre Brusasco fa, quindi, notare che tale giudizio sembrerebbe significativo dal punto di vista propagandistico da parte del governo iracheno che va ad applicare: “la pena capitale in aperto contrasto con la ‘moratoria universale della pena di morte’ ratificata dall’assemblea generale delle Nazioni Unite il 18 dicembre 2007”[119].
5.3 I Monument Men di Iraq e Siria
Sono noti come Monument Men i valorosi inviati dalle forze alleate durante la seconda guerra mondiale con il compito di recuperare i capolavori d’arte razziati dai nazisti.
Come questi loro predecessori, nobili figure di difensori della cultura ci sono state sia in Iraq che in Siria.
Tra loro si ricordano per l’Iraq: l’avvocato difensore dei diritti umani Samira Saleh al-Naimi giustiziata dall’IS in una piazza di Mosul il 22 settembre 2014 per aver pubblicamente definito come barbariche le distruzioni perpetrate nella sua città; l’archeologa Shaima Mowaffaq Daoud che si occupava della biblioteca del museo di Mosul, cacciata dal museo dai jihadisti, morta con tutta la sua famiglia il 12 aprile 2017 quando un razzo dei miliziani ha colpito la sua casa; Saba Omeri conservatrice del museo, divisa tra la preoccupazione di proteggere il patrimonio culturale e quella di soccorrere le vite umane; i già citati sacerdoti cattolici Yousif Sakar e Najeeb Michaeel che sono riusciti a mettere in salvo migliaia di manoscritti della Chiesa siriaca[120].
Per la Siria: tutti i funzionari del Direzione Generale delle Antichità e dei Musei, quindici dei quali, come ricorda Simona Maggiorelli, hanno perso la vita sul lavoro[121]. Tra loro una particolare menzione spetta all’archeologo Khaled al-Assad[122], che come fa rilevare un articolo del National Geographic[123], era uno dei più importanti studiosi di antichità siriani ed ex direttore del sito archeologico di Palmira. Aveva pubblicato numerosi studi sulle maggiori riviste specializzate ed effettuato scavi in collaborazioni con archeologi di tutto il mondo. Egli, nato nel 1932 nella stessa città di Palmira, laureatosi in Storia all’Università di Damasco, dagli anni 60 del 1900 ha effettuato scavi archeologici e interventi di restauro nel sito di Palmira di cui è stato direttore del museo, che lui stesso aveva contribuito a creare ed organizzare, fino al 2013. Durante la sua vita ha collaborato con importanti missioni internazionali (francesi, statunitensi e tedesche). Anche dopo il suo pensionamento ha continuato a lavorare per il Dipartimento dei Musei e delle Antichità della Siria. Era, non a torto, ritenuto tra i massimi esperti del sito che ha contribuito a valorizzare come anche tutto il patrimonio culturale della zona che ha difeso fino all’ultimo. Infatti, dal maggio 2015, dopo la conquista della città da parte dell’IS, si è impegnato strenuamente per mettere in salvo molti reperti archeologici, rifiutandosi, dopo l’arresto avvenuto nel mese di luglio, di rivelare ai miliziani dove erano nascosti. A causa di ciò l’anziano archeologo, aveva 82 anni, è stato giustiziato dai jihadisti.
Al Assad stesso, in un’intervista di Federico Fazzuoli ed Elisa Greco, il cui estratto è citato nel libro della Maggiorelli[124], racconta di quando Zenobia fu sconfitta dai Romani e l’imperatore Aureliano le propose di patteggiare la resa e lei rispose che preferiva la morte all’umiliazione e aggiunge, forse prevedendo quanto sarebbe accaduto, “Anche oggi noi di Palmira siamo della stessa idea: preferiamo la morte alla resa”. Al Assad ha tenuto fede a quanto ha dichiarato ai giornalisti italiani, infatti, egli, che come ricorda il suo collega Paolo Matthiae[125] credeva nella cultura come mezzo di dialogo e di apertura[126], dopo essere stato torturato per oltre un mese per non avere, come già accennato, rivelato il nascondiglio di alcuni antichi reperti, il 18 agosto 2015 è stato decapitato e barbaramente esposto in una piazza di Palmira. Sul suo cadavere era posizionato un cartello su cui era spiegato che era stato ucciso per essersi occupato degli “idoli” di Palmira, per aver partecipato a convegni internazionali assieme agli infedeli, per essere rimasto in contatto con i rappresentanti del governo siriano anche dopo la conquista jihadista.
Il sacrificio di questo grande uomo ha permesso che gran parte delle opere da lui nascoste si trovino oggi messe in salvo nel museo di Damasco[127].
Infine, si ricorda l’archeologo Ayman Nabu, che nel marzo 2015 ha sfidato il sindaco Jihadista di Idlib dicendogli che se fosse accaduto qualcosa al museo avrebbero dovuto uccidere lui in persona. Purtroppo, il museo che si era così salvato, per ironia della sorte è stato poi distrutto dai bombardamenti siriani e russi.
5.4 L’Italia in prima linea per la difesa della cultura
Il nostro Paese si è distinto per aver proposto nell’ambito dell’iniziativa “Unite4Heritage” voluta dal Direttore Generale dell’UNESCO Irina Bokova l’istituzione dei cosiddetti “Caschi Blu della Cultura”.
L’iter della creazione di questi “soldati di pace per la cultura” è cominciato il 16 ottobre 2015 con l’approvazione del Consiglio Esecutivo UNESCO della risoluzione presentata dall’Italia. Il 17 ottobre è stata istituita la task force Carabinieri “Unite4Heritge” ed infine, il 16 febbraio dell’anno successivo “il Governo Italiano ha firmato un memorandum d’intesa con l’UNESCO che prevede l’impiego della propria Task Force per le missioni internazionali di protezione del patrimonio culturale nel contesto della coalizione globale “Unite4Heritage”[128].
Si tratta di un’equipe di pronto intervento da utilizzare nelle aree colpite da emergenze naturali o prodotte dall’uomo, per la salvaguardia dei siti archeologici, dei luoghi della cultura ed dei beni culturali, al fine di contrastare il traffico internazionale illecito di beni culturali trafugati e per la predisposizione di misure atte a limitare i rischi derivanti da situazioni di pericolo verso il patrimonio culturale dei Paesi esteri che lo richiedono.
Il team italiano è composto oltre che dai Carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale[129] che ovviamente sono specializzati nella lotta al traffico illecito di beni culturali, anche da esperti civili quali architetti, archeologi, storici dell’arte, restauratori, museologi, geologi sismologi, esperti di archivi e biblioteche (dipendenti del MiBACT[130], del MIUR[131], del MAECI[132]) ed è stato costituito secondo le direttive del Ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo e del Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri.
I Carabinieri hanno frequentato l’addestramento previsto per l’impego nei teatri operativi presso il Centro Addestramento della 2^ Brigata Mobile Carabinieri di S. Pietro a Grado di Pisa mentre il personale “civile” ha frequentato un corso sulla sicurezza personale (Corso HEAT Hostile Environment Awareness Training) organizzato dalla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e dal 1° Reggimento Carabinieri Paracadutisti “Tuscania”. Infine, tutto il personale ha frequentato il corso di qualificazione “Unite4Heritage” organizzato oltre che dal Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale e dal MIBACT anche dal centro dell’Arma dei Carabinieri COESPU[133] che si occupa della formazione delle forze di pace.
La Task Force dei Caschi Blu della Cultura a guida dell’Arma dei Carabinieri nell’ambito della missione internazionale Operazione Inherent Resolve – Prima Parthica ha svolto nel solo 2018 ben 15 corsi di aggiornamento con il fine di contribuire a consolidare il processo di stabilizzazione e normalizzazione del paese[134]. Sono corsi addestrativi in cui sono state formate oltre 400 unità delle Forze di Polizia e di sicurezza locali e di uffici e dipartimenti civili che si occupano della specifica materia. Tra questi sono stati svolti 7 corsi di protezione del patrimonio culturale tenuti ad Erbil nel Kurdistan iracheno presso vari dipartimenti del Ministero dell’Interno iracheno, della polizia regionale e di altre istituzioni pubbliche come la Salahaddin University o l’Istituto iracheno per la Conservazione delle Antichità e del Patrimonio Culturale[135]. Le lezioni per l’addestramento in “Cultural Heritage Protection” erano incentrate sulle tecniche per tutelare il patrimonio culturale in situazioni emergenziali sia naturali che prodotte dall’uomo, per contrastare il traffico illecito nonché le procedure da adottare nelle fasi prima e dopo conflitto[136].
Un’altra iniziativa italiana, questa volta relativa alla tutela del patrimonio archeologico della Libia, è stata avviata il 1° aprile 2019 a Tripoli dove è stato costituito un gruppo di lavoro italo-libico. A questo riguardo si segnala che la MART-Libia[137], già presente da ben 27 anni nel paese, attualmente con i suoi 4 operatori in loco è impegnata sia per il recupero e per la tutela di Villa Silin che per la cooperazione con il Dipartimento delle Antichità libico riguardo l’attuazione dei progetti sul “Castello Rosso” e sui “Musei della Tripolitania”, grazie anche al contributo del MAE[138], dell’ENI e della Fondazione Mediterraneo Antico[139].
5.5 Restauri e ricostruzioni – Cenni
Ma che cosa si sta facendo per il restauro, ove possibile, e per la ricostruzione dei monumenti dei siti archeologici compromessi e dei centri storici delle città?
Riguardo ai Buddha di Bamiyan tra le varie notizie si segnala che i ricercatori della Technische Universitaet di Monaco avrebbero l’intenzione di ricostruire il Buddha più piccolo con i frammenti dell’esplosione grazie ad un composto organico di silicio iniettato nelle pietre. I frammenti delle due statue sono stati analizzati e ciò ha portato ad affermare che le due opere d’arte in origine erano colorate. Secondo i ricercatori tedeschi: “Nei secoli i colori venivano ravvivati ogni volta che la tinta sbiadiva. Quando l’intera regione si convertì all’Islam le statue furono lasciate scolorire”[140]. Si è, inoltre, potuto stabilire che la tecnica utilizzata per la costruzione delle sagome era l’incisione diretta nella roccia, mentre le vesti venivano plasmate altrove e aggiunte in un secondo momento. Nell’impasto d’argilla che componeva gli abiti, il team tedesco ha trovato tracce di paglia (inserita per assorbire umidità), peli animali (per la compattezza dello stucco) e quarzo ed altri minerali (per la prevenzione delle deformazioni). Comunque, proprio in merito alla ricostruzione, è in atto da sempre un dibattito piuttosto serrato tra i fautori e i contrari. Chi si oppone sostiene che non si tratterebbe di restauro o conservazione bensì di una vera e propria ricostruzione. Alcuni poi pensano che sarebbe meglio conservare i pezzi danneggiati delle statue quale testimonianza delle violenze talebane[141]. Infine, sembra che i costi per la ristrutturazione siano molto alti e il progetto presenti notevoli difficoltà per cui è stata presa in considerazione anche una particolare alternativa ovvero la proiezione delle immagini dei due colossi nelle loro nicchie con un sistema laser e luci in 3D grazie ad un dispositivo costruito da due ingegneri cinesi[142].
Relativamente all’Iraq l’articolo del 28 giugno u.s.: “Iraq. Mosul/Ninive: il fallimento della ricostruzione” pubblicato a cura di Paolo Brusasco nel sito di Archeologia Viva (Yemen, Siria, Iraq. Aggiornamenti sul patrimonio culturale in guerra)[143] risulta un po’ critico. I principali problemi per la ricostruzione di Mosul, secondo quanto scritto, sono la sicurezza, la speculazione edilizia e la mancanza di interventi governativi e non. Infatti: “il controllo dell’area di Mosul è in mano alle sole Forze di Mobilitazione Popolare composte dalle varie milizie sciite che hanno vinto l’ISIS nel luglio 2017 e che agiscono per conto delle forze iraniane…. la bellissima città vecchia medievale e ottomana di Mosul è in condizione di devastazione e purtroppo anche vittima di speculazione edilizia incontrollata”[144]. Sembra, infatti, che i cittadini di Mosul svendano le proprie case a speculatori che vogliono costruire dei centri commerciali. Sempre secondo il già citato articolo pare che ogni settimana vengano vendute 30 abitazioni storiche del centro mentre gli abitanti si mettono al sicuro nel Kurdistan iracheno. Inoltre il governo iracheno, come anche le autorità locali, mostrano di non avere interesse per la ricostruzione delle case distrutte e anche il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP) non ha incentivato il ritorno della popolazione in città non occupandosi della ricostruzione delle infrastrutture. Per quanto riguarda le ricostruzioni dei monumenti, sempre sullo stesso sito di Archeologia Viva, è stato pubblicato un altro articolo dal titolo “Iraq. La ricostruzione che non parte” con cui Brusasco testimonia che fino ad aprile u.s. nella piana di Ninive e di Mosul non si sono visti ancora segnali di ripresa. Secondo l’insigne archeologo bisognerebbe prima effettuare un censimento dei danni e una schedatura dei pezzi (che devono anche essere messi al sicuro in attesa del restauro) per poi passare alla fase operativa di ricostruzione dei beni culturali e delle infrastrutture civili distrutte.
Lo stesso sito, invece, da buone notizie riguardo alla Siria dove a Bosra “Di concerto con la comunità locale, i responsabili del Dipartimento hanno pianificato un accurato programma di valutazione sul terreno dei danni causati dalla guerra civile: i bombardamenti sulla cittadella e il centro storico romano occorsi durante gli scontri tra i gruppi ribelli e le forze governative. Si è iniziato da una mappatura dei monumenti colpiti e da una ricognizione delle aree soggette agli scavi clandestini”[145]. Successivamente i limiti dell’area archeologica cittadina verranno ridefiniti in modo da prevedere anche delle zone “cuscinetto” per proteggere le antiche vestigia da un potenziale sviluppo urbano incontrollato e anche per soddisfare le esigenze della comunità locale che durante la guerra civile ha cercato di tutelare il patrimonio archeologico facendo opera di mediazione tra i belligeranti.
Riguardo a Palmira, fermo restando che non ci sono in internet notizie sulla riapertura del sito ventilata dai responsabili del Dipartimento Generale delle Antichità per questa estate, si può dire che grazie allo sminamento della zona ad opera degli specialisti russi è di nuovo possibile lavorare con relativa sicurezza all’interno dell’area archeologica, e quindi, si stanno pianificando le operazioni di restauro del sito ed il ripristino in loco dei manufatti nascosti durante il conflitto[146]. Il Museo Nazionale di Damasco ha completato nello scorso ottobre il restauro del leone di Allat e anche due stele funerarie provenienti dal museo di Palmira (le stesse salvate da Khaled al-Assad) sono state sottoposte ad “un intervento conservativo ad elevata tecnologia”[147]. Quest’ultimo restauro è avvenuto a Roma presso il laboratorio di restauro dei materiali lapidei di San Michele a Ripa dove sono state utilizzate le tecniche più avanzate con la ricostruzione virtuale e successivamente con la stampa in 3D si sono riprodotte le parti mancanti per sintetizzazioni di polveri. Sempre all’eccellenza degli specialisti italiani si deve il restauro del soffitto del tempio di Bel.
CONCLUSIONI
Alla luce di quanto esposto in questa trattazione si possono trarre le seguenti conclusioni: i mussulmani sunniti, principalmente i seguaci del cosiddetto Califfato, vogliono affermare la propria supremazia, in primis tramite la lotta contro gli sciiti e poi per mezzo della contrapposizione ai valori dell’occidente, valori che avrebbero alterato quelli islamici delle origini.
Il credo wahhabita spinge i miliziani dell’ISIS alla devastazione di antichi siti archeologici e alla distruzione di immagini fino a giungere alla demolizione di moschee o mausolei mussulmani in onore di qualche imam venerabile per la sua vita e i suoi insegnamenti. Ma questo non è supportato dal Corano se non da un’interpretazione strettamente restrittiva dovuta alla dottrina hanbalita e all’attribuzione di significati limitativi e condizionanti degli hadith derivanti dalla tradizione sunnita più stretta.
Si ribadisce che i testi sacri mussulmani esprimono più che altro preoccupazione in merito al fatto che le immagini possano diventare oggetto di idolatria, come in linea di massima pensano anche i credenti cristiani, anche se per essi è permessa la raffigurazione basandosi sia sulla duplice natura umana e divina di Cristo e sia sul fatto che in occidente, anche nei tempi antichi, c’era una certa tradizione di ritrarre dei, uomini e animali, mentre gli Ebrei, al contrario, hanno un vero e proprio divieto di rappresentare figure.
La diffusione del credo wahhabita, che gli uomini dell’IS propugnano, serve non tanto a spingere la popolazione verso un ritorno alle origini riguardo alle loro credenze, ad un risveglio verso gli ideali di purificazione dell’Islam, quanto a spianare la strada verso lo sfruttamento dell’iconoclastia per sottomettere psicologicamente e culturalmente le popolazioni “altre” ovvero le minoranze etniche e religiose o nel caso degli sciiti, da essi considerate eretiche.
Tali popolazioni minoritarie, dopo aver visto annientati luoghi di preghiera o siti monumentali, che erano abituate a vivere nella quotidianità di tutti i giorni, hanno subito una destabilizzazione e una crisi identitaria oltre che spirituale, e, non da ultimo, hanno dovuto subire vere e proprie violenze e persecuzioni.
Ma è anche vero che la maggior parte dei mussulmani generalmente non vede di cattivo occhio le immagini, i monumenti antichi o le moschee sciite. Questo è dovuto probabilmente dall’abitudine, dal fatto che già da tempo ci convivevano, infatti, come dichiarato da Paolo Brusasco, hanno convissuto per secoli accanto ai Buddha di Bamiyan, accanto ai monasteri medievali cristiani o ai mausolei sciiti e sufi o nei pressi di siti archeologici. Hanno visitato musei in cui c’erano in mostra statue, affreschi o mosaici antichi e non li hanno distrutti, forse in ossequio alla storia o, mi piace pensare, per riguardo al fatto che essi stessi discendono da popolazioni semitiche come quelle che hanno creato quei manufatti.
Oggi giorno poi, siamo e sono, essi stessi, circondati dalle immagini, immersi nelle raffigurazioni di ogni tipo, tanto e vero che riguardo ai video delle distruzioni, i jihadisti se ne sono serviti per propagandare al mondo ciò che stavano perpetrando ovvero la distruzione di altre immagini che, comunque, proprio perché riprese prima e dopo il loro abbattimento possono essere riprodotte più e più volte sia dagli occidentali per studiare com’erano quegli oggetti, sia dagli arabi, magari per approvare la condotta dei distruttori. Ma così facendo essi, per il solo fatto di vederli, non peccano secondo la dottrina di al Wahhab?
Il fatto poi che non tutti i reperti archeologici siano finiti “al rogo” ma utilizzati per illecite compravendite al fine di ottenere autofinanziamenti per lo Stato Islamico o per attentati terroristici, fa pensare ai pochi scrupoli anche religiosi di questi militanti “puristi” che hanno sfruttato economicamente i reperti antichi pur considerandoli empi. Sicuramente, secondo la loro logica, come diceva Vespasiano, “pecunia non olet”.
Si è poi evidenziato il fatto che alcuni fruitori arabi dei social pare che approvassero le varie distruzioni. Questo può essere spiegato dal fatto che tra le persone arabe più adulte, soprattutto se emigrate in occidente, prevale una specie di bisogno di “rivincita”. Questo disagio è dovuto principalmente al fatto che alcune frange di loro non si sentono particolarmente integrate nella collettività che le ospita, anzi sono piuttosto frustrate rispetto alla multiculturalità che alcune società occidentali presentano.
Ma bisogna dire che sono principalmente i giovani che utilizzano questo tipo di media e proprio perché giovani, risultano più vulnerabili e facilmente influenzabili dalla propaganda jihadista, fatta al fine di conseguire un cambiamento politico, sociale o religioso tramite il terrorismo. Anche molti di questi ragazzi di origine araba, specie se vivono in Occidente, si sentono divisi tra due mondi e allo stesso tempo non facenti parte di nessuno e questa loro difficoltà li rende, appunto, più esposti ad essere condizionati dalle idee jihadiste. Sia al Qaeda che IS cercano di reclutare tra di loro nuovi adepti soprattutto nell’area MENA[148] e nei Paesi occidentali o per combattere nei conflitti che vedono queste organizzazioni impegnate in Medio Oriente, Africa o Asia o per porre in essere attacchi anche isolati negli stati in cui i nuovi aderenti risiedono. I fondamentalisti promettono ai loro seguaci, se materialisti, denaro, potere, armi e donne, mentre se più spirituali, l’applicazione della Legge islamica e per propagandare questo utilizzano video, messaggi e riviste anche on line.
Riguardo alle distruzioni di cimiteri e siti islamici si capisce perché tra le comunità mussulmane le reazioni negative più forti sono state rilevate solo per questi avvenimenti.
A dimostrazione che buona parte degli Arabi sono più tolleranti riguardo almeno ai luoghi di culto sorti sulle tombe e similari, si ricordano le proteste effettuate sia da sciiti che da sunniti riguardo al raid effettuato nel 2006 dai wahhabiti alla Mecca e all’obliterazione della moschea di Medina “l’Illuminata” il santuario panislamico sorto sulla casa di Maometto[149].
I social networks giocano un ruolo determinante anche nel contrabbando di reperti, infatti, come si è potuto notare nel capitolo dedicato a questo argomento, vengono ampiamente sfruttati sia dai venditori che dai compratori, fungendo da piattaforma digitale. Essi permettono, grazie alla loro facilità di utilizzo, di rendere difficoltosa la ricerca delle tracce delle transazioni illegali, e anche di pianificare trafugamenti e trasporti su commissione. Facilitano anche l’ideazione di nuove forme di business come la creazione di un fiorente mercato di falsi reperti soprattutto relativi all’arte religiosa ebraica antica. Di fatto, dal 2015 si è incrementato un giro di manufatti falsi provenienti da quelle zone gestito da una rete che coinvolge laboratori, broker e gente comune anche con la consulenza di esperti; si pensi che si sono ritrovati degli oggetti assemblati con alcune parti antiche per farli sembrare autentici.
Per quanto riguarda le convenzioni poste in essere dalle varie organizzazioni internazionali per contrastare sia la distruzione dei siti archeologici e religiosi che il trafugamento e la compravendita illecita di reperti antichi, bisogna rilevare che queste, anche se redatte nel miglior modo possibile e fatte proprie da tanti Stati che le stanno mettendo in pratica, possono fare ben poco. Questo perché quello che si è definito come “attacco alla cultura” è un conflitto asimmetrico, infatti, a parte le risorse belliche, le strategie e i mezzi, è proprio lo status dei belligeranti che è diverso. Da una parte ci sono Stati riconosciuti dalla comunità internazionale, dall’altra attori non statuali che non riconoscono alcun trattato internazionale e pertanto non lo rispettano.
Tra l’altro bisogna anche specificare che non tutti gli Stati riconosciuti hanno aderito ai vari accordi e anche che tanti che li hanno approvati non hanno ancora uniformato le proprie leggi interne alle disposizioni imposte almeno dalle ultime convenzioni, ed inoltre, bisogna sempre sperare che anche gli Stati che sono in regola le rispettino.
Per quanto riguarda le due sentenze stabilite rispettivamente dalla Corte Penale Internazionale dell’Aja contro uno dei miliziani di Ansar Dine attentatore dei nove mausolei sufi di Timbuctù, e dalla Corte Criminale Centrale di Baghdad contro un jihadista dell’IS colpevole di aver distrutto e trafugato reperti antichi del museo di Mosul, pur essendo entrambe importanti sono profondamente diverse per quello che comportano.
La prima condanna, a nove anni di carcere, è stata emessa da un tribunale internazionale che ha agito applicando normative internazionali, rafforzando così le prese di posizione dell’UNESCO e costituendo un precedente riguardo la giurisprudenza internazionale; la seconda è stata sentenziata da un tribunale statale e comporta una condanna a morte. Anche se quest’ultimo giudizio è stato emesso in applicazione di leggi speciali antiterroristiche in virtù della situazione interna dell’Iraq e pur costituendo un precedente in loco, risulta in netto contrasto con la moratoria universale della pena di morte.
Riguardo alla creazione della Task Force dei cosiddetti “Caschi Blu della Cultura” per le missioni internazionali di protezione del patrimonio culturale nell’ambito della coalizione “Unite4Heritage” l’Italia ha dimostrato di essere in prima linea per la difesa dei beni culturali non solo della nostra Nazione, confermando una particolare sensibilità in merito.
D’altronde la nostra è stata la prima Nazione al mondo a dotarsi di un organismo di polizia altamente specializzato in merito alla difesa dei Beni culturali: il Nucleo Tutela del Patrimonio Artistico dell’Arma dei Carabinieri creato il 3 maggio 1969 presso il Ministero della Pubblica Istruzione. Attualmente la sua denominazione è cambiata in Comando Tutela Patrimonio Culturale ed è tra gli Uffici di diretta collaborazione del Ministro per i Beni e le Attività Culturali e si occupa a livello internazionale di impedire l’acquisizione di beni illecitamente esportati e di favorire il recupero di quelli trafugati. Collabora con tutte le Forze di Polizia italiane ed estere tramite l’INTERPOL, alimenta una banca dati specializzata e collabora con le varie Soprintendenze[150].
Nell’ambito, quindi, di questo particolare Comando, i Carabinieri, con l’ausilio di esperti civili che fanno sempre parte della task force, sempre relativamente alla missione internazionale Operazione Inherent Resolve – Prima Parthica, hanno svolto in Iraq ad Erbil e a Baghdad diversi corsi per l’addestramento della Polizia locale per tutelare l’importante patrimonio culturale iracheno e per favorire l’istituzione di una banca dati dei beni culturali illecitamente sottratti, su modello di quella gestita dallo stesso TPC.
In poche parole hanno messo a disposizione il loro modello operativo più che collaudato per affrontare i trafugamenti illeciti di beni culturali e per pretenderne la restituzione, con la dovuta diplomazia, secondo quanto previsto dalle convenzioni internazionali.
Infine, non si può che ribadire l’importanza della cultura quale bene materiale e immateriale da preservare e lasciare in eredità alle generazioni future. Come sostiene Brusasco è dovere anche degli archeologi orientalisti, tanto più che questi hanno la possibilità di interagire con le comunità locali di Siria ed Iraq, tentare di “definire le linee guida che dovranno orientare i governi siriani ed iracheni nella riqualificazione del patrimonio delle loro nazioni”[151] favorendo così, oltre che il restauro e la ricostruzione, anche la pace e la riconciliazione tra i popoli di quelle antichissime, bellissime e martoriatissime terre.
FOTO (disponibili nella versione pdf scaricabile)
A corredo di questo lavoro che mi ha particolarmente appassionato, desidero allegare delle foto che io stessa ho scattato nei viaggi studio effettuati con il Gruppo Archeologico Romano in Siria nel 1996 e nel 2008.
Sono immagini di siti archeologici e di monumenti bellissimi, ancora non sfregiati dalla furia wahhabita o dagli attacchi bellici governativi, ma provati solo dall’inesorabile passare del tempo.
Palmira – Tempio di Bel
Palmira – Tempio di Bel
Palmira – Themenos del Tempio di Bel
Palmira – Teatro
Palmira – Tetrapilo
Palmira – Agorà
Palmira – Tomba a torre e Castello sullo sfondo
Palmira – Tombe a torre
Palmira – Museo – Leone di Allat
Palmira – Museo
Palmira – Museo
Palmira – Museo
Apamea – Via Colonnata
Apamea – Episcopio
Dura Europos – Porta e mura
Dura Europos – Odeon
Dura Europos – Tempio di Iside
Dura Europos – Scavi di abitazioni
Ebla – Palazzo Reale
Ebla – Archivio del Palazzo Reale
Ebla – Tempio di Ishtar
Halabye – Mura con veduta sull’Eufrate
Mari – Palazzo di Zimrillin
Mari – Themenos del Palazzo di Zimrillin
Krak des Chevaliers
Krak des Chevaliers
Krak des Chevaliers
Krak des Chevaliers
Krak des Chevaliers
Deir ez Zor
San Simeone – Basilica
San Simeone – Basilica
Sergiopolis – Basilica
Ugarit – Porta e mura
Ugarit – Palazzo Reale
Hama – Moschea del Venerdì
Hama – Norie
Qanawat – Cisterna davanti al tempio di Giove
Shaba – Odeon – Teatro
Bosra – Porta Nabatea
Bosra – Teatro
Bosra – Teatro
Amrin – Tempio fenicio
Amrin – Tombe fenicie
Aleppo – Porta d’entrata alla Cittadella (esterno)
Aleppo – Porta d’entrata alla Cittadella (interno)
Aleppo – Grande Moschea della Cittadella
Aleppo – Panorama dalla Cittadella
Aleppo – Grande Moschea degli Omayyadi VIII sec.
BIBLIOGRAFIA
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N.B. Le citazioni dei testi sacri del Corano e dalla Bibbia sono state riprese dal libro di Brusasco Paolo sopracitato. A sua volta il predetto autore le ha prese rispettivamente:
1) dalla versione italiana Il Corano, a cura di H.R. Piccardo, revisione e controllo dottrinale a cura dell’Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia (UCOII), Newton Compton, Roma, 2006;
2) La Sacra Bibbia, edizione ufficiale a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2008.
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www.limesonline.com/timbuctu-colpita-al-cuore-dai-jihadisti/37874
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[1] Autori vari, Atlante Touring Enciclopedico Volume 4 Storia antica e medievale, Touring Club Italiano, Milano 1989, p. 18.
[2] Il Leone di Allat (che fortunatamente è stato possibile ricostruire) è stato preso come simbolo dal partito Baath che sosteneva il presidente siriano Hafez al Assad in quanto “al assad” in arabo significa “il leone” (https://ilmanifesto.it/palmira-ferita-non-a-caso/ ).
[3]Nel 1983 Saddam Hussein utilizzava le immagini di Babilonia del codice di Hammurabi e della Porta di Ishtar sulle banconote irachene. (Brusasco Paolo, Dentro la devastazione l’ISIS contro l’arte di Siria e Iraq, La nave di Teseo Editore, Milano 2018, p. 353).
[4] Narrazioni relative a detti o azioni di Maometto.
[5] Brusasco Paolo, Dentro la devastazione l’ISIS contro l’arte di Siria e Iraq, La nave di Teseo Editore, Milano 2018, p. 147.
[6] Statue rappresentanti geni protettori, situate di solito a guardia delle porte delle città, caratterizzate dal corpo animale e dalla testa antropomorfa.
[7] Lo Stato Islamico ha istituito un apposito “Dipartimento per le antichità” per riscuotere tasse e rilasciare permessi di scavo.
[8] Come è successo a Dura Europos e a Mari in Siria.
[9] Gli archeologi sono visti dallo Stato Islamico come coloro che riportano alla luce gli idoli, ma nonostante ciò alcuni di questi specialisti sono anche tra le file jihadiste con cui collaborano per indicare quale reperto può essere più smerciabile e quindi risparmiato dalla furia iconoclasta.
[10] Ovvero “la terra tra i due fiumi” (Tigri ed Eufrate).
[11] Da Abu Hanifa (699-767).
[12] Da Gaza al Shafi’i (767- 820).
[13] Da Ja’far al Sadiq (702 – 765).
[14] Da Malik ibn Anas (715 – 795).
[15] Seguaci del teologo Abn al Wahhab (1703-1792).
[16] Brusasco Paolo, op.cit., da p. 151 a p. 153.
[17] Ahmad ibn Hanbal (780-855).
[18] Morto nel 1765.
[19] Brusasco Paolo, op.cit., pp. 157, 158.
[20] Ibidem, p. 203.
[21] Ibidem, pp.190, 191.
[22] Ibidem, p. 163.
[23] “Se Allah non respingesse gli uni per mezzo degli altri, sarebbero ora distrutti monasteri e chiese, sinagoghe e moschee nei quali il Nome di Allah è spesso menzionato”.
[24] Brusasco Paolo, op.cit., p. 192.
[25] Giornalista professionista. Ha lavorato nei quotidiani “Liberazione”, “Il Giornale”, “La Nazione” ed “Europa”, come critico d’arte e cronista culturale. Tra le altre cose dal 2002 nrella redazione di “Avvenimenti” e dal 2006 a “Left”, occupandosi di cultura e scienza.
[26] Maggiorelli Simona, Attacco all’arte. La bellezza negata, L’asino d’oro Edizioni, Roma 2017 , p. 47.
[27] Brusasco Paolo, op.cit., p. 106.
[28] Si veda a questo riguardo quanto ha scritto Paolo Brusasco nel suo libro: Dentro la devastazione. L’ISIS contro l’arte di Siria ed Iraq e riportato in questa tesi alla fine del paragrafo sull’Iconoclastia islamica – fonti e confutazioni.
[29]https://stream24.ilsole24ore.com/video/cultura/afghanistan-acceso-dibattito-sorte-buddha- di- bamiyan-2016113 video 1328118
[30] www.limesonline.com/timbuctu-colpita-al-cuore-dai-jihadisti/37874
[31] Brusasco Paolo, op.cit., pp 160, 161.
[32] Distrutti dai talebani nel 2001.
[33] Paolo Brusasco insegna Archeologia e Storia dell’arte del Vicino Oriente Antico presso l’Università di Genova. Già Research Fellow dell’Università di Cambridge e supervisore di importanti scavi archeologici in Iraq, in Siria e nel Mediterraneo. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni.
[34] Brusasco Paolo, op.cit., da p. 218.
[35] Maggiorelli Simona, op.cit., p. 41.
[36] Platone sosteneva che la pittura è illusione e inganno. (Vedasi Maggiorelli Simona op.cit., p. 40).
[37] Non prodotte da mano umana.
[38] Forse perché prendeva ispirazione dalla predicazione di San Paolo (Giardina Andrea, Sabbatucci Giovanni e Vidotto Vittorio, Manuale di Storia1. Il Medioevo, Editori Laterza, Roma-Bari, 1993, p. 96).
[39] Giardina Andrea, Sabbatucci Giovanni e Vidotto Vittorio, op.cit., p. 96.
[40] Circoscrizione amministrativa bizantina comprendente tra il VI e l’VIII secolo la maggior parte dei territori bizantini d’Italia. La sede era Ravenna. https://it.wikipedia.org/wiki/Esarcato d%Italia .
[41] Territorio governato da un duca sotto l’autorità del prefetto pretorio d’Italia e successivamente sotto l’esarca di Ravenna, consisteva nelle città di Ancona, Fano, Pesaro, Rimini e Senigallia. https://it.wikipedia.org/wiki/Pentapoli Bizantina .
[42]Giardina Andrea, Sabbatucci Giovanni e Vidotto Vittorio, op.cit., p. 98.
[43]Capecchi Andrea, La questione iconoclasta e le sue ripercussioni in Italia http://www.tuttostoria.net/medio-evo.aspx?code=741
[44] Ibidem.
[45] Maggiorelli Simona, op.cit., p. 42.
[46] Ibidem, p. 36.
[47] Al massimo della sua estensione il Califfato prendeva un’area di 423 miglia tra Iraq e Siria.
[48] Sono mussulmani ma bevono vino e praticano la confessione nonché l’ascetismo e l’esoterismo sufi.
[49] Sono seguaci di una religione monoteista apparentemente simile al cristianesimo.
[50] E’ il terzo gruppo etnico dopo Arabi e Curdi in Iraq e sono sia sunniti che sciiti.
[51] Seguaci di una religione misterica tramandata oralmente che è un misto tra cristianesimo nestoriano, islamismo sufi, elementi gnostici e pagani risalente agli assiri babilonesi o comunque mesopotamici.
[52] Morandi Bonacossi Daniele, Un patrimonio decapitato da http://treccani.it/enciclopedia/un-patrimonio-decapitarto %28altro%29/ .
[53] Antica capitale dell’Assiria posta sulla riva orientale del Tigri, di fronte all’odierna Mosul Documentata dai livelli archeologici sin dal VII millennio a.C. divenne residenza reale alla fine del millennio successivo. Sennacherib (704-681 a.C.) vi costruì una doppia cinta di mura, un palazzo con magnifici rilievi, un arsenale, canali, parchi, vie e templi. Assurbanipal (668-626) vi fece scolpire, sulle pareti del suo palazzo, le famose scene delle sue caccie e delle sue guerre, e vi raccolse una biblioteca di oltre 24.000 tavolette cuneiformi. La città fu distrutta nel 612 dall’assalto congiunto dei Medi e dei Babilonesi, e solo in età ellenistica vi fu ricostruito un centro fortificato. Le indagini archeologiche hanno individuato anche tracce di abitazioni databili agli inizi del IV millennio. Venne esplorata e studiata da diversi archeologi dal XVII secolo fino al 1990. http://www.treccani.it/enciclopedia/ninive/
[54] Antica fortezza della Mesopotamia. Nel II secolo d. C. e per una parte del III fu capitale di un piccolo stato semitico indipendente. Occupata dai Romani nel III secolo per un breve periodo e quindi evacuata, fu conquistata verso il 250 dal re di Persia Shapur I, dopo un memorabile assedio ricordato nella tradizione araba e persiana. Era già abbandonata e in rovina dal IV secolo. Nel II secolo vi fu un grandioso sviluppo edilizio, che si concluse con la costruzione del tempio di Allat e con il rafforzamento delle mura urbiche. Fin dal periodo più antico il centro della città era costituito da un grande recinto sacro in pietra, dedicato al dio solare Shamash che racchiudeva i templi principali, costruiti con una tecnica di origine romana. Nel territorio della città sono stati scavati anche 14 templi minori, con schema architettonico di tradizione mesopotamica, babilonese e assira. Il sito è stato dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco nel 1985. http://www.treccani/enciclopedia/hatra/
[55] Si tratta del miracoloso viaggio notturno fatto da Maometto da Medina a Gerusalemme in cui lo stesso Profeta ha potuto vedere il Paradiso e l’Inferno e ha lambito lo sguardo di Allah (Brusasco Paolo, op.cit., p. 60)
[56] Brusasco Paolo, op.cit., p. 68.
[57] Nome attuale dell’antica Kalhu o KalKu, una delle capitali dell’impero assiro, situata sulla riva sinistra del Tigri. Fu fondata sotto il regno di Salmanassar I (1243-1207 a. C.) e fiorì particolarmente sotto Assunasirpal II ( 883-859 a. C.) http://www.treccani/enciclopedia/Nimrud/
[58] Yousif Sakat, un giovane prete pochi giorni prima dell’arrivo dell’IS aveva nascosto in un ricovero sotterraneo dello stesso monastero ben quattrocento pregiati manoscritti che al momento della liberazione del monastero nel novembre 2016 sono stati incredibilmente ritrovati; come anche il padre domenicano Najeeb Michaeel che nel villaggio cristiano di Qaraqosh il 6 agosto 2014 metteva in salvo su due pick-up 1300 manoscritti rarissimi del XIV-XIX secolo (molti dei quali provenivano da Mar Behnam) per inviarli verso Erbil nel Kurdistan iracheno insieme a decine di migliaia di profughi cristiani. (Brusasco Paolo, op.cit., pp. 88,89).
[59] Brusasco Paolo, op.cit., p. 288.
[60] Ibidem, p. 288.
[61] Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura istituita a Parigi il 4 novembre 1946 (http://www.unesco.it/it/Documenti/Detail/180)
[62] Importante città nabatea divenne capitale della provincia romana di Arabia Petrea. Il suo sito archeologico è stato quasi completamente distrutto (https://it.wikipedia.org/wiki/Bosra)
[63] Importante città siriana capitale dell’omonimo regno. Occupata nel maggio 2015 dall’IS molti suoi monumenti sono stati distrutti o danneggiati (Tempio di Baalshamin, tempio di Bel, Tetrapilo, Arco di Trionfo, Anfiteatro e Teatro romano adibito dai terroristi a luogo di esecuzioni). Danni notevoli sono stati fatti anche al locale museo archeologico. (https://www.treccani.it/enciclopedia/palmira)
[64] Castello medievale d’età crociata è la più importante e nota costruzione militare fortificata dell’Ordine militare dei Cavalieri dell’Ospedale di S. Giovanni di Gerusalemme. Occupata da forze ribelli antigovernative è stata sistematicamente bombardata dalle forze armate del governo siriano. (https://it.wikipedia.org/wiki/Krak_dei_Cavalieri)
[65] E’ docente di Archeologia del Vicino Oriente di Udine e direttore di missioni archeologiche a Palmira (Siria) e a Ninive (Iraq).
[66] 17 ottobre 2017.
[67] Brusasco Paolo, op.cit., p.18.
[68] Termine islamico africano dalle molte valenze: il marabutto è sia un santo riconosciuto a livello locale la cui tomba è oggetto di culto popolare o anche per estensione, è la stessa tomba a cupola in cui si venera il santo (https://it.wikipedia.org/wiki/Marabutto)
[69] Dipartimento di Archeologia della Libia.
[70] International Council of Museum.
[71] https://www.ilpost.it/2017/09/02/distruzione-storia-cultura-medioriente
[72] https://left.it/2016/08/03/rompiamo-il-silenzio-sullo-yemen/
[73] Maggiorelli Simona, op.cit., p. 29.
[74] Risalente al VII secolo a.C.
[75] (1943-2011) insegnante di archeologia e storia dell’arte del Vicino oriente antico all’Università degli studi di Napoli “L’Orientale”.
[76] Ricercatore nel SSDL-OR/05 presso la Sapienza Università di Roma (Dipartimento Scienze dell’Antichità) dal 2012.
[77] Direzione Generale delle Antichità e Musei di Siria.
[78] Brusasco Paolo, op.cit., p. 296.
[79] ASOR The American schools of Oriental Research
[80] Unità di protezione popolare.
[81] Brusasco Paolo, op.cit., p. 297.
[82] Ibidem, p. 297.
[83] Ibidem, p. 297.
[84] Ibidem, p. 297.
[85] Maggiorelli Simona, op.cit., p. 30.
[86] https://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2019-05-127dall-isis-facebook-il-traffico-illegale-tesori-antichi-viaggia-social-network-161011.
[87] https://espresso.repubblica.it/attualità/2018/09/12/news/dov-e-finito-il-tesoro-dell-isis-1.326865 .
[88] https://www.ilsole24ore.com/art/mondo/dall-isis-facebook-il-traffico-illegale-tesori-antichi-viaggia-social-network-ACOfnwB , http://espresso.repubblica.it/attualità/2018/09/12/news/dov-e-finito-il-tesoro-dell-isis-1.326865
[89] http://espresso.repubblica.it/attualità/2018/09/12/news/dov-e-finito-il-tesoro-dell-isis-1.326865 .
[90] Ibidem.
[91] Brusasco Paolo, op.cit., p. 337.
[92] https://vociglobali.it/2019/01/09/isis-opere-darte-marketing-del-terrore-e-consenso-sui-social/
[93] Soprattutto Twitter.
[94] 21,7%.
[95] Il periodo considerato per lo studio andava dal 1° agosto 2015 al 30 giugno 2016.
[96] Da dicembre 2016 a marzo 2017.
[97] Brusasco Paolo, op.cit., p. 20.
[98] Ibidem, p. 293
[99]Brusasco Paolo, op.cit., p. 222. https://www.ilmessaggero.it/primopiano/esteri/isis_nimrud_assiri_mosul_archeologico-905034.html , https://www.interris.it/tag-unesco-pagina6
[100] Brusasco Paolo, op.cit., p. 223.
[101] www.unesco.it/it/News/Detail/482
[102] Stefano Alessandrini, La diplomazia culturale Italiana per il ritorno dei beni in Esilio, Edizioni Efesto, Roma, 2018, p. 25.
[103] Ibidem, p. 34.
[104] www.carabinieri.it/editoria/rassegna-dell-arma/2001/n.3-luglio-settembre/studi/la-protezione-dei-beni-culturali-nei-conflitti-armati
[105] Questo ente voleva creare “santuari dell’arte”.
[106] Progetto di convenzione per la protezione dei monumenti e delle opere d’arte nel corso di conflitti armati.
[107] www.carabinieri.it/editoria/rassegna-dell-arma/2001/n.3-luglio-settembre/studi/la-protezione-dei-beni-culturali-nei-conflitti-armati
[108] Ibidem..
[109] Ibidem.
[110] Ibidem.
[111] https://delegazioneunesco.esteri.it/rappunesco/it/i-rapporti-bilaterali/informazioni-e-servizi/convenzione-concernente-le-misure
[112] Ibidem.
[113] Istituto Internazionale per l’Unificazione del diritto privato.
[114] www.sismus.org/ita/panorama-normativo/diritto-internazionale/traffico-illecito
[115] https://agcult.it/a/6796/2019-03-15/ue-stretta-sull-import-illecito-dei-beni-culturali-via-libera-dall-europarlamento
[116] Maggiorelli Simona, op.cit., p. 36.
[117] Brusasco Paolo, op.cit., p.22.
[118] Ibidem, p. 22.
[119] Ibidem, p. 22.
[120] Ibidem, pp. 360, 361.
[121] Maggiorelli Simona, op.cit., p. 25.
[122] (Palmira 1932- Tadmur 2015) (http://www.treccani.it/enciclopedia/khaled al assad/ )
[123] www.nationalgeographic.it/popoli-culture/notizie/2015/08/19/news/ucciso_dall_is_l_ex_direttore_degli_scavi/
[124] Maggiorelli Simona, op.cit., p. 24.
[125] Nato a Roma il 9 gennaio 1940, Professore di archeologia e storia dell’arte del Vicino Oriente presso l’Università degli Studi ri Roma “La Sapienza”, scopritore di Ebla e direttore della relativa missione archeologica italiana in Siria.
[126] Maggiorelli Simona, op.cit., p. 24.
[127]www.nationalgeographic/wallpaper/2019/02/18/foto/sito_archeologico_palmira_siria_quattro_anni_dopo_la_distruzione-4294423/1/
[128] Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, Attività Operativa 2016 Edizione del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale Ufficio Stampa MiBACT Pag. 32, 33, 34, 35,36, 37.
[129] È la prima unità di Polizia specializzata nel controllo di traffico illecito di beni culturali.
[130] Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo.
[131] Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.
[132] Ministero degli Affari esteri e della Cooperazione Internazionale.
[133] Centro di Eccellenza per le Unità di Polizia di Stabilità (Center of Excellence for Stability Police Units).
[134] https://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/news/puglia-con-le-stellette/11133348/Iraq-i-caschi-blu-italiami-della-cultura-impegnati-a-salvare-il-patrimonio-artistico
[135] Ibidem.
[136] https://www.onuitalia.com/2018/04/16/unite4heritage-carabinieri-addestrano-specialisti-iracheni-per-tutela-patrimonio/ e www.artemagazine.it/attualità/item/6683-unite4heritage-del-comando-carabinieri-tpc-addestra-la-polizia-irachena?tmpl=component&print=1
[137] Missione Archeologica dell’università di Roma Tre in Libia.
[138] Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.
[139] https://www.geopolitica.info/tripoli-costituita-task-force-italo-libica-per-la-salvaguardia-del-patrimonio-archeologico-della-libia/
[140] https://www.archeomatica.it/info-editoriale/nuova-luce-sui-buddha-di-bamiyan
[141] https://stream24.ilsole24ore.com/video/cultura/afghanistan-acceso-dibattito-sorte-buddha-bamiyan/AD5qLg4B?refresh_ce=1
[142] Janson Yu e Liyan Hu da https://www.interris.it/religioni/afghanistan-un-proiettore-in-3d-fa-rivivere-i-buddha-di-bamiyan
[143] https://www.archeologiaviva.it/608/yemen-siria-iraq-aggiornamenti-sul-patrimonio-culturale/
[144] Vedi articolo citato
[145] Dall’articolo di Paolo Brusasco: “Siria. La rinascita di Bosra: un esempio da seguire” in https://www.archeologiaviva.it/608/yemen-siria-iraq-aggiornamenti-sul-patrimonio-culturale/
[146] Dall’articolo di Giorgio Bianchi “Palmira , un passato che guarda al futuro” in www.nationalgeografic.it/wallpaper/2019/02/18/foto/sito_archeologico_palmira_siria_quattro_anni_dopo_la_distruzione-4294423/1/
[147] https://www.lasicilia.it/news/cultura/65696/in-siria-busti-palmira-restauro-italiano.html
[148] Medio Oriente e Nord Africa.
[149] Si veda a questo riguardo quanto scritto nel capitolo che tratta l’iconoclastia e quanto scritto da Paolo Brusasco (si veda la relativa nota).
[150] https://www.carabinieri.it/cittadino/tutela/patrimonio-culturale/introduzione
[151] Brusasco Paolo, op.cit., p. 363.