Scarica il file in PDF – LA LOGICA STRATEGICA DEL RUOLO DELLE DONNE NELLA JIHAD – Greta Modula
La logica strategica del ruolo delle donne nella jihad: tradizione e trasformazione all’interno dello Stato Islamico
Greta Modula
DICEMBRE 2018
L’autoproclamatosi califfo e leader dello Stato Islamico, Abu Bakr al-Baghdadi, il 30 giugno 2014 annunciò la nascita dello Stato Islamico in Iraq e Siria e richiamò a sé tutti i musulmani affinché si unissero a lui nei nuovi territori conquistati, sottolineando come la hijra [migrazione verso i territori islamici] fosse un obbligo ed un dovere di ogni musulmano. Alla chiamata risposero in molti e da tutto il mondo. Sorprendentemente, alla hijra ha preso parte anche un numero mai visto prima di donne occidentali che hanno raggiunto lo Stato Islamico. Qui, il loro ruolo è stato prettamente non-combattente. Ciononostante, la violenza è una parte essenziale dell’ideologia che hanno abbracciato e i recenti sviluppi (cioè la perdita di territorio e la conseguente riduzione del gruppo terrorista in piccole cellule di ribelli ancora attivi su diversi fronti in Medio Oriente ed Africa) potrebbero comportare la transizione verso un ruolo più militante nel gruppo, soprattutto nel momento in cui la loro marginalizzazione sociale – indispensabile per il mantenimento del Califfato – venisse meno. Tale situazione potrebbe avere serie ripercussioni anche in Occidente e nell’area nord africana con il ritorno delle muhajirah (termine con il quale si identificano tra di loro le donne trasferitesi nello Stato Islamico) oppure grazie all’odio represso di tutte quelle donne che non hanno mai potuto compiere la hijra e che, quindi, sono in ansiosa attesa di prendere parte ad azioni violente contro gli apostati occidentali.
Questo articolo cercherà di analizzare i possibili sviluppi futuri del ruolo delle donne nei ranghi dello Stato Islamico e delineare le possibili minacce derivanti per l’Occidente ed in particolar modo per l’area del Mediterraneo. Per fare ciò, è indispensabile un’analisi della storia e delle tradizioni musulmane sul tema del ruolo della donna nella jihad. Seguirà una breve analisi delle motivazioni che hanno spinto le donne dello Stato Islamico ad abbracciare la violenza ed un approfondimento su come il gruppo terrorista è riuscito ad attrarre un simile numero di donne nel corso degli anni. Dopodiché, vi sarà un’analisi approfondita di quello che è il ruolo effettivo delle donne all’interno di IS con un cenno alle scelte che differenziano questo gruppo da Al Qaeda. Infine, dopo l’analisi dei vantaggi strategici e tattici per lo Stato Islamico nell’utilizzare operativamente le donne, si parlerà dei possibili scenari futuri.
- Donne e jihad nella storia e dottrina islamica
Sul tema delle donne impegnate nella jihad[1], la letteratura classica e contemporanea nonché la dottrina della religione Musulmana sono sempre state controverse ed in alcuni casi esigue. Diverse sono anche state le argomentazioni e reazioni sul tema; in genere, le autorità classiciste musulmane non hanno mai affermato e sostenuto il ruolo della donna guerriera impegnata nella jihad, eccetto in casi eccezionali e di estrema necessità. Al contempo, essi non hanno nemmeno espressamente proibito tale pratica. Anche tra i terroristi vi è una netta divisione di opinioni differenti a seconda che essi siano conservatori o liberali: i terroristi più conservatori si oppongono fermamente al coinvolgimento delle donne in guerra, mentre i più liberali valutano favorevolmente i benefici tattici e strategici che il loro coinvolgimento operativo produce e, quindi, ne incoraggiano l’arruolamento[2]. Tuttavia, spesso il dibattito sull’inclusione delle donne nella jihad si riduce a quelli che sono i valori, i bisogni e le necessità immediate dei singoli gruppi radicali, nonché del grado di complessità del conflitto e del nemico che devono affrontare nel breve e nel lungo periodo. Ad esempio, gruppi islamici radicali, in particolar modo gruppi nazionalisti come quelli palestinesi e ceceni, hanno fatto crescente uso di donne musulmane (prevalentemente operative in missioni suicide) nella lotta contro i propri nemici. Risulta quindi utile ed interessante analizzare le diverse tendenze dottrinali (religiose, legali ed autoritarie) esistenti per tracciare e valutare i possibili sviluppi futuri di gruppi terroristici quali lo Stato Islamico.
Secondo la tradizione musulmana, per ottenere legittimità agli occhi della legge e della popolazione musulmana un determinato dettame deve avere radici nella storia, deve cioè essere riconducibile a qualcosa che ha detto o fatto il Profeta o qualche appartenente alla sua cerchia più ristretta. Anche nel caso delle donne guerriere vi sono diversi resoconti e racconti di donne vicine a Maometto che hanno preso parte alla jihad. Secondo quanto riportato dal ricercatore David Cook, la femminista musulmana Aliyya Mustafa Mubarak, ad esempio, ne ha identificate ben 67 che, secondo lei, hanno combattuto nelle guerre del Profeta Maometto o nelle grandi guerre di conquista islamiche[3]. Tuttavia, nella maggior parte dei casi elencati vi è una mancanza di informazioni riguardanti la natura della loro partecipazione e solamente una manciata delle donne menzionate risulta aver preso attivamente parte ai combattimenti, mentre la gran parte delle altre donne ha rivestito per lo più ruoli di supporto (come incoraggiare gli uomini a combattere oppure prestare loro soccorso curandoli in caso di ferite riportate in battaglia). Lo stesso Profeta, secondo una serie di scritti della tradizione musulmana, sembra sottolineare come le donne debbano essere escluse dal campo di battaglia per dare priorità alle “donne del Paradiso” (cioè le vergini promesse), capaci ad incentivare gli uomini al combattimento e ridurre la paura della morte. Infatti, le “donne della Terra” vengono viste come un impedimento per gli uomini, come legami che distraggono gli uomini dal combattimento, li legano al mondo materiale e li trattengono dall’essere intrepidi e di realizzare così gli scopi divini[4].
Ciò non significa, tuttavia, che le donne del primo Islam non abbiano mai combattuto. Ad esempio, secondo quanto riportato dalla ricercatrice Deborah Scolart, il caso di Nusayba b. ka’ab al-Ansariyya, che nella battaglia di Uhud (625) morì mentre combatteva con la sua spada. Anche Zaynab b. ‘Ali, nipote del Profeta e figlia di Fatima, ebbe un ruolo cruciale negli scontri che portarono al massacro di Kerbala, nonché fu lei a guidare i membri della casa del Profeta[5]. Come mai allora i musulmani conservatori negano alle donne l’accesso alla jihad?
I giuristi hanno deciso di ignorare tali fatti per promuovere piuttosto l’immagine di un Islam patriarcale dove la donna è relegata alla sfera domestica. Le ragioni di tale scelta erano sia pratiche che fisiologiche: nel primo caso, vista la ridotta dimensione della umma, si rendeva inopportuno rischiare di investire tutte le risorse umane nella guerra, mentre, nel secondo caso, si facevano comparazioni sulla diversa forza fisica nonché sull’inevitabile distrazione che comportava la presenza di una donna tra i guerrieri maschi di un esercito[6].
La stessa letteratura islamica presenta un ampio numero di trattati sul tema della jihad in cui le donne non rivestono alcun ruolo importante. Infatti, se jihad sta agli uomini come combattimento e sacrificio per entrare in Paradiso e ricevere come ricompensa 72 vergini, per le donne jihad sembra piuttosto fare riferimento al loro ruolo di donne e mogli ubbidienti che tengono in ordine il nido familiare. Lo stesso concetto di donna guerriera viene descritto come fosse un impedimento per gli uomini a portare avanti la loro missione, in quanto esse rappresentano un legame fortissimo con il mondo terreno, una tentazione quasi diabolica che impedisce all’uomo di concentrarsi sulla jihad e, quindi, sul mondo che li aspetta nell’aldilà. Inoltre, un’altra ragione importante dell’esclusione della donna dalla jihad sta nel volerla proteggere dalle situazioni violente che potrebbero compromettere la sua innocenza ed i suoi obblighi, per non parlare dell’assoluto tabù nella religione musulmana di mescolare i sessi o di permettere la libera circolazione delle donne senza alcuna scorta (ovvero mahram[7]).
Da un punto di vista legale i giuristi fanno spesso riferimento anche al linguaggio presente nel Corano, dove per indicare i doveri dei credenti il linguaggio è esplicito da un punto di vista di genere (distingue cioè nettamente tra i doveri degli uomini e quelli delle donne), mentre nei versetti sulla guerra si parla solo di mu’minun (cioè i credenti al maschile) e mai di mu’minat (credenti al femminile). Da ciò i giuristi sostengono le donne debbano stare dietro le linee ed aiutare curando i feriti, occupandosi dell’approvvigionamento ed incoraggiando i combattenti[8].
Per quanto riguarda invece la letteratura legale contemporanea (anche se particolarmente scarna dato che i principali studiosi hanno cominciato a dedicarsi al tema solamente dagli inizi degli anni Novanta), la maggior parte sostiene che la donna non dovrebbe prendere parte ai combattimenti a meno che non vi siano circostanze estreme che minacciano l’intera comunità islamica, cioè quando la jihad è considerata fard ayn, difensiva, cioè come obbligo per l’intera comunità musulmana – uomini, donne, bambini e schiavi – di combattere in difesa del territorio e del loro credo, e non fard kifaya, cioè jihad offensiva riservata solo ai musulmani di sesso maschile[9]. Anche in questo caso, la maggior parte degli studiosi sostiene che per la donna si tratti di un’opzione più che di un obbligo vero e proprio. Su questo argomento, sia la tradizione giuridica sunnita che quella sciita sono riluttanti nel riconoscere un ruolo attivo alle donne nella jihad.
Anche le fatwa (cioè dispense emanate da autorità accademiche e religiose) rilasciate che dovrebbero legittimare il loro coinvolgimento durante la jihad difensiva sono spesso volutamente ambigue. Infine, è interessante come tra gli studiosi che trattano la partecipazione delle donne in operazioni suicide il tema venga affrontato prevalentemente dai musulmani più progressisti mentre i leader religiosi più conservatori (ad esempio i giordani, siriani e sauditi) si astengono dal fornire il loro supporto[10].
Anche i gruppi terroristici come Al-Qaeda dibattono largamente sulla figura delle mujahidaat (letteralmente, donne guerriere)[11] e del loro uso in operazioni suicide. Alcuni massimi clerici e studiosi musulmani offrono differenti opinioni legali, diverse interpretazioni degli antichi testi e spesso proclamano delle fatwa sull’ammissibilità di far svolgere operazioni suicide alle donne. Questi dibattiti regnano anche sui siti internet islamici, dove gli autori cercano di definire quali siano i diversi modi in cui le donne possono sostenere la jihad e quali i compensi in Paradiso.
Le principali opinioni online sostengono che le donne debbano sostenere la jihad educando i loro figli ad amarla e realizzarla, facendo proselitismo, pregando per i combattenti maschi e fornendo supporto attraverso attività che la possono favorire e facilitare. Tuttavia, da nessuna parte compare l’incoraggiamento alle donne di combattere attivamente al fianco degli uomini, anche se il sito web www.islamweb.net sostiene che “le donne possono partecipare in guerra se vi è un disperato bisogno e solo se il loro intervento non comporta il loro imprigionamento”[12]. Anche alcuni leader musulmani hanno negli ultimi anni proclamato fatwa incoraggiando le donne a supportare i propri uomini. Altri sostengono le donne possano prendere parte alla jihad anche senza alcun protettore al proprio fianco, supportando la tesi che in casi di estremo pericolo per la comunità musulmana la donna debba essere in grado di operare indipendentemente[13]. Altri ancora vedono in un simile atto il più alto segno di lode al Profeta.
I testi sacri riportati online sottolineano come le donne possano e debbano ricorrere alla jihad solamente in tre casi estremi: se il nemico invade le terre dei musulmani, se i leader musulmani si appellano all’intera comunità musulmana affinché essa adotti la jihad, e nel caso i cui i leader musulmani conferiscano un preciso compito alle donne (ad esempio raccogliere dati sensibili sul nemico). Allo stesso modo, le donne del giornale propagandistico noto come Al-Khansaa offrono con le loro pubblicazioni alle donne musulmane una piattaforma in cui le incoraggiano ad unirsi alla lotta jihadista. Già nell’agosto del 2004 pubblicarono un articolo intitolato “Che ruolo possono ricoprire le Sorelle nella Jihad?” in cui l’autrice sottolineava come le donne musulmane debbano avere tre ruoli nella jihad: partecipare al combattimento vero e proprio, supportare i compagni uomini sul fronte di guerra, oppure agire come guardie e protettrici dei jihadisti uomini.
In tempi più recenti, invece, il primo ad aver sostenuto che le donne possono partecipare nella jihad fu il veterano afghano Abdallah ‘Azzam (considerato ancora ad oggi uno dei padri fondatori dell’ideologia di Al-Qaeda), che nel 1984 pubblicò una fatwa in cui sosteneva che la “jihad è un’azione dovuta da ogni musulmano, indipendentemente dal sesso”[14]. Ancora, in un’altra fatwa Azzam sostenne la jihad fosse fard ayn, cioè un obbligo religioso che tutti i musulmani devono adempiere contro gli infedeli, senza la necessità quindi per le donne di chiedere il permesso al padre, al marito, o a qualsivoglia suo protettore (mahram)[15]. Tuttavia, nel 2004 Azzam sostenne che “la partecipazione delle donne nella jihad è prevista dalla Sharia ma… aprire la porta [alle donne alla jihad] implica un gran male”[16].
Le affermazioni di Azzam sono solamente uno dei tanti esempi di come le operazioni suicide da parte delle donne sono sempre state argomento controverso nel modo della jihad. Un altro esempio è quello di Aminah, moglie di Anwar al’Awlaqi (un famoso predicatore radicale che pubblicava i propri messaggi ed insegnamenti online), che volle vendicarsi della morte del marito (ucciso nel 2011 da un drone americano) con un attacco suicida. Il leader di Al-Qaeda nella Penisola Araba (AQAP), Abu Basir, disse “le sorelle non condurranno simili operazioni perché porterebbero un sacco di problemi [ai jihadisti di AQAP]”[17].
Similmente, anche il leader terrorista Ayman Zawahiri e sua moglie Umayma supportarono il ruolo delle donne nella jihad in modo controverso. Ad esempio, egli citò spesso vari esempi di donne jihadiste della storia islamica, probabilmente per incoraggiare altre donne a combattere per la causa del gruppo[18]. Tuttavia, in un suo discorso sottolineò più volte come non ci fossero donne all’interno di Al-Qaeda. Anche sua moglie non ha mai esortato apertamente il terrorismo femminile, ma ha piuttosto sostenuto in una sua pubblicazione del 2009 (intitolata “Lettera alle mie Sorelle musulmane”) che la “jihad oggi è un dovere individuale che incombe su ogni musulmano, donne e uomini, ma la strada del combattimento non è facile per le donne, in quanto esse necessitano di un compagno/protettore [mahram] con cui sia legittimo e legale stare… Rimettiamo noi stesse al servizio dei jihadisti, portiamo a termine ciò che ci chiedono, che sia supportarli finanziariamente, soddisfare i loro bisogni quotidiani, fornirli con informazioni, opinioni, prendendo parte al combattimento oppure come volontarie per portare a termine un’operazione di martirio… Il nostro ruolo principale… è di proteggere i jihadisti facendo crescere i loro figli, accudendo le loro case, e mantenendo i loro segreti”[19].
Probabilmente, l’unico ad aver esplicitamente richiesto l’intervento femminile nella jihad fu il leader di Al Qaeda in Iraq, Abu Mus’ab al-Zarqawi, prima che fosse ucciso nel 2006. In un suo proclama, infatti, al-Zarqawi dichiarò che “la guerra è scoppiata…se voi [uomini musulmani] non sarete dei galanti cavalieri in questa guerra, lasciate che siano le donne ad intraprenderla…Sì, per Dio, gli uomini hanno ormai perso la loro mascolinità”[20]. Tuttavia, anche in questo caso si può notare come al-Zarqawi non chiede l’intervento delle donne come previsto dalla dottrina in caso di jihad difensiva, bensì lo fa per prendersi gioco degli uomini che ancora non hanno preso parte alla battaglia.
Per quanto riguarda il supporto delle donne verso il loro coinvolgimento nella jihad anche in questo caso la situazione sembra essere particolarmente inconsistente e controversa. Innanzitutto, non essendovi un leader ed estimato predicatore di sesso femminile, risulta difficile reperire dati rappresentativi in merito. Online, molte donne sostengono la jihad attraverso la loro penna, scrivendo cioè lettere e pensieri, sostenendo gli ideali della jihad, del sacrificio in nome della religione, facendo propaganda ed invitando le altre “sorelle” a fare lo stesso, magari donando denaro ai gruppi terroristici “per una giusta causa”. Ad esempio, la stessa moglie di al-Zawahiri nella sua lettera alle sorelle sottolineò come anche le donne rivestono un ruolo fondamentale accanto agli uomini “in difesa della loro religione, territorio e persona. Se essa non riesce [donando] il suo denaro o attraverso attività missionarie nelle moschee, scuole, università e case a raggiungere le proprie sorelle, dovrebbe fare ciò attraverso internet, dove ella potrà scrivere la propria missione religiosa, disseminarla e spargere così la missione dei jihadisti”[21].
È importante sottolineare anche che, ad oggi, non vi sono donne musulmane che hanno raggiunto posizioni di leadership. Infatti, sebbene alcuni uomini potrebbero accettare e spronare le donne a prendere parte attiva alle attività operative del gruppo, questo non si traduce necessariamente nel riconoscimento e nell’applicazione di diritti uguali tra ambo i sessi e di certo non comporterebbe un cambiamento dello status sociale delle donne all’interno della società islamica. L’audience religiosa conservativa alla quale fanno generalmente appello i jihadisti difficilmente sarebbe ricettiva verso l’arruolamento delle donne sul campo di battaglia. Piuttosto, i musulmani vedono le donne come la chiave per mantenere salda la struttura familiare. Soprattutto, essi sostengono che il lavoro che più dà potere ad una donna musulmana è crescere ed insegnare ai propri figli ad abbracciare ed amare completamente la jihad. Tuttavia, anche nel caso delle generazioni più progressiste apparentemente disposte ad accettare il coinvolgimento delle donne nella jihad non si arriverebbe al cambiamento sociale. Infatti, anche in questo caso il ruolo principale rivestito dalle donne è di operare in missioni suicide, dove a missione terminata la loro morte e scomparsa dalle scene sono inevitabili. Una soluzione che può rivelarsi comoda per i leader dell’organizzazione terrorista.
Certamente, nonostante il dibattito sull’accettabilità o meno delle donne in ruoli operativi sia altamente variabile in relazione all’area e alla tipologia di conflitto, nonché a seconda delle caratteristiche del gruppo estremista, il ruolo principale dei diversi dettami religiosi rilasciati da differenti personaggi accademici e religiosi non fanno che garantire alle donne che simpatizzano con le cause degli estremisti una giustificazione religiosa a partecipare (attivamente o meno) alla jihad.
- Donne e jihad: quali le motivazioni? E perché proprio lo Stato Islamico?
La credenza che le donne siano per loro natura materne, pacifiste e sostenitrici della filosofia della non violenza, è inesatta e può portare facilmente in errore. Infatti, secondo diversi studi, le donne che si uniscono a gruppi militanti si trovano nella maggior parte dei casi in condizioni sociali, culturali e religiose simili. Tali condizioni le motivano e spronano al supporto e al ricorso della violenza, allo stesso modo degli uomini. Le ragioni per cui prendono parte agli scontri, invece, variano, anche se vi possono essere delle sofferenze passate comuni. Ciò che motiva ognuna è differente per ciascuna di loro; infatti, non ci sono due terroristi che si assomiglino, indipendentemente dal loro sesso. Allo stesso modo, per quanto i conflitti possano assomigliarsi tra di loro, nessuno è perfettamente uguale all’altro[22]. È fondamentale quindi non fare l’errore di trarre conclusioni affrettate e del tutto prive di obiettività. Soprattutto, sebbene sia importante confrontare vari scenari e situazioni per trovare similitudini che possano aiutare a meglio comprendere il pericolo e come contrastarlo, allo stesso tempo è importante analizzare ogni singolo caso a sé.
Le donne quindi non hanno meno motivi degli uomini ad abbracciare la violenza e la jihad. Esse nutrono gli stessi motivi personali degli uomini, di cui due sono particolarmente accentuati ed importanti: la perdita dei propri cari e la violazione del loro onore. Inoltre, tali motivi personali spesso convergono con i vantaggi offerti loro dalle organizzazioni terroriste che sfruttano il dolore delle reclute a loro vantaggio.
Nel caso dello Stato Islamico, secondo la studiosa Anita Peresin, le ragioni delle donne musulmane occidentali ad unirsi al gruppo terrorista in questione vanno ricondotte a motivazioni religiose, ideologiche, politiche ma anche personali[23]. In particolar modo, le principali motivazioni delle seconde generazioni di immigrati musulmani e degli occidentali recentemente convertiti risiedono nello scontento e nella frustrazione della vita che conducono in Occidente nonché dell’ambiente in cui vivono. Il loro è un “doppio senso di non appartenenza”[24]: essi combattono una battaglia interiore tra l’entità e l’etnia ereditate, e la loro assimilata identità occidentale. La mancata integrazione nella società e l’incapacità di rispettarne le norme portano questi individui a cercare una nuova identità, una nuova comunità di cui fare parte. Infatti, la percezione di una mancata accettazione da parte della società e comunità occidentali li ha portati a sentirsi umiliati e discriminati. Di conseguenza, essi cercano un modo per ristabilire e ricostruire il loro valore, la loro identità, andando contro all’Occidente secolare e globalizzato in cui sono nati e/o cresciuti. Da ciò quindi deriva il bisogno di trasferirsi in un luogo percepito come ideale e perfetto (in questo caso il Califfato), dove vivere diversamente e secondo i precetti della Sharia, raggiungere il cambiamento ed abbracciare l’ideologia della violenza per opporsi al passato e all’Occidente oppressore.
Anche le donne sono generalmente motivate da ragioni politiche e personali. Perciò, il loro desiderio di portare a termine un atto politico non dovrebbe essere sottostimato. Bisogna sottolineare anche (come vedremo nei prossimi paragrafi) come vi sia una grande differenza tra ciò che motiva le donne ad unirsi ad un gruppo terrorista e ciò che incoraggia un gruppo a reclutare anche le donne. D’altronde, indipendentemente dalle ragioni che spingono una donna ad unirsi ad un gruppo terrorista, tali organizzazioni sono pur sempre attori estremamente razionali e calcolatori capaci di sfruttare e manipolare le debolezze e credenze altrui a proprio favore[25].
Di certo uno dei fenomeni più interessanti legati allo Stato Islamico è l’incredibile numero di donne che dall’Occidente – ma anche il resto del mondo – hanno deciso di impegnarsi nella hijra e raggiungere il Califfato islamico per unirsi al gruppo terrorista. Infatti, nonostante la mancanza di dati ufficiali rilasciati dai governi, secondo l’International Centre for the Study of Radicalisation, dei 41.490 cittadini internazionali provenienti da più di 80 Paesi che tra l’aprile 2013 ed il giugno 2018 hanno raggiunto lo Stato Islamico, 4.761 (il 13%) erano donne. L’Asia Orientale ha visto la maggiore proporzione di donne e minori affiliati ad IS (ben il 70%), seguita a ruota dall’Europa Orientale (44%), l’Europa Occidentale (42%), le Americhe, Australia e Nuova Zelanda (36%), Asia Centrale (30%), Asia sud-orientale (35%), sud asiatico (27%), il Medio Oriente e nord Africa (MENA, 8%), e l’area sub-Sahariana (<1%)[26]. La maggior parte delle ragazze occidentali, giovani con un’età compresa tra i 16 e 24 anni, proverrebbero prevalentemente da Francia, Gran Bretagna, Germania, Austria e Belgio[27]. Molte sono state reclutate dai loro stessi parenti, fratelli o mariti, oppure spesso la loro è una vera e propria fuga “d’amore” per la jihad, che le ha spinte a scappare di casa senza dire nulla ai propri cari. Nella maggior parte dei casi le ragazze appartengono a famiglie di origine musulmana, anche se non mancano casi di giovani da poco convertite all’Islam[28].
Le ragioni della loro hijra variano. Innanzitutto, la loro è una risposta alla chiamata di Abu Bakr al-Baghdadi, il leader dello Stato Islamico, il quale nel 2014 sollecitò le giovani donne ad unirsi al Califfato per aiutare a costruire una nuova entità territoriale che necessita di figure femminili da inserire nei ruoli di mogli, madri, ma anche lavoratrici, dottoresse, infermiere, ingegneri ecc. Inizialmente, molte avevano semplicemente seguito il proprio marito jihadista oppure desideravano vendicare la morte dei propri cari ed hanno quindi preso la decisione di raggiungere lo Stato Islamico[29]. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, le giovani donne hanno lasciato le proprie case per andare in Siria e sposare giovani jihadisti (spesso incontrati su siti internet), profondamente convinte di avere la missione di contribuire alla creazione di una società islamica stabile all’interno del Califfato, come mogli e come madri, e di aiutare la umma, secondo loro sotto attacco dall’Occidente.
L’ideologia assieme all’empatia verso la umma considerata sotto attacco, quindi, sono fattori importanti che spingono le donne ad unirsi allo Stato Islamico. Come spiegano Carolyn Hoyle, Alexandra Bradford e Ross Frenett nel loro studio “Becoming Mulan?”, ma anche Olivier Roy nel suo libro “Jihad and death: The global appeal of Islamic State”, si tratta nella maggior parte dei casi di donne immigrate (di prima ma anche seconda e terza generazione) residenti in Occidente[30]. Queste hanno sofferto di un profondo senso di alienazione nei confronti della società ospitante e delle comunità di appartenenza. Inoltre, anche il crescente tasso di xenofobia e di razzismo nei confronti degli immigrati musulmani in Occidente hanno spronato queste giovani donne a cercare un ambiente che le accettasse e che permettesse loro di vivere la propria religione senza giudizi esterni, promessa che proprio lo Stato Islamico fa. La soluzione che esse trovano all’oppressione xenofoba occidentale risiede in una società islamica costruita su una severa e rigida interpretazione della legge della Sharia. Esse condividono la visione di una società ideale che vogliono aiutare a costruire nei territori conquistati dal gruppo terrorista Stato Islamico. Soprattutto, queste donne credono fermamente sia un loro dovere religioso (fard al-ayn) migrare, in quanto credono la migrazione le avvicini a Dio e assicuri loro un posto in Paradiso. Allo stesso tempo, la migrazione dà loro un senso di appartenenza e sorellanza sulla terra. Questi fattori assieme sono cruciali nel motivare le donne a migrare verso lo Stato Islamico[31].
Ciò non toglie, tuttavia, che molte ragazze ancora molto giovani si siano unite a IS perché ingenue e facilmente manipolate dalla propaganda jihadista ad abbracciare una causa che magari non comprendono a fondo: una propaganda che promette loro la possibilità di prendere in mano le loro vite, liberarle dal controllo opprimente dei genitori e da società che le marginalizzano a causa del loro credo, società che non fanno che alienarle socialmente e culturalmente.
Non sembrano esserci, invece, motivazioni finanziarie, in quanto molte di queste donne provengono da famiglie agiate e benestanti, hanno un’ottima istruzione e quindi anche brillanti prospettive lavorative. Anche questo fatto dimostra come le donne abbiano un’idea molto romantica ed ideale del loro ruolo nella jihad, come si può vedere dal loro crescente desiderio di sposare dei guerrieri “santi” e di vivere in uno stato musulmano ideale[32]. Tuttavia, ciò non significa assolutamente che la loro motivazione sia più debole o inferiore a quella degli uomini che hanno preso parte allo Stato Islamico.
Altre motivazioni risiedono nella voglia di avventura, nella ricerca di una vita più avvincente che si discosti dall’insoddisfazione in cui si ritrovano. Possono esserci anche casi di donne con eventuali problemi psicologici. Ancora, alcune donne credono di essere in una vera e propria missione umanitaria per aiutare i siriani senza prendere parte a nessuna azione violenta, mentre altre sperano proprio di prendere parte a missioni e combattimenti. Si può di certo dire che la motivazione delle donne ad unirsi allo Stato Islamico è una combinazione di ragioni politiche e personali, assieme ad un pizzico di ingenuo romanticismo[33]. Di certo però, le loro aspettative si discostano dai veri progetti del gruppo terrorista.
Ad essere di estrema importanza in questo processo di radicalizzazione è certamente la propaganda del gruppo, il quale pubblica online immagini, video e report di condizioni di vita apparentemente ideali ed un trattamento esclusivo per le donne dei combattenti islamici. Tali immagini spesso rappresentano donne armate impegnate nella vita di ogni giorno: amichevoli incontri nei caffè, pranzi e cene nei ristoranti, cucinare in allegria, fare le pulizie, fare selfie con i propri mariti combattenti e così via.
Secondo Peresin e Cervone, uno dei documenti più validi che sembra (sempre in termini propagandistici) bene rappresentare la concezione del ruolo della donna all’interno dello Stato Islamico è il documento “Donne nello Stato Islamico: Manifesto e Studio” pubblicato dalla brigata Al-Khanssaa[34] su un forum jihadista il 23 gennaio 2015[35]. Tale documento, redatto esclusivamente in arabo ed indirizzato prettamente alle donne arabe (in quanto il gruppo crede che una sua traduzione porterebbe ad un calo di affluenza delle donne occidentali), si divide in tre parti: nella prima vi è una condanna alla civiltà occidentale ed in particolar modo al femminismo. La seconda parte illustra la vita idealizzata delle donne nei territori del Califfato, concetto rappresentato come il più completo raggiungimento e realizzazione dei precetti islamici. La terza sezione offre una comparazione della vita delle donne residenti nella Penisola Araba e nei territori del gruppo terrorista, con la chiara intenzione di spronare le prime ad emigrare nei territori dei secondi. In sostanza, il documento glorifica la vita sedentaria delle donne risaltandone ed elogiandone i doveri e responsabilità in qualità di madri e mogli. Le donne perciò devono essere protette in quanto responsabili delle future generazioni jihadiste. Anche il matrimonio (che deve avvenire tra i nove e diciassette anni di età) viene rappresentato come istituzione obbligatoria per ogni donna che voglia mantenere la propria essenza di purezza. È proprio dal matrimonio che le loro responsabilità iniziano a prendere forma assieme alla devozione verso il proprio ruolo di detentrici e conservatrici della società stessa[36].
L’aspetto più importante di tale documento è che lo stile di vita della perfetta muhajirat che emerge si discosta notevolmente dalla vita avventurosa ed eccitante che al contrario si aspettano le donne e reclute occidentali, ma si avvicina invece alle aspettative delle donne nord-africane e medio-orientali rigidamente rispettose ed osservanti della legge della Sharia. Inoltre, questo manifesto non preclude alle donne di entrare in combattimento in casi estremi quali: territorio sotto attacco, insufficienza di uomini, presenza di una fatwa emanata da un imam che ne detti la necessità di intervento[37].
Come abbiamo potuto notare, quindi, uno degli strumenti che più incanalano ed indirizzano le motivazioni delle donne ad unirsi allo Stato Islamico, è l’efficiente uso che quest’ultimo fa dei vari mezzi di comunicazione a propria disposizione per diffondere la propria propaganda ed incantare persone per lo più insoddisfatte dalla società occidentale; in particolar modo, il loro estensivo uso dei social media, creato ad hoc per ‘imbambolare’ le donne di tutto il mondo. Tale metodologia implica tre funzioni: radicalizzare, reclutare e formare una nuova identità. Inoltre, tale metodologia è stata particolarmente pensata ed intensificata per plasmare ed indottrinare quante più donne possibile, offrendo cioè loro quante più motivazioni possibili per compiere la hijra, dando loro tutte le informazioni ed il supporto utili per compiere il viaggio, consigliandole su come trovare un marito appropriato non appena raggiunti i territori di IS, informandole su quella che è la vita all’interno del Califfato e su quelli che sono i contatti loro concessi con i propri cari rimasti in Occidente. In tutto ciò, il Califfato viene rappresentato come un vero e proprio Paradiso musulmano, un territorio ideale e prospero dove vivere serenamente.
- Il vero ruolo delle donne all’interno dello Stato Islamico
Tra propaganda e realtà, qual è allora il vero ruolo delle donne all’interno dello Stato Islamico?
La crescente tendenza da parte dello Stato Islamico di reclutare ed incorporare sempre più donne all’interno del proprio Stato ed organizzazione è certamente qualcosa di nuovo nella recente storia dello jihadismo ed in comparazione con l’attività di qualsiasi altra organizzazione jihadista. Risulta essere sorprendente ed allo stesso tempo incredibilmente curioso come un gruppo terrorista così ultraconservatore sia in grado di attirare a sé ed incorporare un numero così ampio e crescente di reclute di sesso femminile provenienti da tutto il mondo.
In realtà, le donne per lo Stato Islamico sono delle vere e proprie pietre miliari su cui fondare e far crescere il Califfato, soprattutto in funzione dei loro obiettivi politici ed ideologici[38]. Lo Stato Islamico vede veramente la partecipazione delle donne all’attività dell’organizzazione come un’immacolata risorsa ed è perciò disposto a fare delle concessioni alla propria ideologia pur di sfruttarla al massimo. Come vedremo in seguito, la presenza delle donne si rivela un vero e proprio vantaggio strategico per il gruppo terrorista[39].
Inoltre, secondo quanto riportato da un ex membro di al-Qaeda, Aimen Deen, lo Stato Islamico (al contrario di Al Qaeda, che ha un’opinione vaga e contraddittoria sul ruolo e contributo delle donne nella costruzione dello Stato) ha sempre cercato di fondare una società permanente con radici profonde e solide. Perciò, esso cerca in tutti i modi di attirare quante più famiglie musulmane provenienti da tutto il mondo verso il Califfato, per fornire allo Stato Islamico le famiglie di cui ha bisogno. Qui, le donne hanno un ruolo molto più attivo rispetto a quello permesso alle donne talebane o alle donne di Al Qaeda. Infatti, secondo Aimen Deen, le donne dello Stato Islamico sono “metà della società. Esse rivestono un ruolo importante in molte aree: l’area medica, l’area educativa, nella riscossione delle tasse; esse sono essenziali alla sopravvivenza dello Stato Islamico stesso”[40]. Le donne, in sintesi, sono parte integrante ed ingranaggio fondamentale del Califfato. Ciò significa che viene loro richiesto di rivestire ruoli organizzativi importanti, in quanto il loro ruolo per la formazione, crescita, sostentamento e sopravvivenza dello Stato è fondamentale, ed il gruppo terrorista lo sa benissimo, tanto da investirci notevolmente[41].
All’interno dello Stato Islamico le donne non hanno solo l’obbligo di essere buone mogli e madri delle future generazioni di jihadisti (comunque ruolo essenziale per la crescita e prosperità del Paese, in quanto dà vita ai prossimi uomini combattenti ed alle donne che lo amministreranno. La figura della donna rafforza anche l’identità collettiva della umma, cioè della comunità), ma esse sono anche fondamentali per molte altre ragioni: possono trasformarsi in agenti operativi utilizzati in prima linea, possono essere dei veri e propri strumenti di reclutamento che spingono donne e uomini ad arruolarsi nei ranghi dello Stato Islamico, possono operare come polizia morale, possono diventare incentivi al combattimento, strumenti finanziari (quando vendute come schiave sul mercato nero) ma anche come strumenti di propaganda[42].
La propaganda dello Stato Islamico suggerisce che la volontà di Allah per le donne musulmane ‘pure’ sia che esse supportino la comunità essendo buone mogli e madri amorevoli delle future generazioni di jihadisti. Perciò, all’interno del Califfato le principali responsabilità di una donna sono nei confronti del marito e della famiglia. Tale visione largamente romanticizzata da parte del gruppo ha attirato un sacco di donne verso il Califfato. Tuttavia, lo Stato Islamico ha comunque affidato dei ruoli alle donne che sono ben al di fuori del loro nucleo famigliare e del loro matrimonio. Infatti, secondo l’analisi svolta da Amanda Spencer sul ruolo delle donne all’interno dello Stato Islamico, esse hanno crescenti responsabilità nella costruzione del Califfato, in particolar modo esse ricoprono una miriade di ruoli diversi: mogli adeguate per i soldati di IS, genitrici delle nuove generazioni di jihadisti, promotrici della propaganda del gruppo terrorista attraverso il reclutamento online, responsabili di mansioni logistiche, mantenitrici dell’ordine tra le donne della comunità dello Stato Islamico, studiose della religione, dottoresse e maestre, fino ad essere esecutrici della jihad violenta[43]. Questi sono tutti ruoli fondamentali per avanzare la causa del gruppo. È importante ricordare come una donna possa rivestire più di un singolo ruolo e come essi possano variare nel tempo. Perciò, capire il funzionamento e l’importanza del loro ruolo all’interno del gruppo è essenziale per carpire maggiori informazioni sul gruppo stesso e valutare quindi i possibili sviluppi futuri e, perciò, i modi per contrastarli il più efficacemente possibile.
Tra i ruoli domestici individuati dalla Spencer vi sono quelli della moglie e della madre. Essi vengono rappresentati come ruoli fondamentali ed incredibilmente onorevoli, che danno purezza alla donna e si contrappongono al caos generato dall’Occidente, dove le donne possono ricoprire mansioni maschili ed abbandonano perciò (agli occhi del gruppo terrorista) le responsabilità familiari. Inoltre, il gruppo rappresenta tali figure tradizionali come custodi dei valori culturali, sociali e religiosi che verranno trasmessi alle generazioni future. Come mogli, è loro richiesto di svolgere diverse mansioni, tra cui le due più importanti donare la vita alle future generazioni e prendersi cura del proprio marito; come compagna deve essergli di conforto durante la sua lotta nella guerra ma deve anche rimanere in casa, nascosta e velata, e deve occuparsi dei sui pasti quotidiani, di pulirgli l’uniforme, e mantenere una casa pulita. Inoltre, esse sono responsabili di comprendere e soddisfare i bisogni sessuali dei propri mariti[44]. In quanto madri, invece, esse devono crescere, educare, e proteggere i propri figli dalle influenze degli infedeli. La loro più grande responsabilità è di crescere la futura generazione di jihadisti secondo il volere di Allah[45].
Tra i ruoli operativi (assegnati per lo più alle vedove o alle donne non sposate) le donne possono scegliere due strade: entrare a far parte della brigata al-Khansaa o diventare reclutatrici. Nel primo caso, la brigata (composta principalmente da donne tra i 18 e 25 anni di età) ha come scopo principale il rinforzare ed applicare con ogni metodo e mezzo a propria disposizione la rigida concezione della moralità islamica secondo IS. L’unità si occupa di effettuare perquisizioni, raccogliere informazioni sensibili, supervisionare gli schiavi, far rispettare la legge. Si tratta di un’unità operativa tutta al femminile, una vera e propria milizia oppressiva che operava nelle città principali quali Raqqa e Mosul. Le donne che ne hanno fatto parte sono state addestrate a caricare, pulire e sparare con le pistole. Inoltre, per portare a termine il loro compito di protettrici dell’ordine pubblico in termini di rispetto delle leggi della Sharia (quali l’abbigliamento consono, il divieto di consumare alcolici, atteggiamenti non accettabili in pubblico quali l’allattamento al seno, punire possibili nemici del Califfato, ecc.) e della severa moralità dettata dallo Stato Islamico, esse hanno a loro disposizione anche degli AK-47 nonché la possibilità di indagare nella vita delle donne all’interno del Califfato ed invadere le loro case ogni volta che desiderano per qualsivoglia motivo[46]. Il ruolo della brigata ha visto nel corso degli anni delle continue evoluzioni, tanto da arrivare a sovraintendere i campi di detenzione dei prigionieri Yazidi, cristiani ed apostati. Qui, la brigata si è più volte macchiata di abusi fisici e verbali sui prigionieri, arrivando spesso anche alle violenze sessuali, alle torture e alle esecuzioni[47].
Le reclutatrici, invece, sono donne responsabili della propaganda online del gruppo, che ha portato un incredibile numero di persone provenienti da tutto il mondo ad unirsi al gruppo terrorista. Secondo diversi studi, il gruppo assegna tale ruolo principalmente alle donne occidentali, le quali operano su diversi siti e piattaforme di social media quali Twitter, Facebook, Tumblr, WhatsApp, ecc[48]. Il loro ruolo, appunto, è di attrarre quante più persone alla causa del gruppo terrorista e di spingerle a trasferirsi nel Califfato offrendo loro parole dolci, soluzioni e benefit attraenti alle maggiori frustrazioni personali nonché all’insoddisfazione del proprio stile di vita che molti musulmani occidentali (e non) vivono quotidianamente sulla loro pelle. Esse, inoltre, forniscono ai loro contatti informazioni organizzative, mezzi e raccomandazioni su come portare a termine la loro hijra verso il Califfato, ma sono anche responsabili di fornire al loro contatto il supporto emotivo, informativo e logistico necessari[49]. Secondo Erin Saltman “la propaganda che inviano si basa sull’idea dell’alienazione e dell’appartenenza. Ma la retorica mirata al reclutamento delle donne si basa soprattutto sulla sorellanza ed il trovare amici migliori, oppure la realizzazione spirituale – che per gli uomini si traduce in un possibile martirio. Per le donne (invece) si traduce nella realizzazione del ruolo spirituale e divino, cioè essere la moglie di un jihadista forte e la madre della prossima generazione”[50]. Infine, anche se il ruolo principale delle reclutatrici donne è di persuadere le persone a migrare verso il Califfato, esse spesso spingono e spronano con i loro messaggi e tweet a supportare lo Stato Islamico anche nelle città e Paesi di residenza dei singoli individui incapacitati a migrare e raggiungere il Califfato[51].
Infine, dai ruoli individuati da Spencer quali fondamentali per la costruzione dello Stato (ruoli cioè responsabili della manutenzione, del mantenimento e dell’espansione dello Stato), vi sono diverse mansioni che prevedono le donne possano lasciare la casa per servire la comunità o per raggiungere i luoghi di lavoro. Esse sono donne specializzate in mansioni professionali e con specifiche competenze e capacità: dottoresse e maestre, ma anche donne impegnate in attività amministrative, pubbliche, e di polizia, infermiere ed addette agli ospizi ed ai centri benessere nonché agli orfanotrofi[52]. Le maestre ed educatrici sono fondamentali nel creare e crescere una nuova generazione di jihadiste fedeli (insegnano infatti alle bambine tra i 7 e 15 anni di età la religione, le loro responsabilità e doveri futuri come mogli e madri, nonché le leggi della Sharia, ma anche a ricamare e a cucinare[53]). Esse sono anche responsabili dell’organizzazione dei matrimoni combinati tra le proprie studentesse e i foreign fighters. Inoltre, esse spiano per conto di IS le vite dei propri studenti e delle loro famiglie, e chiedono loro per conto di IS di denunciare le possibili violazioni delle leggi della Sharia da parte dei loro genitori. Gli insegnamenti delle maestre, quindi, sono un’arma fondamentale per l’istruzione mirata delle nuove generazioni, per insegnare alle ragazze come occupare posizioni importanti ed, in caso, gestire gli affari statali. Ideologicamente convinte ed equipaggiate con la conoscenza pratica, queste donne possono provvedere a tutti i servizi necessari alla popolazione femminile del Califfato[54].
Tutto questo è possibile in quanto, se da una parte IS ha imposto una segregazione basata sul genere nei luoghi pubblici del Califfato, dall’altro lato ha anche creato delle istituzioni parallele per il genere solitamente segregato. Ciò significa che all’interno di ogni istituzione pubblica esistente sul territorio dello Stato Islamico deve esserci la sua corrispettiva sezione femminile. Quest’ultime sono interamente gestite da donne per gli interessi ed affari delle donne, con un’interazione con gli uomini ridotta al minimo necessario. Tale sistema comprende tutte le istituzioni statali dello Stato Islamico, come l’istruzione, la sanità, l’amministrazione, la polizia, la finanza (ad esempio la riscossione delle tasse), ed i servizi (ad esempio servizi quali l’ospitalità, la carità, aiutare gli immigrati, ecc.)[55]. Così facendo IS ha fatto sì che le donne venissero incorporate nella costruzione dello Stato e della comunità del Califfato senza compromettere la propria ideologia conservatrice. Inoltre, attraverso l’applicazione di istituzioni parallele, lo Stato Islamico sfida l’Occidente secolare e l’emancipazione della donna occidentale, offrendo la sua versione di Stato e di emancipazione, includendo tra l’altro la redenzione divina[56].
Le donne dello Stato Islamico, quindi, ricoprono ruoli ed attività nell’ambito logistico e di supporto, della costruzione dello Stato e nelle operazioni tattiche. Esse non sono tutte vittime della violenza maschile, piuttosto esse sono coscienti delle scelte fatte e del ruolo che rivestono. Esse sono membri volenterosi.
Bisogna sottolineare come vi sia poi una differenza di ruoli rivestiti dalle donne arabe (locali e non) e dalle donne provenienti dal resto del mondo. Secondo Youssef e Harris, infatti, la nazionalità ha un ruolo importante: se le donne occidentali si occupano prevalentemente della propaganda del gruppo, le donne arabe rivestono ruoli esecutivi importanti data la loro capacità di meglio comunicare con la popolazione locale nonché la loro profonda conoscenza della comunità, delle persone, e della cultura Islamica (un esempio è il pattugliamento sulle strade del Califfato da parte della brigata al-Khansaa, costituita principalmente da donne arabe) [57].
Infine, secondo Spencer, bisogna anche notare come le donne sotto IS non sono in grado di rivestire ruoli di comando di grado elevato, ma, possono – grazie al loro status di mogli di combattenti di grado elevato – prendere parte a riunioni riservate o ad operazioni importanti; possono cioè gestire un network tutto al femminile per dare sostegno ed informazioni ai veri operativi, gli uomini[58]. Nel caso di Umm Sayyaf (moglie di un importante esponente e capo finanziario dello Stato Islamico, Abu Sayyaf), la sua cattura ed interrogatorio hanno rivelato la presenza di un network femminile responsabile del reclutamento, spionaggio e gestione della schiavitù sessuale all’interno del Califfato. Questo dimostra come anche donne in posizioni importanti (posizioni determinate anche dal grado elevato del marito) possano prendere parte ad operazioni di intelligence rimanendo allo stesso tempo a casa ed adempiendo ai propri doveri di mogli e madri[59].
- Vantaggi strategici e tattici
Come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, lo Stato Islamico ha attirato a sé un numero sorprendente di donne ed il loro coinvolgimento spazia tra una vasta serie di ruoli non combattenti tra cui il patrocinio, la radicalizzazione, il finanziamento ed il riciclaggio di denaro, ma anche ruoli combattenti difensivi, quali lo spionaggio e l’istituzione di una polizia interna volta a regolare il rispetto della legge della Sharia.
La scelta rivoluzionaria per un gruppo jihadista che si considera essere rispettoso delle tradizioni musulmane di includere un numero sempre crescente di donne, nonché di dare loro la possibilità di ricoprire una vasta gamma di ruoli, riflette una logica strategica: l’integrazione delle donne non è altro che un modo per incrementare il successo organizzativo del gruppo jihadista.
Infatti, secondo lo studio condotto da Hamoon Khelghat-Doost[60], se un gruppo terrorista ha come obiettivo primario far cambiare politica ad un governo o far ritirare le forze degli Stati democratici dai territori percepiti come propri, esso può arrivare ad utilizzare le donne nella logica strategica di avere un vantaggio tattico contro il nemico (ad esempio, l’utilizzo delle donne porta spesso una maggiore attenzione da parte dei media ed un tasso maggiore di nemici morti, in quanto tendenzialmente si crede improbabile il coinvolgimento delle donne in operazioni violente). Tuttavia, quando il gruppo jihadista mira alla costruzione di uno Stato vero e proprio, e quindi gli obiettivi del gruppo variano, lo stesso utilizzo delle donne cambia a seconda delle necessità strategiche del gruppo. Da ciò ne deriva che dal vantaggio tattico delle donne in combattimento (ad esempio attraverso attacchi suicidi), esse cominciano a rivestire un ruolo amministrativo fondamentale per la creazione e crescita dello Stato. La morte della donna non è più necessaria al gruppo per vincere contro i nemici e raggiungere i propri obiettivi. In un gruppo jihadista come quello dello Stato Islamico, quindi, le donne sono le fondamenta dello Stato e ricoprono perciò ruoli non-combattenti nella sfera pubblica e privata. Comunque, bisogna tenere ben presente come questa progressione non sia solamente binaria ma può essere soggetta ad inversione: come il gruppo jihadista che passa da una struttura operativa a quella di Stato, allo stesso modo può passare da Stato debole[61] in gruppo operativo che adotta nuovamente una strategia logica in cui il sacrificio delle donne diventa necessario per raggiungere l’obiettivo finale del gruppo.
Perciò, Khelghat-Doost distingue tra organizzazioni jihadiste prettamente operative e quelle che mirano alla costruzione di uno Stato. Egli identifica come organizzazioni jihadiste basate sull’operatività tutti i gruppi terroristici islamici la cui ideologia Salafita porta ad atti di violenza estrema in nome di dio e della jihad per raggiungere obbiettivi politici. Il principale obiettivo politico di tali organizzazioni generalmente sta nel rimuovere le potenze occidentali dalle terre musulmane e di togliere dal potere le autorità locali considerate corrotte dall’Occidente affinché vi possano restaurare la legge islamica. Ai loro occhi l’unico modo di realizzare tale obiettivo è attraverso la lotta armata contro le forze occidentali e gli apostati. Anche questi gruppi credono nella necessità di creare uno Stato islamico in grado di raggruppare e rappresentare tutte le società musulmane ma nemmeno loro sanno bene come fondarlo, strutturarlo e come farlo funzionare. Inoltre, data la struttura frammentata di tali gruppi ed organizzazioni (la maggior parte è organizzata in cellule clandestine dello stesso network sparse in diversi Paesi) la creazione di uno stato risulterebbe essere molto difficile. Infine, in termini di approccio operativo, tali organizzazioni conducono contro i loro nemici ben armati una guerra asimmetrica incentrata prevalentemente su azioni di guerriglia. Essi usano cioè le cosiddette armi dei più deboli: attacchi bomba, autobombe, assassinii, rapimenti, pirateria, dirottamenti aerei ed attacchi suicidi. Un esempio di gruppo jihadista focalizzato sull’aspetto prettamente operativo è Al Quaeda.
Al contrario, le organizzazioni jihadiste che mirano alla costruzione di uno Stato/califfato, sostengono una visione più o meno chiara di uno Stato basato sulla tradizionale struttura dei califfati risalenti all’età d’oro dell’Islam ed in grado di contrastare i loro nemici e mandarli via dai propri territori. Questi gruppi sono passati alla concretizzazione della loro visione attraverso la proclamazione dello Stato/califfato e la creazione di istituzioni statali in grado di amministrare e regolare la società che lo Stato governa. Essi sostengono che il loro Stato/califfato è in grado di governare su tutta la comunità musulmana attraverso la legge della Sharia ed il potere del supremo leader, il Califfo. Perciò, in questo caso, non abbiamo più un’organizzazione strutturata in diverse cellule, bensì un’organizzazione incentrata in una data area geografica con all’interno un modello gerarchico ben preciso comprensivo di diversi dipartimenti (ad esempio amministrativi, militari, consultativi, difensivi, di intelligence, e giudiziari). In termini di tattiche militari e strategie, questa tipologia di organizzazioni utilizza una combinazione di metodi convenzionali ed asimmetrici grazie alle armi pesanti in loro possesso. Tuttavia, di fronte ad un nemico più forte non rinunciano all’utilizzo di metodi asimmetrici quali gli attacchi suicidi. Lo Stato Islamico è uno di questi.
Il ruolo delle donne all’interno di queste due tipologie di organizzazioni varia a seconda di quello che è il fine ultimo dell’organizzazione stessa. Nel primo caso, ad esempio, le donne vengono integrate all’interno dell’organizzazione come agenti tattici: la loro integrazione permette ai gruppi jihadisti di soddisfare la loro domanda logistica in quanto le donne possono più facilmente essere ‘sotto copertura’, operare clandestinamente e non essere soggette a controlli. Tuttavia, bisogna sottolineare come la maggior parte delle organizzazioni jihadiste sono restie ad utilizzare ed incorporare tra i loro ranghi le donne, perché non vogliono creare situazioni peccaminose in cui le donne sono sole in mezzo ad altri uomini senza il loro mahram. Al Qaeda ad esempio, normalmente assegna alle donne compiti di mero supporto e/o copertura per i jihadisti uomini[62]. In questo contesto, Khelghat-Doost divide i ruoli delle donne all’interno delle organizzazioni jihadiste operative in ruoli tattici di combattimento e non. Nel primo caso le donne prendono parte all’operatività del gruppo come copertura per i combattenti maschi, oppure prendendo direttamente parte ad attacchi suicidi. Nel caso dei ruoli non-combattenti, le donne possono essere utilizzate come messaggeri, supporto logistico, reclutatrici, oppure in azioni volte al finanziamento dell’organizzazione (immagine 1).
All’interno delle organizzazioni jihadiste che mirano alla costruzione di uno Stato/califfato, invece, le donne rivestono ruoli diversi che spaziano da ruoli secondari ai ruoli tattici di combattimento. Infatti, questi gruppi non sono più delle semplici organizzazioni militanti bensì gruppi che controllano e governano uno Stato. La loro logica strategica e il ruolo che lasciano alle donne sono diversi e sono strettamente legati al loro bisogno di indirizzare le sfide per mantenere uno Stato funzionante: ottenere e mantenere legittimità, essere in grado di fornire servizi e beni su scala nazionale, aiutare ad aumentare le possibilità di sopravvivenza dello Stato stesso. Qui, le donne sono fondamentali per realizzare e rafforzare la visione del califfato che il gruppo jihadista ha. Le donne, cioè, sono necessarie alla crescita e sostenibilità dello Stato-califfato in quanto esse definiscono la collettività ed i confini dello Stato stesso[64]. Inoltre, attraverso l’organizzazione dello Stato in dipartimenti e servizi suddivisi in base al sesso (come nel caso dello Stato Islamico), tali organizzazioni hanno meno problemi di incorporare al proprio interno le donne. Secondo Khelghat-Doost, in questi Stati/califfato il ruolo della donna si divide perciò in tre macro aree: legittimità (cioè il processo di partecipazione ed inclusione nella società che dà un senso di unità ed appartenenza; i modi cioè in cui le donne aiutano l’organizzazione ad ottenere e mantenere la legittimità del neo-stato), fornitura di servizi e beni pubblici (in uffici divisi per il solo genere femminile), e sicurezza (dove le donne vengono incluse nei ranghi per colmare il divario esistente nell’ambito della sicurezza). Nel primo troviamo i doveri di compiere la hijra, essere madre e prendersi cura della famiglia, ed infine impegnarsi nel reclutamento e nel fare propaganda. Nel secondo caso, le donne ricoprono ruoli di maestre ed educatrici, dottoresse ed infermiere, riscuotono le tasse e sono responsabili dei servizi d’immigrazione. Infine, nell’ambito della sicurezza, esse possono far parte delle forze di polizia e delle forze militari (immagine 2).
Tuttavia, l’uso delle donne in operazioni militari risulta essere alquanto nuovo e raro anche per lo Stato Islamico. Anche se i dati ufficiali sembrano confermare la mancanza di tracce di combattenti donne all’interno di questo tipo di organizzazione fino a maggio 2016, vi sono degli attacchi avvenuti nelle terre a nord in Iraq nel 2014 ed un attacco a Baghdad nel maggio del 2016 che sembrerebbero essere stati portati a termine da donne suicide[66]. Questo, secondo Khelghat-Doost, potrebbe essere un indicatore del cambiamento all’interno dell’organizzazione jihadista verso un indirizzo più operativo. Infatti, fintanto che i neo-stati/califfati sono in grado di combattere il nemico ed espandere i loro territori, essi possono mantenere alto il loro livello di legittimità tra i propri sostenitori. Ma, nel momento in cui le basi dell’organizzazione nonché dello Stato/califfato sono in serio pericolo di sopravvivenza, allora il gruppo fa un passo indietro ed adotta nuovamente le tattiche proprie dell’organizzazione operativa. Si tratta di una vera strategia di sopravvivenza che il gruppo adotta per mantenere l’immagine di rilevanza e potere, in quanto pur sempre organizzazione jihadista[67].
È quello che è accaduto nel caso dello Stato Islamico: il gruppo stava allargando i propri territori durante tutto il 2014 e l’inizio del 2015. Tuttavia, non appena esso ha cominciato ad essere in pericolo di vita, cioè dopo aver sofferto diverse sconfitte militari ed aver perso diversi territori, lo Stato Islamico ha cominciato a condurre – proprio come un’organizzazione prettamente operativa – tutta una serie di attacchi in Occidente (in particolar modo Francia, Belgio, Inghilterra e Germania) ed in Africa. Inoltre, IS ha ufficialmente chiesto ai propri sostenitori nel mondo di non fare più la hijra verso la Siria e l’Iraq, ma piuttosto di rimanere nascosti nei loro Paesi d’origine fino a quando il leader dello Stato Islamico non darà loro il segnale di attaccare[68].
Un attacco terroristico sgominato a Parigi nel settembre del 2016 fu ideato da una cellula di IS tutta al femminile[69], ed il mese seguente dieci donne furono arrestate in Morocco per aver progettato un attacco suicida durante le elezioni parlamentari (quattro di esse sembrerebbe abbiano sposato dei membri di IS impegnati nei combattimenti in Iraq e Siria via internet). In Francia, Morocco, Kenya, Indonesia e negli Stati Uniti ci sono stati diversi casi di donne attive nella creazione di attacchi per conto dello Stato Islamico (diretti o ispirati dal gruppo terrorista)[70]. Questi esempi dovrebbero far pensare all’importante ruolo che le donne hanno acquisito all’interno della nuova dottrina militare del gruppo, del loro possibile utilizzo tattico, ma soprattutto di come la logica strategica del gruppo IS sia nuovamente cambiata. Infatti, osservando IS vediamo come il gruppo sia in un momento di transizione (se non addirittura degenerazione) da un gruppo organizzato con una sede centrale fissa ad un network terrorista clandestino e sparso in tutta la regione e nel mondo[71]. Non bisogna quindi sottostimare il pericolo posto da questo gruppo terrorista, come non si può semplicemente pensare che il gruppo dopo la perdita di territori collasserà. Infatti, anche se il gruppo può soffrire di periodi di declino, esso è sicuramente incredibilmente resiliente e si adatta facilmente alle circostanze. La maggior parte dei gruppi terroristici vive una specie di resurrezione. Diventa quindi pericoloso per l’Occidente sottovalutare una simile minaccia, in quanto, nonostante la perdita di risorse e territorio, il gruppo continua ad usare strategicamente la propaganda a suo favore, cercando di ispirare attacchi anche al di fuori dello Stato Islamico[72].
Già nel 2006, quando Muriel Degauque portò a buon fine il primo attacco suicida da parte di una donna europea convertita all’Islam (ella era di origine belga e cresciuta secondo il Cattolicesimo) in Iraq, molti esponenti delle forze dell’ordine nonché accademici espressero la preoccupazione che i convertiti europei all’Islam avrebbero potuto portare un aspetto nuovo e molto preoccupante nella cosiddetta Guerra al terrore. Soprattutto, un rinnovato pericolo per l’Europa e tutto l’Occidente[73].
Oggi, il terrorismo al femminile sta aumentando perché le donne sono sempre più motivate a prendere parte alla violenza politica e perché le organizzazioni terroriste hanno sempre più incentivi nel reclutare operativi di sesso femminile. In particolar modo, le donne vengono spesso arruolate operativamente quando la stessa sopravvivenza del gruppo terrorista è messa in pericolo e vi è dunque la necessità di avere un maggior numero di fedeli combattenti pronti a continuare la battaglia dell’organizzazione terrorista[74].
L’uso di donne, soprattutto in campo operativo in un ambiente prevalentemente maschile, non è altro che un cambio della strategia e della tattica del gruppo, il quale si adatta a seconda del grado e del mutare delle minacce e pericoli alla sua sopravvivenza. Se l’uso delle donne quindi va a vantaggio del gruppo terrorista, esso ne incoraggerà la partecipazione in ogni modo possibile. Anche nel caso della religione islamica, che come abbiamo visto si è sempre opposta e ha attivamente condannato la partecipazione delle donne in atti/scontri violenti, essa può facilmente cambiare la propria posizione a seconda di quella che è la volontà e le necessità dell’organizzazione in quel momento storico. Infatti, pur di raggiungere i propri fini, il gruppo può ex post facto provvedere a giustificare il coinvolgimento delle donne nel terrore[75].
Tuttavia, anche se il mondo tende a percepire nelle donne impegnate in missioni suicide il pericolo maggiore, bisogna sottolineare come il ruolo di un supporter ideologico nonché facilitatore operativo sia molto più importante per il mantenimento delle capacità operative e per la stessa sopravvivenza e motivazione ideologica del gruppo terrorista. Il supporto che le donne forniscono agli uomini e l’educazione che danno ai propri figli fanno tutti parte di un determinato atto politico[76]. Infatti, anche quando le donne sono invisibili per l’audience mondiale, esse continuano a giocare un ruolo importante nel breve e lungo periodo per la stessa sopravvivenza dell’organizzazione terrorista.
- Possibili minacce e scenari futuri
Cosa aspettarsi dalla sconfitta militare dello Stato Islamico in Siria ed Iraq per le donne del gruppo?
Di certo il gruppo ha cominciato a cambiare la propria attitudine verso il ruolo delle donne. Ad esempio, nel numero 10 di Dar al-Islam, l’ultimo numero prima che la rivista dello Stato Islamico venisse sostituita dal nuovo giornale Rumiya, le parole rivolte alle donne musulmane cambiano drasticamente e vi è una chiarissima chiamata ad unirsi alla battaglia fisica, sia in Medio Oriente che in Occidente[77]. Dopodiché, l’autore dell’articolo ricorda che anche se esse non dovessero sentirsi a loro agio nei combattimenti fisici o ad adottare altre strategie più subdole volte ad uccidere i nemici, vi siano molti altri modi con cui le donne possono essere attive nella lotta contro gli oppressori (ad esempio prestando soccorso ai feriti come infermiere o dottoresse, ma anche attraverso la scrittura per diffondere il messaggio musulmano, come anche donne di carriera o contadine che sfamano la comunità).
Similmente, in un articolo contenuto nel numero 100 del settimanale Naba[78] ed intitolato “Il dovere delle donne nel perpetrare la jihad contro i nemici”, vi era un vero e proprio appello alle donne di prepararsi quali mujahidat, sante donne guerriere, “affinché portino a termine il loro dovere sotto ogni punto di vista nel supportare i mujahideen in questa guerra, preparandosi come mujahidat nella causa di Allah, e preparandosi a sacrificarsi per difendere la religione di Allah il più Alto e Possente…”[79]. Per le donne musulmane che vivono sotto la giurisdizione dello Stato Islamico il messaggio è chiaro: è tempo di combattere. Allo stesso tempo l’articolo invita tutte le donne simpatizzanti con lo Stato Islamico impossibilitate a migrare dall’Occidente verso il Califfato di portare a termine attacchi come lupi solitari con l’invito, presente anche nella rivista Rumiyah, ad aumentare gli attacchi contro i nemici[80].
In realtà, ancora prima di perdere territorio le donne erano impegnate quotidianamente con la violenza. Esse celebravano le vittorie degli uomini e le loro battaglie, incitavano online all’odio verso gli infedeli e verso l’Occidente. Sembravano essere completamente desensibilizzate dai terribili crimini e violenze commesse dal gruppo terrorista; piuttosto, lo sostenevano giustificando le loro azioni attraverso le letture ed interpretazioni della legge Islamica. Il loro sostegno online e la loro giustificazione alle azioni violente ed agli stermini di IS fa parte della propaganda del gruppo; esse diffondono sentimenti pro-IS ed hanno il potenziale di ispirare altre azioni violente e massacri. Inoltre, nella loro propaganda traspare la stessa volontà e desiderio da parte delle donne di infliggere loro stesse violenza e dolore[81].
Non deve stupire quindi che con l’aumentare delle condizioni critiche (quali la dislocazione sociale, le ingenti perdite nei conflitti e l’aumento degli attacchi) per l’organizzazione terrorista, la partecipazione femminile all’interno del gruppo terrorista è notevolmente aumentata. Infatti, come abbiamo visto, sono proprio le condizioni critiche a far sì che l’organizzazione arrivi ad arruolare le donne quale ultima risorsa in tempi disperati e critici. Ed è proprio in un momento di difficoltà che entra in gioco la chiamata da parte di IS alle donne di impegnarsi ed essere più attive nella jihad[82].
Certamente per un’organizzazione che ha sempre cercato di tenere lontano le donne dal campo di battaglia cambiare dialettica, diventare più aperti verso le donne e alla loro partecipazione fisica in battaglia, risulta pur sempre difficile trovare un modo di ottenere l’attenzione e soprattutto l’approvazione dei propri sostenitori per una scelta che andrebbe – secondo la dottrina musulmana conservatrice – contro la loro stessa ideologia ed il loro credo islamico[83]. Come convincere quindi donne e uomini simpatizzanti e membri dell’organizzazione che includere le donne nelle operazioni del gruppo sia operativamente accettabile e che andrebbe a beneficio dell’intera comunità? Come fare a sostenere e portare avanti un simile cambiamento organizzativo senza creare dissenso o compromettere la fiducia ed il rispetto del gruppo? Ebbene, attraverso la manipolazione della religione; proiettare la decisione quale volontà massima ed altissima di Dio porta sempre via qualsiasi responsabilità dai veri leader dello Stato Islamico. La manipolazione dei versetti del Corano e degli hadit permette quindi ai vertici dell’organizzazione di beneficiare della indiscutibile verità proveniente nientedimeno che da Dio e Maometto. Tale strategia funziona proprio perché il gruppo si circonda di membri che non conoscono bene i testi Islamici sacri e che quindi possono essere manipolati a loro piacimento a seconda delle necessità[84].
Qual è tuttavia la minaccia più reale? Forse il rischio più importante al momento è che la propaganda violenta fatta online assieme alla perdita di territorio da parte dello Stato Islamico possano ispirare sia donne che uomini a portare a termine attacchi nei loro Paesi di origine piuttosto che migrare in Siria ed Iraq. Il pericolo quindi sta in questi messaggi di incitamento alla violenza a casa propria. Ad esempio, Umm Layth twittò online la chiamata affinché le giovani musulmane che “non ce la fanno a raggiungere il campo di battaglia portino il campo di battaglia a sé. Siate sincere e siate delle Mujahid dovunque voi siate”[85]. Oppure la giovane ragazza di 15 anni, che impossibilitata a raggiungere la Siria ricevette l’ordine dai suoi reclutatori di portare a termine un attacco terrorista nella sua città[86]. Certamente le supporters donne dello Stato Islamico – in particolar modo le donne emigrate da altri paesi – contribuiscono significativamente alla diffusione dell’ideologia del gruppo. Perciò, i loro profili online potrebbero anche contribuire significativamente ad incoraggiare donne e uomini musulmani occidentali a perpetrare attacchi terroristici nei loro Paesi di origine. Il passaggio dalle parole ai fatti può essere molto breve. Ma fino a che punto sono disposte le donne ad unirsi alla lotta armata?
Secondo Carolyn Hoyle et al., le possibili minacce nel lungo periodo per l’Occidente da parte delle donne jihadiste sarebbero diverse: potrebbero rivestire un ruolo di supporto per i combattenti dello Stato Islamico ma potrebbero anche incoraggiare altri ad unirsi a loro se non addirittura incoraggiare direttamente degli attacchi (solitari ed organizzati) verso l’Occidente. Inoltre, con le crescenti perdite di territori e uomini da parte di IS, le donne potrebbero esse stesse decidere di immolarsi in attacchi suicidi, oppure decidere di ritornare nel proprio Paese d’origine in Occidente per condurre lì un attacco[87].
Secondo Speckhard, Shajkovci and Yayla con la sconfitta militare dello Stato Islamico in Siria ed Iraq i foreign fighters molto probabilmente migreranno altrove e molti potrebbero decidere di ritornare a casa[88]. Si tratterebbe in questo caso di persone profondamente ideologicamente indottrinate, addestrate ad usare armi, indurite dalla battaglia e probabilmente esperte a maneggiare esplosivi, che tornano a casa, a volte senza che le forze dell’ordine e i servizi di sicurezza nazionali ed internazionali ne vengano a conoscenza. Ad esempio, le forze dell’ordine kosovare hanno condiviso informazioni riguardanti diversi combattenti che si sono fatti dichiarare morti online pur di raggiungere illegalmente il proprio Paese d’origine bypassando qualsiasi controllo di sicurezza[89].
Di certo ciò non significa che tutti coloro che ritornano in patria siano un pericolo nazionale, ma di certo il loro indottrinamento ideologico e religioso li può manipolare più facilmente anche a distanza inducendoli ad attaccare l’Occidente per il Califfato e la sua comunità. In particolar modo, alcuni potrebbero semplicemente sentire nostalgia per l’ideale del Califfato islamico mentre altri potrebbero tornare per svolgere missioni di reclutamento ed addestramento (ad esempio nella costruzione di esplosivi), magari per svolgere attacchi individuali, oppure creare un vero e proprio network che si occupi di attacchi di guerriglia[90].
Per quanto riguarda il coinvolgimento delle donne nelle violenze in Occidente, secondo diverse ricerche condotte dalla ricercatrice Speckhard, a seconda che esse siano state radicalizzate all’interno o all’esterno dell’area di conflitto, le motivazioni a prendere parte alla violenza (in particolar modo ad attacchi suicidi) differiscono. Dopodiché, le donne certamente sono molto più psicologicamente vulnerabili degli uomini ad essere radicalizzate e portate a compiere attacchi suicidi, grazie ad alti tassi di stress post traumatico, depressione, ansia, patologie dissociative, e soprattutto, in quanto esse sono molto più reattive di fronte alle perdita di un familiare oppure del proprio partner e desiderano solamente avere la possibilità vendicarsi di tali gravi perdite[91].
Ciononostante, le donne non devono necessariamente diventare delle kamikaze per rivestire un ruolo fondamentale ed influente anche in Occidente. Tutte le donne radicalizzate, indipendentemente se hanno o meno raggiunto il Califfato, sono delle “portatrici sane” dell’ideologia fondamentalista dell’organizzazione terrorista. Si tratta di un ruolo fondamentale che non deve essere sottovalutato; le madri si preoccupano di educare e socializzare i propri figli, cercano sempre di portarli su quella che secondo loro è la retta via, il futuro, che non solo realizzi il figlio ma dia anche lustro alla famiglia. Queste donne e madri radicalizzate potrebbero indottrinare all’odio i propri figli, insegnare loro a sacrificarsi per la comunità, accettare l’ideologia estremista e supportare le missioni suicide come parte inscindibile del combattimento e ribellione contro l’oppressore che, infine, porterebbe loro l’eterna gloria. Molte madri potrebbero incoraggiare i propri figli a diventare attivi all’interno di locali cellule radicali, potrebbero motivarli a portare a termine azioni terroriste in nome dell’Islam, in nome del lustro e della rispettabilità della loro famiglia, ma anche come parte del processo integrativo che dà ai giovani significato, accettazione, fraternità, rispetto, avventura, e successo personale per la causa comune.
Allo stesso modo, tuttavia, bisogna tenere presente come non tutte le donne jihadiste che decidono di tornare nel proprio Paese d’origine dai propri familiari siano pericolose terroriste. Molte di loro vogliono solamente continuare a fare quello che hanno sempre fatto anche in Siria ed Iraq: rassettare la casa, cucinare, cucire, e occuparsi dei propri figli. Ciò non significa che esse non debbano affrontare le conseguenze delle loro azioni (cioè l’essersi unite ad un gruppo terrorista ed –in alcuni casi- l’essersi macchiate di crimini) [92], ma bisogna anche valutare ed adottare una politica unificata tra i Paesi occidentali che non vada a ledere quelli che sono pur sempre i diritti fondamentali dell’uomo.
Conclusione
Lo Stato Islamico è un’organizzazione terrorista che è stata in grado di richiamare a sé un numero mai visto prima di seguaci provenienti da tutto il mondo. Tra questi, ben il 13% sono donne. Si tratta nondimeno del gruppo terrorista che ha reclutato e manipolato con successo un incredibile numero di donne marginalizzate attraverso una propaganda romanticizzata della vita all’interno del Califfato. Un risultato che i gruppi terroristici che hanno preceduto lo Stato Islamico non hanno mai eguagliato.
Molte delle ragioni per cui le donne viaggiano verso il Califfato sono simili alle ragioni dei combattenti maschi: la percezione che la umma sia sotto attacco, un dovere religioso ed ideologico ad agire, e la ricerca di significato e cameratismo nelle loro vite. Comunque, il richiamo e la spinta dello Stato Islamico e la missione di creare uno Stato nuovo è particolarmente forte tra le donne, anche se molti dei percorsi e delle aperture cognitive sono uniche per ognuna di esse.
Come abbiamo potuto notare, gli scritti religiosi e giuridici nonché le testimonianze di diversi imam ed esponenti dell’Islam sostengono che la donna non debba prendere parte alla jihad violenta, salvo rari casi eccezionali (e anche qui le opinioni sono discordi). Tuttavia, lo Stato Islamico è stato capace di creare un ambiente ed una comunità altamente conservatori dove però le donne sono attrici fondamentali. Sono infatti le donne che portano un incredibile contributo alla forza e alla capacità operativa del gruppo terrorista. Il loro ruolo, quindi, non deve assolutamente essere sottovalutato: sono esse ad essere un asset insostituibile per la longevità e la sopravvivenza stessa di IS.
Ciononostante, le muhajirat in maggioranza non sono combattenti e non si dovrebbe fare riferimento a loro in tale senso. La minaccia che attualmente pongono è differente da quella posta dalla controparte maschile. Le donne reclutano ed assistono gli altri nel raggiungere lo Stato Islamico. Supportano i combattenti maschi in modo non militare ed incoraggiano attacchi verso l’Occidente con coloro che non possono viaggiare e migrare verso il Califfato. Dimostrano il loro supporto verso la violenza più brutale e sanguinolenta alla stessa stregua degli uomini. Esse, anche, dimostrano una capacità e volontà di prendere parte alla violenza e – dovessero le circostanze cambiare – agli attacchi suicidi.
Il recente mutamento dello Stato Islamico da neo-stato ad organizzazione operativa potrebbe avere forti ripercussioni sul ruolo – operativo o meno – delle donne all’interno di questo gruppo terrorista e sulle possibili minacce che esse rappresenterebbero per l’Occidente. Infatti, in un disperato momento di sopravvivenza l’organizzazione terrorista potrebbe adottare una vera e propria strategia di sopravvivenza che andrebbe ad impattare notevolmente sul ruolo delle donne nella jihad. Pur di sopravvivere, il gruppo terrorista sarebbe disposto ad aggirare le regole conservatrici su cui si fonda.
Abbiamo anche visto come il pericolo maggiore non derivi tanto da attacchi suicidi da parte delle donne quanto piuttosto dal loro supporto ideologico alla sopravvivenza del gruppo stesso. Il loro ruolo di madri e mogli è molto di più che vita quotidiana: è un atto politico che nel breve e lungo periodo determina la sopravvivenza dell’organizzazione terrorista. Non importa se la donna sia in Medio Oriente od Occidente: se i suoi ideali politico-ideologici e la sua lealtà al Califfato sono immutati, ella farà di tutto per trasmetterli ai propri figli e, quindi, alle generazioni jihadiste future.
[1] Sebbene il termine jihad abbia generalmente una connotazione positiva e moderata in quanto si riferisce alla lotta interna ad ogni credente musulmano durante la propria permanenza mortale sulla Terra per ottenere la benevolenza di Dio in questa vita e nella prossima, in questo contesto con il termine jihad si intende l’interpretazione belligerante attribuitagli dagli estremisti religiosi per indicare la lotta violenta ed armata contro infedeli, apostati ed oppressori.
[2] I benefici tattici e strategici consistono ad esempio nella possibilità che hanno le donne di nascondere la propria identità, ma anche armi e cinture esplosive sotto i propri lunghi abiti. Esse possono portare oppure intercettare informazioni utili senza destare sospetti. Le donne hanno il vantaggio di essere meno sospette degli uomini in quanto nella società musulmana patriarcale esse sono viste come protettrici del nucleo familiare nonché dell’ambiente domestico, sono mogli e madri. A loro viene chiesto di emulare le azioni, gli atteggiamenti e le pratiche delle donne musulmane più pure (quelle dell’Arabia del settimo secolo), cioè di essere madri, sorelle, figlie e mogli di uomini musulmani. Tale associazione delle donne con la maternità ed il pacifismo in generale le rende meno sospette e quindi meno soggette a controlli approfonditi da parte del nemico.
[3] David Cook, Women fighting in jihad?, in ‘Studies in Conflict & Terrorism’, vol. 28, pp. 375-384, 2005.
[4] Anita Peresin, Alberto Cervone, The Western muhajirat of ISIS, in ‘Studies in Conflict & Terrorism’, vol. 38, pp. 495–509, 2015.
[5] Deborah Scolart, Le donne e la guerra nella prospettiva islamica, in ‘Gnosis – Rivista italiana di intelligence’, vol. 3, pp. 61-67, 2017.
[6] Ibid.
[7] Il mahram è ogni uomo col quale una donna ha un legame di sangue che esclude il matrimonio (ad esempio, padri, fratelli).
[8] Deborah Scolart, Le donne e la guerra nella prospettiva islamica, op. cit., p. 2.
[9] Farhana Qazi, The Mujahidaat: Tracing the early female warriors of Islam, in “Women, gender, and terrorism”, The University of Georgia Press, Londra 2011; Nelly Lahoud, The neglected sex: The jihadis’ exclusion of women from jihad, in ‘Terrorism and Political Violence’, vol. 26, pp. 780-802, 2014; Deborah Scolart, Le donne e la guerra nella prospettiva islamica, op. cit., p. 2.
[10] David Cook, Women fighting in jihad?, op. cit., p. 2.
[11] Il termine mujahidaat fu coniato dai primi storici musulmani per rendere onore alle donne che protessero il Profeta durante le prime battaglie islamiche nel settimo secolo. Molte storie furono scritte e trasmesse oralmente di generazione in generazione per rendere onore all’eroismo di queste gloriose donne disposte anche a sacrificarsi pur di proteggere Maometto. Alcune di loro vengono anche menzionate nel Corano. Inoltre, anche dopo la morte di Maometto le donne continuarono a prendere parte alla guerra, difendendo e conquistando i territori musulmani. Molte di loro, tuttavia, ricoprirono principalmente un ruolo di supporto dalle retrovie piuttosto che prendere attivamente parte alla battaglia. Oggi con il termine mujahidaat si vuole descrivere le donne impegnate in operazioni suicide, riflettendo così la trasformazione del ruolo (prima passivo ed ora attivo) della donna all’interno del movimento jihadista. Farhana Qazi, The Mujahidaat: Tracing the early female warriors of Islam, op. cit., p. 3.
[12] F. Qazi, The Mujahidaat: Tracing the early female warriors of Islam, op. cit., p. 3, cit. p. 44.
[13] È importante sottolineare come la legge musulmana prevede che le donne possano avere contatti solamente con i propri mariti oppure i mahram.
[14] F. Qazi, The Mujahidaat: Tracing the early female warriors of Islam, op. cit., p. 3, cit. p. 46.
[15] Abdallah Azzam, Defence of the Muslim lands.
[16] N. Lahoud, The neglected sex: The jihadis’ exclusion of women from jihad, op. cit., p. 3, cit. p. 780.
[17] N. Lahoud, The neglected sex: The jihadis’ exclusion of women from jihad, op. cit., p. 3, cit. p. 784.
[18] N. Lahoud, The neglected sex: The jihadis’ exclusion of women from jihad, op. cit., p. 3.
[19] Umayma Zawahiri, Letters to my Muslim sisters, 2009.
[20] N. Lahoud, The neglected sex: The jihadis’ exclusion of women from jihad, op. cit., p. 3, cit. p. 788.
[21] Nelly Lahoud, Umayma al-Zawahiri on women’s role in jihad, in ‘Jihadica’, 26 febbraio 2010, http://www.jihadica.com/umayma-al-zawahiri-on-women%E2%80%99s-role-in-jihad/.
[22] Laura Sjoberg, Caron E. Gentry (a cura di), Women, gender, and terrorism, The University of Georgia Press, Londra, 2011.
[23] Anita Peresin, Fatal attraction: Western Muslimas and ISIS, in ‘Perspectives on Terrorism’, vol. 9, n. 3, pp. 21 – 38, 2015.
[24] Olivier Roy, Globalized Islam: The search for a new ummah, Columbia Press University, New York, 2004, cit. p. 193.
[25] Katharina Von Knop, The female jihad: Al Qaeda’s women, in ‘Studies in Conflict & Terrorism’, vol. 30, pp. 397 – 414, 2007.
[26] Joana Cook e Gina Vale, From Daesh to ‘Diaspora’: Tracing the women and minors of Islamic State, in ‘International Centre for the Study of Radicalisation’, 2018, https://icsr.info/wp-content/uploads/2018/07/ICSR-Report-From-Daesh-to-‘Diaspora’-Tracing-the-Women-and-Minors-of-Islamic-State.pdf; Nadia Khomami, Number of women and children who joined Isis ‘significantly underestimated’, in ‘The Guardian’, 23 luglio 2018, https://www.theguardian.com/world/2018/jul/23/number-of-women-and-children-joining-isis-significantly-underestimated.
[27] Anita Peresin & Alberto Cervone, The Western muhajirat of ISIS, op. cit., p. 2.
[28] Anita Peresin, Fatal attraction: Western Muslimas and ISIS, op. cit., p. 7.
[29] Katharina Von Knop, The female jihad: Al Qaeda’s women, op. cit., p. 7; Carolyn Hoyle, Alexandra Bradford, Ross Frenett, Becoming Mulan?, Institute for Strategic Dialogue, Londra, 2015.
[30] Carolyn Hoyle, Alexandra Bradford, Ross Frenett, Becoming Mulan?, op. cit., p. 8; Olivier Roy, Jihad and death: The global appeal of Islamic State, Hurst & Company, Londra, 2017.
[31]Ibid.
[32] È estremamente interessante come un gruppo apparentemente così conservatore come lo Stato Islamico accetti l’arrivo di giovani donne non accompagnate per poi dar loro subito in sposa ad un combattente islamico. Questa tattica, che fa interamente parte della strategia di radicalizzazione online del gruppo, è un escamotage al crescente rifiuto delle donne locali a sposare dei foreign fighters. Infatti, una simile costrizione costerebbe caro al gruppo terrorista che paventa costantemente la necessità di creare uno stato conservatore. Allo stesso modo, se le donne locali non sposano i combattenti, allora il gruppo terrorista non può arrivare a costringerle a collaborare con il Califfato o, quantomeno, reclutarle. È qui che entrano in gioco le donne occidentali: esse non solamente sono disposte a sposarsi in tempi brevi, ma, soprattutto, le donne occidentali che adottano la hijra dimostrano di riconoscere come superiore l’ideologia dello Stato Islamico all’ideologia del mondo Occidentale, dando così maggiore lustro ed importanza ai jihadisti e alla loro missione.
[33] Katherine Brown, Analysis: Why are Western women joining Islamic State?, in ‘BBC News’, 6 ottobre 2014, https://www.bbc.com/news/uk-29507410.
[34] La brigata Al-Khanssaa fu creata da una donna britannica nel febbraio del 2014 con l’intento di dare vita ad una “polizia morale” tutta al femminile, la quale sarebbe stata responsabile del rispetto e dell’adesione delle donne alla legge islamica e alle sue leggi di condotta e decoro. Essa, da allora, si occupa di applicare il rigido rispetto della legge della Sharia ed è famosa per i suoi atti di pura crudeltà e brutalità da parte dei suoi componenti. Taylor Wofford, ISIS is using an all-women brigade to enforce Sharia law in Syria, in ‘Newsweek’, 30 luglio 2014, https://www.newsweek.com/isis-using-all-women-brigade-enforce-sharia-law-syria-262074.
[35]Anita Peresin & Alberto Cervone, The Western muhajirat of ISIS, op. cit., p. 2.
[36] Debangana Chatterjee, Gendering ISIS and mapping the role of women, in ‘Contemporary Review of the Middle East’, vol. 3, n. 2, pp. 201-208, 2016.
[37] Per molte donne musulmane provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente è proprio la possibilità di prendere attivamente parte alla violenza e agli attacchi prospettati da IS ad essere particolarmente attraente, in quanto è una filosofia che si discosta nettamente dai dettami di non-intervento riservati alle donne da parte di Al Qaeda.
[38] Da notare come in questo contesto con il termine ‘donne’ ci riferiamo a coloro che sono nate musulmane o si sono convertite all’Islam e sostengono lo Stato Islamico. Il loro ruolo è ben diverso da quello riservato alle donne di religione Yazidi oppure a tutte quelle donne definite come kafir, cioè apostate. Queste, infatti, vengono catturate ed imprigionate, maltrattate, violentate e vendute sul mercato nero come schiave per soddisfare qualsiasi desiderio dei militanti.
[39] Marne L. Sutten, The rise of the importance of women in terrorism and the need to reform counterterrorism strategy, in ‘United States Army Command and General Staff College’, vol. 17, pp. 1-54, 2009.
[40] Frank Gardner, The crucial role of women within Islamic State, in ‘BBC’, 20 agosto 2015, https://www.bbc.com/news/world-middle-east-33985441.
[41] Lydia Smith, ISIS: The ‘central’ role of women in forming the next jihadist generation, in ‘International Business Times’, 18 febbraio 2016, https://www.ibtimes.co.uk/isis-central-role-women-forming-next-jihadist-generation-1521058.
[42] Tale utilizzo delle donne da parte dello Stato Islamico è certamente tattico in quanto donne e bambini sono meno sospetti e quindi soggetti a controlli minori (per non parlare del tabù culturale di perquisire le donne nei paesi musulmani). Il loro uso fa anche parte di una strategia volta a sorprendere e sconvolgere il più possibile i nemici quali l’Occidente. Tuttavia, ci sono limitazioni (dettate dalla legge della Sharia) per quanto riguarda il loro coinvolgimento in atti violenti ed estremisti, anche se ciò non toglie che in futuro le cose possano cambiare in caso di estrema necessità.
[43] Amanda Spencer, The hidden face of terrorism: An analysis of the women in Islamic State, in ‘Journal of Strategic Security’, vol. 9, n. 3, pp. 74 – 98, 2016.
[44] Vivienne Walt, Margny-lès-Compiègne, Marriage and martyrdom: How ISIS is winning women, in ‘Time’, 18 novembre 2014, http://time.com/3591943/isis-syria-women-brides-france/; Tiffany Ap, What ISIS wants from women, in ‘CNN’, 20 novembre 2015, https://edition.cnn.com/2015/11/20/europe/isis-role-of-women/index.html.
[45] Quillam Foundation, Women of the Islamic State: A manifesto on women by the al-Khansaa brigade, febbraio 2015, https://therinjfoundation.files.wordpress.com/2015/01/women-of-the-islamic-state3.pdf.
[46] Lydia Smith, ISIS: The ‘central’ role of women in forming the next jihadist generation, op. cit., p. 11.
[47] Amanda Spencer, The hidden face of terrorism: An analysis of the women in Islamic State, op. cit., p. 12.
[48] Secondo alcuni autori la piattaforma preferita per il reclutamento ed il coordinamento degli attacchi terroristici di IS in Europa è Telegram. Si tratta di un’applicazione gratuita che offre la possibilità di scambiarsi messaggi gratuitamente ed in modo sicuro. È un servizio di condivisione diretta (peer-to-peer) multifunzionale e multidirezionale in cui gli utenti devono essere invitati ad unirsi alle chat affinché possano accedere ai loro contenuti. I link di collegamento quindi sono la chiave per accedervi ed essi possono anche essere temporanei: IS spesso offre un tempo limitato agli invitati di rispondere e, se il tempo loro concesso termina, allora il link diventa inattivo. Inoltre, la piattaforma permette di condividere foto, documenti, video ecc. con un gruppo oppure con un unico individuo. Ma, soprattutto, Telegram viene prediletto alle altre piattaforme per via del suo incredibile sistema di sicurezza e di criptaggio. Infatti, anche quando i messaggi vengono cancellati da un utente, questi scompaiono per tutti gli altri collegati ad esso. Anche i messaggi possono avere un termine di scadenza e sparire non appena il destinatario li ha letti. Infine, secondo alcuni ricercatori, “nel mondo di Telegram, la chat room è considerata come un ‘Califfato virtuale’ in cui i veri Musulmani dimostrano la loro devozione ad ISIS ed esprimono la loro opposizione ai nemici vicini e lontani”. Mia Bloom, Hicham Tiflati, John Horgan, Navigating ISIS preferred platform: Telegram, in ‘Terrorism and Political Violence’, pp. 1-13, 2017, cit. p. 4.
[49] Anita Peresin, Fatal attraction: Western Muslimas and ISIS, op. cit., p. 7; Laura Huey, Rachel Inch, Hilary Peladeau, “@ me if you need shoutout”: Exploring women’s roles in Islamic State Twitter networks, Department of Sociology, University of Western Ontario, 2017.
[50] Lydia Smith, ISIS: The ‘central’ role of women in forming the next jihadist generation, op. cit., p. 11.
[51] Laura Huey, Rachel Inch, Hilary Peladeau, “@ me if you need shoutout”: Exploring women’s roles in Islamic State Twitter networks, op. cit., p. 13.
[52] Tiffany Ap, What ISIS wants from women, op. cit., p. 12; Lydia Smith, ISIS: The ‘central’ role of women in forming the next jihadist generation, op. cit., p. 11.
[53] Quillam Foundation, Women of the Islamic State: A manifesto on women by the al-Khansaa brigade, op. cit., p. 12.
[54] Hamoon Khelghat-Doost, The strategic logic of women in jihadi organizations, in ‘Studies in Conflict & Terrorism’, pp. 1-25, 2018.
[55] Hamoon Khelghat-Doost, Women of the Caliphate: The mechanism for women’s incorporation into the Islamic State (IS), in ‘Perspectives on Terrorism’, vol. 11, n. 1, 2017.
[56] Ibid.
[57] Nancy A. Youssef, Shane Harris, The women who secretly keep ISIS running, in ‘The Daily Beast’, 5 luglio 2015, https://www.thedailybeast.com/the-women-who-secretly-keep-isis-running; Hamoon Khelghat-Doost, Women of the Caliphate: The mechanism for women’s incorporation into the Islamic State (IS), op. cit., p. 14.
[58] Amanda Spencer, The hidden face of terrorism: An analysis of the women in Islamic State, op. cit., p. 12.
[59] Debangana Chatterjee, Gendering ISIS and mapping the role of women, op. cit., p. 10.
[60] Hamoon Khelghat-Doost, The strategic logic of women in jihadi organizations, op. cit., p. 14.
[61] Uno Stato si definisce debole quando esso non riesce più a soddisfare i bisogni primari dei propri cittadini e non è in grado di fornire loro alcun servizio. Lo Stato è sommerso dalla violenza (interna ed esterna) ed è incapace di controllare i propri affari interni.
[62] Molte donne rivestono il ruolo di copertura per i jihadisti uomini: accompagnando gli uomini pronti ad un attacco suicida e dando l’impressione di essere una coppia felice ed innocente rende più difficile ed improbabile un controllo da parte delle forze armate. Inoltre, nei paesi musulmani è più difficile le donne possano essere soggette ad attenti controlli, come succede invece agli uomini.
[63] Classificazione del ruolo della donna all’interno dell’organizzazione jihadista operativa secondo il ricercatore H. Khelghat-Doost. Hamoon Khelghat-Doost, The strategic logic of women in jihadi organizations, op. cit., p. 14., cit. p. 8.
[64] Lydia Smith, ISIS: The ‘central’ role of women in forming the next jihadist generation, op. cit., p. 11.
[65] Classificazione del ruolo della donna all’interno dell’organizzazione jihadista che mira alla creazione dello stato/califfato secondo il ricercatore H. Khelghat-Doost. Hamoon Khelghat-Doost, The strategic logic of women in jihadi organizations, op. cit., p. 14., cit. p. 12.
[66] Lizzie Dearden, Baghdad attacks: At least 69 killed in suicide attacks and car bombings in Iraq capital, in ‘Independent’, 2016, https://www.independent.co.uk/news/world/middle-east/baghdad-attacks-market-blast-car-suicide-bombing-in-iraq-capital-isis-victims-a7033436.html.
[67] Khelghat-Doost. Hamoon Khelghat-Doost, The strategic logic of women in jihadi organizations, op. cit., p. 14.
[68] Rukmini Callimachi, Not ‘lone wolves’ after all: How ISIS guides world’s terror plots from afar, in ‘The New York Times’, 2017, https://www.nytimes.com/2017/02/04/world/asia/isis-messaging-app-terror-plot.html.
[69] Tale attacco provocò dure critiche da parte di Al-Qaeda, contrario al coinvolgimento delle donne negli attacchi terroristici.
[70] Nadia Khomami, Number of women and children who joined Isis ‘significantly underestimated’, op. cit., p. 8.
[71] Colin P. Clarke, How ISIS is transforming, in ‘Rand’, 25 settembre 2017, https://www.rand.org/blog/2017/09/how-isis-is-transforming.html.
[72] Antonia Ward, Do terrorist groups really die? A warning, in ‘Rand’, 9 aprile 2018, https://www.rand.org/blog/2018/04/do-terrorist-groups-really-die-a-warning.html.
[73] Katharina Von Knop, The female jihad: Al Qaeda’s women, op. cit., p. 7.
[74] Un esempio è quello del gruppo terrorista sunnita salafita Boko Haram, operativo prevalentemente nel nord-est della Nigeria ed affiliato allo Stato Islamico (il leader, Abubakar Shekau, promise il suo sostegno e dichiarò ufficialmente l’alleanza del gruppo allo Stato Islamico nel 2015). Questo gruppo ha largamente sfruttato donne e bambini per i suoi scopi strategici, il più delle volte rapendoli, indottrinandoli, facendo loro il lavaggio del cervello e convincendoli – anche con la violenza – ad indossare vesti e cinture esplosive e portare a termine attacchi suicidi in zone con un’alta concentrazione di vittime innocenti (come mercati, stazioni degli autobus, scuole, strade affollate). Da giugno 2014 alla fine di febbraio del 2018 il gruppo ha usato 469 donne come kamikaze, uccidendo più di 1200 persone e ferendone 3000. Il più delle volte le donne portano a termine tali missioni suicide perché non conoscono alternative ad una società prettamente maschilista e patriarcale: portano a termine gli ordini, convinte che così facendo raggiungeranno il Paradiso, promesso loro dai combattenti. Spesso, quando non è il marito ad ordinare alla moglie di compiere simili azioni, i combattenti drogano le donne e fanno loro false promesse attraverso un’indottrinazione estrema e manipolazioni che risultano in un vero e proprio lavaggio del cervello. Tale uso delle donne e dei bambini in missioni suicide da parte di Boko Haram è dettato dalla convinzione che loro siano più facilmente spendibili rispetto agli uomini, necessari nei combattimenti e nel portare alto il nome del gruppo terrorista. Allo stesso tempo, donne e bambini sono un vero e proprio asset, in quanto difficilmente perquisiti dalle forze armate e per lo più insospettabili di simili azioni. Infine, l’attenzione mediatica che procurano al gruppo ed il terrore che inducono nella popolazione sono di notevole impatto. In questo caso, le donne sono anch’esse vittime inermi e spesso inconsapevoli delle loro azioni. Maltrattate, stuprate e manipolate dagli uomini, esse trovano nella morte la liberazione da ogni sofferenza. Joshua Meservey e Andrew Vadyak, Boko Haram’s sick ploy to turn girls into suicide bombers, in ‘The Heritage Foundation’, 20 giugno 2018, https://www.heritage.org/terrorism/commentary/boko-harams-sick-ploy-turn-girls-suicide-bombers; Macpherson U. Nnam, Mercy Chioma Arua e Mary Sorochi Otu, The use of women and children in suicide bombing by the Boko Haram terrorist group in Nigeria, in ‘Aggression and Violent Behavior’, vol. 42, pp. 35 – 42, 2018.
[75] Ibid.
[76] Ibid.
[77] Fernanda Buril, Changing God’s expectations and women’s consequent behaviors – How ISIS manipulates “Divine Commandments” to influence women’s role in jihad, in ‘Journal of Terrorism Research’, vol. 8, issue 3, 2017.
[78] Naba è un organo importante dello Stato Islamico e contiene articoli redatti da leader ed ufficiali per comunicare politiche ufficiali del gruppo terrorista. Perciò, la chiamata alle donne a diventare a tutti gli effetti riservisti combattenti può essere letta come una direttiva ufficiale dello Stato Islamico.
[79] Rita Katz, How do we know ISIS is losing? Now it’s asking women to fight, in ‘The Washington Post’, 2 novembre 2017, https://www.washingtonpost.com/news/posteverything/wp/2017/11/02/how-do-we-know-isis-is-losing-now-its-asking-women-to-fight-for-it/?noredirect=on&utm_term=.89241307ea64.
[80] È importante considerare come un appello ai credenti non si traduce automaticamente in una concessione ed accettazione dell’inclusione delle donne nei combattimenti. Infatti, se la donna compie attacchi suicidi in autonomia o tramite l’aiuto di un mahram, essa non va contro l’ideologia conservatrice musulmana, in quanto essa non ha alcun contatto con altri uomini. Si tratta piuttosto di un modo per portare avanti l’obiettivo strategico del gruppo terrorista osservandone allo stesso tempo l’ideologia conservatrice. N. Lahoud, The neglected sex: The jihadis’ exclusion of women from jihad, op. cit., p. 3.
[81] Carolyn Hoyle, Alexandra Bradford, Ross Frenett, Becoming Mulan?, op. cit., p. 8.
[82] Il 2014 fu un anno di grandi successi per lo Stato Islamico: prese le città di Raqqa, Mosul, Tikrit e le città curde del Sinjar, annunciando in seguito la creazione del Califfato. Tuttavia, col 2015 gli attacchi aerei da parte degli Stati Uniti assieme all’intervento di Russia e Francia nel conflitto hanno fatto sì che IS perdesse sempre più territori e uomini. Le perdite di IS continuarono lungo tutto il 2016 e dopo due anni di occupazione IS perse anche Hit e Fallujah per mano delle forze armate irachene e curde. Fernanda Buril, Changing God’s expectations and women’s consequent behaviors – How ISIS manipulates “Divine Commandments” to influence women’s role in jihad, op. cit., p. 20.
[83] Secondo Nelly Lahoud, i jihadisti, per quanto riguarda il coinvolgimento delle donne nella jihad, si trovano in un dilemma “catch-22”: se insistono ad escludere le donne dai combattimenti perderebbero la credibilità su cui si basa la retorica della jihad difensiva, un vero e proprio ombrello legale che fornisce loro il pretesto e la scusa alle loro azioni e alla loro ideologia. Se, invece, chiamassero tutte le donne ad unirsi a loro sul campo di battaglia, dovrebbero affrontare diversi problemi, tra cui una probabile ingente perdita di sostenitori (soprattutto i musulmani più conservatori). N. Lahoud, The neglected sex: The jihadis’ exclusion of women from jihad, op. cit., p. 3.
[84] Greta Modula, Lo Stato Islamico e la creazione di una nuova identità collettiva, in ‘Mediterranean Insecurity’, 2017, https://www.mediterraneaninsecurity.it/2017/12/04/lo-stato-islamico-e-la-creazione-di-una-nuova-identita-collettiva-greta-modula/.
[85] Carolyn Hoyle, Alexandra Bradford, Ross Frenett, Becoming Mulan?, op. cit., p. 8, cit. p. 34.
[86] Ibid.
[87] Carolyn Hoyle, Alexandra Bradford, Ross Frenett, Becoming Mulan?, op. cit., p. 8.
[88] Secondo Joanna Cook e Gina Vale, il sud-est asiatico ha visto la maggiore percentuale di donne e bambini ritornare dai territori dello Stato Islamico (59%), seguiti dall’Europa Occidentale (55%), l’Asia centrale (48%), l’Africa sub-sahariana (33%), l’Europa Orientale (18%), le Americhe, Australia e Nuova Zelanda (8%), il sud asiatico (<1%) e la regione MENA (<1%). Joanna Cook e Gina Vale, From Daesh to ‘Diaspora’: Tracing the women and minors of Islamic State, op. cit., p. 8.
[89] Anne Speckhard, Ardian Shajkovci, Ahmet S. Yayla, What to expect following a military defeat of ISIS in Syria and Iraq?, in ‘Journal of Terrorism Research’, vol. 8, issue 1, 2017.
[90] Attualmente, secondo vari studi, il pericolo maggiore per l’Europa ed il Mediterraneo in particolar modo, è la minaccia proveniente dall’Africa, terreno fertile per i combattenti di IS in fuga dalla Siria e dall’Iraq e per la creazione di nuove cellule operative sparse tra Tunisia, Libia ed Egitto. Tale pericolo non è solo causato dalla relativa vicinanza di questi territori all’Europa, ma anche dai continui rapporti transnazionali dei jihadisti (ad esempio, l’attacco ai mercatini di Natale di Berlino nel 2016 e l’attacco all’Arena di Manchester durante un concerto nel 2017 sono stati portati a termine da soggetti in stretto contatto con gruppi jihadisti in Libia). La Libia è particolarmente attraente per coloro che lasciano la Siria e l’Iraq, grazie ad un governo debole ed instabile, dei servizi di sicurezza che lasciano a desiderare e nondimeno la continua presenza di IS sul suo territorio. Infatti, la Libia si può considerare come una vera e propria provincia dello Stato Islamico, creata da alcuni foreign fighters ritornati dalla Siria nel 2014. Secondo quanto riportato da Aaron Y. Zelin, negli ultimi sette anni circa 3.500 foreign fighters si sono stabiliti in Libia, dove lo Stato Islamico è il gruppo jihadista più forte nell’area. La maggior parte dei combattenti provengono da paesi africani quali Chad, Ghana, Kenya, Niger, Somalia e Burundi. Anche in questo caso, moltissime sono le donne che hanno deciso di rifugiarsi in Libia, soprattutto donne provenienti dalla Tunisia ma anche dal Morocco, Chad, Egitto, Eritrea, Niger e Australia. La Libia viene considerata come un porto sicuro in cui rifugiarsi, ma anche come punto strategico da dove portare avanti il credo dello Stato Islamico. Lisa Watanabe, The next steps of North Africa’s foreign fighters, in ‘CSS Analyses’, n. 222, marzo 2018, http://www.css.ethz.ch/content/dam/ethz/special-interest/gess/cis/center-for-securities-studies/pdfs/CSSAnalyse222-EN.pdf.
[91] Anne Speckhard, The emergence of female suicide terrorists, in ‘Studies in Conflict & Terrorism’, vol. 31, pp. 995-1023, 2008.
[92] Antonia Ward, It’s complicated: Not all returning ‘Jihadi Brides’ are dangerous, in ‘Rand’, 28 febbraio 2018, https://www.rand.org/blog/2018/02/its-complicated-not-all-returning-jihadi-brides-are.html?lipi=urn%3Ali%3Apage%3Ad_flagship3_profile_view_base_recent_activity_details_all%3BX2r2WgqFQr%2BNEtKi95SNYA%3D%3D.