scarica il file in pdf – fenomeno migratorio verso Italia dai boat people ad oggi – agosto 2019 – sanfelice
DAL SOCCORSO AI BOAT PEOPLE FINO AI GIORNI NOSTRI: L’ITALIA E IL FENOMENO MIGRATORIO
Amm. Sq. Ferdinando SANFELICE di MONTEFORTE
La prima esperienza: i “Boat People”
Quarant’anni fa, nelle acque del Golfo di Tailandia, la Marina Militare Italiana svolse la sua prima missione di soccorso del dopoguerra, a favore dei cosiddetti “Boat People”: la gente che fuggiva dal Vietnam[1] del Sud, dopo l’occupazione da parte delle truppe del Nord (1975), la riunificazione forzata del Paese (1976), e la conseguente costituzione della Repubblica socialista del Vietnam.
Gli incrociatori Vittorio Veneto e Andrea Doria, insieme con la nave rifornimento Stromboli, affrontarono questa missione con un brevissimo preavviso. Fatte rientrare nelle loro basi, Taranto e La Spezia, interrompendo bruscamente la campagna estiva, appena iniziata, le tre navi furono sottoposte a lavori di adattamento, per alloggiare un numero consistente di profughi, e imbarcarono i viveri, i medicinali e i capi di vestiario necessari per l’assistenza.
In soli quattro giorni le unità furono messe in grado di affrontare quella missione che, in quei tempi di Guerra Fredda, era a dir poco anomala, e l’equipaggio fu integrato anche da due staff medici della Marina Militare, oltre che da interpreti e alcuni sacerdoti, inviati dalla Santa Sede e dalla Caritas. Gli equipaggi delle tre navi erano stati informati che si trattava di una missione “armata”, vista la possibilità che il Vietnam vi si opponesse.
La partenza avvenne il 4 luglio (dalla Spezia) e il 5 (da Taranto), e il Gruppo Navale, agli ordini dell’Ammiraglio di Divisione Sergio Agostinelli, si riunì al largo della Calabria, per poi proseguire sulla rotta verso il Golfo di Tailandia: canale di Suez, Mar Rosso, Stretto di Bab-el-Mandeb, Oceano Indiano e, infine, lo Stretto di Malacca e Singapore. Qui fu fatta una breve sosta, per acquistare viveri freschi e fare rifornimento di gasolio, in modo da avere la massima autonomia nella ricerca delle imbarcazioni dei profughi. Poi il Gruppo mise la prua verso il Golfo del Siam.
Sul fronte delle relazioni internazionali, l’esodo dei boat people continuava intenso quattro anni dopo la caduta di Saigon, e aveva stimolato un’intensa attività diplomatica, per i pericoli che la situazione presentava. Si erano anche registrati incidenti ed episodi di violenza da parte di motovedette vietnamite, nei confronti dei mercantili che tentavano di raccogliere i profughi.
Per questo, da una parte l’ONU aveva cercato di intervenire, convocando una conferenza internazionale che aveva avuto scarso successo, a causa dell’opposizione del governo di Hanoi; dall’altra, gli Stati Uniti avevano avviato iniziative umanitarie, proponendo agli alleati di inviare in quelle acque navi da guerra, le più idonee a compiere opera di salvataggio, essendovi la possibilità di una minaccia militare. E il nostro governo aveva aderito a queste iniziative, disponendo appunto l’invio delle nostre tre unità nel Golfo di Tailandia.
Nella zona di operazioni, gli equipaggi si trovarono di fronte a una situazione ancora più complessa del previsto. L’esodo dei Vietnamiti era stato oltremodo intenso in quegli anni (fu stimato in un milione e mezzo di persone), creando difficoltà ai Paesi dell’area che, dopo i primi accoglimenti, avevano cambiato atteggiamento e cercavano di scoraggiare questo flusso di disperati con azioni anche violente.
Questa situazione divenne palese il 26 luglio, qualche giorno dopo l’inizio del pattugliamento, quando le nostre navi incontrarono una prima imbarcazione con 128 profughi a bordo. Subito fu chiaro che il barcone non proveniva dal Vietnam, bensì dalla Malesia. Questa Nazione, temendo per il proprio equilibrio interetnico, aveva, infatti, deciso di impedire ai profughi di stabilirsi nel Paese e, all’arrivo di ogni barcone carico di vietnamiti, isolava i profughi nel punto di sbarco, per poi costringerli a risalire sulle vetuste imbarcazioni, subito rimorchiate in alto mare dalle motovedette.
L’esistenza di una tale politica ci fu confermata dal delegato dell’Alto Commissario ONU per i rifugiati, presente a Singapore, il quale si avvaleva di alcuni giovani malesi di origini vietnamite, assunti in loco, per sorvegliare le spiagge, localizzare i barconi in arrivo e rifornire gli occupanti di acqua e di cibo, prima che i militari malesi intervenissero.
Il giorno dopo quel primo incontro, le nostre navi salvarono i profughi di due altri barconi che provenivano direttamente dal Vietnam. Dopo aver sfidato il mare agitato dal monsone, questi disperati si erano rifugiati sotto una piattaforma petrolifera, per trovare riparo, essendo in mare da sei giorni.
Era intanto entrato in gioco, nelle trattative con i Paesi interessati, il nostro Commissario Straordinario, l’On. Giuseppe Zamberletti, inviato dal governo a Singapore, con un proprio staff diplomatico e militare, per coordinare e sostenere politicamente le azioni di soccorso. Fu lui che, tra l’altro, convinse il governo malese a consentire l’imbarco sulle nostre unità di un consistente numero di profughi, che erano stati rinchiusi in campi di concentramento improvvisati, in attesa di riportarli in alto mare.
La conferma diretta dell’atteggiamento del governo di Kuala Lumpur nei confronti dei profughi si ebbe il 31 luglio, quando le nostre unità, informate dallo staff del Commissario Zamberletti, intercettarono alcune motovedette malesi che stavano rimorchiando al largo quattro barconi di profughi, per abbandonarli in mare. Inutile dire che bastò una semplice richiesta da parte delle nostre unità per convincere le motovedette a lasciare libere queste imbarcazioni, in modo che le navi italiane potessero recuperare coloro che si trovavano a bordo.
La Malesia, comunque, non era l’unico Paese a respingere l’ondata di profughi: le Filippine, la Tailandia, Hong Kong e l’Indonesia avevano adottato analoghe misure, negando ai mercantili che avevano salvato questi profughi la possibilità di sbarcarli o respingendo i barconi in mare.
Il Vietnam, con il quale la nostra diplomazia aveva già avviato contatti, si limitò saggiamente a manifestare la propria presenza nell’area, solo inviando aerei da caccia per sorvegliare i movimenti delle nostre navi, con l’ordine però di mantenersi a rispettosa distanza.
I nostri equipaggi, impegnati nel “pattugliamento”, dovettero anche fronteggiare un’altra situazione imprevista, e precisamente l’attività di pirateria che si svolgeva a spese dei boat people. I pirati abbordavano i barconi dei profughi e rapinavano quei poveracci di ogni bene. Si trattava non solo di pirati di professione, ma anche, e soprattutto, come si seppe poi, di pescatori che, attratti dalla prospettiva di facili guadagni, avevano riposto le reti da pesca e si erano dedicati alla rapina. Si trattava di un cambio temporaneo di attività piuttosto facile: infatti, da quelle parti, i pescatori navigano spesso armati, per difendere la propria zona di pesca dall’invasione di concorrenti e dagli attacchi di pirati di professione.
Di fronte alle nostre navi, che non potevano certo contrastare, pirati improvvisati e pirati professionisti sospesero l’attività predatoria, in attesa di tempi più favorevoli.
In totale, le nostre unità raccolsero circa 940 vietnamiti, che furono portati in Italia, e sbarcarono a Venezia il 21 agosto. Gli equipaggi, una volta effettuato l’ormeggio alle boe del Canal Grande, furono piacevolmente sorpresi dalla gran folla in attesa, sulla Riva degli Schiavoni: segno evidente che la missione di soccorso aveva incontrato il pieno appoggio della nostra opinione pubblica.
Come ricorda l’Ammiraglio Marcello De Donno, che, all’epoca, era comandante in seconda dell’incrociatore Vittorio Veneto, per la Marina Militare e i suoi equipaggi quella fu anche “una grande esperienza gestionale, di organizzazione di persone, di processi, di emergenze e di equilibri delicati da mantenere”[2]. Soprattutto, oltre a mettere in risalto le nostre indubbie doti organizzative, quella missione fu anche la prima dimostrazione della nostra capacità diplomatico-militare di gestire situazioni internazionali complesse, favorendo la stabilità in zone di tensione e di conflitto.
Avendo partecipato alla missione, quale Primo Direttore del Tiro e Capo Servizio Assistenza Profughi sull’Incrociatore Andrea Doria, non posso che concordare, aggiungendo un paio di aneddoti, frutto della mia esperienza personale:
- i profughi vietnamiti presentavano tutti segni evidenti, chi più, chi meno, di maltrattamenti subiti quando erano a terra: particolarmente dolorosa fu la morte, un giorno dopo la nascita, di un bambino, subito battezzato, per volere dei genitori, Andrea, in onore della nostra unità. La madre era stata picchiata poco prima del reimbarco, e il nascituro ne aveva risentito;
- il governo italiano non abbandonò i profughi a loro stessi, ma si adoprò con il governo di Hanoi per favorire il ricongiungimento familiare, ottenendo che tutti i profughi che avevano lasciato indietro alcuni congiunti li potessero riabbracciare.
Mentre il primo, doloroso episodio, raffrontato con ciò che accade ai nostri giorni appare una triste costante, che dimostra quanto ci si accanisca, oggi come allora, contro le persone deboli e bisognose, il secondo aneddoto torna a onore della nostra Diplomazia, che non perse di vista la necessità di assistere in modo efficace chi ha bisogno di aiuto.
Vale la pena di ricordare, a tal proposito, che i profughi vietnamiti che scelsero allora di restare nel nostro Paese si sono perfettamente integrati, confermando nello studio e in tanti settori di attività la loro fama di gente seria, positiva e operosa.
Le crisi successive
Il ricordo di quell’esodo storico, che tanto aveva impressionato l’opinione pubblica, italiana e mondiale, è uno sfondo ideale agli eventi migratori che si sono susseguiti a ritmo incalzante, per mare e per terra, negli anni successivi, anche perché le lezioni apprese durante quella prima operazione sono valide, almeno in parte, ancor oggi.
Nel 1991, in conseguenza di quel vero e proprio terremoto geopolitico che fu il crollo del Patto di Varsavia e dell’URSS, un flusso di disperati abbandonò le proprie case, e si riversò nell’Europa Occidentale, disposti a svolgere un lavoro qualsiasi pur di sopravvivere. L’accoglienza fu amichevole, malgrado vi fossero tra questi immigrati, insieme a tanti cittadini onesti e capaci, anche molti delinquenti, spesso già organizzati in bande.
Verso l’Italia si diressero anche molti Albanesi. Pochi ricordavano all’epoca, però, che questo flusso aveva avuto un importante precedente storico: già cinquecento anni prima, infatti, un simile esodo verso l’Italia si era attivato in seguito all’invasione dell’Albania da parte degli eserciti ottomani.
Si pensò, infatti, a torto, che questi disperati avrebbero trovato facile asilo presso le comunità albanesi preesistenti, ma quando i nostri governanti proposero a queste comunità albanesi, installate da secoli nel Meridione, di accogliere questi nuovi gruppi di disperati, ricevettero una risposta seccamente negativa.
I nostri concittadini di lingua albanese erano, infatti, ben consapevoli che questi profughi erano i discendenti di coloro che li avevano cacciati dal suolo natio nel lontano passato; quindi il nostro governo, di fronte alla constatazione che l’odio collettivo per i soprusi subiti non si attenua, nemmeno a secoli di distanza, dovette cercare altri luoghi dove ricollocarli.
In quel periodo, tra l’altro, vi fu un episodio a dir poco particolare: il 9 agosto 1991, si presentò davanti al porto di Bari un mercantile, il Vlora, carico di profughi fino all’inverosimile: si stimò vi fossero a bordo circa 20.000 albanesi. La nave, salpata da Durazzo, era stata controllata dalle navi della nostra Marina Militare che, consapevoli della sua precaria stabilità, dato l’enorme numero di persone a bordo (alcuni si erano persino arrampicati sugli alberi), non tentarono alcuna manovra per bloccarla. I profughi furono all’inizio concentrati nello stadio di Bari, e poi distribuiti in tutta Italia, man mano che si rendevano disponibili le infrastrutture per accoglierli.
Solo molti anni dopo, nel 1997, si venne a sapere che alcuni imprenditori italiani avevano creato in Albania delle società finanziarie, che “dragavano” letteralmente il poco risparmio dei cittadini locali, per poi dichiarare fallimento e scomparire. E ci fu quindi chi vide, nel massiccio esodo dei disperati del Vlora, un segnale – se non una ritorsione – da parte del governo albanese, che non si era opposto a questo esodo massiccio, per costringere il nostro governo a intervenire contro queste iniziative predatorie che impoverivano il Paese delle Aquile.
L’esodo dall’Albania durò fino a tutti gli anni Novanta, mediante piccole imbarcazioni, prima vecchie vedette e poi gommoni; vi furono episodi dolorosi, quando le forze italiane cercarono di respingere queste imbarcazioni e farle tornare indietro, e si vide che ogni contrasto diretto a questi mezzi, in condizioni precarie, instabili e sovraffollati, era inutile e pericoloso.
Fu quindi giustamente deciso di agire alla fonte, in Albania, e ci volle quindi tutta la pazienza italiana, con due missioni di stabilizzazione nel Paese e un’abbondante serie di finanziamenti allo sviluppo, per far cessare tale flusso. Durante quel periodo, tra l’altro, il nostro governo convinse i leader politici di Tirana a contrastare con energia questo traffico di disperati. Quando però il Governatore di Valona sequestrò i gommoni presenti in porto, i trafficanti lo presero in ostaggio, costringendolo a restituire i mezzi sequestrati. Questo fu il primo caso in cui si ebbe la certezza che i trafficanti, grazie ai loro enormi profitti, avevano acquisito potere e mezzi per imporre la propria volontà al governo locale, anche con la forza.
Dopo il 1999, poi, cominciò un altro flusso, all’inizio limitato e saltuario, di migranti sub-sahariani diretti in Italia soprattutto attraverso la Libia. Si disse che questo flusso fosse favorito dal governo di Gheddafi, oberato dal numero eccessivo di migranti provenienti dall’Africa sub-sahariana, che usava questi profughi come mezzo di pressione nei nostri confronti, per ottenere dall’Italia le richieste “riparazioni” per la nostra occupazione del Paese, dal 1911 al 1943. Quando, infatti, le trattative sulla questione si interrompevano, il flusso aumentava, per poi diminuire quando queste trattative riprendevano.
Il sistema non era nuovo: vi erano stati analoghi sospetti, negli anni precedenti, che il governo tunisino utilizzasse lo stesso metodo, sia pure su scala ridotta, per sbloccare le trattative commerciali con l’Italia e con l’Unione Europea, per la vendita d’olio tunisino in Europa. In effetti, una volta firmati gli accordi commerciali, questi flussi s’interruppero.
Nel 2000, infine, vi fu una serie di sbarchi di rifugiati curdi in Calabria: questi disperati erano trasportati da mercantili obsoleti, vere carrette del mare, che si arenavano sulle spiagge ioniche di quella regione, in località ben scelte, tanto da garantire che l’incaglio avvenisse senza rischiare il capovolgimento dei natanti.
Le aree scelte per l’incaglio, infatti, erano quelle individuate a suo tempo dalla Regia Marina, durante la Seconda Guerra Mondiale, per consentire alle nostre navi danneggiate da siluri di evitare l’affondamento, incagliandosi laddove il litorale lo consentiva. Qualcuno, quindi, si pose la domanda su chi avesse potuto fornire ai trafficanti tali informazioni, indubbiamente riservate.
Questi migranti, accolti, curati e rifocillati dal governo italiano, ottennero, in breve tempo, asilo politico in Paesi dell’Europa del Nord. Si calcola che il loro numero sia stato superiore alle 2.000 persone, tra uomini, donne e bambini.
La guerra civile in Libia, infine, ha causato quella massiccia ripresa dei flussi di esuli sub-sahariani verso l’Italia, che dura ancor oggi; un movimento apparentemente disordinato che coinvolge svariate centinaia di migliaia di persone.
Che si tratti di un fenomeno spontaneo, favorito o meno dalle autorità locali, è ancora da dimostrare, ma sicuramente i trafficanti di esseri umani non agiscono all’insaputa di chi detiene il potere in Libia, sia pure su base locale. Anche se il numero si sta riducendo con il crescere del controllo, da parte libica, su tale flusso, rimane il timore che i trafficanti possano imporre la propria volontà ai deboli governi locali del litorale tripolitano, o – peggio – possano agire quale strumento delle fazioni in lotta per il potere.
In ogni caso, la Libia è solo territorio di transito per le genti sub-sahariane che vogliono – o sono costrette – a raggiungere l’Europa e il business criminale, cresciuto intorno al fenomeno, ha radici lontane e ramificazioni complesse. Il primo aspetto è che l’intervento dei trafficanti di esseri umani inizi nei Paesi in cui si origina il fenomeno migratorio, stimolando questa scelta e offrendo il “servizio”, che costa (come riportato dalle cronache) tra i 2 e i 3 mila dollari. Questi gruppi di trafficanti organizzano quindi le lunghe traversate via terra, con l’ausilio delle tribù locali, fino alle coste libiche.
Il secondo aspetto è che, come accertato già nel recente passato dalla magistratura italiana, i proventi di questo traffico non arricchiscono solo i privati che lo organizzano e le tribù che ne agevolano il transito. Furono, infatti, raccolti indizi che portavano a inserire tra i beneficiari anche gruppi terroristici basati nel Nord-Africa.
In Libia, i migranti incontrano gli scafisti, che li stipano all’inverosimile su vecchi o insicuri natanti e li costringono ad affrontare il mare contando anche sul soccorso che può arrivare da unità navali militari o mercantili, incluse le navi delle ONG. Spesso, però, come testimoniano le cronache, la traversata finisce in tragedia: affrontare il mare non è mai semplice, e troppo spesso si sottovalutano i rischi di una tale traversata senza mezzi adeguati.
Quando poi i partenti sono intercettati dalle motovedette libiche, essi sono riportati a terra e si trovano a dover subire di nuovo il calvario di una “ospitalità” in un Paese sconvolto dalla guerra civile.
Considerazioni
Da questa lunga ricapitolazione delle diverse forme assunte, nel tempo, dai fenomeni migratori verso l’Italia appaiono chiare alcune situazioni ripetitive e alcuni fattori costanti nel tempo.
Anzitutto, bisogna considerare i due fattori-chiave all’origine del fenomeno migratorio che, in forme e con intensità diverse, interessa buona parte del Globo:
- le conflittualità, sia sotto forma di lotte armate (guerre, rivoluzioni) sia sotto forma di persecuzioni e discriminazioni non sempre sanguinose (conflitti interetnici);
– le difficoltà di sopravvivenza nei territori di origine.
In particolare, nel continente africano, dove ha origine il flusso migratorio che più interessa l’Italia, sono attivi ambedue questi fattori, che si combinano anche con un fortissimo incremento demografico.
Parlando anzitutto della conflittualità, i dati diffusi dall’Alto Commissariato ONU per i Rifugiati (UNHCR) danno una dimensione impressionante ai movimenti migratori di questi ultimi anni. Nel 2018, il fenomeno ha interessato circa settanta milioni di persone. Di questi, stando all’ultimo rapporto, ventisei milioni sono i rifugiati, quarantuno i cosiddetti “migranti interni”, che rimangono nel Paese d’origine, e tre milioni e mezzi sono i cosiddetti “richiedenti asilo.”[3]
Si tratta di un fenomeno planetario, che mette lo stesso UNHCR in difficoltà: le risorse finanziarie di cui dispone l’Alto Commissariato, infatti, non sono sufficienti per assistere questa enorme massa di disperati.
Da questi dati emerge chiaramente come il fenomeno migratorio sia una conseguenza della crescente violenza che agita il mondo, non un fenomeno a sé stante. Per quanto riguarda l’Occidente, quindi, la questione migratoria va vista, sul piano strategico, come un’attività di “Consequence Management” (Gestione delle Conseguenze).
Questa attività non è particolarmente facile, dati i numeri in gioco, anche perché ogni flusso massiccio di disperati crea forti difficoltà nei Paesi di arrivo, che cercano di contenere il fenomeno con tutti i mezzi, talvolta anche con quelli definiti “inumani”, quando vi sia il rischio concreto di un’alterazione dell’ordine interno. Pesano, in particolare, in queste situazioni, le difficoltà di trovare un’adeguata possibilità d’inserimento a persone talvolta prive di qualunque qualificazione lavorativa che sono, perciò, facili prede di sfruttatori e malviventi: bastino per tutti gli esempi del caporalato, che arruola i migranti in attività agricole e li retribuisce con compensi da fame, e di coloro che lucrano direttamente sui contributi elargiti dallo Stato per l’accoglienza.
Per converso, le persone qualificate sono raramente messe subito in condizioni di inserirsi nelle attività lavorative cui esse sono preparate, anche se non sempre a livello totalmente adeguato. Ai migranti servono tanta fatica e costanza per superare le notevoli difficoltà che si incontrano, e trovare quindi pieno inserimento nelle nostre società. L’esempio dei Vietnamiti è indicativo: anche loro hanno compiuto sforzi notevoli per raggiungere una posizione sociale dignitosa e conseguire risultati economici peraltro di tutto rilievo.
L’opinione pubblica dell’Occidente, di fronte a queste migrazioni, si mostra all’inizio favorevole a ogni azione umanitaria ma, quando il numero delle persone accolte e da accogliere supera una determinata soglia, cambia spesso parere e perde il proprio slancio di accoglienza, opponendo resistenza a questo genere di azioni umanitarie. Fortunatamente, nella tragedia mediterranea di cui noi oggi siamo testimoni, non si registrano gli eccessi di crudeltà di cui i nostri equipaggi ebbero testimonianze nel 1979 durante le operazioni di soccorso nel Golfo del Siam, anche se persino da noi l’opinione pubblica sta reagendo negativamente alla continuazione del flusso di migranti verso le nostre coste.
La gestione dei flussi migratori, purtroppo, è anche diventata uno strumento di “Guerra Ibrida”: Stati e gruppi d’interesse affrontano, infatti, il fenomeno con metodi e per fini non sempre e non solo benevoli. Accanto a chi, semplicemente, vuole evitare di essere meta di questi flussi, infatti, c’è chi ha bisogno di manodopera e attua una politica di accoglienza selettiva, ma c’è anche chi lo utilizza per esercitare pressioni su Stati terzi, governando i flussi migratori in determinate direzioni. Diciamolo subito: è crudele giocare sulla pelle dei disperati per conseguire obiettivi strategici, e gli Stati che perseguono questa linea d’azione meritano la riprovazione più netta.
In questo caso, gli strumenti impiegati sono i più vari, e dubbi sono sorti persino sulle attività delle ONG (Organizzazioni non Governative), il cui numero è aumentato esponenzialmente, le cui navi operano talvolta con modalità che lasciano perplessi e, soprattutto, che mostrano una disponibilità di fondi e quindi di mezzi talmente abbondanti da non poter provenire solo da donazioni di privati cittadini!
In questa situazione, l’esperienza insegna che si dovrebbe agire alla radice del problema, riducendo i conflitti e fornendo reali occasioni di sviluppo ai Paesi di origine dei flussi migratori. Finora, purtroppo, i Paesi UE non sono riusciti né ad aggredire con efficacia la causa del fenomeno – la conflittualità – né tantomeno a concordare una politica comune nei confronti del fenomeno migratorio.
In effetti, aggredire le cause è possibile all’UE solo mantenendosi aderenti a quella saggia gradualità di approccio che la “Strategia di Sicurezza” del 2003 propugnava. Non potendo quindi affrontare le cause di questo fenomeno su scala globale, resta, ai singoli Stati, comunque fondamentale, nell’affrontare il fenomeno migratorio, mantenere il giusto equilibrio tra accoglienza e respingimenti: evitando di far entrare tutti, delinquenti compresi, senza alcun controllo, come avvenne negli anni Novanta del secolo scorso, ma garantendo, in ogni caso, i diritti umani fondamentali e standard di vita decenti a questa gente in fuga verso la speranza di una vita migliore.
Non è per niente facile e spesso noi sbagliamo nel classificare questi profughi, perché non abbiamo informazioni sufficientemente attendibili sulle situazioni interne dei Paesi di provenienza e tendiamo, perciò, a considerare “migranti economici” anche chi appartiene alle etnie messe al bando, discriminate anche se non direttamente minacciate da quelle altre che detengono il potere. A volte, per ignoranza, si commettono gli errori più gravi!
Questa conoscenza, che oggi pochissimi posseggono, è ancor più importante, in quanto condiziona l’efficacia di ogni intervento teso a ridurre il fenomeno migratorio agendo alla radice, nelle zone di partenza.
Non basta, infine, riversare soldi senza controllare dove vadano a finire: è necessaria una paziente opera di prevenzione, di stabilizzazione e – dove il conflitto sia troppo intenso e diffuso – di contenimento, mediante, ad esempio, la creazione di “non-conflict zones”, come fatto in alcuni casi anche dall’Italia, per esempio, alla diga di Mossul, già nota come Diga di Saddam, la più grande dell’Iraq.
Non ci si deve illudere che un tale tipo di azione possa dar luogo a risultati pratici in tempi brevi, data l’intensità e la diffusione della violenza in molte aree del mondo, ma i primi tentativi in tal senso si sono finora rivelati efficaci.
Bisogna quindi perseverare, agendo in profondità, anzitutto alla nostra periferia, sulle varie situazioni sub-regionali, con un mix di soft e di hard power, in modo da ridurre progressivamente i conflitti in corso, e soprattutto limitarne l’impatto sulle popolazioni.
Anche se non piace, un approccio graduale è inevitabile, per aggredire le cause del fenomeno migratorio poco per volta, anziché limitarsi a gestirne gli effetti su di noi. Fare così non è altro che perseguire una Strategia, che, nella sua essenza, è un percorso da compiere con pazienza e determinazione, fino al conseguimento del fine che i leader politici si sono prefissati.
[1]In effetti, la corretta denominazione del Paese è “VietNam” (Terra verso il Sud), ma in Occidente si usa da tempo scriverne il nome unendo le due parole, e quindi come “Vietnam”.
[2]Si veda, Intervista all’Ammiraglio De Donno, in Il Sole 24 Ore on line, 3 luglio 2019.
[3]UNHCR, Global Trends. Forced Displacement in 2018, 20 giugno 2019, pag. 1, in https://www.unhcr.org/globaltrends2018/ , per l’intero documento https://www.unhcr.org/5d08d7ee7.pdf