scarica il file in pdf – Turchia- gennaio 2025 – cucchi
Brevi riflessioni del Generale Cucchi sull’influenza che la Turchia sta nuovamente assumendo in quelle terre che, per ragioni geopolitiche e strategiche, il nostro Paese aveva “sottratto” all’Impero Ottomano[1]
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Una Turchia da non perdere d’occhio
Gen. C. d’A. Giuseppe Cucchi
Quando, nell’ormai lontano 1911, decidemmo di occupare la Libia prima che altre potenze europee si decidessero a farlo e ci precedessero, come era del resto già avvenuto con il Marocco e con la Tunisia, il paese dell’altra sponda era, almeno teoricamente, sottoposto alla sovranità ottomana.
Nella realtà il “Grande Malato d’Europa” deteneva soltanto, con forze molto ridotte, un gruppo di città lungo la costa. In tutto il resto del territorio dominavano invece i Senussi, una confraternita religiosa in rapida espansione che avevano il loro centro di irradiamento proprio in Libia, nell’oasi di Cufra.
Ottomani e Senussi in ogni caso riuscivano agevolmente a convivere senza scontri maggiori, grazie anche al fatto che il Sultano di Costantinopoli rivestiva ormai da secoli anche il titolo di Califfo, cioè di Principe di tutti i credenti di fede islamica.
L’intervento italiano, che non fu particolarmente difficile anche se dovette protrarsi oltre i tempi brevi inizialmente previsti, cambiò comunque radicalmente questa situazione consolidata.
Turchi e senussi furono sconfitti con relativa rapidità e le vicende della guerra consentirono all’Italia di sottrarre alla sovranità turca anche quel rosario di isole, prima fra tutte per importanza Rodi, che per tutti gli anni della nostra dominazione furono denominate Dodecanneso.
Il caso libico non era comunque il primo, bensì il secondo, che metteva di fronte una all’altra Italia e l’Impero Ottomano in terra d’Africa.
Il primo scontro era avvenuto quando, subentrando alla Società Rubattino agli impegni in teoria unicamente commerciali che la avevano portata a stabilirsi nella baia di Assab, noi avevamo iniziato nei primi anni Ottanta dell’Ottocento a far perno su Massaua per creare prima, ed allargare poi, la nostra colonia Eritrea.
La zona in cui ci stabilimmo non era però res nullius ma dal punto di vista del diritto internazionale apparteneva alla “Sublime Porta” che vi esercitava la propria sovranità per il tramite della monarchia egiziana, anche essa -sempre in teoria- dipendente dall’Impero Ottomano.
Quando il Generale Tancredi Saletta si stabilì nell’area con forze italiane adeguate, il “Grande Malato d’Europa”, in piena decadenza, non ebbe in ogni caso la forza d’agire e la sovranità sull’Eritrea passò nelle nostre mani.
Del dominio ottomano rimasero come ricordo alcuni scalcinati reparti reclutati localmente fra i “basci buzuk” (le teste matte), che costituirono comunque una base efficace per la creazione dei primi nuclei del nostro esercito coloniale. Rimase anche, sostanzialmente immutata, la loro uniforme, che benché composta da materiali locali di poco prezzo aveva una propria innegabile eleganza funzionale.
Sono passati ormai più di 140 anni dalla nostra occupazione della Eritrea, nonché ben più di cento anni dalla guerra di Libia. L’Italia non è più sulla “Quarta Sponda” africana, cui la collega soltanto un velleitario “Piano Mattei”.
Tanto per il Corno d’Africa, cui l’Eritrea appartiene, quanto per la Libia, i primi venticinque anni di questo secolo sono stati per buona parte anni di guerra.
L’Eritrea ha dovuto affrontare un sanguinoso conflitto con l’Etiopia decisa a toglierle la sua indipendenza per acquisire un adeguato sbocco al mare.
La Libia dal canto suo non è riuscita ad uscire dal caos e dalla divisione in due Stati rivali provocati dalla rivolta contro Gheddafi e dalla morte del dittatore.
In entrambi i casi, come anche nel caso della Somalia, pur essa terra un tempo sotto influenza ottomana, anche se mediata da sultanati locali, e su cui avevamo continuato per tutto il dominio di Siad Barre ad esercitare ciò che si avvicinava molto ad un protettorato, vi è stato un lungo periodo in cui l’Italia è apparsa come il candidato europeo ideale per articolare una mediazione che prima facesse sedere intorno ad un tavolo le parti in conflitto e poi costringesse le armi a tacere.
I nostri tentativi in tal senso, indubbiamente pregevoli se esaminati soltanto dal punto di vista della trattativa diplomatica, si sono però sempre fermati al medesimo momento critico.
Perché una mediazione sia efficace e realizzi nella realtà sul terreno il risultato indicato sulla carta occorre infatti che il mediatore, una volta conseguito un accordo ragionevole fra le parti, sia disposto a prendere a proprio carico anche due altri oneri specifici.
Il primo è quello della sicurezza, che deve essere garantita da un numero adeguato di truppe. Il secondo quello della assistenza allo sviluppo, cosa che implica di far tra l’altro fronte in proprio a buona parte delle spese connesse alla ripresa economica dei contendenti pacificati.
Si tratta di oneri che in nessuno dei tre casi elencati – né in Libia, né in Eritrea, né in Somalia – l’Italia è stata disposta ad assumere al momento giusto, riuscendo in tal modo a vanificare ogni volta i risultati di un lungo e spesso brillante lavoro diplomatico.
Non vi è quindi da meravigliarsi se nel momento in cui la Turchia si è presentata al governo in carica a Tripoli offrendogli un appoggio che comprendeva anche una adeguata disponibilità di soldati, disposti tra l’altro a menare realmente le mani nel momento in cui ce ne fosse stato realmente bisogno, essa sia stata accolta a braccia aperte.
Ankara ha poi curato il fatto che la sua presenza divenisse rapidamente tanto esclusiva da escludere qualsiasi altro candidato alla assistenza alla Tripolitania, vale a dire a quella parte della Libia cui forniva la sua copertura militare. Noi compresi.
Più o meno la medesima cosa è altresì accaduta anche in Somalia, ove la Turchia è adesso, grazie ad una politica tagliata su misura per la complessa situazione locale, il più influente fra i protagonisti della crisi esterni al Corno d’Africa.
Non altrettanto bene le sono andate invece, almeno sino ad ora, le cose nell’Eritrea, ove un governo ancora forte ha sempre respinto le sue avances, considerate per il momento troppo invadenti.
Esaminando la situazione nel suo complesso possiamo in ogni caso constatare come, malgrado questo scacco parziale, la Turchia sia riuscita in uno spazio di tempo sostanzialmente ridotto a riportare nella sua area di influenza buona parte delle zone africane che al tempo della sua decadenza noi italiani avevamo contribuito a sottrarle.
Tutto questo poi è avvenuto nel quadro di una politica internazionale estremamente ambiziosa con cui Ankara tenta di proporsi, in Medio Oriente, in Nord Africa ed anche oltre, come l’alternativa vincente nel quadro del caos generalizzato che caratterizza in questo momento la situazione di grande crisi che il mondo sta attraversando.
Non si può infatti fare a meno di constatare come nel corso dell’ultimo decennio gli orientamenti, e palesemente anche le aspirazioni, del Presidente Erdogan si siano rivelati sempre più “Imperiali”, miranti cioè al recupero – ovviamente sotto una forma diversa e più moderna – della influenza che un tempo lo Stato anatolico esercitava in tutte le aree che facevano parte dell’Impero Ottomano.
È una cosa che in una Italia dedita pressoché esclusivamente a seguire le polemiche fra i suoi partiti politici che coinvolgono periodicamente il suo ombelico passa quasi del tutto inosservata, ove si escluda una consapevolezza che non riesce però a superare il ristrettissimo ambito degli addetti ai lavori ma che dovrebbe invece trovarsi al centro delle nostre attenzioni e forse anche delle nostre preoccupazioni.
La pesante presenza turca in Tripolitania pone infatti, almeno potenzialmente, una pesante ipoteca sul Canale di Sicilia, mettendo Ankara in condizione – in caso di gravi contrasti – di rendere particolarmente difficili le comunicazioni fra il bacino Tirrenico e quello Adriatico del nostro paese.
Inoltre, e questo tutta l’Europa dovrebbe cercare di non dimenticarlo, fra gli obiettivi della politica Imperial-revanscista del Presidente Erdogan vi è sempre stato quello di ricostruire una qualche forma di influenza turca sulla cosiddetta “dorsale verde” dei Balcani, vale a dire su quel rosario di Stati della penisola esteso dalla Bulgaria alla Bosnia Erzegovina in cui la presenza islamica è in alcuni casi assolutamente prevalente ed in altri tanto forte da non poter evitare di tenerne conto.
Un rischio elevato? Per il momento, e con la Turchia ancora nella NATO, assolutamente no…ma sarebbe meglio evitare, se le condizioni dovessero cambiare radicalmente, di tornare a vedere i Giannizzeri riprendere a marciare nel nostro futuro prossimo venturo!
[1] Mediterranean Insecurity ha il piacere di ospitare delle brevi e personali considerazioni del Generale di Corpo d’Armata Giuseppe Cucchi, già Direttore Generale del Dipartimento Informazioni per la Sicurezza della Presidenza del Consiglio.