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Conflitto israelo-palestinese.
Le origini e la storia del conflitto
Valentina Spata
Per comprendere appieno il conflitto israelo-palestinese, che coinvolge i due popoli da oltre un secolo, è essenziale adottare un approccio orientato all’analisi della realtà anziché ignorarla. È pertanto necessario adottare un “nuovo approccio” alla questione palestinese che non escluda il passato, poiché rimuoverlo o ignorarlo impedisce di cogliere il filo conduttore che attraversa l’intera questione palestinese e il legame fondamentale tra gli eventi e i loro tragici effetti.
Un’indagine approfondita della storia è quindi fondamentale non solo per comprendere i contesti attuali, ma anche per acquisire una migliore comprensione della natura del conflitto e della percezione dell’opinione pubblica mondiale. È importante comprendere che la radice del terrorismo, che non nasce dal nulla, diventa l’unica strategia difensiva pericolosa di chi rivendica i propri diritti.
Dimenticare il passato non significa solo trascurare il futuro, ma anche accettare la posizione monolitica di chi detiene il cosiddetto potere in entrambi gli Stati.
Il ripetersi di una guerra distruttiva con Hamas nella striscia di Gaza, i considerevoli costi materiali, le aggressioni contro israeliani e palestinesi all’interno dei Paesi e la debolezza endemica dell’Autorità palestinese dimostrano che il costo della “non-pace” è enorme. In termini economici ma soprattutto in termini di vite umane.
La pace tra Israele e Palestina è diventata un imperativo non solo per la comunità internazionale, ma per tutto il mondo. La “soluzione dei due Stati” ha ancora molta strada da fare, ma gode di un ampio consenso internazionale. È essenziale riprendere al più presto possibile i colloqui di pace e coinvolgere attivamente tutti i meccanismi di promozione della pace. Solo con l’attuazione completa della “soluzione dei due Stati”, il Medio Oriente potrà finalmente inaugurare un’era di pace genuina.
- La fine della Prima Guerra Mondiale ed il nuovo volto del Medioriente
Nel corso della Prima Guerra Mondiale, la Palestina era parte dell’Impero Ottomano, alleato delle Potenze Centrali. La regione – di importanza strategica e religiosa – ospitava varie comunità etniche e religiose, tra cui arabi, ebrei e cristiani. Durante il conflitto, le forze britanniche si mossero in avanti portando a significativi cambiamenti nel controllo territoriale. A novembre dello stesso anno, il governo britannico emanò la Dichiarazione Balfour, una lettera inviata a Lord Rothschild, figura di spicco della comunità ebraica britannica, che si era avvicinato al sionismo grazie al figlio Charles e all’amicizia con Chiam Weizmann, portavoce del movimento sionista in Inghilterra)[1].
La Dichiarazione Balfour manifestava il sostegno del Regno Unito alla creazione di un “focolare nazionale per il popolo ebraico” in Palestina. Pubblicata il 9 novembre sul «Times», la lettera sostenuta nella sua versione originale che dichiarava che
«His Majesty’s Government views whit favour the establishment in Palestine of a national home for the Jewish people, and will use its best endeavours to facilitate the achievement of this object, it being clearly understood that nothing shall be done which may prejudice the civil and religious rights of existing non-Jewish communities in Palestine, or the rights and political status enjoyed by Jews in any other country»[2].
Questa dichiarazione, di cui i britannici sottovalutarono gli effetti, sarà uno dei documenti chiave del ventesimo secolo e le sue conseguenze si riversano fino ai nostri giorni. Il suo status ufficiale – approvato da Francia e Stati Uniti dopo aver consultato Italia e Vaticano e ben accolto dalla stampa e dall’opinione pubblica occidentale – rese difficile ignorarla quando si discusse dei rapporti post-bellici nel Medio Oriente. Il documento acquisì vita ed efficacia diplomatica in parte indipendenti dalle intenzioni e dalle azioni di coloro che l’avevano concepito, diventando la pietra angolare diplomatica per lo Stato di Israele per gli ebrei e un punto di riferimento per i suoi nemici, una sorta di peccato originale.
La dichiarazione Balfour usava deliberatamente un linguaggio vago anche se chiaramente riconosceva i diritti nazionali ebraici in Palestina. Il termine «national home», in particolare senza l’articolo determinativo, è stato scelto per ridurre al minimo l’aspirazione sionista a trasformare l’intera Palestina in uno stato ebraico, lasciando intenzionalmente spazio a interpretazioni future. I britannici avrebbero poi sostenuto che l’idea di uno Stato ebraico non doveva derivare da un documento unilaterale o dai trattati di pace, ma piuttosto dall’evoluzione dei rapporti politici e dalla manifestazione della volontà della maggioranza degli abitanti di quelle regioni. Il verbo “to facilitate” non costituiva un impegno vincolante, mentre l’espressione “best endeavours” era priva di significato e appariva a tratti vaga.
Un altro punto che poteva generare discussioni future derivava dalla confusa definizione della Palestina (anche se nell’Impero ottomano non esisteva alcuna provincia con questo nome) i cui confini non erano chiaramente definiti. La dichiarazione non specificava se il rifugio ebraico avrebbe coinvolto tutte le sue terre o soltanto una parte di esse. A rispondere parzialmente a questo punto sarebbe stato il primo White Paper, noto come Memorandum Churchill, pubblicato il 2 giugno 1922. In esso, l’amministrazione britannica definiva i criteri per l’immigrazione ebraica. Winston Churchill, all’epoca Ministro delle colonie, dichiarò che il documento era stato frainteso:
«Si dichiara senza essere stati autorizzati che lo scopo era la creazione di una Palestina interamente ebraica. Sono state pronunciate frasi come la seguente: “La Palestina deve divenire ebraica come l’Inghilterra è inglese”. Il governo di sua maestà considera ogni speranza di questo tipo come irrealizzabile e non ha in vista alcun scopo simile. Non è inoltre considerato, come sembra temere la delegazione araba, la scomparsa o la subordinazione della popolazione, della lingua o della cultura arabe in Palestina. Desidero attirare l’attenzione sul fatto che i termini della dichiarazione precitata non intendono che la Palestina nel suo insieme sarà convertita in un focolare nazionale ebraico, ma che tale focolare sarà stabilito in Palestina»[3].
In altre parole, la dichiarazione di Balfour esulava l’Inghilterra da ogni responsabilità nei confronti dei palestinesi ma piuttosto riconosceva l’importanza di garantire i diritti delle comunità non ebraiche nella regione. La questione della responsabilità nei confronti dei palestinesi è ancora oggetto di dibattito e tensione nel contesto del conflitto in corso. Gli arabi, i cui diritti “civili e religiosi”, non nazionali e politici, non erano compromessi, come indicato nel testo della dichiarazione, erano menzionati solo come «existing non-jewish communities», sebbene rappresentassero il 90% della popolazione palestinese. In sostanza, gli arabi erano invisibili agli occhi dei primi sionisti.
L’impatto della dichiarazione non fu minimamente attenuato dall’accordo concluso tra l’emiro Faysal e Weizmann, poiché essi non conoscevano ancora le vere intenzioni dei britannici sulla Palestina. Il 12 dicembre 1918, il quotidiano “The Times” pubblicò un discorso del leader hashemita, in cui egli affermava l’esistenza di una reciproca comprensione tra ebrei e arabi e delineava gli obiettivi comuni, dissipando ogni voce di ostilità reciproca:
«Le due principali branche della famiglia semita, arabi ed ebrei, si comprendono fra loro, e io spero che in conseguenza di uno scambio di idee alla conferenza di pace, che sarà guidata dagli ideali di autodeterminazione e nazionalità, ogni nazione farà definitivi progressi verso la realizzazione delle proprie aspirazioni»[4].
Il 3 gennaio 1919, l’emiro firmava un accordo con Weizmann, che si considerava corollario della conferenza di pace di Parigi. In quest’accordo, non solo si riconosceva la legittimità della dichiarazione Balfour, ma si auspicava anche una collaborazione più stretta tra gli arabi e il popolo ebraico per realizzare le rispettive aspirazioni nazionali per lo sviluppo di uno Stato arabo e di una Palestina ebraica. Le rispettive e definitive frontiere di questi stati sarebbero state fissate da una commissione paritetica. All’interno di questo contesto, si sottolineava che «sarebbero state prese tutte le misure necessarie per incoraggiare e stimolare su larga scala l’immigrazione degli ebrei in Palestina, per arrivare, nel più breve tempo possibile, a una colonizzazione e una cultura intensiva della terra. Adottando queste ultime misure, gli agricoltori e i contadini arabi non dovranno essere privati dei loro diritti, ma aiutati nel loro sviluppo economico». Infine, si stipulava che i luoghi santi musulmani sarebbero stati gestiti dalle autorità islamiche e non sarebbe stato promulgato alcun regolamento, né alcuna legge tale da impedire il libero esercizio della religione, senza distinzione o preferenza, o il godimento dei diritti politici o civili[5].
Nessuno all’epoca avrebbe potuto immaginare che quel piccolo lembo di terra avrebbe fatto da scenario ad un conflitto di una longevità di altri tempi.
Nessuno avrebbe potuto immaginare che due popoli inconsapevoli della reciproca esistenza, come i palestinesi e gli ebrei sparsi per il mondo, avrebbero presto compreso che per quella terra vale la pena morire. Per entrambi, il territorio era considerato sacro, assegnato dalle rispettive divinità e quindi non negoziabile in alcun modo. In questo contesto, c’è un elemento significativo da considerare: una delle molte tragiche ironie della storia che accompagna il conflitto israelo-palestinese è il fatto che entrambe le popolazioni hanno tratto da una tragedia epocale che le ha coinvolte direttamente, la Shoah da una parte e la Nakba dall’altra, il sogno di diventare una Nazione.
La conclusione della Prima Guerra Mondiale ha portato a significative trasformazioni nella struttura geopolitica del Medio Oriente, con la creazione di nuovi Stati e l’assegnazione di mandati che avrebbero influenzato la politica della regione per molti decenni a venire.
La Società delle Nazioni ha affidato il Mandato britannico sulla Palestina nel 1920. Come specificato dalla Dichiarazione Balfour del 1917, il Mandato conteneva disposizioni che promuovevano l’insediamento ebraico in Palestina. Questo periodo ha segnato l’inizio di tensioni tra le comunità ebraiche e arabe nella regione.
Alcuni Stati indipendenti sono emersi dalla frammentazione dell’Impero Ottomano. Ad esempio, l’Arabia Saudita è diventata uno Stato indipendente sotto la leadership della famiglia Saud. L’Iraq e la Transgiordania (oggi Giordania) sono stati costituiti come entità amministrate sotto mandati britannici.
Nel 1920, la Conferenza di San Remo vide la partecipazione delle principali potenze vincitrici della Prima Guerra Mondiale. Qui vennero definite molte delle disposizioni riguardanti la spartizione delle terre dell’Impero Ottomano.
Il Trattato di Sèvres del 1920 assegnò vaste porzioni dell’Impero Ottomano a diverse potenze, ma venne successivamente sostituito dal Trattato di Losanna del 1923.
La combinazione di questi eventi portò alla fondazione di molti degli Stati moderni della regione, anche se i confini e le questioni politiche continuarono a essere oggetto di tensioni e dispute.
- La grande rivolta araba del 1936
La Grande Rivolta Araba del 1936-1939, conosciuta anche come la Rivolta Araba in Palestina, rappresentò un periodo di violenti scontri tra la popolazione araba ebraica in Palestina e l’amministrazione britannica. La sommossa fu causata da una serie di fattori, inclusi tensioni etniche, economiche e politiche. L’incremento dell’immigrazione ebraica in Palestina, agevolata dai britannici, fu una delle principali preoccupazioni della popolazione araba locale.
L’immigrazione ebraica portava a un cambiamento demografico e sollevava preoccupazioni riguardo alla perdita di terre e risorse. La popolazione araba era insoddisfatta dell’amministrazione britannica e delle politiche che sembravano favorire gli interessi ebraici. In particolare, il Piano di Partizione del 1937, proposto dalla Commissione Peel per risolvere i conflitti territoriali, non soddisfece le richieste arabe. Il piano prevedeva la divisione del Mandato britannico della Palestina in due stati separati, uno ebraico e uno arabo, con Gerusalemme e le aree circostanti sotto controllo internazionale. Tuttavia, i leader arabi respinsero il piano in quanto consideravano ingiusta la divisione territoriale e il fatto di dover condividere la Palestina con la popolazione ebraica. Gli arabi sostennero che la terra araba doveva essere interamente sotto il controllo arabo e che la soluzione proposta non riconosceva i diritti e le aspirazioni nazionali del popolo arabo palestinese.
La Rivolta Araba del 1936-1939 fu una delle più grandi e sanguinose rivolte nella storia del Mandato britannico della Palestina. Gli arabi palestinesi si ribellarono contro l’occupazione britannica e l’immigrazione ebraica in Palestina. La rivolta ebbe un impatto significativo sull’intera regione e portò alla creazione di numerose organizzazioni politiche e paramilitari sia tra gli arabi che tra gli ebrei.
Le forze britanniche combatterono duramente contro i ribelli arabi, che a loro volta attaccarono e uccisero coloni ebrei, soldati britannici e arabi considerati collaboratori. L’intensità della violenza portò alla perdita di vite umane da entrambe le parti e alla distruzione di molte città e villaggi. Alla fine, la rivolta fu soppressa dalle autorità britanniche con la capitolazione degli arabi palestinesi nel 1939. Questo evento segnò una svolta nella lotta per l’indipendenza della Palestina e aprì la strada alla creazione dello Stato di Israele nel 1948. La Rivolta Araba del 1936-1939 rimane un capitolo importante nella storia del conflitto israelo-palestinese e ha lasciato ferite profonde e divisioni ancora presenti nella regione oggi.
- La Palestina durante la Seconda Guerra Mondiale
Durante la Seconda Guerra Mondiale, la Palestina divenne un importante centro di transito per i rifugiati ebrei che fuggivano dall’Europa occupata dai nazisti. I britannici, che avevano limitato l’immigrazione ebraica in Palestina con il White Paper del 1939, dovettero affrontare la crescente pressione internazionale per consentire l’ingresso ai rifugiati ebrei. Inoltre, la Palestina fu teatro di importanti sviluppi politici e militari, con l’evolversi del conflitto mondiale che influenzò notevolmente la regione.
In generale, la partecipazione degli ebrei alla guerra contribuì significativamente alla vittoria degli Alleati e alla sconfitta del regime nazista. La loro determinazione, il loro coraggio e la loro abilità militare sono stati essenziali per combattere il male del nazismo e garantire la libertà e la democrazia in Europa. Molti di loro parteciparono attivamente alla guerra sotto la bandiera britannica, contribuendo in vari ruoli nelle forze armate britanniche: soldati, piloti, operatori di intelligence ecc.. La loro partecipazione fu significativa anche in diverse branche delle forze armate britanniche dove impararono tattiche di combattimento, strategie di guerra e competenze specifiche relative all’organizzazione militare.
Durante la guerra, le forze armate ebraiche, come la Haganah, cominciarono a organizzarsi in modo più strutturato. Furono create unità militari ebraiche, alcune delle quali parteciparono attivamente alle operazioni alleate. Alcune di queste unità erano il Palmach, l’esercito sotterraneo e la Brigata ebraica, che giocarono un ruolo fondamentale nella resistenza ebraica contro l’occupazione nazista. Queste unità reclutavano e addestravano volontari ebrei provenienti da tutto il mondo, che si univano alla lotta per combattere l’oppressione nazista e difendere il popolo ebraico.
La creazione di queste unità militari ebbe un impatto significativo sul corso della guerra, contribuendo alla vittoria degli Alleati e all’instaurazione dello stato di Israele. Dopo la fine della guerra, molte di queste unità si trasformarono nell’esercito israeliano, che avrebbe continuato a difendere la nazione ebraica nei decenni successivi.
Inoltre, la partecipazione ebraica alla guerra e alla resistenza contro il nazismo contribuì a rafforzare il legame tra gli ebrei di tutto il mondo e a promuovere la solidarietà ebraica. La memoria di coloro che combatterono per la libertà e la giustizia durante la Seconda Guerra Mondiale continua a essere celebrata e onorata fino ai giorni nostri.
La Seconda guerra mondiale e la Shoah cambiarono radicalmente la situazione. Il massacro di sei milioni di ebrei europei portò a un aumento dell’emigrazione ebraica verso la Palestina e favorì l’idea che gli ebrei dovessero essere in qualche modo compensati per le atrocità subite. Inoltre, i rapporti di potere internazionali cambiarono significativamente con il declino del Regno Unito e la crescita degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. Questo contesto favorì la dichiarazione di indipendenza dello Stato di Israele nel 1948, dopo un lungo conflitto con le forze arabe.
Il mandato britannico sulla Palestina non aveva più ragione di esistere, anche perché la Società delle Nazioni, che lo aveva affidato, si era dissolta (al suo posto era nata l’ONU). Nel 1947, mentre infuriavano la guerriglia e il terrorismo, l’ONU nominò un comitato, l’UNSCOP[6], composto dai rappresentanti di undici Paesi, per esaminare la situazione. L’UNSCOP – con la Risoluzione 181 conosciuta come Piano di Partizione – raccomandò la divisione della Palestina in due stati, uno ebraico e uno arabo, con Gerusalemme sotto un’amministrazione internazionale. Questo piano fu accettato dalla maggioranza dei membri dell’ONU e il 29 novembre 1947 fu approvata la risoluzione che prevedeva la creazione di due Stati.
Tuttavia, i Paesi arabi respinsero il piano e scatenarono una guerra contro Israele, che venne proclamata nel maggio 1948. Questa guerra, conosciuta come la Guerra d’Indipendenza israeliana, si concluse nel 1949 con la vittoria di Israele, che acquisì ulteriori territori rispetto a quelli previsti dalla risoluzione dell’ONU.
Il mandato britannico sulla Palestina terminò formalmente il 15 maggio 1948 e Israele dichiarò la propria indipendenza il giorno successivo. La Palestina rimase divisa tra Israele, la Striscia di Gaza sotto controllo egiziano e la Cisgiordania sotto controllo giordano.
Nel maggio del 1948 il Regno Unito ritirò le sue truppe, non essendo più in grado di controllare il territorio, e il leader della comunità ebraica, David Ben Gurion, proclamò la nascita dello Stato di Israele.
- La nascita dello Stato di Israele e la Guerra arabo-israeliana del 1948-1949
David Ben Gurion ebbe un ruolo fondamentale durante la guerra d’indipendenza di Israele, lavorando per unire le varie fazioni all’interno del governo e guidando l’esercito israeliano a una vittoria che portò alla creazione dello stato di Israele. La sua leadership durante quel periodo critico è stata essenziale per la sopravvivenza e il successo del nuovo stato.
Dopo la fine della guerra d’indipendenza, Ben Gurion si concentrò sull’edificazione della nazione, promuovendo la costruzione di nuove città, lo sviluppo dell’agricoltura e dell’industria, nonché la creazione di istituzioni statali solide e stabili. Ha anche promosso la politica di aliyah, incoraggiando e facilitando l’immigrazione di ebrei da tutto il mondo in Israele.
David Ben Gurion, esponente sionista e politico israeliano, ha giocato un ruolo cruciale nella difesa del paese durante la Guerra dei sei giorni del 1967, in cui Israele sconfisse nuovamente i paesi arabi circostanti e occupò territori come la Cisgiordania e la Striscia di Gaza.
Nonostante le critiche ricevute per le sue politiche, soprattutto per quanto riguarda il conflitto israelo-palestinese, David Ben Gurion è considerato uno dei padri fondatori dello Stato di Israele e uno dei leader più influenti nella sua storia. La sua determinazione, la sua visione e la sua leadership hanno giocato un ruolo cruciale nel plasmare il destino della nazione ebraica moderna.
Dopo aver proclamato la nascita di Israele, il 14 maggio del 1948, ne divenne Primo Ministro, conservando tale carica, con una breve interruzione (1953-55), fino al 1963 ed esercitando un ruolo determinante nell’edificazione del nuovo Stato e in tutte le sue scelte principali di politica interna e internazionale.
Il conflitto tra le forze israeliane e le milizie arabe si trasformò in una vera e propria guerra, perché i Paesi arabi circostanti (Egitto, Siria, Giordania e Iraq) inviarono dei contingenti militari ad attaccare lo Stato ebraico.
Le forze israeliane respinsero l’attacco e conquistarono un ampio territorio ma non occuparono l’intera città di Gerusalemme, che era particolarmente ambita per il suo valore storico-religioso. La parte orientale della città restò sotto il controllo della Giordania.
Questa guerra, conosciuta come la Guerra arabo-israeliana del 1948-1949 o Guerra d’Indipendenza di Israele, fu un momento cruciale nella storia della regione e portò a cambiamenti territoriali significativi.
Durante questa guerra, combattuta tra le forze arabe e israeliane, Israele riuscì a ottenere il controllo di una porzione più ampia di territorio rispetto a quanto previsto dalle risoluzioni delle Nazioni Unite del 1947. In particolare, Israele acquisì territori che in seguito divennero noti come la Cisgiordania, la Striscia di Gaza, Gerusalemme Est e le Alture del Golan.
La guerra ebbe anche conseguenze umane disastrose, con centinaia di migliaia di palestinesi costretti a fuggire dalle proprie case e diventare rifugiati. Questi rifugiati, insieme ai loro discendenti, continuano a rappresentare una questione chiave nel conflitto israelo-palestinese fino ad oggi.
Per la popolazione araba, l’esito della guerra fu disastroso: circa 700.000 persone furono costrette a lasciare la loro terra e a trasferirsi in campi profughi allestiti nei Paesi vicini, dove tuttora vivono i loro discendenti. L’evento è noto tra i palestinesi come Nakba (catastrofe).
Le Nazioni Unite intervennero per gestire la situazione e negoziare armistizi. L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottò la Risoluzione 194 che affermava il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi e la compensazione per coloro che sceglievano di non tornare. Solo una minoranza di palestinesi, oggi noti come arabo-israeliani, restò in Israele.
Le linee di armistizio stabilite al termine della guerra nel 1949, note come Linee Verdi, separavano Israele dai paesi arabi confinanti. Nello specifico, dividevano la Palestina in due parti: una controllata da Israele e l’altra controllata da Giordania, Siria ed Egitto. Queste linee hanno influenzato anche la geografia politica e il conflitto tra Israele e i paesi arabi circostanti. Le Linee Verdi hanno avuto un impatto significativo sul conflitto israelo-palestinese, in quanto hanno creato una divisione territoriale che ha contribuito ad alimentare le tensioni tra le due parti. In seguito alla Guerra dei Sei Giorni del 1967, Israele ha occupato i territori palestinesi situati al di là delle Linee Verdi, portando a ulteriori conflitti e controversie.
Le Linee Verdi sono ancora rilevanti oggi, con le discussioni sullo status dei territori occupati e il futuro di una soluzione a due Stati che continua a essere al centro del conflitto israelo-palestinese. La questione delle Linee Verdi rimane uno degli ostacoli principali per il raggiungimento di una pace duratura nella regione. L’aspetto più significativo è che la guerra del 1948 e i suoi sviluppi successivi hanno lasciato un’eredità complessa e persistente nel contesto del conflitto israelo-palestinese: la questione dei rifugiati palestinesi, le dispute territoriali e le questioni di sovranità rimangono al centro dei negoziati e delle tensioni nella regione.
La Guerra d’Indipendenza di Israele ha avuto un impatto duraturo sulla regione e ha contribuito a plasmare i conflitti e le tensioni che persistono ancora oggi. È importante comprendere il contesto storico di questo conflitto per capire meglio le radici dei problemi attuali in Medio Oriente.
- Le guerre arabo-israeliane e il movimento dei Fedayyin palestinesi
Durante la prima guerra arabo-israeliana, a partire dal maggio 1948, centinaia e centinaia di villaggi palestinesi furono rasi al suolo ed ebbe inizio l’esodo di un popolo che per secoli aveva vissuto in quel territorio. Questo evento segnò l’inizio di un conflitto che perdura ancora oggi, con gravi conseguenze per entrambe le popolazioni coinvolte. I palestinesi – che attribuirono la loro sventura non solo agli odiati sionisti ma anche ai loro pretesi alleati (gli Stati arabi vicini) e al mondo intero che aveva consentito una simile ingiustizia[7] – continuano a rivendicare il loro diritto a un proprio Stato indipendente, mentre gli israeliani sostengono la necessità di garantire la sicurezza del loro Paese.
La limitata forza politica e militare del movimento nazionale palestinese fin dal suo inizio lo portò ad affidare la difesa della propria causa alla Lega dei Paesi Arabi, fondata al Cairo il 22 marzo 1945. Tuttavia, l’azione dei paesi membri (Egitto, Iraq, Siria, Libano, Giordania e Arabia Saudita) fu principalmente motivata dal desiderio di sfruttare la causa palestinese a proprio vantaggio. Inoltre, l’assenza di un comando unificato per coordinare le forze armate della coalizione araba rese ancora più difficile il compimento delle operazioni di guerra. Dopo la sconfitta del 1948, la Giordania assunse il ruolo di mediatore tra i paesi arabi della coalizione e il neonato Stato di Israele, rappresentata dal re Abd-Allah. Fin dagli anni ’50, il governo giordano adottò misure per scoraggiare l’arrivo dei profughi palestinesi, cercando di impedire loro di attraversare la linea di confine con una legge che prevedeva sei mesi di prigione per i trasgressori. L’incursione lanciata da Israele contro Gaza, il 28 febbraio 1955, provocò una serie di rappresaglie che si protrassero sino alla crisi di Suez del 1956. Le azioni dei fedayyin[8] provocarono numerose rappresaglie da parte di Israele e aumentarono la tensione nella regione, portando alla crisi di Suez del 1956. Durante questa crisi, Israele, il Regno Unito e la Francia attaccarono l’Egitto per riprendersi il controllo del Canale di Suez, che era stato nazionalizzato da Nasser.
La crisi di Suez ebbe conseguenze politiche e militari significative per la regione. Portò alla sconfitta militare dell’Egitto e alla successiva richiesta di truppe di pace delle Nazioni Unite per porre fine al conflitto. Inoltre, la crisi indebolì la posizione politica di Nasser nel mondo arabo e internazionale.
In conclusione, l’incursione israeliana del 1955 e le azioni dei fedayyin palestinesi contribuirono a destabilizzare ulteriormente la regione e ad alimentare la tensione tra Israele e i paesi arabi, culminando nella crisi di Suez del 1956.
Si fa risalire l’origine dei fedayyin al periodo successivo alla violenta manifestazione nei campi di Gaza del 2 marzo 1956. Durante tale evento, migliaia di rifugiati palestinesi protestarono contro l’esercito egiziano, ritenuto incapace di difenderli. In risposta, il presidente egiziano Gamal Abd al-Nasser costituì delle unità di commando composte principalmente da guerriglieri palestinesi, noti come fedayyin. Quest’organizzazione di combattenti, basata su piccoli gruppi, fu ritenuta il metodo migliore per contrastare le incursioni israeliane nelle zone di confine.
Le incursioni dei fedayyin furono parte di una strategia più ampia volta a danneggiare Israele e a mantenere viva la lotta per la Palestina. Tuttavia, nonostante i tentativi dei gruppi palestinesi di colpire Israele, le azioni della Unità 101 (unità Forse Speciali difesa israeliana)[9] dimostrarono una grande efficacia nel contrastare queste minacce.
Le incursioni dei fedayyin furono caratterizzate da attacchi mirati contro bersagli militari e civili israeliani, con l’obiettivo di creare instabilità e paura nella società israeliana. Tuttavia, la Unità 101 riuscì a neutralizzare molti di questi attacchi e a prevenire ulteriori danni.
Nonostante le critiche per il suo operato, la Unità 101 contribuì significativamente a rafforzare la sicurezza di Israele durante quel periodo. La sua efficacia nel contrastare le incursioni dei fedayyin dimostrò la determinazione e la capacità difensiva di Israele di fronte alle minacce esterne.
Alla fine del 1955 in Siria fu creata una seconda base di fedayyin. Questo gruppo crebbe rapidamente e nel 1958 si trasformò nell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), con Arafat come uno dei fondatori. L’obiettivo principale dell’OLP era la creazione di uno Stato palestinese indipendente.
Negli anni successivi, la lotta palestinese si intensificò con attacchi terroristici contro obiettivi israeliani e una sempre maggior partecipazione dei fedayyin nella lotta armata. Nel 1964 l’OLP venne riconosciuta dall’assemblea generale delle Nazioni Unite come il rappresentante legittimo del popolo palestinese.
Con il passare degli anni, la guerriglia palestinese si espanse e coinvolse diversi Paesi arabi, in particolare Giordania e Libano. Nel frattempo, i conflitti tra israeliani e palestinesi si intensificarono, culminando nella guerra dei sei giorni del 1967. La lotta per il riconoscimento della Palestina come stato indipendente continuò per decenni, fino alla dichiarazione unilaterale di indipendenza nel 1988 e il riconoscimento ufficiale da parte di numerose nazioni nel corso degli anni ’90.
La storia dei fedayyin e dell’OLP è stata caratterizzata da momenti di violenza e conflitto, ma anche da sforzi diplomatici per trovare una soluzione pacifica al conflitto israelo-palestinese. La loro lotta per l’autodeterminazione e la creazione di uno stato palestinese indipendente rimane ancora oggi uno dei temi centrali della politica internazionale.
Nonostante le difficoltà e i contrasti interni, Yasser Arafat e Fatah furono in grado di organizzare diverse operazioni militari e attacchi contro Israele durante gli anni ’60 e ’70. Nel 1964 l’OLP fu fondata con l’obiettivo di rappresentare tutti i palestinesi, indipendentemente dalla loro appartenenza politica o religiosa, e nel 1969 Arafat divenne il suo presidente. Arafat, non godendo di libertà di manovra, aveva creato nel 1952, sempre al Cairo, una cellula clandestina (Fatah|)[10] anche se nel 1957 fu costretto, insieme ai suoi collaboratori, a trasferirsi in Kuwait, che divenne uno dei focolai del nazionalismo palestinese. Anche per i membri di Fatah, la liberazione della Palestina era possibile solo ricorrendo alla lotta armata e i fondi per sostenere tale lotta provenivano perlopiù dagli attivisti che si erano trasferiti nei paesi del Golfo.
Dal 1958 al 1965 all’interno di Fatah, che nel 1959 assunse la denominazione ufficiale di Movimento di Liberazione Palestinese, furono create delle cellule operanti sia nelle città, che nei villaggi.
L’addestramento militare alla guerriglia si svolse nei rifugi e in altri luoghi sicuri. Mentre le cellule si moltiplicavano, la clandestinità del movimento fu mantenuta rigorosamente. La principale difficoltà per il movimento di guerriglia durante la fase iniziale di preparazione alla lotta armata fu la necessità di reperire armi e la scarsità dei finanziamenti, i quali provenivano esclusivamente dal contributo dei suoi membri.
Dopo la separazione della Repubblica Araba Unita nel settembre 1961, lo slogan di Fatah che sottolineava come l’unità araba potesse essere raggiunta solo attraverso la liberazione della Palestina acquistò maggiore rilevanza. Nel 1964, ad Algeri, fu istituito un ufficio di collegamento diretto da Abu Gihad, uno dei fondatori di Fatah, che divenne il suo primo rappresentante all’estero. Inoltre, il Movimento di Liberazione Palestinese stabilì i primi contatti con Cina, Unione Sovietica, Repubblica Democratica del Vietnam del Nord e Repubblica Democratica di Corea alla fine degli anni Sessanta. Il 18 dicembre 1964, i dirigenti di Fatah, in una riunione a Damasco, approvarono un comunicato nel quale si affermava che solo le azioni armate avrebbero potuto liberare la Palestina.
I volontari combattenti, in particolare contadini e studenti, furono addestrati in diversi paesi, tra cui Algeria e Cina, agendo in totale clandestinità. Nel vertice arabo di Casablanca nel 1965, il presidente egiziano Gamal Abd al-Nasser e quello tunisino Habib Bourguiba espressero il loro impegno per la liberazione della Palestina. Dopo aver visitato il campo di Aqaba Gaber, vicino alla città di Gerico, dove vivevano circa 50.000 rifugiati, il presidente tunisino, in un discorso a Tunisi il 21 aprile 1965, invitò i palestinesi ad abbandonare una politica disfattista del tutto o niente. Inoltre, Bourguiba sostenne che la soluzione della questione palestinese risiedeva nella risoluzione 242 delle Nazioni Unite, la quale, stabilendo la spartizione della Palestina, avrebbe permesso ai rifugiati di insediarsi nei territori evacuati da Israele.
Durante il secondo Consiglio Nazionale Palestinese tenutosi al Cairo dal 31 maggio al 4 giugno 1965, nel discorso inaugurale il presidente egiziano affermò che l’Egitto, insieme agli altri paesi arabi, non aveva la potenza militare per sconfiggere Israele. Tuttavia, non accettava la via negoziata proposta dal presidente tunisino. Di conseguenza, i palestinesi dovevano fare affidamento su sé stessi, poiché al momento non c’era un’azione comune delle forze arabe in grado di liberare la Palestina. Nasser criticò il modello cinese seguito dai fedayyin, propensi a implementare le teorie sulla guerriglia popolare apprese in Cina durante l’addestramento militare nel contesto palestinese.
Nel 1964 fu istituita l’OLP con l’obiettivo di rappresentare tutti i palestinesi, compresi coloro che erano diventati rifugiati e quelli rimasti sotto il controllo israeliano.
All’inizio del 1965 il primo riconoscimento internazionale dell’OLP fu compiuto dalla Cina, con l’apertura di un ufficio a Pechino.
Le operazioni militari contro Israele furono compiute nei campi di addestramento situati in parte in territorio siriano e in parte ai confini con il Libano e la Giordania, zone in cui i combattenti riuscirono ad infiltrarsi. L’OLP, guidata da Yasser Arafat, era stata considerata una minaccia per la stabilità della Giordania e per la sua autorità. Le tensioni tra i palestinesi e il governo giordano continuarono ad aumentare, portando infine allo scoppio della guerra civile in Giordania nel settembre 1970, nota come Settembre Nero. Durante la guerra civile, l’esercito giordano combatté contro i combattenti palestinesi dell’OLP e degli altri gruppi armati palestinesi presenti nel paese. Alla fine, l’esercito giordano riuscì a sopprimere la rivolta palestinese, ma il conflitto lasciò migliaia di morti e feriti e portò all’espulsione dei militanti palestinesi dalla Giordania.
La guerra civile del Settembre Nero ebbe un impatto duraturo sulle relazioni tra la Giordania e i palestinesi, e contribuì a consolidare il controllo del re Hussein sulla situazione politica in Giordania. La guerra civile portò anche alla creazione di una nuova leadership all’interno dell’OLP, che si trasferì in Libano dopo essere stata espulsa dalla Giordania.
In seguito alla guerra dei sei giorni si verificarono nuovi esodi dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza verso i campi profughi situati in Transgiordania e Siria sotto la responsabilità dell’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel vicino oriente.
Anche questa seconda generazione di profughi, come quella del 1948, si rifiutò di essere integrata nei paesi di accoglienza.
Nelle terre occupate da Israele nel 1967, Fatah istituì squadre speciali incaricate di organizzare la resistenza. Queste squadre, chiamate “Cellule Rivoluzionarie”, erano composte da giovani militanti palestinesi che si addestravano e pianificavano attacchi contro le forze di occupazione israeliane. Il loro obiettivo era quello di rendere difficile per Israele mantenere il controllo sui territori occupati e di spingere per l’indipendenza palestinese. Le Cellule Rivoluzionarie si sono distinte per la loro determinazione e il loro impegno nella lotta contro l’occupazione israeliana. Hanno condotto attacchi contro obiettivi militari israeliani, come posti di blocco e insediamenti illegali, e hanno anche preso parte a operazioni di guerriglia e sabotaggio. Il ruolo delle Cellule Rivoluzionarie è stato fondamentale nel rafforzare la resistenza palestinese contro l’occupazione israeliana e nel mantenere vivo lo spirito di lotta per l’indipendenza palestinese. Anche se molte di queste squadre hanno cessato le loro attività nel corso degli anni, il loro contributo alla causa palestinese è stato fondamentale e non verrà dimenticato.
Nonostante ciò, c’è da dire, che i servizi di informazione israeliani riuscirono a smantellare diversi gruppi, impedendo l’azione tempestiva dei commando del movimento di liberazione nazionale palestinese.
In seguito all’annessione del Sinai da parte di Israele nel giugno 1967, Nasser stabilì contatti permanenti con Fatah e, dopo l’adozione della risoluzione 242 delle Nazioni Unite nel novembre dello stesso anno, ribadì il diritto dei palestinesi di respingere tale risoluzione e di resistere all’occupazione israeliana. All’inizio del 1968, Fatah e gli altri movimenti palestinesi stabilirono decine di basi anche nella valle del Giordano, dove furono istituiti campi di addestramento.
Nell’autunno del 1968 i fedayyin crearono le loro prime basi nel sud del Libano, nella regione di Arkub, vicino alla frontiera con Israele, zona strategica per la guerriglia. Tuttavia, la decisione di installarsi nel Libano meridionale fu presa violando la disposizione in base alla quale gli avamposti dovevano essere situati in zone in cui era possibile praticare la lotta. Le basi nel sud del Libano divennero presto un punto focale della resistenza palestinese contro Israele, attirando l’attenzione internazionale sulla causa palestinese e rendendo i fedayyin dei simboli della lotta per l’indipendenza e l’autodeterminazione.
Nonostante la ferocia con cui Israele combatté i fedayyin nel sud del Libano, le basi continuarono a essere utilizzate come rifugi sicuri per i combattenti palestinesi e come punti di partenza per nuove azioni contro il nemico. La regione di Arkub divenne un simbolo della resistenza palestinese e della determinazione dei fedayyin nel lottare per i propri diritti e per la liberazione della Palestina.
Le autorità libanesi hanno cercato di controllare o quantomeno regolamentare la presenza dei combattenti nel sud del paese, ma si sono scontrate con la ferma opposizione della resistenza palestinese sostenuta dalle forze progressiste libanesi. Da un lato c’erano coloro che sostenevano le azioni dei fedayyin dal Libano, mentre dall’altro c’erano coloro che vedevano l’attività dei combattenti come una minaccia per il Libano. Per superare i contrasti che hanno portato a un conflitto armato tra le autorità libanesi e i combattenti palestinesi, la mediazione egiziana si è adoperata per la firma di un accordo il cui contenuto non è mai stato reso pubblico ufficialmente. Le questioni legate alla presenza dei combattenti palestinesi nel Libano sarebbero state risolte solo alla fine della guerra civile libanese, quando nel 1987 venne raggiunto un accordo tra l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e il governo libanese per il ritiro dei combattenti palestinesi dai campi profughi e la loro trasformazione in forze di sicurezza sotto il controllo dello Stato libanese.
Sul piano internazionale si assistette ad un’evoluzione della posizione dell’Unione Sovietica nei confronti dei fedayyin. All’inizio degli anni ’70, l’Unione Sovietica iniziò a sostenere attivamente i movimenti dei fedayyin, considerandoli un importante strumento nella lotta contro l’imperialismo occidentale e il sionismo. Questo cambio di posizione fu evidente durante la guerra del Kippur del 1973, quando l’Unione Sovietica fornì un sostegno importante ai paesi arabi, compresi i movimenti fedayyin, nella loro lotta contro Israele.
L’Unione Sovietica fornì armi, addestramento militare e sostegno politico ai fedayyin, aumentando la loro capacità di condurre attacchi contro Israele. Tuttavia, questa politica ebbe anche conseguenze negative, alimentando ulteriormente il conflitto tra Israele e i paesi arabi e contribuendo alla spirale di violenza nella regione.
Inoltre, l’Unione Sovietica utilizzò il sostegno ai fedayyin come strumento per estendere la propria influenza nel Medio Oriente e contrastare gli interessi degli Stati Uniti nella regione. Questo contribuì a intensificare la guerra fredda tra i due superpoteri e ad alimentare ulteriormente i conflitti regionali.
In conclusione, l’evoluzione della posizione dell’Unione Sovietica nei confronti dei fedayyin rappresentò un cambiamento significativo nella politica internazionale e contribuì a plasmare il corso degli eventi nel Medio Oriente durante gli anni ’70 e oltre.
Tuttavia, sia il voto dell’Unione Sovietica presso le Nazioni Unite del 29 novembre 1947 a favore della spartizione della Palestina, che il successivo riconoscimento dello Stato di Israele hanno influenzato i rapporti tra l’OLP e l’Unione Sovietica. Mantenendo rapporti diplomatici con Israele, l’Unione sovietica ha giocato un ruolo di mediatore tra le due parti. Questo ha creato tensioni all’interno del movimento palestinese, con alcuni gruppi che vedevano l’Unione Sovietica come un alleato fidato, mentre altri erano più scettici circa le reali intenzioni di Mosca.
In ogni caso, il cambiamento di posizione dell’Unione Sovietica nei confronti dei fedayyin ha avuto un impatto significativo sulle dinamiche politiche della regione, influenzando le strategie e le relazioni all’interno del movimento palestinese.
Durante la sua visita in Cina, nel marco 1970, Arafat si ispirò alle strategie rivoluzionarie cinesi e vietnamite per rafforzare la lotta palestinese contro Israele. La Cina di Mao Zedong – che, a differenza dell’Unione Sovietica, non aveva né partecipato ai lavori delle Nazioni Unite del biennio 1947-1949, né riconosciuto lo Stato di Israele – fornì supporto militare e politico all’OLP, aiutando a consolidare le basi sicure e ad aumentare la capacità di resistenza palestinese.
Inoltre, la Cina giocò un ruolo chiave nel contrastare gli sforzi degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica di mediare il conflitto israelo-palestinese in modo favorevole a Israele. La Cina sostenne il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione e all’indipendenza, contribuendo a rafforzare la posizione dell’OLP sulla scena internazionale.
Un cambiamento della posizione degli USA rispetto alla questione palestinese e all’OLP – con cui non era stato sinora preso ufficialmente alcun contatto non avendo quest’ultima ancora riconosciuto il diritto all’esistenza dello Stato di Israele – cominciò a delinearsi solo nel novembre 1975, in seguito alla partecipazione di Henry Kissinger alla redazione del documento Saunders, dal nome del segretario di Stato incaricato degli Affari del Medio Oriente.
Il documento Saunders sosteneva la necessità di coinvolgere l’OLP nei negoziati di pace e riconosceva il suo ruolo come rappresentante legittimo del popolo palestinese. Nello specifico, nel documento si dichiarava che: «la soluzione definitiva del problema del Medio Oriente sarà possibile solo quando si giungerà ad un accordo che definisca una condizione giusta e stabile» per i palestinesi che «costituiscono un fattore politico che deve essere affrontato se si vuole arrivare ad una pace tra Israele ed i suoi vicini».
Questo segnò un momento importante nella politica degli Stati Uniti nei confronti della questione palestinese.
Nel gennaio 1977, con l’arrivo alla Casa Bianca di Jimmy Carter, l’approccio americano alla questione mediorientale si evolse in considerazione della necessità di dare una patria ai rifugiati palestinesi.
Carter cercò di facilitare un accordo di pace tra Israele e i paesi arabi, puntando sull’impegno per la soluzione dei confini e il rispetto per i diritti dei popoli arabi. Nel settembre 1978, Carter ospitò negoziati tra Israele ed Egitto a Camp David che portarono agli Accords di Camp David[11], sottoscritti nel marzo 1979 e che garantirono la pace tra i due paesi. Tuttavia, non fu possibile risolvere la questione palestinese e i negoziati di pace si arenarono. Nonostante gli sforzi di Carter, l’idea di una patria per i palestinesi non riuscì a concretizzarsi durante il suo mandato e la questione rimase irrisolta per molti anni, continuando a generare tensioni e conflitti nella regione. Ad ogni modo, sia Carter che il suo successore Ronald Reagan mantennero fede alla promessa fatta da Kissinger ad Israele. Nella clausola Kissinger del settembre 1975 gli USA, infatti, si impegnarono a non riconoscere l’OLP fino a quando essa non avesse riconosciuto il diritto di Israele ad esistere e non avesse accettato le risoluzioni 242 e 338 delle Nazioni Unite.
Solo in seguito al discorso tenuto dal segretario di Stato James Baker, il 22 maggio 1989, davanti all’American Israeli Public Affairs Committee, nel quale egli aveva affermato:
«è ormai tempo, per Israele, di mettere da parte una volta per tutte la irrealistica visione di un Grande Israele. Rinunciate all’annessione. Fermate la colonizzazione»[12],
si giunse ad una svolta nelle relazioni americano-palestinesi.
Tra i paesi europei, la Francia è stata la prima potenza occidentale a svolgere un ruolo chiave nel sostenere i diritti dei rifugiati palestinesi e nel cercare soluzioni politiche e umanitarie per affrontare questa emergenza umanitaria.
La politica sul Medio Oriente adottata dal presidente François Mitterand, a partire dall’inizio del suo mandato, nel 1981, pur auspicando la possibilità di creare uno Stato palestinese, favorì addirittura il dialogo con tutti gli attori della regione, cercando di trovare una soluzione pacifica ai conflitti. Tuttavia, durante la sua presidenza, i rapporti con Israele furono spesso tesi a causa di alcune decisioni prese dal governo francese che venivano viste come ostili dal governo israeliano. Nonostante ciò, Mitterand mantenne sempre una posizione equilibrata e cercò di svolgere un ruolo da mediatore nella regione, favorendo il dialogo e la cooperazione tra le varie parti coinvolte nei conflitti. Inoltre, si impegnò attivamente per il rispetto dei diritti umani e per la tutela della popolazione civile nella regione.
La politica sul Medio Oriente di Mitterand, pertanto, si caratterizzò per la volontà di trovare una soluzione pacifica ai conflitti, rispettando i diritti di tutte le parti coinvolte e promuovendo la cooperazione e il dialogo come strumenti per raggiungere la pace.
Tra i partiti italiani che manifestarono una particolare attenzione all’evoluzione dei rapporti israelo-palestinesi, pur avendo sostenuto delle posizioni a volte divergenti, bisogna annoverare il PCI e il PSI.
Entrambi i partiti hanno espresso solidarietà sia verso gli israeliani che verso i palestinesi, cercando di favorire una soluzione pacifica e giusta al conflitto. La questione israelo-palestinese è stata spesso al centro del dibattito politico in Italia e i partiti di sinistra hanno giocato un ruolo importante nel promuovere la pace e i diritti umani in Medio Oriente.
- La nascita dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina e gli Accordi di Oslo
Dopo la Guerra dei sei giorni, il conflitto israelo-palestinese assunse una nuova forma. La popolazione palestinese perse fiducia negli Stati arabi e si propose di condurre in prima persona la lotta contro gli israeliani, sotto la guida dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina e del suo leader Yasser Arafat.
L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) fu fondata il 28 maggio 1964 durante la prima riunione del Consiglio Nazionale Palestinese (CNP) a Gerusalemme Est. La creazione dell’OLP rispose alla necessità di un’organizzazione unificata in grado di rappresentare i palestinesi e di agire come organo centrale per coordinare le attività politiche e la resistenza contro l’occupazione israeliana.
Prima della creazione dell’OLP, i palestinesi erano rappresentati da una varietà di organizzazioni ma non esisteva un’unica entità che li rappresentasse a livello internazionale. L’obiettivo principale dell’OLP era quello di promuovere la lotta per l’indipendenza e l’autodeterminazione del popolo palestinese. Durante gli anni successivi alla sua fondazione, l’OLP ha svolto un ruolo significativo nella lotta contro l’occupazione israeliana e nella difesa dei diritti del popolo palestinese.
Negli anni ’70, l’OLP divenne un attore chiave nella politica internazionale, guadagnando il riconoscimento da parte di molti governi e organizzazioni internazionali come il rappresentante legittimo del popolo palestinese.
Il primo presidente dell’OLP fu Ahmad Shukeiri. Tuttavia, dopo la Guerra dei Sei Giorni nel 1967, la leadership dell’OLP passò a Yasser Arafat, il quale avrebbe giocato un ruolo centrale nella storia dell’organizzazione e nella lotta palestinese per l’indipendenza.
Nonostante tutto, durante gli anni ’70 e ’80, l’OLP è stata coinvolta in diverse azioni e operazioni contro Israele, attirando l’attenzione internazionale per la loro matrice terroristica. Alcune fazioni palestinese legate all’OLP hanno adottato diverse modalità operative terroristiche, inclusi i dirottamenti aerei, gli attacchi armati e sequestri di ostaggi.
Il 5 e 6 settembre 1972, il mondo fu testimone con orrore della brutale uccisione degli atleti israeliani durante le Olimpiadi di Monaco. L’organizzazione terroristica palestinese, chiamata “Settembre Nero” sequestrò e uccise undici membri della squadra olimpica israeliana in un atto barbaro e spregevole, evirandone uno e lasciandolo agonizzante a morire davanti agli altri compagni di squadra. Il comando prese d’assalto l’alloggio degli atleti, ne uccise immediatamente due e tenne in ostaggio gli altri, chiedendo il rilascio di 234 prigionieri terroristi detenuti da Israele. La premier israeliana Golda Meir, che era stata una dei firmatari della Dichiarazione di indipendenza dello Stato di Israele nel 1948, rifiutò di contrattare con loro. Credeva che fare concessioni ai terroristi avrebbe solo incoraggiato ulteriori attacchi e avrebbe minato la sicurezza e l’integrità dello stato di Israele. Rifiutò categoricamente qualsiasi forma di trattativa e ordinò alle forze di sicurezza di fare tutto il necessario per liberare gli ostaggi.
Nello specifico, la Meir affermò:
«Abbiamo imparato l’amara lezione. Si può salvare una vita solo per metterne in pericolo altre. Il terrorismo deve essere spazzato via».
Nel frattempo, Berlino offrì un salvacondotto e denaro illimitato ai terroristi, che li rifiutarono. Nel caos di un disastroso tentativo tedesco di tendere un’imboscata agli assassini nella base aerea di Fürstenfeldbruck, nei pressi di Monaco, il 6 settembre, lanciando granate e sparando raffiche di colpi di armi da fuoco i terroristi massacrarono i restanti nove atleti a bordo degli elicotteri che li avevano portati là, oltre a un poliziotto tedesco. Purtroppo, l’operazione di salvataggio fallì e tutti gli ostaggi rimasero uccisi.
Il presidente libico Muammar Gheddafi aveva finanziato l’attacco per volere del leader dell’Olp Yasser Arafat, che successivamente negò qualsiasi coinvolgimento e due anni dopo fu acclamato con una standing ovation all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Mahmoud Abbas, che fu Presidente dell’Autorità Palestinese, fu un attore chiave nella preparazione dell’operazione.
Questo evento noto come la “strage di Monaco” ebbe un impatto profondo sulla politica estera e sulla sicurezza di Israele e portò a un aumento delle misure di sicurezza per proteggere gli atleti israeliani in competizioni internazionali.
Anche la campagna terroristica attuata attraverso i dirottamenti aerei ha attirato l’attenzione della Comunità Internazionale.
A settembre del 1970, dei commandos del Fronte popolare di liberazione della Palestina (FPLP) dirottano tre aerei e li costringono ad atterrare all’aeroporto di Zarka, in Giordania.
I dirottatori, guidati dal leader del FPLP[13] Leila Khaled, presero in ostaggio i passeggeri e chiesero il rilascio di prigionieri palestinesi detenuti in Israele e in Germania. Dopo alcuni giorni di trattative, i dirottatori liberarono gli ostaggi e furono accontentati nelle loro richieste.
Questo episodio fu uno dei tanti dirottamenti aerei compiuti dal FPLP per attirare l’attenzione internazionale sulla causa palestinese. La comunità internazionale condannò fermamente tali azioni, ma allo stesso tempo cercò di trovare una soluzione politica al conflitto israelo-palestinese.
Il dirottamento del volo Swissair non causò vittime, ma contribuì a intensificare la tensione tra Israele e i movimenti palestinesi. Fu un episodio significativo nella storia del conflitto in Medio Oriente e dimostrò la determinazione dei palestinesi nella lotta per i propri diritti e la propria autonomia.
In quella fase storica, la Svizzera era traumatizzata dagli attacchi condotti dai terroristi palestinesi. Il 18 febbraio 1969, alcuni uomini spararono contro un aereo della compagnia israeliana El-Al all’aeroporto di Zurigo-Kloten. Il pilota venne ucciso, un terrorista fu abbattuto e altri tre arrestati. Un anno dopo, il 21 febbraio 1970, una bomba della FPLP scoppiò a bordo di un Coronado di Swissair partito da Zurigo in direzione di Tel-Aviv. Il velivolo si schiantò nella foresta di Würelingen (canton Argovia) e i morti furono 47. Poi, a settembre, fu la volta della presa di ostaggi allo scalo di Zarka, il cui epilogo sarà fortunatamente meno drammatico, con la liberazione di 157 passeggeri.
Negli anni a seguire ci furono tantissimi altri dirottamenti. Ricordiamo, il dirottamento, avvenuto il 1° ottobre del 1977, dell’aereo Lufthansa Flight 181 per opera di due membri del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. L’aereo, un Boeing 737, era in viaggio da Palma di Maiorca a Francoforte quando due dirottatori armati presero il controllo dell’aereo e lo diressero verso l’Aeroporto Internazionale di Mogadiscio in Somalia. Lì, i dirottatori chiesero il rilascio di membri del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina detenuti in Germania. Dopo un lungo periodo di trattative, le forze speciali tedesche, insieme alle forze dell’unità antiterrorismo della GSG 9, attuarono un’operazione di salvataggio dell’ostaggio conosciuta come Operazione Feuerzauber. Durante l’operazione, i dirottatori furono neutralizzati e i passeggeri liberati in sicurezza.
Il dirottamento del volo Lufthansa 181 è considerato uno degli eventi più significativi nella storia dell’aviazione civile e della lotta contro il terrorismo internazionale. Ha portato a un rafforzamento delle misure di sicurezza aerea in tutto il mondo e ha dimostrato la determinazione delle autorità a combattere e sconfiggere il terrorismo.
Tra le azioni più eclatanti condotte dalle organizzazioni terroristiche palestinesi, ricordiamo anche l’attentato all’aeroporto di Fiumicino nel 1973 e il dirottamento della nave da crociera Achille Lauro del 1985.
L’attentato di Fiumicino si riferisce al 27 dicembre del 1985 quando un volo proveniente dalla Spagna, fece irruzione all’interno del terminal dell’aeroporto di Roma. L’obiettivo era colpire un banco di check-in dell’El Al, la compagnia aerea israeliana. Gli uomini, dopo aver estratto armi automatiche ed esplosivi dalle loro valigie, si fecero strada all’interno del terminal fino alla pista, sparando all’impazzata e uccidendo due persone. Raggiunta la zona di stazionamento dell’aeroporto, i terroristi si diressero verso il Boeing 707 della Pan Am, volo 110 per Teheran con scalo a Beirut e vi gettarono all’interno una bomba al fosforo e due granate dirompenti. Gli assistenti di volo tentarono di evacuare il velivolo il più velocemente possibile, aprendo le uscite di emergenza sulle ali, dal momento che le altre erano ostacolate dai terroristi. Molti passeggeri riuscirono a scappare, ma 30 rimasero uccisi, tra questi quattro italiani. L’attacco risultò essere talmente fulmineo, da non consentire un’adeguata risposta da parte delle forze dell’ordine. Il tutto aggravato dal fatto che la struttura aeroportuale non era assolutamente adatta alla prevenzione di attacchi terroristici, in quanto concepita in un’epoca in cui tali eventi non erano prevedibili.
L’attentato fu condannato a livello internazionale e portò all’arresto di alcuni membri dell’Ordine Nero responsabili dell’attacco. Questo tragico evento fu uno dei più gravi atti terroristici che si siano verificati in Italia negli anni ’70 e rimase impresso nella memoria collettiva del Paese.
Il sequestro della nave da crociera Achille Lauro è avvenuto nel 1985 quando un gruppo di terroristi palestinesi, affiliati all’organizzazione di Abu Abbas, presero la nave al largo delle coste dell’Egitto. I terroristi chiedevano il rilascio di prigionieri palestinesi detenuti in Israele. La nave fu dirottata nel Mediterraneo, ove i terroristi presero in ostaggio i passeggeri minacciando di ucciderli se le loro richieste non fossero state soddisfatte. I quattro terroristi presero in ostaggio 450 passeggeri e l’equipaggio, chiedendo in cambio la liberazione di 52 palestinesi detenuti in Israele. L’8 ottobre a bordo della nave viene ucciso un cittadino americano di origine ebraica e paralitico, Leon Klinghoffer, sollevando l’indignazione mondiale. I quattro terroristi sbucarono sul ponte di comando armati di mitra Kalašnikov sovietici e intimarono al comandante Gerardo De Rosa di far rotta verso il porto di Tartus, in Siria. Giulio Andreotti, allora Ministro degli esteri, mobilitò l’egiziano Boutros Boutros-Ghali che assicurò piena collaborazione e il siriano Hafiz al-Asad, che inizialmente era disposto a consentire l’attracco della nave nel porto di Tartus, ma poi rifiutò a causa delle pressioni degli Stati Uniti. Il dirottamento durò molte ore, riguardò molti passeggeri e membri dell’equipaggio di diverse nazionalità e si capì molto presto che aveva un motivo politico, legato all’opposizione tra Palestina e Israele. Per queste ragioni in quei giorni si parlò del dirottamento in tutto il mondo, non solo in Italia. Una volta terminato, il dirottamento ebbe anche importanti conseguenze diplomatiche che riguardarono Stati Uniti e Italia.
Nell’ottobre del 1985 il governo italiano era guidato da Bettino Craxi: il ministro degli Esteri era Giulio Andreotti e il ministro della Difesa era Giovanni Spadolini. Craxi e i suoi ministri si trovarono a gestire una situazione che sin dalle prime ore si complicò molto: si pensò inizialmente a una soluzione militare e la sera del 7 ottobre l’Italia inviò a Cipro più di 50 incursori paracadutisti del “Col Moschin”, un reparto di forze speciali dell’esercito italiano. Nella notte tra il 7 e l’8 ottobre si decise invece di scegliere la strada diplomatica: l’Italia trovò in Yasser Arafat un importante mediatore. Arafat negò che lui e l’OLP avessero a che fare con il dirottamento e iniziò a collaborare per trovare una mediazione con i dirottatori. Grazie ad Arafat furono scelti due mediatori: Hani El Hassan e Abu Abbas.
Tra l’8 e il 9 ottobre i due mediatori inviati grazie all’aiuto di Arafat riuscirono a porre fine al dirottamento: i quattro dirottatori salirono su una motovedetta diretta in Egitto, con l’assicurazione che da lì avrebbero potuto poi recarsi in qualsiasi paese arabo di loro scelta. Una volta terminato il dirottamento si scoprì però che l’8 ottobre i quattro militanti del FLP avevano ucciso e gettato in mare Leon Klinghoffer: un passeggero disabile, cittadino statunitense di religione ebraica. Alla conferma dell’uccisione di Klinghoffer gli Stati Uniti decisero di opporsi agli accordi presi tra i mediatori (e quindi lo Stato italiano) e i dirottatori. Nel 1985 il presidente degli Stati Uniti era Ronald Reagan, che durante le precedenti fasi del dirottamento si era opposto ad ogni tipo di negoziazione con i dirottatori, che avevano più volte minacciato di uccidere alcuni passeggeri iniziando da quelli statunitensi.
Gli Stati Uniti decisero di ignorare gli accordi che l’Italia aveva avallato. Reagan decise di intercettare con degli aerei militari il volo che stava portando a Tunisi i quattro dirottatori e i due mediatori. L’11 ottobre gli Stati Uniti riuscirono così a obbligare l’aereo diretto a Tunisi ad atterrare nella base NATO di Sigonella, in Sicilia. L’atterraggio avvenne dopo che Craxi diede a Reagan il “permesso” di far atterrare gli aerei militari statunitensi e l’aereo che trasportava i dirottatori. Dopo l’atterraggio Craxi e il suo governo decisero però di non lasciare che i militari statunitensi si avvicinassero all’aereo con i dirottatori dell’Achille Lauro (in cui tra l’altro, si scoprì anni dopo, c’erano alcuni militari egiziani armati). Per impedire che i militari statunitensi si avvicinassero a dirottatori e mediatori (“scortati” dai militari egiziani) furono inviati nella base di Sigonella dei carabinieri italiani a protezione dell’aereo.
Quella che divenne nota come la “crisi di Sigonella” portò quindi a una situazione di tensione nell’aeroporto di Sigonella e a quella che fu una complicata trattativa diplomatica tra Craxi e Reagan. Craxi riuscì a ottenere la custodia di mediatori e dirottatori, che furono portati nel carcere di Siracusa. Dopo complesse trattative i mediatori palestinesi furono invece lasciati liberi di volare verso Belgrado. Poco dopo che i due mediatori volarono a Belgrado si scoprì che uno di loro – Abu Abbas – era direttamente implicato nel dirottamento: era stato lui a ordinarlo e fu condannato all’ergastolo in contumacia. Abbas andò poi in Iraq e lì fu catturato nel 2013 dai militari statunitensi: morì in carcere l’anno successivo. Le vicende che portarono al dirottamento dell’Achille Lauro e soprattutto le complicate e mai del tutto chiare trattative della “crisi di Sigonella” sono ricordate e raccontate come un importante momento della politica italiana e della sua diplomazia. Le tensioni diplomatiche tra Italia e Stati Uniti si risolsero alcune settimane dopo con una lettera che Reagan scrisse a Craxi.
Nel frattempo, tra la fine degli anni ’70 e gli anni ‘80 cambiò nuovamente lo scenario internazionale. L’Egitto firmò un accordo di pace con Israele, riottenendo il Sinai, e rinunciò definitivamente alla Striscia di Gaza. Nel 1988, il governo giordano rinunciò alla Cisgiordania, auspicando che potesse diventare sede di uno Stato palestinese se Israele si fosse ritirato. Da allora, Cisgiordania e Gaza sono considerati territori palestinesi.
Grazie a questi cambiamenti, negli anni ’90 iniziò un significativo processo di pace. Nel 1993 Arafat e il premier israeliano Yitzhak Rabin sottoscrissero un accordo con il quale Israele e l’Olp si riconoscevano reciprocamente. Lo Stato ebraico, inoltre, cedette alla sua controparte il controllo di alcuni settori della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, con l’obiettivo di giungere alla creazione di uno Stato palestinese.
- La stretta di mano tra Rabin e Arafat nel 1993 e gli accordi di Oslo
Il 20 agosto del 1993 si conclusero nella capitale norvegese gli Accordi di Oslo, il primo trattato di pace tra israeliani e palestinesi dal 1948. Ufficialmente chiamati “Dichiarazione dei Principi” riguardanti progetti di auto-governo ad interim o Dichiarazione di Principi (DOP), vennero ufficializzati il 13 settembre, dopo un anno di negoziati segreti tra le due parti, con una cerimonia a Washington presieduta da Bill Clinton, Yasser Arafat e Itzhak Rabin.
L’Accordo era composto da due protocolli: L’accordo di pace è composto da due protocolli distinti, uno concentrato sul riconoscimento tra le parti in conflitto e uno sui principi fondamentali che guideranno il processo di pace. Questi protocolli sono stati concepiti per garantire una base solida e duratura per la risoluzione delle controversie e per promuovere la pace e la stabilità nell’area in questione.
Il protocollo sul riconoscimento stabilisce le condizioni e i termini nei quali le parti coinvolte accettano di rispettare reciprocamente la sovranità e l’integrità territoriale dell’altra parte. Questo accordo è fondamentale per garantire la fiducia reciproca e per facilitare la cooperazione tra le parti.
Il protocollo sui principi, d’altra parte, definisce i principi guida che regoleranno il processo di pace e che saranno rispettati da entrambe le parti durante tutto il periodo di negoziazione e implementazione dell’accordo. Questi principi includono il rispetto dei diritti umani, la promozione della democrazia e della giustizia, e l’impegno a risolvere pacificamente le controversie attraverso il dialogo e la negoziazione.
Insieme, i due protocolli costituiscono la base su cui si fonda l’accordo di pace e forniscono una struttura solida per il raggiungimento di una soluzione duratura e sostenibile al conflitto in questione.
Israele riconosceva da parte sua l’OLP come rappresentante legittimo del popolo palestinese.
Le due parti si impegnavano a concordare uno status definitivo basato sulle risoluzioni 242 e 338 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU nell’arco di cinque anni, lasso di tempo in cui la nascente Autorità nazionale palestinese avrebbe potuto esercitare un autogoverno ad interim sul territorio, basato su diverse fasi. Le due parti, pertanto, avrebbero negoziato le questioni più spinose, come lo status di Gerusalemme, i confini tra Israele e lo Stato palestinese, i rifugiati palestinesi e la sicurezza della regione.
Tuttavia, questo accordo non è stato mai completamente attuato e nell’attesa, Cisgiordania e Striscia di Gaza sono state divise in tre zone[14]:
- la Zona A, sotto il pieno controllo dell’Autorità palestinese;
- la Zona B, sotto il controllo civile palestinese e controllo israeliano per la sicurezza:
- la Zona C, sotto il pieno controllo israeliano, eccetto sui civili palestinesi.
I problemi più importanti, Gerusalemme, i profughi e gli insediamenti israeliani nell’area, vennero esclusi dagli accordi[15].
Il 23 settembre l’accordo fu approvato dal Parlamento israeliano, l’11 ottobre dal Consiglio Nazionale Palestinese. La Dichiarazione di Principi entrò ufficialmente in vigore il 13 ottobre 1993.
Nel periodo cruciale che precedette e seguì la storica stretta di mano tra Rabin e Arafat a Washington D.C., la “battaglia” si concentrò principalmente sulle parole pronunciate nei discorsi dei due leader. I due interventi, sia nel contenuto che nella forma, si presentarono in modo molto differente: quello israeliano era ricco di elementi prevalentemente emotivi, come il sangue, le lacrime, la violenza, il terrore e il dolore; mentre quello della parte palestinese si basava su elementi di natura politica, quali accordi, diritti, coesistenza ed eguaglianza.[16].
Dopo gli accordi, le tensioni tornarono a salire tra Palestinesi e Israeliani, mentre le promesse di pace sembravano svanire. La situazione peggiorò ulteriormente con gli attacchi terroristici in Israele e i bombardamenti su Gaza, che portarono a una nuova ondata di violenza. Le speranze di una vera pace sembravano sempre più remote, e l’ottimismo iniziale si trasformò in delusione e disillusione.
Gli Accordi di Oslo, che inizialmente sembravano aprire la strada a una soluzione pacifica al conflitto israelo-palestinese, si rivelarono un fallimento.
L’idea di una Palestina indipendente e di una convivenza pacifica con Israele sembrava sempre più lontana, e il futuro della regione appariva sempre più incerto. La strada per la pace si dimostrava più tortuosa e complicata di quanto si fosse pensato, e la speranza di una soluzione pacifica al conflitto sembrava ormai svanita.
L’ accordo avrebbe dovuto essere firmato ma il massacro alla Tomba dei Patriarchi di Hebron, perpetrato dal colono Baruch Goldstein, che causò la morte di ventinove palestinesi in preghiera e un centinaio di feriti, ostacolò la strada della diplomazia, acuendo la tensione latente e dando il via a una serie di attacchi di matrice terroristica.
Gli Accordi di Oslo, sebbene abbiano rappresentato un passo significativo verso il riconoscimento reciproco e l’autonomia palestinese, non sono riusciti a risolvere le questioni fondamentali e sono stati seguiti da periodi di tensione e conflitto. La situazione attuale continua a riflettere la complessità e la delicatezza del conflitto israelo-palestinese.
C’è da dire, inoltre, che gli accordi di Oslo non affrontavano le questioni più spinose, tra le quali lo status di Gerusalemme, che entrambi rivendicano come capitale; gli insediamenti israeliani in Cisgiordania, dei quali i palestinesi chiedono la rimozione; il ritorno in Israele dei profughi palestinesi espulsi nel 1948. Non a caso, il processo di pace è fallito e lo Stato palestinese non è stato costituito, sebbene sia stata fondata un’Autorità nazionale palestinese per amministrare i territori ceduti da Israele. Il conflitto ha assunto la forma di una guerra asimmetrica, combattuta tra un esercito regolare da una parte e milizie armate dall’altra. La pace appare quanto mai lontana.
Il 4 novembre 1995 venne ucciso Ytzhak Rabin, mentre parlava nella piazza di Malkel Israel di Tel Aviv ad una manifestazione per la pace. Un proiettile alla testa ed uno alla spina dorsale, sparati dall’estremista ebreo Igal Amir, non lasciarono speranza al leader politico, che morì poco dopo. Rabin, che all’epoca era il primo ministro israeliano e aveva appena firmato gli accordi di Oslo con i palestinesi, fu assassinato da Yigal Amir, un estremista di destra che si opponeva agli accordi di pace. L’assassinio di Rabin causò un forte shock in Israele e nel mondo intero e mise in discussione il processo di pace in corso. Dopo l’omicidio di Rabin, Shimon Peres gli succedette come primo ministro e proseguì il processo di pace con i palestinesi. Tuttavia, la morte di Rabin rappresentò un duro colpo per il movimento per la pace in Israele e causò una serie di tensioni e conflitti nell’area.
L’assassinio di Rabin è ancora oggi oggetto di controversie e teorie del complotto, ma rimane un momento cruciale nella storia di Israele e nel processo di pace in Medio Oriente.
L’elezione, nel maggio del 1996, di Benjamin Netanyahu, strenuo oppositore degli accordi di Oslo, segnò una svolta. Netanyahu di fatto “congelò” il dialogo politico con l’Autorità palestinese di Arafat e annunciò un piano di espansione dei confini di Gerusalemme, il che costituiva una evidente violazione degli accordi di Oslo, e fu considerata una provocazione perfino da Washington.
Le crisi nelle relazioni israelo-palestinesi da allora si susseguirono, con scontri anche armati tra esercito israeliano e polizia dell’autorità palestinese.
Il cosiddetto “processo di pace” riprese grazie agli sforzi di Clinton, il quale invitò Arafat e Netanyahu al summit di Wye River Plantation. Pur segnando una svolta nella politica della destra israeliana, gli Accordi di Wye River Plantation[17] (ottobre 1998) trovarono scarsa applicazione e furono la causa della caduta di Netanyahu.
Durante l’incontro, vennero raggiunti degli accordi per il proseguimento dei negoziati di pace e per l’implementazione degli accordi di Oslo. Tuttavia, nonostante gli sforzi diplomatici, il processo di pace non portò ad una soluzione definitiva al conflitto israelo-palestinese. Gli attacchi terroristici e gli attacchi militari continuavano ad alimentare la violenza e l’instabilità nella regione. Anche dopo il summit di Wye River Plantation, nonostante tutti i tentativi di riconciliazione e di mediazione, il conflitto tra israeliani e palestinesi continuava a persistere, causando sofferenza e distruzione per entrambe le parti. La mancanza di fiducia reciproca e le profonde divisioni tra le due comunità rendevano difficile raggiungere un accordo che potesse mettere fine alla violenza e portare a una pace duratura nella regione.
Nel 2000 si registrarono altri incontri fallimentari a Camp David (Stati Uniti) con la mediazione di Bill Clinton assistito dal Segretario di Stato Madeleine Albright, dove le due parti fecero notevoli concessioni ma le discussioni si bloccarono sul problema dei profughi e sulla sovranità dei luoghi santi di Gerusalemme. Arafat considerò inadeguate le proposte israeliane. Così con l’incontro di Camp David si decretò il fallimento degli Accordi di Oslo.
Questo fallimento contribuì allo scoppio della seconda Intifada nel 2000. Il fallimento degli accordi di Oslo ha alimentato l’escalation delle tensioni tra Israele e i territori palestinesi occupati, portando a un aumento dei conflitti e degli attacchi terroristici da entrambe le parti.
La seconda intifada ha causato la morte di migliaia di persone e ha portato a gravi sofferenze per entrambi i popoli coinvolti. Questo evento ha segnato un duro colpo per gli sforzi di pace in Medio Oriente e ha reso ancora più complicata la ricerca di una soluzione negoziata al conflitto israelo-palestinese.
Iniziata nel settembre del 2000, la seconda Intifada vide un aumento significativo degli attacchi terroristici, degli scontri armati e delle violenze tra israeliani e palestinesi. I palestinesi utilizzavano bombe, armi da fuoco e attacchi suicidi per colpire gli israeliani, mentre le forze di sicurezza israeliane rispondevano con operazioni militari e arresti in massa.
Pian piano i disordini si estesero a tutta Gerusalemme, poi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza; più tardi anche l’Autorità Nazionale Palestinese si unì all’insurrezione (in maniera non aperta), incoraggiando la lotta contro gli Israeliani. Nel gennaio 2001 il presidente Clinton riunì, in un ultimo ma inutile tentativo, israeliani e palestinesi a Taba sperando in un accordo che però fallì. Nel febbraio dello stesso anno, Ariel Sharon divenne il nuovo primo ministro israeliano.
La violenza raggiunse il suo apice nel 2002, quando Israele avviò l’Operazione Scudo difensivo per reprimere i gruppi terroristici palestinesi. Questo portò a una escalation degli scontri e a un aumento delle vittime da entrambe le parti.
Durante quel periodo, la comunità internazionale cercò di negoziare una soluzione pacifica al conflitto israelo-palestinese, ma i continui attacchi e rappresaglie da entrambe le parti resero difficile raggiungere un accordo duraturo. Alla fine, nel 2005, Israele completò il ritiro dalla Striscia di Gaza, ma il conflitto continuò a persistere in Cisgiordania e Gerusalemme Est.
La seconda Intifada si concluse nel 2005, con un bilancio di oltre 3.000 morti palestinesi e circa 1.000 morti israeliani. La violenza e la distruzione causate da questo conflitto continuarono ad avere effetti duraturi sulle relazioni tra israeliani e palestinesi e sulla situazione politica della regione.
Arafat pagò un prezzo altissimo alla Seconda Intifada: fu esiliato. L’esilio di Yasser Arafat è stato un periodo molto turbolento nella sua vita e nella storia del conflitto israelo-palestinese. Arafat ha trascorso gli ultimi anni della sua vita in isolamento, circondato dalle forze di sicurezza israeliane e costantemente minacciato di essere ucciso. Nel 2004, il governo israeliano ha offerto ad Arafat di andare in esilio volontario in Francia per motivi di salute, e ha accettato. Arafat è morto nel novembre 2004 a Parigi, con molte domande ancora irrisolte sulla sua morte e sul suo impatto duraturo sul conflitto israelo-palestinese. La sua morte ha segnato la fine di un’era per i palestinesi e ha innescato una lotta per la sua eredità e il suo successore alla guida dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina.
Dopo la morte di Arafat il governo israeliano, guidato da Ariel Sharon, si dichiarò di nuovo pronto al confronto con i palestinesi, dato che Arafat era stato considerato negli ultimi anni un interlocutore poco credibile. A gennaio 2005 si tennero le elezioni presidenziali in Palestina e successore di Arafat venne nominato Mahmoud Abbas (Abu Mazen). Il dialogo riprese. Il governo Sharon decise unilateralmente di sgomberare la Striscia di Gaza, occupata nel 1967, nell’agosto 2005. L’esercito di Tel Aviv sgomberò con la forza i coloni israeliani, lasciando l’amministrazione del territorio ai Palestinesi. Israele mantenne però il controllo delle frontiere e degli accessi. Ciò nonostante, i festeggiamenti dei Palestinesi si moltiplicarono per le strade di Gaza.
- Verso le elezioni palestinesi. Il protagonismo di Hamas.
Il territorio palestinese, prima delle elezioni del 2006, era caratterizzato da un clima di tensione e divisione politica.
Il principale partito al potere, Fatah, era afflitto da corruzione e inefficienza, mentre il gruppo islamico Hamas stava guadagnando consenso tra la popolazione per la sua promessa di combattere la corruzione e migliorare le condizioni di vita.
La spaccatura politica tra Fatah e Hamas aveva portato a violenti scontri armati e tensioni all’interno dei territori palestinesi, con la comunità internazionale che temeva che potesse sfociare in una guerra civile. La situazione era complicata anche dalla presenza di Israele, che continuava a occupare territori palestinesi e a condurre operazioni militari contro i gruppi armati nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania.
Le elezioni del 2006 sono state caratterizzate da un alto livello di partecipazione e da una sorprendente vittoria di Hamas, che ha ottenuto la maggioranza dei seggi nel Consiglio legislativo palestinese. Questo ha portato a una crisi politica e diplomatica, con il boicottaggio internazionale e la successiva divisione politica tra Hamas e Fatah, che hanno portato a una guerra civile nel 2007 e alla divisione dei territori palestinesi in due fazioni rivali.
Di fronte ad un quadro politico incerto e rumoroso, i dati economici erano disastrosi: il PIL era in calo costante, le aziende chiudevano e molti lavoratori erano senza stipendio. La popolazione locale dipendeva sempre di più dagli aiuti umanitari per sopravvivere.
In questo contesto, i gruppi terroristici palestinesi approfittavano della disperazione della gente per reclutare nuovi membri e perpetrare attacchi contro Israele. La situazione di instabilità economica e sociale alimentava il ciclo di violenza e ritorsioni.
La comunità internazionale si preoccupava di questa spirale di violenza e povertà, ma le soluzioni erano difficili da individuare. Le diplomazie internazionali cercavano di mediare tra le parti, ma il clima di diffidenza e la mancanza di fiducia rendevano difficile qualsiasi tentativo di negoziazione.
In questo scenario fatto di sofferenza e violenza, i Palestinesi cercavano di resistere e di trovare soluzioni per migliorare la propria situazione. Ma le strade erano bloccate e le speranze erano sempre più flebili. La pace sembrava sempre più lontana, mentre la paura e la disperazione crescevano. Tale situazione portò alla vittoria elettorale di Hamas[18] il 25 gennaio 2006.
La vittoria di Hamas nelle elezioni parlamentari del 2006 in Palestina è stata sorprendente e ha segnato un punto di svolta nella politica della regione. Hamas, un gruppo considerato terrorista da molti paesi occidentali, ha vinto la maggioranza dei seggi del Consiglio legislativo palestinese, sconfiggendo il partito di lunga data Fatah.
Questa vittoria ha portato a tensioni interne tra i palestinesi e a conflitti con Israele, che ha respinto il governo di Hamas come illegittimo. La comunità internazionale ha anche condannato la vittoria di Hamas e ha interrotto l’aiuto finanziario ai territori palestinesi.
La vittoria di Hamas ha portato a una profonda divisione tra Fatah e Hamas, con scontri armati e contese politiche che hanno continuato a destabilizzare la regione. L’ascesa di Hamas ha anche portato a un aumento delle tensioni con Israele e ha complicato ulteriormente la già difficile situazione politica in Medio Oriente.
La vittoria di Hamas portò a un cambio significativo all’interno della leadership politica palestinese e generò preoccupazioni e reazioni negative da parte della comunità internazionale, in quanto Hamas è considerato un’organizzazione terroristica da molti paesi. La Comunità Internazionale ne rifiutò il riconoscimento. Solo Mosca decise di incontrare il nuovo primo ministro.
Hamas e gli altri gruppi politici ad esso legati ottennero circa il 44% dei voti validi, mentre il principale partito rivale, Al-Fatah, che fino a quel momento aveva guidato i palestinesi, ottenne circa il 41%.
Nonostante l’accordo raggiunto tra Hamas e le altre fazioni palestinesi, per un Governo di unità nazionale, il governo israeliano di allora guidato, da Ehud Olmert dopo l’ictus che aveva colpito Sharon, rifiutò di negoziare con un governo che includesse Hamas, affermando che il gruppo era un’organizzazione terroristica e quindi non poteva essere considerato un partner negoziatore legittimo.
La situazione rimase in stallo per diversi mesi, con la comunità internazionale che si divise tra coloro che sostenevano il governo di unità nazionale e coloro che continuavano a considerare Hamas un’organizzazione terroristica. Alla fine, il referendum sulla questione fu rinviato e il governo di unità nazionale non riuscì mai a vedere la luce.
Pertanto, l’incapacità di Hamas e Fatah di trovare un accordo sul governo di unità nazionale portò a una violenta guerra civile tra i due gruppi nel 2007, culminando con la presa di Gaza da parte di Hamas e la divisione de facto dei territori palestinesi in due entità separate: Gaza sotto il controllo di Hamas e la Cisgiordania sotto il controllo dell’Autorità Palestinese.
Questa situazione complicata ha contribuito a perpetuare la divisione tra Fatah e Hamas e ha reso ancora più difficile per i palestinesi raggiungere un accordo di pace duraturo con Israele. La questione della rappresentanza dei palestinesi e la legittimità di Hamas come partner negoziatore rimangono ancora oggi oggetto di dibattito e disaccordo.
L’isolamento politico ed economico di Hamas portò a una crescente crisi umanitaria nella Striscia di Gaza, con gravi carenze di cibo, acqua e servizi sanitari. Le continue violenze tra Hamas e Israele inoltre causarono numerose vittime tra la popolazione civile palestinese.
Nel mese di giugno 2008, con la mediazione dell’Egitto, si arrivò ad una tregua di sei mesi tra le diverse fazioni palestinesi e Israele. Questa tregua è stata caratterizzata da frequenti violazioni da entrambe le parti, con attacchi missilistici da parte dei gruppi armati palestinesi verso Israele e controffensive militari israeliane nella Striscia di Gaza.
Durante questi sei mesi di tregua, la situazione umanitaria nella Striscia di Gaza è rimasta estremamente precaria, con gravi carenze di cibo, acqua potabile, cure mediche e servizi di base. Le Nazioni Unite e numerose organizzazioni umanitarie hanno ripetutamente denunciato la situazione critica della popolazione civile a Gaza.
Nonostante gli sforzi diplomatici per rinnovare la tregua, le violenze hanno continuato a dilagare nella regione, provocando ulteriori vittime civili e danni alle infrastrutture già precarie della Striscia di Gaza.
La mancata rinnovazione della tregua nel giugno 2008 ha segnato il ritorno alle ostilità tra Israele e i gruppi armati palestinesi, con una escalation della violenza che ha portato a un nuovo ciclo di conflitti e sofferenze per la popolazione civile.
Il 27 dicembre 2008 Israele iniziò l’operazione “Piombo fuso”, contro la Striscia di Gaza controllata da Hamas, in risposta ai continui attacchi con razzi lanciati contro il territorio israeliano. L’operazione, che durò fino al 18 gennaio 2009, causò la morte di centinaia di palestinesi, molti dei quali civili, e danni ingenti alle infrastrutture della Striscia di Gaza. Israele fu criticato a livello internazionale per l’uso eccessivo della forza e per le violazioni dei diritti umani durante l’operazione. La comunità internazionale chiese un cessate il fuoco immediato e la ripresa dei negoziati di pace tra Israele e Palestina.
Con l’insediamento di Barack Obama, nuovo presidente USA nel gennaio 2009, risorsero le speranze del popolo palestinese e del mondo intero per una ripresa dei colloqui.
Barack Obama, nel discorso del Cairo del 4 giugno 2009, chiese ai palestinesi di smettere di attaccare Israele e a Israele di smetterla di formare nuovi insediamenti. Obama ha avviato colloqui indiretti con i palestinesi e con gli israeliani, chiedendo a quest’ultimi di “congelare” la costruzione di nuovi insediamenti. Gli israeliani hanno accettato di congelare le costruzioni per dieci mesi. Nonostante ciò, i colloqui non hanno portato a una risoluzione del conflitto tra israeliani e palestinesi. Le tensioni sono rimaste alte e i negoziati sono rimasti in stallo. Obama ha cercato di mediare e di facilitare il dialogo tra le due parti, ma alla fine non è riuscito a raggiungere una soluzione duratura.
Il discorso del Cairo è stato un tentativo di rilanciare il processo di pace in Medio Oriente, ma purtroppo non è stato sufficiente a risolvere i profondi e complessi problemi che affliggono la regione. Il conflitto israelo-palestinese è uno dei più antichi e complessi al mondo, e richiede un impegno costante da parte di tutte le parti coinvolte per trovare una soluzione che possa portare alla pace e alla stabilità nella regione.
- Il ruolo degli altri attori della Regione nel conflitto israelo – palestinese
Gli altri attori della Regione hanno giocato un ruolo significativo nel conflitto israelo-palestinese. Alcuni paesi, come l’Iran e il Libano, sostengono attivamente i gruppi terroristici palestinesi, come Hamas e Hezbollah, fornendo loro armi, finanziamenti e addestramento. Questo sostegno ha contribuito ad alimentare la violenza e a rendere più complicata una soluzione pacifica al conflitto.
L’Iran è uno dei principali attori coinvolti nell’escalation del conflitto tra Israele e Hamas. Teheran non riconosce la legittimità di Israele e ha interrotto ogni relazione diplomatica con esso.
L’Iran rappresenta un importante punto di riferimento per numerosi movimenti di ispirazione islamica, principalmente di fede sciita ma non solo, attivi in Medio Oriente. Fornisce loro sostegno politico, economico e militare e ha contribuito alla nascita e alla crescita di vari movimenti e milizie nella regione a partire dagli anni ’80. Questi gruppi hanno poi dato vita a una diversificata “costellazione regionale”, comprendente milizie, movimenti politici e persino veri e propri governi, come quello di Bashar al-Assad in Siria.
L’Iran è considerato un alleato chiave nell'”asse di resistenza”, una coalizione di paesi del Medio Oriente che si oppongono all’influenza occidentale e israeliana nella regione. Questa coalizione include paesi come la Siria e il Libano, nonché numerose realtà legate all’islam sciita. L’Iran è spesso visto come la figura di leadership in questo contesto, fornendo supporto politico, economico e militare ai suoi alleati all’interno dell’asse di resistenza.
In Libano, l’Iran ha sostenuto attivamente gli Hezbollah, fornendo al gruppo supporto finanziario, armi e diplomatico. Il legame tra i due si basa su una comune ideologia religiosa e su interessi strategici nella regione, in particolare contro Israele e a favore del regime di Bashar al-Assad in Siria. Il rapporto tra Iran e Hezbollah è stato motivo di controversie e conflitti a livello internazionale, soprattutto a causa delle azioni combattenti di Hezbollah nella regione e delle tensioni tra Iran e paesi occidentali come Stati Uniti e Israele. Attualmente, le capacità militari di Hezbollah sono paragonabili a quelle di un esercito piuttosto che a quelle di una semplice milizia.
L’Iran gioca un ruolo significativo nel supporto e nell’addestramento delle milizie sciite in Iraq e ha esercitato una forte influenza politica sul paese attraverso questi gruppi armati. Le milizie sciite sono state critiche nel sostenere il governo iracheno nella lotta contro il terrorismo e nella stabilizzazione del paese, ma hanno anche suscitato preoccupazioni per il loro coinvolgimento in violazioni dei diritti umani e per la loro lealtà al governo iraniano anziché al governo iracheno. Inoltre, alcune di queste milizie sono state accusate di attaccare le forze di sicurezza irachene e di perpetuare violenze settarie contro la popolazione sunnita del paese.
Un’altra organizzazione politica e militare sciita vicina all’Iran, significativa nell’escalation del conflitto israelo –palestinese, è quella degli Houthi in Yemen. L’Iran continua a sostenere attivamente gli Houthi, fornendo loro armi, addestramento militare e sostegno politico. Questo sostegno ha contribuito a rafforzare la posizione degli Houthi nello Yemen e a aumentare la loro capacità di combattere contro il governo yemenita e le forze internazionali che cercano di porre fine al conflitto. L’escalation del coinvolgimento degli Houthi nel conflitto israelo-palestinese rappresenta una minaccia per la stabilità della regione e per gli sforzi per raggiungere una soluzione pacifica. La comunità internazionale è chiamata a intervenire per affrontare le cause sottostanti del conflitto nello Yemen e per cercare una soluzione duratura che porti alla fine della violenza e alla stabilizzazione della regione.
L’ostilità contro Israele unisce i gruppi connessi all’Iran – gli Houthi, gli Hezbollah e le varie milizie minori in Iraq, Siria, Afghanistan, Pakistan. Formano, come già detto, l’Asse della Resistenza e supportano Hamas e i gruppi palestinesi. In loro, più della pratica religiosa prevale l’ideologia antisionista, antiamericana e antioccidentale e il pragmatismo in questo caso. permettono alla Repubblica islamica sciita di essere attiva sulla scena di guerra, ma garantiscono la cosiddetta “plausible deniability”, ossia danno a Teheran la possibilità di agire da dietro le quinte sganciandosi da responsabilità formali.
Da un punto di vista ideologico, l’Iran sostiene da lungo tempo la causa palestinese e si considera un difensore dei diritti del popolo palestinese contro l’occupazione israeliana. Questo sostegno deriva principalmente dall’ideologia islamica del regime iraniano e dal desiderio di mantenere la propria influenza nella regione, sfruttando il conflitto israelo-palestinese per affermare la propria leadership nel mondo musulmano. Inoltre, l’Iran vede Israele come una minaccia diretta alla propria sicurezza e alla propria egemonia regionale. Il regime iraniano considera Israele come un ostacolo alla sua espansione e al suo progetto di dominio nella regione, e quindi cerca di indebolire Israele sostenendo gruppi armati come Hamas e Hezbollah, che combattono contro Israele. Hamas, l’attore principale dell’attuale conflitto, ha come obiettivo dichiarato la distruzione di Israele e la creazione di uno stato palestinese con Gerusalemme come capitale. Utilizza il terrorismo come mezzo per raggiungere i propri obiettivi politici.
Complessivamente, gli altri attori della regione hanno giocato un ruolo complesso e spesso contraddittorio nel conflitto israelo-palestinese, con alcuni paesi che sostengono attivamente la violenza e altri che cercano di promuovere una soluzione pacifica attraverso il dialogo e la diplomazia.
Paesi come l’Egitto, la Giordania, l’Arabia Saudita e la Turchia svolgono un ruolo importante nel conflitto, agendo da mediatori, sostenitori o critici delle diverse parti coinvolte. Questi attori hanno interessi strategici nella regione e cercano di influenzare il processo di pace per proteggere i propri interessi. L’Egitto ha giocato un ruolo fondamentale nel conflitto israelo-palestinese, cercando di mediare tra le due parti e promuovere una soluzione pacifica al conflitto. Tuttavia, ha anche avuto una storia complicata con Israele a causa dei conflitti passati, inclusa la guerra del 1948 e la guerra del 1967.
L’influenza dell’Arabia Saudita nella politica, nell’economia e nella cultura del Medio Oriente è di fondamentale importanza e ha un impatto significativo a livello internazionale. Da un punto di vista politico, il paese rappresenta un attore rilevante nella regione, soprattutto in relazione ai conflitti in corso come la guerra nello Yemen e il conflitto in Siria. Inoltre, l’Arabia Saudita è un alleato chiave degli Stati Uniti nella lotta al terrorismo internazionale e nel mantenimento della stabilità regionale. Dal punto di vista economico, il paese è uno dei principali produttori mondiali di petrolio e ha un’enorme influenza sui mercati energetici globali. Dal punto di vista culturale, l’Arabia Saudita è la patria dell’Islam e della città santa della Mecca, rendendola un punto di riferimento per i musulmani di tutto il mondo. Le politiche sociali e religiose del paese influenzano anche la cultura e la società della regione in generale.
In generale, l’Arabia Saudita svolge un ruolo chiave nel Medio Oriente e oltre, e le sue azioni e decisioni hanno un impatto profondo sulla politica, sull’economia e sulla cultura in tutto il mondo.
L’Arabia Saudita ha svolto un ruolo significativo nel conflitto israelo-palestinese, sostenendo tradizionalmente la causa palestinese e cercando di promuovere la pace e la soluzione dei due Stati. Tuttavia, negli ultimi anni, le relazioni tra l’Arabia Saudita e Israele sono migliorate, con entrambi i paesi che condividono preoccupazioni comuni riguardo all’Iran e al radicalismo islamico. Ci sono stati anche incontri e negoziati segreti tra i due paesi per cercare di stabilire una maggiore cooperazione in vari settori. Nonostante ciò, l’Arabia Saudita continua ad appoggiare la causa palestinese e a chiedere la creazione di uno Stato palestinese indipendente con Gerusalemme Est come sua capitale.
La Turchia ha tradizionalmente sostenuto la causa palestinese e criticato le azioni di Israele nel conflitto israelo-palestinese. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha espresso molte volte il suo sostegno al popolo palestinese e ha condannato le azioni di Israele nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania.
La Turchia ha anche intrapreso azioni concrete per sostenere i palestinesi, come inviare aiuti umanitari e finanziari, sostenere progetti di sviluppo e costruire infrastrutture nelle aree palestinesi. Tuttavia, la Turchia ha anche criticato le divisioni politiche interne tra i palestinesi e ha cercato di mediarle per favorire l’unità e la solidarietà tra loro.
Inoltre, la Turchia ha mantenuto relazioni tese con Israele a causa delle politiche del governo israeliano e delle controversie territoriali, come la questione di Gerusalemme. Le relazioni tra i due paesi si sono deteriorate negli ultimi anni, ma la Turchia ha mantenuto i suoi legami con i palestinesi e ha continuato a sostenere la loro lotta per l’indipendenza e i diritti umani.
- Il ruolo della religione e la dimensione internazionale
Il conflitto israelo-palestinese è complesso e coinvolge diverse dimensioni, tra cui quella religiosa e la dimensione internazionale.
Il conflitto israelo-palestinese ha una forte dimensione religiosa, poiché coinvolge territori sacri per le tre principali religioni monoteiste: l’Islam, il Cristianesimo e l’Ebraismo.
La disputa per la terra di Israele ha radici profonde nella storia biblica e nel contesto religioso delle comunità coinvolte. In particolare, Gerusalemme è al centro del conflitto, poiché è una città santa per tutte e tre le religioni ebraica, cristiana e musulmana.
Le questioni legate al controllo dei luoghi santi, come il Monte del Tempio per gli ebrei, la Basilica del Santo Sepolcro per i cristiani e il Monte del Tempio per i musulmani, sono state fonte di tensioni e scontri tra le comunità religiose. Inoltre, entrambe le parti coinvolte nel conflitto rivendicano un legame storico e religioso con la terra di Israele, alimentando le dispute territoriali e creando ostilità e divisioni profonde tra i due popoli.
La dimensione religiosa del conflitto ha reso difficile trovare una soluzione politica e pacifica al problema israelo-palestinese, poiché le questioni di fede e identità giocano un ruolo importante nella percezione e nelle azioni delle due parti. Tuttavia, molte organizzazioni religiose e leader spirituali stanno lavorando per promuovere il dialogo interreligioso e la pace tra israeliani e palestinesi, cercando di superare le divisioni religiose e costruire la fiducia e la comprensione reciproca.
Nonostante ciò, è importante capire che questa non è una guerra di religione ma uno scontro tra due popoli per il possesso della stessa terra. L’appartenenza a due fedi diverse, ebraica e islamica, inasprisce il confronto ma non ne è la causa principale.
Rispetto alla dimensione internazionale, il conflitto non si combatte solo in Israele e nei Territori palestinesi ma anche nelle principali capitali del mondo perché per entrambe le parti in lotta, guadagnare sostegno internazionale è una necessità imprescindibile.
Appare evidente come numerose potenze internazionali sono state coinvolte. Gli Stati Uniti, in particolare, hanno sostenuto Israele, mentre altri paesi, organizzazioni e istituzioni internazionali, comprese le Nazioni Unite, hanno spesso cercato di mediare e sostenere i diritti dei palestinesi. La comunità internazionale ha proposto diverse soluzioni al conflitto, inclusa la creazione di uno Stato palestinese indipendente fiancheggiato da uno Stato di sicurezza israeliano. Tuttavia, le divergenze tra le potenze internazionali e le difficoltà sul terreno hanno ostacolato l’attuazione di tali soluzioni.
Organizzazioni come l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) e la Lega Araba hanno avuto un ruolo importante nel dibattito internazionale e nella promozione di iniziative per risolvere il conflitto. Risoluzioni delle Nazioni Unite hanno cercato di stabilire parametri per una soluzione negoziata e giusta.
Inoltre, il conflitto israelo-palestinese ha ripercussioni globali anche in termini di sicurezza, instabilità politica e tensioni religiose. La crescita del terrorismo internazionale e l’estremismo islamico hanno alimentato le tensioni tra Israele e i paesi confinanti, creando un quadro geopolitico complesso.
La comunità internazionale continua ad essere coinvolta nel tentare di risolvere il conflitto attraverso colloqui diplomatici, negoziati di pace e missioni di monitoraggio. Tuttavia, le speranze di una soluzione definitiva appaiono ancora lontane, a causa delle profonde divergenze ideologiche, religiose e politiche che caratterizzano il conflitto.
- Conclusione
Paradossale che le tre grandi religioni monoteiste – Cristianesimo, Ebraismo e Islam – sono strettamente legate ad una terra, la Terra Santa, che è stata teatro di conquiste per millenni e ha visto versare probabilmente più sangue di qualsiasi altro territorio in rapporto alla sua estensione. Ancora oggi, la “Terra Santa” paga il prezzo dell’eredità pesante del passato, impregnata di miti e fatti storici talvolta difficili anche da comprendere.
Nel corso del ‘900, con l’aggravarsi dell’antisemitismo, acquisì un nuovo e potente significato per il movimento sionista, venendo considerata non solo come la “Terra Promessa” dei Padri ma anche come un rifugio dalle persecuzioni, dove una massa critica di ebrei avrebbe potuto evitare l’assimilazione e garantire la propria difesa, specialmente dopo l’orrore dell’Olocausto. Ma anche per i palestinesi, questo piccolo lembo di terra, era considerato “Terra di Rifugio”, “Patria” per cui vale la pena sacrificarsi e anche morire.
La radice del conflitto, infatti, risiede nella competizione per questa terra tra gli ebrei, che rivendicano la Terra Promessa come territorio storico e religioso, e i palestinesi, che rivendicano il diritto alla terra che considerano la loro patria ancestrale. Il conflitto si è intensificato nel corso degli anni a causa delle diverse visioni sulla sovranità territoriale, i confini, i diritti umani e la sicurezza. Gli sforzi per trovare una soluzione pacifica sono stati molteplici ma finora non hanno portato a risultati significativi. La comunità internazionale continua a essere coinvolta nel tentativo di risolvere la questione, ma le divergenze tra le due parti rimangono profonde e ostacolano qualsiasi tentativo di pace duratura.
La pace, nella storia, è arrivata sempre o per accettazione dalle parti in causa o per la sconfitta di una delle due, con tutto ciò che la seconda opzione comporta in termini di morte e sofferenza.
Se si cerca una soluzione pacifica, questa non arriverà attraverso posizionamenti sbilanciati da una parte o dall’altra. È per questo che bisogna condannare fortemente l’attacco terroristico di Hamas, conoscerne la sua origine e la sua storia, le violenze efferate e le uccisioni di civili israeliani innocenti ma tenendo conto anche della storia, delle sofferenze, del dolore, della violenza, della morte del popolo palestinese che, come quello israeliano, è vittima di chi gestisce il potere in un teatro di crisi molto complesso, diviso dall’odio, dalle rivendicazioni, dalla religione e dalla stessa “Terra Santa”.
[1] Sulla vita di Chaim Weizmann si vedano le sue memorie: C. WEIZMANN, La mia vita per Israele, Milano, Garzanti, 1950.
[2] War Cabinet 261, October 31, 1917, in CABINET OFFICE PAPERS, Public Record Office (CAB), 21/58; Appendix II: Draft Declarations, FO 371/3395, fols. 289-291.
[3] Il testo completo del White Paper di Winston Churchill del 1922 è consultabile sul sito: http://avalon.law.yale.edu/20th_century/brwh1922.asp, 8 gennaio 2018. Le pagine 17-21 includono il testo relativo alla British Policy in Palestine
[4] Jews and Arabs in Syria: The Emir Feisul Look to a Bright Future, in «The Times», December 12, 1918, p. 7.
[5] C. WEIZMANN, The Letters and Papers of Chaim Weizmann, Serie A, Letters, IX, Jerusalem, Israel Universities Press, 1983, pp. 86-87. Sulla posizione araba e turca verso la dichiarazione Balfour si veda anche: E. KARSH, Arabs and Turks Welcomed the Balfour Declaration, in «Mideast Security and Policy Studies», 140, November 2017, pp. 5-21.
[6] United Nations Special Committee on Palestine, Comitato speciale delle nazioni Unite sulla palestina
[7] B. Kimmerling, J. S. Migdal, Palestinians: The Making of a People (trad. it. M. Baccianini), Firenze, La Nuova Italia, 1994, p. 134
[8] Il termine fidiyyūn, il cui significato deriva dalla radice ى د ف che esprime l’azione del sacrificio per salvare o riscattare qualcuno o qualcosa (cfr. R.Traini, Vocabolario arabo-italiano, Roma, IPO, 1966, p. 1068), nel 20° sec. è stato adoperato, nel mondo arabo e in Iran, per indicare i membri di movimenti politici, rivoluzionari o guerriglieri. In particolare, a partire dagli anni 1950, sono stati così denominati i combattenti della Resistenza palestinese.
[9] L’Unità 101 è stata una unità delle forze speciali di difesa israeliane (IDF). È stata fondata e comandata da Ariel Sharon per ordine del primo ministro David Ben-Gurion a partire dal mese di agosto 1953.
[10] Fath al-Intifada (arabe فتح الانتفاضة). Fatḥ al-Intifāḍa, ou «Victoire de l’Intifada») «est une faction militante de guérilla palestinienne. Fondé par Abu Musa. Le groupe est souvent appelé la Faction Abu Musa. Officiellement, il s’appelle le Mouvement de libération nationale palestinienne ». Israele, la Palestine et nous, Le Un Hebdo, n. 467
[11] Accordi firmati dal presidente egiziano Anwar al-Sadat e dal Primo Ministro israeliano Menachem Begin il 17 settembre 1978, dopo dodici giorni di negoziati segreti a Camp David. The Camp David Accords, di Mohamed Ibrahim Kamel, 4 gennaio 1986 pag 187.
[12] X. Baron, op. cit., p 487
[13] Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, organizzazione politica e militare palestinese fondata da George Habash.
[14]http://www.difesa.it/Pubblicistica/infodifesa/Infodifesa140/Documents/Il_contenuto_degli_accordi_t_996Palestinese.pdf
[15] Mark Levine, La pace impossibile: Israele/Palestina dal 1989, EDT, Torino, 2009, p.37
[16] Basta col sangue e con le lacrime, La Repubblica, Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma, 14 settembre 1993
[17] L’accordo, detto “Wye I”, memorandum di Wye River, è stato un accordo negoziato tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) per l’attuazione del precedente accordo ad interim del 28 settembre 1995. L’accordo è stato firmato da Benjamin Netanyahu e dal presidente dell’OLP Yasser Arafat alla Casa Bianca, con il presidente Clinton che svolse un ruolo fondamentale come testimone. Prevedeva la smobilitazione dell’esercito israeliano e la liberazione dei prigionieri politici. Arafat si impegnava ad una politica di “tolleranza zero” verso il terrorismo. Un ennesimo accordo fu firmato a Sharm el-Sheikh nel settembre del 1999, detto “Wye II” in quanto era quasi una copia del precedente accordo. Con lo scoppio della Seconda Intifada nel settembre 2000 ed i conseguenti contro-attacchi da parte delle forze di difesa israeliane (IDF), le intese di Wye River e i loro obbiettivi rimasero in sospeso.
[18] Hamas ha negli anni provveduto ad assistere la popolazione con aiuti concreti diretti alle famiglie, facendo aumentare le simpatie dei Palestinesi verso questo partito.