Scarica file in PDF – ERA. Bab el mandeb tra geostrategia interessi economici e criticità
BAB EL MANDEB TRA GEOSTRATEGIA,
INTERESSI ECONOMICI E CRITICITÀ
Cristiana Era
DICEMBRE 2017
Punto di straordinaria importanza strategica, lo stretto di Bab el-Mandeb fa da spartiacque tra il Golfo di Aden e il Mar Rosso, ed è quindi passaggio obbligato dei traffici commerciali – legali ed illegali – da e per il Canale di Suez e, indirettamente, per il Mediterraneo. Lo stretto è al contempo estremamente vulnerabile perché esposto alle tensioni politiche dei Paesi che vi si affacciano: Gibuti, Yemen, Eritrea, e anche Somalia in quanto situata a ridosso del Golfo di Aden. Inoltre, data la sua posizione, è anche al centro delle influenze degli altri Paesi della regione, per non parlare degli interessi economici e militari di numerose potenze, che da tempo sono impegnate ad installare basi permanenti e punti di appoggio a Gibuti e dintorni.
Bab el Mandeb, tra Gibuti e lo Yemen, ha una larghezza di soli 27 km divisi da un isolotto di appena 13 km², Perim, grazie al quale lo stretto viene diviso in due canali: uno molto stretto di 3 km lungo la costa yemenita, l’altro, di ampiezza maggiore, misura circa 20 km ed è da questa porta che passa la navigazione internazionale dall’Oceano Indiano al Mar Rosso. Il commercio marittimo che transita per questo punto nevralgico è costituito in larghissima misura da petrolio e gas naturale destinati a mercati vicini (quali l’Egitto) e lontani (Europa, Stati Uniti, Asia). Molti dei prodotti petroliferi e del greggio esportato dal Golfo Persico che transitano dal Canale di Suez e tramite l’oleodotto SUMED (Suez-Mediterranean Pipeline) attraversano anche Bab el Mandeb.
In totale, la EIA (Energy Information Administration), ossia l’autorità statunitense per l’energia, ha calcolato che nel 2016 il volume di greggio transitato per lo stretto sia stato di 4,8 milioni di barili al giorno[1], in netto aumento rispetto al 2011.
BAB EL-MANDEB OIL FLOWS, 2011-16 | ||||||
million b/d | 2011 | 2012 | 2013 | 2014 | 2015 | 2016 |
Total oil flows | 3.3 | 3.6 | 3.8 | 4.3 | 4.7 | 4.8 |
Northbound | 2.0 | 2.0 | 2.1 | 2.2 | 2.5 | 2.8 |
Southbounds | 1.3 | 1.6 | 1.7 | 2.1 | 2.2 | 2.0 |
Source: U.S. Energy Information Administration analysis based on Lloyd’s List Intelligence, Suez Canal Authority, and GTT, using EIA conversion factors.
Le necessità crescenti del fabbisogno energetico mondiale rendono quest’area un riferimento strategico la cui importanza è pari alla sua vulnerabilità e alla sua storica pericolosità. Quest’ultima, infatti, ha origini lontane, tanto che il nome stesso, “Bab el Mandeb” o anche “Bab el Mandab”[2] significa “porta del pianto”, secondo molti per i rischi elevati della navigazione nelle sue acque a causa delle correnti e dei venti contrari. Si citava negli annali universali di statistica del 1835:
“Prima che si pensasse alla navigazione a vapore, la navigazione del Mar Rosso veniva così descritta da Sir Harford Jones: – « Durante sei mesi non puoi entrare in questo mare, e durante sei mesi non puoi uscirne… » Vi hanno poi delle eccezioni : qualche nave vi entrò e vi uscì nella stagione non propizia: il mare non era ermeticamente chiuso: la descrizione di Sir Harford debba intendersi di quello che succede generalmente […][3].
E poi ancora nella Nuova Enciclopedia Popolare del 1843:
“…Le correnti sono comunemente assai forti in questo stretto, ma variano in direzione secondo i venti che vi dominano. Il nome di Bab-el-Mandeb, che in arabo significa la porta del pianto, sembra essere stato molto bene appropriato a questo stretto; e quest’appellazione può naturalmente aver tratto origine dai pericoli a cui i vascelli piccoli e leggeri vanno esposti in un mare angusto, attorniato da spiagge dirupate e soggetto a frequenti gruppi di vento.”[4]
Oltre ad i rischi legati alle condizioni geofisiche, la scoperta portoghese della via marittima che circumnavigava l’Africa attraverso il Capo di Buona Speranza nel XV secolo limitò per lungo tempo la navigazione attraverso il Mar Rosso al commercio marittimo locale, anche perché la successiva comparsa delle navi a vapore ridusse significativamente i tempi ed i rischi della circumnavigazione dell’Africa. Tuttavia, gli interessi coloniali francesi e inglesi in Africa, in Medio Oriente e in Asia non poterono ignorare l’importanza del Mar Rosso e in modo particolare dello stretto: l’isolotto di Perim venne unilateralmente occupato dall’impero britannico nel 1799 dove poi eressero un faro nel 1861. L’anno successivo la sponda africana fu acquistata dai francesi e divenne la Somalia francese, quella che oggi è la regione di Gibuti. Aden venne poi occupata dalla Gran Bretagna nel 1839, e divenne una base della Royal Navy, oltre che stazione di carbonamento per i mercantili.
In tal modo le due potenze controllavano il traffico dal Golfo di Aden al Mar Rosso. Ma è con l’opera simbolo del XIX secolo che lo stretto tornò ad essere un passaggio cruciale per la navigazione commerciale: il taglio dell’istmo di Suez (1869) ridefinì l’importanza geografica e strategica del Mar Rosso e di Bab el-Mandeb che al canale veniva da allora in poi inevitabilmente collegato, poiché lo stretto diventava la vera porta meridionale del Mare Nostrum, oltre ad essere il passaggio tra Est e Ovest, e quindi un anello di congiunzione sia verticale che orizzontale.
Pur lasciando libero il transito attraverso il canale a tutte le navi sancito con l’accordo del 1888, la Gran Bretagna invocò la necessità di controllare l’area per tutelare gli interessi dell’impero dall’India al Mar Rosso. Nel 1936 ottenne il diritto di mantenere delle forze lungo il canale che si rivelò di importanza cruciale durante la Seconda Guerra mondiale per i rifornimenti agli alleati lungo la rotta Europa-Asia[5]. nonché per bloccare le navi da guerra italiane all’interno del Mar Rosso. In effetti, a parte i sommergibili, alla caduta di Massaua, nel 1941, solo la Regia Nave Eritrea, al comando del CF Marino Iannucci, riuscì a violare il blocco britannico.
Il successivo processo di decolonizzazione destabilizzò l’area del canale e dello stretto che rimanevano però punti di importanza strategica, così come lo divennero i Paesi che si affacciavano su di essi, non più allora sotto il controllo delle potenze coloniali ma oggetto di competizione tra USA e URSS che miravano a contenere le reciproche sfere di influenza in territori spesso soggetti a scontri e rivalità etniche. Alla fine degli anni ’70, mentre le navi sovietiche utilizzavano gli ancoraggi della vicina isola di Socotra, gli Stati Uniti riuscirono a rimpiazzare l’Unione Sovietica in Somalia, fornendo una quantità ingente di aiuti militari, economici e diplomatici alla dittatura di Siad Barre. Nonostante si trattasse, almeno formalmente, di un regime di tipo marxista-leninista, gli interessi occidentali sulla Somalia non poterono che aumentare in considerazione sia della crisi energetica che li colpì con l’embargo dell’OPEC, sia del fatto che il Paese si affaccia sulla principale rotta di navigazione per il petrolio che dal Golfo, passando per Bab el-Mandeb e poi Suez, raggiunge l’Occidente[6]. L’occupazione della vecchia base sovietica di Berbera non distante dallo stretto garantì, inoltre, la presenza militare americana dello US Central Command e della Marina che in tal modo potevano controllare il flusso commerciale da e per Suez.
La fine della Guerra Fredda allentò le tensioni fra i due grandi blocchi ma non diminuì, se non in misura minore, l’importanza geo-strategica dell’area e anche le sue criticità. La caduta di Siad Barre scatenò la guerra civile in Somalia, mentre anche a Gibuti, nonostante la presenza francese, scoppiarono scontri su base etnica. Nello Yemen la riunificazione non venne accettata dalle forze comuniste e anche qui iniziarono gli scontri. Infine l’Eritrea fu impegnata in una lunga guerra contro l’Etiopia che ebbe termine solo nel 2000.
Chiaramente, con una situazione di instabilità, ora da una sponda, ora dall’altra e a volte da entrambe, non è mai venuta meno la necessità di proteggere la navigazione tra l’Oceano Indiano e il Mar Rosso ossia la rotta su cui passano interessi che con i decenni hanno travalicato i confini delle regioni del Mar Rosso, del Mediterraneo e del Golfo di Aden e che non sono più solamente economici, ma anche politici e militari, tanto da sollecitare l’intervento congiunto di più Stati. Il transito attraverso Bab el-Mandeb e Hormuz è stato determinante per il successo delle forze della coalizione nell’operazione Desert Storm (prima Guerra del Golfo) perché ha consentito il flusso ingente di forze e di materiale logistico. La stessa rilevanza avuta anche nel caso dell’operazione Resolute Behaviour-Enduring Freedom, per la lotta al terrorismo internazionale e alla pirateria, soprattutto somala, che per anni ha infestato le acque del Mar Rosso e del Golfo di Aden[7].
La sicurezza sui mari è oggi fortemente influenzata da fenomeni transnazionali e ideologie radicali, quali il terrorismo, ed è perciò parte della strategia militare di molti Paesi che dipendono economicamente dal commercio marittimo. È la natura stessa della minaccia che è cambiata all’alba del nuovo secolo e questa ha ovviamente influenzato il modo di concepire la sicurezza dei 4 domini: terra, mare, aria, spazio[8]. Di fronte ad una sicurezza sempre più globale e “integrata” che non può dunque essere isolata nelle sue singole componenti (fisiche o politiche, economiche o sociali, culturali o religiose), le aree geografiche considerate vitali quali i chokepoint (imbuti) marittimi convogliano giocoforza un interesse anch’esso globale. Oggi, come e più del passato, gli stretti sono il cuore dell’economia globale: circa il 90% del commercio internazionale transita sulle rotte marittime[9]. Il Mar Rosso continua ad essere un passaggio obbligato per il petrolio del Golfo Persico, ma non solo. Su di esso transitano navi che trasportano beni di varia natura dai mercati asiatici a quelli europei e viceversa per un valore stimato di 700 miliardi di dollari annuo, ma vi passano anche le navi da crociera che alimentano i flussi turistici della regione.
La vicinanza tra le due sponde nel tratto di Bab el-Mandeb, separate da poco meno di una trentina di chilometri nel punto più stretto tra Rās Segiān (Africa) e la penisoletta di Sheikh Sa‛īd (Arabia), fa sì che le navi in transito possano essere facilmente colpite da proiettili e razzi provenienti dalla costa. Ma nel complesso la destabilizzazione di tutta la tratta marittima da Aden a Suez, con una ipotetica chiusura dello stretto avrebbe serie ripercussioni economiche a livello globale. Le compagnie di navigazione vedrebbero necessariamente lievitare i costi per utilizzare la rotta alternativa che, come abbiamo visto, passa per il Capo di Buona Speranza. Ma anche senza la chiusura dello stretto, l’innalzamento del livello di insicurezza rischia di avere dei costi elevati che si ripercuoteranno sui prezzi, sempre a livello globale, dovendo le compagnie di trasporto prevedere oneri aggiuntivi quali, ad esempio, aumenti delle tariffe assicurative, l’impiego di forze di sicurezza a bordo, indennità di rischio per l’equipaggio, ecc.
Le minacce contemporanee e i nuovi attori nel nuovo millennio
Come già accennato, i rischi della navigazione attraverso lo stretto si sono modificati con il passare dei secoli come conseguenza dell’evoluzione tecnologica e dei cambiamenti dello scenario internazionale. L’espansione degli interessi di Paesi geograficamente distanti ha spinto questi ultimi a competere per la conquista di un punto di appoggio sul Mar Rosso. Giappone, Corea del Sud e Cina, in primis, hanno allargato i rapporti economici con diversi Stati africani. Tanto che oggi non si parla più di Mediterraneo allargato, ma di “Cindoterraneo”, termine coniato da Alessandro Politi nel 2006 e che indica “una nuova area di proiezione di interessi economici e politici che si spinge fino a India e Cina”[10]. E come bene sottolinea Andrea Quondamatteo, “parlare oggi di Cindoterraneo significa riconoscere l’esistenza di un importante flusso di merci che da Cina e India, attraverso Bab el-Mandeb e Suez, è diretto in Europa”[11].
La Cina, nell’ottica della ricerca globale di nuove fonti di materie prime, di nuovi mercati e di espansione della propria economia a 360 gradi, ha forti legami in Eritrea, in Etiopia e in Sudan, solo per citare i Paesi più vicini all’area del Mar Rosso[12]. La presenza cinese in Africa è recente, risale alla fine degli anni ’90; ma solo a partire dal 2002, all’insegna dell’implementazione della politica del “Go Abroad”, nel continente hanno cominciato a confluire investimenti consistenti da Beijing[13].
Nonostante i tentativi di diversificare le fonti di importazione di petrolio con progetti di esplorazioni e importazioni dall’Africa, la Cina dipende ancora in larga misura dal petrolio del Medio Oriente, che transita attraverso lo stretto di Hormuz, ma la quota di petrolio estratto nel Sudan del Sud e destinato alla Cina è in continua crescita[14], il che implica la necessità di un libero e sicuro transito delle navi cisterna da e per il Mar Rosso, navi che trasportano circa la metà dell’import cinese di petrolio. Inoltre la maggior parte delle esportazioni cinesi raggiunge l’Europa attraverso lo stretto, che è destinato a essere uno dei punti chiave dei flussi commerciali della “Nuova Via della Seta”.
Nel 2008, insieme agli altri due Paesi asiatici già citati, ha preso parte alla coalizione internazionale per combattere la pirateria nel Golfo di Aden al largo delle coste somale, proteggendo così anche le proprie navi che in passato sono state più volte attaccate dai pirati somali. Ma la partecipazione militare cinese, a fianco dello sforzo di NATO e UE (rispettivamente Operazione Ocean Shield e EUNAVFOR-Operazione Atalanta) per garantire la sicurezza delle acque al largo del corno d’Africa è stato solo l’inizio di quello che alcuni definiscono come l’ascesa del ruolo strategico di Beijing[15]. In effetti, ciò sembrerebbe confermato anche dagli accordi tra Cina e Gibuti per la costruzione di una base militare navale cinese a Obok, nel nord del Paese, dopo che Beijing ha investito nelle infrastrutture locali, in particolare nella costruzione della nuova linea ferroviaria elettrificata che collega il porto di Gibuti ad Addis Abeba, in Etiopia, inaugurata nell’ottobre del 2016[16]. La base è operativa dal luglio scorso, da quando è cominciato il trasferimento dei militari e di altro personale. Anche se ufficialmente la base è stata definita dalle autorità come un riferimento di supporto logistico e che verrà utilizzata solo per mantenere la sicurezza delle vie commerciali e per le missioni umanitarie e di peacekeeping, non sfugge alle altre potenze già presenti a Gibuti (USA, Francia, Italia, India, Giappone, Arabia Saudita, Spagna, Olanda, Germania, Russia e Gran Bretagna) che l’avamposto militare cinese, il primo all’estero, assume un significato strategico importante e conferma la forte influenza cinese nella regione, nonché del suo crescente potere navale.
Il 10% del traffico commerciale giapponese passa per lo stretto, e anche Tokyo dal 2011 mantiene una base militare a Gibuti, contigua a quella americana di Camp Lemmonier. Al largo del Corno d’Africa, nel Golfo di Aden e nell’Oceano Indiano, inoltre, navigano i pescherecci nipponici e proprio la pesca è uno dei settori più importanti dell’economia del Giappone. Nel corso degli anni, la politica di Tokyo è stata quella di proteggere i propri interessi – soprattutto quelli collegati all’approvvigionamento energetico – in Medio Oriente, rimanendo però neutrale nei conflitti e nelle rivolte della regione, a partire dalla rivoluzione iraniana del 1979. Recentemente, tuttavia, il Giappone ha manifestato l’intenzione di assumere un ruolo meno passivo, secondo alcuni osservatori anche per controbilanciare la presenza cinese: dall’allargamento della base all’annunciata decisione di dispiegare le proprie forze (JSDF – Japan Self-Defense Forces) nello stretto di Hormuz per il dragaggio di mine e per attività di scorta delle proprie navi in caso di chiusura della rotta e al rafforzamento dei rapporti politici ed economici con l’Arabia Saudita[17].
Come per il Giappone, i pescherecci e le navi mercantili sudcoreane sono significativamente presenti nell’area del Golfo di Aden: circa il 29% del commercio marittimo della Corea del Sud passa per l’area al largo delle coste somale[18]. Inoltre, l’accordo di libero scambio con l’Unione Europea entrato in vigore nel 2011 ha incrementato gli scambi e quindi il flusso dei transiti marittimi attraverso il Canale di Suez e, di conseguenza dello stretto di Bab el-Mandeb. Infine vanno considerati gli interessi in Africa Orientale: il Paese sta investendo in quella regione per il suo potenziale in termini di risorse petrolifere in modo da poter diversificare le fonti di approvvigionamento energetico, al momento concentrate in Medio Oriente per l’85% del suo fabbisogno[19].
Oltre alla pirateria, le minacce del nuovo millennio lungo tutta la direttrice che dal Golfo di Aden arriva a Suez, si chiamano traffico di esseri umani, contrabbando e terrorismo di matrice islamica. Per quanto riguarda la pirateria somala che ha infestato le acque del Mar Rosso per anni, va detto che la presenza negli ultimi anni di forze militari che pattugliano le aree intorno allo stretto e la sicurezza privata a bordo delle navi mercantili ne hanno ridotto l’attività, anche se il fenomeno è ben lontano dall’essere scomparso, anzi alcuni studiosi ne ipotizzano un possibile collegamento con il terrorismo jihadista[20].
Il traffico di esseri umani, fenomeno ormai di vaste proporzioni nel Mediterraneo, è una realtà consolidata anche nello stretto, la cui ampiezza limitata lo rende un facile passaggio dal Corno d’Africa alle coste della penisola arabica. Da qui cercano di passare migliaia di disperati, in maggioranza somali ed etiopi, in fuga dalla miseria e dalla guerra civile, diretti principalmente in Arabia Saudita, attraverso lo Yemen, in cerca di lavoro. La situazione interna di quest’ultimo Paese ha incrementato il traffico di migranti clandestini a causa della scarsa capacità di controllo del governo legittimo e dell’avanzata delle forze Houthi lungo la zona costiera. Né i rischi elevati della traversata marittima e poi terrestre hanno avuto un impatto significativo in termini di riduzione del flusso dei migranti. Il Rapporto sull’Immigrazione 2018 dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni ha sottolineato che gli studi effettuati rilevano la volontà di molti immigrati di voler correre comunque tali rischi pur di arrivare alla destinazione finale[21]. Nel 2016 sono stati oltre 111.000 i migranti giunti in Yemen e circa 55 mila quelli sbarcati nella prima metà del 2017. La traversata dal corno d’Africa, dove risiedono molte organizzazioni dedite all’immigrazione clandestina, alle coste yemenite è pericolosa, come già sottolineato: per sfuggire ad eventuali controlli, i trafficanti spesso gettano i migranti in mare durante la traversata, per poi tornare immediatamente sulle coste somale per un nuovo carico[22].
Il contrabbando di merci fa diretta concorrenza al trasporto marittimo legale. L’incapacità dei Paesi che si affacciano sullo stretto, considerati failed State o weak State di controllare le proprie coste, in aggiunta alla necessità dei pescatori dell’area che per ragioni economiche spesso decidono di intraprendere il contrabbando, ha favorito la crescita di questa attività che va ad aumentare il traffico marittimo, già a livelli sostenuti, nella rotta Golfo di Aden-Mar Rosso[23]. I porti di Aden e di Mokha, rispettivamente a sud e a nord di Bab el-Mandeb ed entrambi sulla costa yemenita, rappresentano i maggiori centri di partenza e di arrivo dei traffici illeciti[24], che spaziano in termini di tipologia di merci ma che nel caso di armi e droga preoccupano particolarmente la comunità internazionale per il loro legame diretto con il terrorismo. Infatti, hanno come destinazioni principali le aree instabili di Yemen e Somalia, ma anche la Siria. Oltre ad arrivare in varie aree di conflitto (come Sudan, e Costa d’Avorio) e ad armare reti criminali di varia natura, le armi vanno a rifornire per lo più i gruppi terroristici in Africa (principalmente al-Shabaab), in Yemen (Houthi e al-Qaeda) e in Siria (ISIS e altri gruppi minori), mentre la droga costituisce una fonte primaria di finanziamento, destinata ai mercati dell’area, soprattutto Arabia Saudita, oppure prende la via dell’Europa attraverso il Mediterraneo.
La guerra civile che dalla fine del 2014 sta lacerando lo Yemen e che vede contrapposte le forze governative del Presidente Abd-Rabbu Mansour Hadi e i ribelli sciiti Houthi, sta fortemente destabilizzando anche le acque del Mar Rosso e del Golfo di Aden, tanto che si parla di un conflitto marittimo a bassa intensità[25]. E in effetti, il 2016, in particolare, ha registrato un numero elevato di attacchi di natura terroristica navi sia di tipo militare che civile. Oltre ai ribelli sciiti, che secondo l’Arabia Saudita e diversi Paesi occidentali sarebbero appoggiati dall’Iran, in Yemen sono presenti gruppi terroristici legati ad al-Qaeda (Al-Qaeda nella Penisola Arabica o AQAP), e piccoli gruppi legati allo Stato Islamico, presenti principalmente nella regione sud-orientale del Paese. Gli attacchi contro le navi militari ad opera di AQAP, di cui si ricorderà quello del 2000 contro la USS Cole nel porto di Aden, e quello del 2006 contro la petroliera Limburg nelle acque antistanti Mukalla, hanno recentemente subìto un arresto, grazie alle azioni antiterrorismo delle forze multinazionali della coalizione che nel 2016 sono riusciti a cacciare i jihadisti dal porto di Mukalla, sul Golfo di Aden, e ai raid aerei e agli arresti di vari esponenti che hanno inferto un duro colpo all’organizzazione[26].
I casi più recenti attribuiti agli Houthi, invece, sono quelli degli attacchi all’unità di supporto logistico degli Emirati, Swift, colpita da missili antinave, e a due navi da guerra statunitensi che pattugliavano le acque intorno alla zona di Mokha, anche quest’ultime oggetto di lanci di missili nell’autunno 2016. In oltre due anni di rivolta i ribelli sciiti sono riusciti a conquistare vaste zone dello Yemen, inclusa la capitale e la parte costiera in prossimità dello stretto e, come evidenziato dall’allerta segnalata dal governo statunitense, un nuovo pericolo per le navi in transito emerge dalle mine disseminate nelle acque intorno a Mokha. Ma il distacco delle mine dalle catene e la loro disseminazione al largo può costituire una minaccia anche per tutte le altre navi che transitano nella zona[27]. Inoltre, nel gennaio 2017, un attacco ad una fregata saudita al largo del porto di Hodeida, in mano ai ribelli, ha gettato nuova luce sulle capacità di azione e sui mezzi a loro disposizione. Nello specifico, la fregata è stata colpita da un motoscafo: non si è trattato di un attentato suicida, come inizialmente ipotizzato, ma di un attacco tramite drone telecomandato, simile a quelli impiegati dai contrabbandieri iraniani. L’impiego di droni carichi di esplosivo (USV, Unmanned Surface Vehicle) rappresenta un pericolo reale perché potrebbe essere l’inizio di un uso sistematico della tecnologia da parte di gruppi ribelli o terroristici e anche per la difficoltà per una nave attaccata di disabilitare un sistema di controllo remoto in caso di attacco multiplo[28].
La minaccia non riguarda solo le navi da guerra, ma anche i mercantili che transitano lungo il Golfo di Aden e il Mar Rosso, ed è tanto concreta da spingere la coalizione multinazionale di 32 nazioni rappresentata dalla Forza Navale Congiunta (Combined Maritime Forces, CMF) a creare un corridoio di sicurezza con navi da guerra a protezione dei mercantili da motoscafi carichi di esplosivi, corridoio che va dal Bab el-Mandeb al Golfo di Aden[29]. Proprio nel 2017 alcune navi cisterna sono state fatte oggetto di aggressioni con le metodologie sopra descritte, con il conseguente accresciuto timore che la guerra civile yemenita, che per molti è una proxy war, cioè una guerra per procura fra Arabia Saudita ed Iran, possa mettere in pericolo il flusso energetico su questa arteria marittima fondamentale, con il rischio concreto di chiusura dello stretto.
Nel novembre 2017, la chiusura di diversi porti e aeroporti dello Yemen da parte della coalizione guidata dall’Arabia Saudita, nel tentativo di bloccare il flusso di armi iraniane dirette agli Houthi e dopo un lancio di missili dallo Yemen verso Riad, ha già di per sé sollevato le proteste della comunità internazionale e delle organizzazioni umanitarie che attraverso di essi fanno giungere gli aiuti umanitari ad una popolazione stremata dalla guerra civile e dalla carestia. A seguito delle pressioni politiche, l’Arabia Saudita ha dovuto, quindi, fare marcia indietro e consentire di nuovo i flussi di merci in alcuni porti, tra cui quelli di Aden, Mokha e Mukalla[30]. L’episodio, tuttavia, evidenzia ancora una volta la portata degli interessi che si concentrano nell’area, ma soprattutto come gli equilibri geostrategici dell’area siano precari e particolarmente vulnerabili lungo il corridoio energetico che dagli Stati del Golfo raggiunge il Mediterraneo e l’Europa. Quest’ultima, da sempre dipendente dal petrolio del Medio Oriente e adesso anche dagli scambi commerciali con l’Asia, è forse l’anello più debole della catena e quello su cui inciderebbe maggiormente la chiusura, anche temporanea, di Bab el-Mandeb. Al di là delle conseguenze di una tale eventualità in termini di aumento dei prezzi del petrolio e dei derivati, oltre che di altri prodotti, e delle ripercussioni sull’economia globale al momento non quantificati né quantificabili, è chiaro che l’importanza che lo stretto riveste per la sicurezza necessita di una presenza costante della comunità internazionale a protezione del traffico marittimo regolare. Senza tale forma di controllo le dinamiche interne dei Paesi politicamente fragili che vi si affacciano destabilizzerebbero del tutto l’intera regione, dal Golfo di Aden al Mediterraneo, con effetti dirompenti ben al di là della mera questione economica.
[1] Cfr: https://www.eia.gov/beta/international/regions-topics.cfm?RegionTopicID=WOTC
[2] ﺑﺎﺏ ﺍﻟﻤﻨﺪﺏ in arabo
[3] Annali universali di statistica, economia pubblica, storia, viaggi e commercio, Vol. Quarantesimoterzo, gennaio, febbraio e marzo 1835, p. 183
[4] Nuova Enciclopedia Popolare ovvero Dizionario Generale di Scienze, Lettere, Arti, Storia, Geografia, ecc. ecc., tomo secondo, Torino, Giuseppe Pompa e Comp. Editori, 1843, p.5
[5] Jean-Paul Rodriguez, Straits, Passages and Chokepoints. A Maritime Geostrategy of Petroleum Distribution, in Cahiers de géographie du Québec, Volume 48, Numéro 135, décembre, 2004, pp. 357–374
[6] David N. Gibbs, Realpolitik and Humanitarian Intervention: The Case of Somalia, in International Politics, Vol. 37, March 2000, pp. 41-55
[7] Senate Executive Report 108-10 – Hearings on the U.N. Convention on the Law of the Sea, October 14 and 21, 2003, U.S. Government Publishing Office
[8] Non si include di proposito quello che impropriamente viene definito “quinta dimensione”, ossia lo spazio cibernetico, poiché quest’ultimo in realtà assorbe gli altri quattro, con un impatto su di essi potenzialmente devastante, mentre resta quasi del tutto immune dalle influenze dei quattro domini tradizionali.
[9] Dati dell’International Chamber of Shipping, disponibili in http://www.ics-shipping.org/shipping-facts/shipping-and-world-trade
[10] Andrea Quondamatteo, L’Italia, la Somalia e il Cindoterraneo, in Osservatorio, Istituto di Studi Militari Marittimi, Anno XVIII, n.143/2008, p.16
[11] Ibid.
[12] Stefano Calvetti, Failed States, in Osservatorio, op.cit., p.13
[13] Jerker Hellström, China’s emerging role in Africa. A strategic Overview, FOI – Swedish Defense Research Agency, May 2009.
[14] P. Panda, India-China relations: Politics of Resources, Identities and Authority in a Multipolar World Order. Taylor and Francis, 2016, p. 152.
[15] J. Hellstrom, Op. cit; si veda anche Jivanta Schöttli ed., Power, Politics and Maritime Governance in the Indian Ocean, Routledge, 2016, p.111
[16] http://www.askanews.it/esteri/2016/10/05/oggi-parte-ferrovia-cinese-etiopia-gibuti-pn_20161005_00036/ ; Giovanni Porzio, Quel Risiko fra USA e Cina nel porto di Gibuti, Il Venerdì di Repubblica, 13 giugno 2017, disponibile su: http://www.repubblica.it/venerdi/reportage/2017/06/13/news/gibuti_reportage_cina_usa_esercito_pirati-168026053/
[17] Giorgio Cafiero, Theodore Karasik, Cinzia Miotto e Daniel Wagner, Japan’s Important Role in Saudi’s Vision 2030, Middle East Institute, 29 novembre 2016, disponibile in http://www.mei.edu/content/article/future-riyadh-tokyo-relations
[18] Terence Roehrig, South Korea’s Counterpiracy Operations in the Gulf of Aden, Belfer Center for Science and International Affairs, in https://www.belfercenter.org/sites/default/files/legacy/files/globalkorea_report_roehrig.pdf
[19] Jason Nicholson, Japan, South Korea Boost Their African Presence, The Diplomat, 1 ottobre 2015, in
https://thediplomat.com/2015/10/japan-south-korea-boost-their-african-presence/
[20] Stefan Lundqvist, Continuity and Change in post-Cold War Maritime Security. A Study of the Strategies Pursued by the US, Sweden and Finland 1991–2016, Åbo Akademi University Vaasa, Finland, 2017, pp. 22
[21] International Organization for Migration (IOM), World Migration Report 2018, p.181
[22] https://www.nytimes.com/2017/08/16/opinion/african-migration-yemen.html ; http://www.marsecreview.com/2017/08/more-migrants-killed/; https://www.newyorker.com/news/news-desk/the-dangerous-route-of-ethiopian-migrants
[23] AAVV, Stable Seas. Somali Waters, One Earth Future, 2017, p.24
[24] https://www.al-monitor.com/pulse/fr/originals/2014/03/yemen-smuggling-drugs-weapons-human-trafficking.html
[25] Risk Intelligence, Strategic Insights. Global Maritime Security Analysis, February 2017, n.63, p.15
[26] Ibid. p.16
[27] Jeremy Vaughan and Simon Henderson, Bab al-Mandab Shipping Chokepoint Under Threat, Policy Watch 2769, March 1, 2017, The Washington Institute
[28] Ibid.
[29] Ramola Talwar Badam, Policed maritime corridor will protect merchant ships passing through Gulf from pirates, The National, 30 settembre 2017, in https://www.thenational.ae/uae/policed-maritime-corridor-will-protect-merchant-ships-passing-through-gulf-from-pirates-1.662826
[30] http://www.portstrategy.com/news101/world/middle-east/yemen-sees-ports-reopen