scarica il file in pdf – giordania – novembre 2022- Lanzara
Giordania, l’arte dell’equilibrio instabile
Gino Lanzara
La sabbia rossa della storia
La città di Petra incarna il fascino proprio della Giordania, paese geograficamente e politicamente giovane e centrale eppure ancora poco conosciuto, a tratti enigmatico. La stabilità politica giordana, comunque relativa in una regione nata per essere insonne e turbolenta, si regge sull’accordo di 60 leader tribali beduini e sulle forze armate e ha a lungo attratto l’attenzione della politica dati i numerosi elementi critici. I confini condizionano ogni aspetto della politica di Amman, gemma in un castone che vede a nord la Siria, a est l’Iraq, a sud Arabia Saudita e Mar Rosso, a ovest Israele e la West Bank palestinese.
Nonostante il suo ruolo venga sottovalutato, la famiglia reale hashemita rimane uno degli attori più importanti nello scacchiere regionale, vista la discendenza[1] dal Profeta e lo sceriffato prima dei Luoghi Santi della Mecca e Medina tra il X ed il XX secolo, e di Gerusalemme poi. Casa antagonista i Saud, regnanti d’Arabia che spingono gli Hashemiti al nord con l’appoggio delle potenze mandatarie; la Giordania, ex emirato di Transgiordania, è l’unico regno hashemita sopravvissuto ai disegni anglofrancesi con la deposizione delle corone di Siria e Iraq, tra il 1920 ed il 1958.
La contiguità con la Palestina rende Re Abdallah I l’interlocutore principale dei dirigenti ebraici fin dal 1948; un leader pragmatico, versato per il compromesso, sceso in guerra con riluttanza, ed interprete dell’assetto geopolitico che gli consente di ottenere la custodia della Spianata delle Moschee, un risultato di prestigio per gli sceriffi che avevano perduto La Mecca e Medina. Gli eventi intercorsi tra il 1967 ed il 1970, con la Guerra dei Sei Giorni, ponendo fine al controllo su Gerusalemme e Cisgiordania, portano ad una instabilità politica che conduce la Giordania al Settembre Nero ed alle sue migliaia di morti, in reazione al temuto colpo di stato da parte delle frange palestinesi che, nei campi profughi, si sostituiscono all’autorità regia[2] prima di essere espulsi; eppure nel 1968 palestinesi e giordani combattono insieme a Karameh contro Israele: a seconda di chi racconta i fatti, Karameh passa dall’essere mito fondativo palestinese a motivo di ulteriori puntualizzazioni.
In un consueto e delicato gioco di equilibri, Amman accetta di fatto l’esistenza di Israele, con la linea politica che si attesta su un meditato pragmatismo. Tra la Guerra dello Yom Kippur del 1973 e la rinuncia alla Cisgiordania nel 1988, Re Hussein vuole rafforzare la sicurezza interna con la cooperazione antiterroristica in sinergia con Israele, cosa che accredita gli Hashemiti quale partner privilegiato di Washington: è questa la rendita politica più pregiata per Amman.
L’equilibrismo delle rendite di posizione
La Giordania ha dimostrato di saper navigare tra le turbolenze mediorientali, valorizzando le sue risorse strategiche in funzione delle molteplici crisi geopolitiche dell’area; rentier state non da rendita naturale ma da rendita strategica, la Giordania dovrà comunque proseguire nella costante ricalibrazione delle alleanze[3], cosa che produrrà riflessi sulle relazioni estere e sui rapporti con sauditi ed emiratini, unici artefici rilevanti delle scelte del Golfo Arabico; Amman è l’unico bastione tra il Levante devastato dalla guerra ed il Golfo.
La stabilità hashemita continua a essere la chiave di volta dell’architettura politica mediorientale. Il pragmatismo ha permesso il mantenimento del potere regio, evento raro in una regione così instabile; un equilibrio tuttavia minacciato da crisi economiche, da scosse politiche interne, dalla gestione dei rifugiati[4], dal terrorismo e dalla questione palestinese, ma che consente la presenza di basi militari americane, preziosissime nelle operazioni anti Daesh.
È l’economia, in un paese così privo di risorse e così dipendente dalle importazioni, il primo e grave punto di faglia, una frattura così critica che le pressioni esercitate potrebbero indurre una disperata Amman a cercare alleanze complesse, come quella ipotizzata con l’Iran ante collaborazione bellica pro Russia.
Non a caso l’ex primo ministro Awn Khasawneh ha a suo tempo espresso l’intendimento di revocare l’embargo verso i militanti di Hamas, espulsi nel 1999 sotto pressioni americane, assumendo una posizione che appare come il risultato del corteggiamento condotto da Iran e Qatar in cambio di vantaggi economici. Teheran, temendo la perdita dell’alleato siriano, continua a cercare di attirare Amman nella sua orbita, magari promettendo gasdotti che arrivino in Giordania attraverso Turchia o Iraq. Al momento la Giordania ha nuovamente posto l’obiettivo sulle milizie iraniane schierate lungo il confine settentrionale, paventando un ritiro russo dalla Siria che potrebbe creare problemi securitari anche grazie a droni utilizzati con l’intento di contrabbandare stupefacenti.
In sintesi, il vuoto che verrebbe a crearsi con la dipartita russa, sarebbe prontamente riempito dagli iraniani o dai loro proxy anche alla luce del fatto che, malgrado le assicurazioni moscovite circa il contenimento della presenza iraniana, la presenza di forze pro Teheran si è accresciuta.
Il prezzo della politica
La neutralità ha però un prezzo: difficile che i suoi costi possano essere sostenuti da un unico soggetto politico. La Giordania soffre di mali endemici, quali corruzione (wasta)[5] e cattiva governance, esistenti dalla sua origine, e non più gestibili per la debolezza economico-sociale associata ad una instabilità strutturale, come evidenziato dalla pandemia di Covid, malgrado i progetti volti ad ottenere fondi grazie al Rapid Financing Instrument.
Le decisioni politiche interne, come quella riguardante il congelamento degli aumenti delle retribuzioni dei dipendenti pubblici, hanno rinfocolato le proteste e consentito di riprendere i temi della lotta a corruzione e clientelarismo. Il risultato è stato quello dell’adozione governativa di un atteggiamento di chiusura contro ogni forma di dissenso con il fermo del sindacato degli insegnanti, lo scioglimento dell’associazione dei Fratelli musulmani e l’utilizzo della legge emergenziale originariamente introdotta per contrastare la pandemia.
L’elogio dell’instabilità
Paradossalmente si potrebbe dire che la Giordania, non avendo mai goduto di una completa stabilità, ha reso affidabile la sua instabilità, cosa che però non l’ha esentata dai contraccolpi delle Primavere del 2011 e dalle contestazioni successive. Le dimostrazioni provocarono le dimissioni del Governo con la promozione di emendamenti costituzionali[6], il consolidamento delle prerogative parlamentari e la maggior tutela dei diritti umani[7]. Le riforme hanno evitato che le proteste si radicalizzassero grazie anche all’evoluzione del conflitto siriano ed alla minaccia della guerra incombente ai confini.
A differenza di quanto fatto da Nasser e Sadat in Egitto, la Giordania ha tollerato fino al 2020 i Fratelli Musulmani resistendo alle richieste saudite. Il rapporto intrattenuto dalla leadership della Fratellanza con le autorità giordane ha permesso di mitigare e dirottare i toni della propaganda rivoluzionaria su forme autorizzate di opposizione[8]; questo trend ha mostrato tutta la sua importanza dopo la presa del potere da parte di Mohammed Morsi nel 2012 che avrebbe potuto provocare un pericoloso contagio, in realtà un rischio superato grazie al colpo di stato operato dal generale al-Sisi nel luglio 2013.
In questo contesto più generale non si può dimenticare la presenza di vene terroristiche, nonostante la bassa incidenza di attentati sul territorio; si tratta di un fenomeno risalente agli anni dell’occupazione sovietica dell’Afghanistan, quando gruppi di foreign fighters supportati dagli USA arrivano nel Regno per combattere contro l’Esercito russo, fino a giungere al giordano Abu Musab al-Zarqawi, uno dei più feroci qaedisti in Iraq[9].
Il potere giordano è nelle mani di un monarca che nomina il premier e controlla il parlamento; intendiamoci, monarchia costituzionale sì, ma con libertà di espressione e associazione comunque limitate, secondo i dettami di una sorta di autoritarismo illuminato se rapportato alla realtà circostante. Da ricordare che, come spesso accade nelle monarchie costituzionali arabe il Re, nonostante detenga la maggior parte dei poteri esecutivi, si fa scudo del proprio governo contro il malcontento popolare.
L’esecutivo svolge la funzione burocratica di recepire le direttive del palazzo reale ma di fatto quella del primo ministro non è una figura rilevante in Giordania; il parlamento ha la funzione di assicurare pluralismo politico, ma è quasi ininfluente. In Giordania la struttura del potere assume la forma di una matrioska che assicura ai vertici della casa reale uno stretto rapporto con i servizi di sicurezza, le agenzie di controllo e repressione, le forze armate, il sistema giudiziario. A tal proposito Abdallah ha conferito mandato ad uno specifico comitato di riformare il sistema giordano, a partire dalla legge elettorale, nel tentativo di soddisfare le richieste delle tribù beduine, componente basilare del potere interno, altrimenti tentate prima dal Principe Hassan bin Talal, fratello del Re Hussein, e oggi da Hamza bin Hussein, il maggiore dei figli maschi avuti da Re Hussein con la moglie Noor, e capaci di materializzare un vibrante punto interrogativo sul domani[10].
Le famiglie beduine temono di diventare minoranza e la loro non è una generica affezione al Principe Hamza, quanto la preoccupazione nutrita nei confronti di Abdallah II che ha sposato Rania, una palestinese di Tulkarem: il loro primogenito Hussein bin Abdallah, quando salirà al trono, sarà sì un sovrano hashemita ma soprattutto il primo sovrano giordano palestinese. È però il sistema che sostiene la monarchia hashemita che ostacola i cambiamenti. Come in Libano, dove il sistema di suddivisione interconfessionale del potere che aveva impedito una nuova guerra civile ma anche una forma di democrazia, la struttura diviene trappola; per Amman il laccio sono le tribù beduine le cui motivazioni vanno costantemente ravvivate.
Il problema ora sta nel mantenimento dell’unità della casa reale, fattore da controllare alla luce delle vicende che hanno visto protagonista il Principe Hamza, autodepostosi dal suo rango senza preventiva autorizzazione reale; Hamza rimane coinvolto nelle accuse di cospirazione contro il Re[11], a sua volta accusato di eccessiva distanza con la società, specialmente la tribale, divenuta potenziale blocco dissidente nonché possibile mina vagante per il Principe ereditario Hussein. Va rammentato che gli Hashemiti provengono dall’Hijaz, e per le tribù beduine giordane rimangono una casata imposta ed importata. Non a caso la dinastia hashemita nasce come parte di un clan appartenente ad una potente tribù saudita, i Qureish; la strategia della Corona, che necessitava di lealtà, è stata quella di cooptare nelle Forze Armate e nei potentissimi apparati di sicurezza i membri di queste tribù, affidando loro incarichi pubblici, avvalendosi tuttavia, quali guardie reali, di ascari circassi del Caucaso giunti sulle rive orientali del Giordano tra il XIX ed il XX secolo dopo le deportazioni ottomane.
Bilanciamenti politici e complotti
Di fatto non sarebbero emersi né i lineamenti di un vero colpo di Stato[12] né di un’evidente ingerenza esterna, si sarebbe trattato piuttosto di un’anticipazione di possibili trame secondo logiche deterrenti e dissuasive[13].
Volendo comparare la questione con il fantasy, il pensiero corre ad House of the Dragon, dove l’erede designata, Rhaenyra Targaryen, contende il trono al fratellastro[14], Aegon Targaryen ; in ogni caso quanto accaduto potrebbe non limitarsi ad un dissidio familiare[15]. La Giordania è una perla per quanti, in Medio Oriente, intendono aumentarne la frammentazione per inserirsi in ogni piega, come già accaduto in Libia, Iraq, Siria, Yemen, Libano; è dalle sorti di questi Paesi che Amman ha tratto la sua fortuna, lasciando che per essi gli egemoni regionali (Arabia Saudita, Egitto, Turchia, Iran) competessero tra loro, dimenticando così gli sbocchi strategici sul mar Rosso, i passaggi di gasdotti e oleodotti fra Asia e Mediterraneo, nonché la possibilità di essere offerta in sacrificio per permettere la costituzione di uno stato palestinese, o trasformarsi in provincia siriana sotto controllo saudita[16].
La politica dell’equilibrio ha riguardato anche i rapporti con la Siria, in un’alternanza di normalizzazioni e momenti critici. Giordania e Siria hanno in comune 375 km di confine, risultato dell’accordo Paulet-Newcombe[17] che, dai confini del Golan, arriva all’Iraq. L’attuale parziale distensione non deve sorprendere poiché rimane legata ai dettami del pragmatismo realista. L’opposizione giordana alla Siria è stata tiepida, tanto da non aver mai contemplato la chiusura dell’Ambasciata a Damasco ed aver agevolato il controllo dei movimenti dei ribelli moderati anti Assad. Alla stessa maniera la Siria ha usato l’accortezza di modulare la sua ostilità nei confronti di Amman[18], che fruisce così dell’accesso al Mediterraneo ed alle rotte terrestri europee grazie a Damasco che, a sua volta e grazie alla Giordania, accede al Mar Rosso ed alle rotte terrestri verso il Golfo. La realtà dei fatti ha reso evidente che la generale campagna anti Assad non ha sortito gli effetti auspicati, come è evidente che gli effetti più dirompenti dell’ondata di rifugiati siriani si sono abbattuti sulla Giordania.
La politica del parziale disimpegno di Washington ha dunque reso necessario il bisogno giordano di trovare altre sponde atte a garantire stabilità; posta dinanzi al dilemma se bere o affogare, Amman ha optato per un attento e moderato coinvolgimento politico di Assad, che vede la normalizzazione giordana quale strumento per una riammissione a pieno titolo nella Lega Araba, non priva dei fondi indispensabili per la ricostruzione[19].
È necessario quindi ampliare la prospettiva, analizzando la fase storico-politica del Regno iniziata con le Primavere Arabe che hanno posto interrogativi sia sulla sostenibilità del modello politico giordano, sia sulle modalità di rafforzamento poste in essere dai regimi più autoritari regionali che hanno determinato, specialmente da Riyadh, l’afflusso di somme destinate sia a contenere proteste troppo vicine a colpire di riflesso l’autoritarismo saudita, sia a gestire le conseguenze della crisi siriana.
La monarchia giordana dovrà poi rivedere il modello fondato sulle legittimazioni assicurate sia dalla discendenza dal Profeta, che giustifica la sua stessa esistenza, sia dal legame con la realtà tribale e territoriale che, per cooptazione, ha assicurato la dirigenza del Paese. In Giordania sono presenti da almeno 50 anni diverse forme di salafismo trasformatesi nel corso del tempo, che promuovono narrative antisciite con bilanciamenti che permettono al governo di farsi latore di un Islam inclusivo ma insidiato dall’Islam politico secondo le linee enunciate dal Re con il Messaggio di Amman del 2004 che ha coinvolto leader ed esponenti musulmani, accusatori delle interpretazioni intolleranti della religione[20].
Il salafismo è diffuso in tutta la Giordania, e coinvolge gran parte della popolazione di origine palestinese secondo modelli di diffusione che procedono anche grazie all’utilizzo di network informali; il salafismo quietista, a differenza del jihadismo e di altri movimenti come la Fratellanza Musulmana, garantisce obbedienza al governo di Amman che lo distingue dai gruppi militanti concedendo libertà di espressione. Lo sciismo che allarma il Paese è quello della politica della mezzaluna, secondo un’espressione propria del Re per individuare l’Iran e tutta l’area che si trova, anche solo potenzialmente, sotto influenza iraniana. Consentire la diffusione di narrative antisciite si rivela quale barriera per l’infiltrazione di ideologie esogene ostili.
Gli Accordi di Abramo
All’estero la Giordania si sta progressivamente marginalizzando per effetto degli Accordi di Abramo, che ne hanno ridimensionato il ruolo diffondendo un processo di avvicinamento tra arabi e israeliani poco affine alla classica posizione di moderazione mediatrice emersa fin dai negoziati segreti con Tel Aviv del 1948 fino all’Accordo di pace di Wadi Araba del 1994[21]: Amman rischia di perdere l’esclusiva dei contatti con Gerusalemme a favore delle monarchie del Golfo, fermo restando che per il Re per risolvere il conflitto israelo-palestinese l’unica soluzione percorribile rimane quella dei due stati.
Il riconoscimento da parte americana di Gerusalemme come capitale di Israele mette in discussione gli hashemiti quali custodi dei luoghi sacri[22] ai musulmani e la loro stessa legittimità di casata regnante; fisiologica e naturale l’opposizione giordana che impedisce a Riyadh, da sempre finanziatrice di Amman, di associarsi all’accordo, privando Trump del soggetto politico più ambito[23], quello saudita. Per la Giordania estendere gli Accordi di Abramo ai sauditi potrebbe causare l’indebolimento del pilastro della legittimità; altro aspetto da non sottovalutare è quello che riguarda la questione palestinese che, se accantonata, potrebbe risolversi in un avvicinamento tra palestinesi e iraniani, entrambi sempre più isolati.
Sotto quest’ottica le ricostruzioni del presunto complotto di Hamza, redatte da David Ignatius del Washington Post, rivelano la presenza di una ragnatela regionale con Amman quale hub centrale e Dubai, Riyadh, Gerusalemme, Washington come spoke.
Rimane il dubbio saudita, ovvero l’intenzione di Riyadh di giocare contro un’istituzione monarchica conservatrice ed affine assecondando il rischio di creare pericolosi boomerang. Va inoltre considerato il mancato appoggio delle Forze Armate al messaggio di Hamza, aspetto che porta sia a ritenere il messaggio stesso poco attraente per i militari, sia a considerare il Re non così isolato.
Sotto queste angolazioni, tempistiche e modalità di intervento, unitamente alla loro teatralizzazione, potrebbero essere state frutto di un’oculata scelta volta a tacitare ogni possibile dissenso. Ciò che è certo è che tutto questo ha rafforzato la centralità dell’apparato di sicurezza giordano, come evidenziato dal ruolo del generale Yousef al-Huneiti durante gli arresti.
Pressioni ed equilibri
La pressione di centinaia di migliaia di rifugiati, unita agli strascichi di una pandemia senza fine, non aiuta Amman, che vede riapparire lo spettro di un altro Settembre nero pronto a compromettere gli equilibri faticosamente raggiunti. Non a caso le ricostruzioni giornalistiche indicano il coinvolgimento di intelligence straniere, equamente distribuite tra Arabia Saudita ed EAU cui si potrebbe attribuire il desiderio di vedere sul trono un sovrano meno filo occidentale e più affine al sentire politico monarchico del Golfo.
Ma è proprio nell’equilibrio la scelta politica più avveduta, basata sulla capacità hashemita di non commettere errori nella scelta di campo: vicini ad Europa e USA, ma senza dimenticare la Lega araba; critici verso la destra israeliana ma senza dover per questo rimettere in discussione gli accordi di pace del 1994. L’appoggio anglo-americano ha consentito alla monarchia, dopo il Settembre Nero, di essere considerata quale moderato alleato anti sovietico e poi anti Islam combattente.
Una serie di riforme di stampo neo-liberale ha portato l’economia ad essere più aperta e tra i mercati di più facile accesso pur non permettendo l’integrazione sociale delle due unità costitutive giordane che hanno spartito i principali settori economici: da un lato i transgiordani, padroni del settore pubblico, dall’altro i palestinesi che controllano il settore privato, una borghesia imprenditoriale tuttavia minoritaria dato che gran parte della comunità palestinese risiede al limitare delle grandi città[24].
È una ragionata alchimia politica che porta Re Abdallah II a criticare senza riserve gli Accordi di Abramo, poiché allontanano la Giordania dalla politica che conta. Il progetto Trump-Kushner non può che risultare avverso sia alla leadership palestinese cisgiordana e gazawi sia alla monarchia hashemita; per la prima tutto si risolverebbe in una perdita di indipendente legittimità a favore dell’attore giordano. Per Amman l’unione confederativa cisgiordana creerebbe un effetto ambivalente: da un lato i due milioni circa di residenti palestinesi in Giordania ancora privi di cittadinanza dovrebbero essere naturalizzati, dall’altro, la monarchia dovrebbe accettare un’unificazione che porterebbe in dote altri sette milioni di palestinesi cisgiordani; insomma quasi 10 milioni di palestinesi in grado di riproporre con altri rapporti di forza i rischi esistenziali corsi all’epoca di Settembre Nero.
Il nuovo iter di politica estera giordana da un lato intende approfondire la postura filo-occidentale[25], dall’altro configura un trilateralismo con Egitto e Iraq secondo una nuova concezione di Mashreq[26] che eviterebbe il declassamento politico causato dallo spostamento degli equilibri mediorientali. Nell’arco della sua storia il regno hashemita ha valorizzato la sua rendita di posizione geostrategica e politica in sinergia con l’interesse delle potenze alleate per ottenere sostegno economico e militare.
Economia, energia, prestiti
La popolazione giovanile in cerca di lavoro, la congiuntura economica aggravata dall’isolamento causato dai conflitti iraqeno e siriano, fanno sì che rimangano in nuce criticità strutturali e macro-economiche causa di dubbi circa la sostenibilità del modello istituzionale ed economico: il deficit è costante e viene finanziato dai prestiti internazionali. Il fabbisogno energetico è critico, e per il 96% è soddisfatto dall’importazione; il paradosso sta nel rinvenimento di ragguardevoli riserve di petrolio di scisto[27] che, grazie alla tecnica estrattiva del fracking che richiede ingenti quantità d’acqua, potrebbe cambiare il quadro energetico di un paese tuttavia desertico ed in perenne crisi idrica. Insomma un potenziale immenso con dimensioni e impatto però non garantiti dato che la Giordania dovrà sviluppare sistemi di estrazione tecnicamente e commercialmente fattibili mantenendo un regime normativo trasparente che attiri gli investimenti esteri e fornisca benefici pubblici. L’auspicio è che il porto di Aqaba diventi un polo energetico, consentendo l’esportazione di petrolio e gas nella regione.
L’economia giordana, dovendo importare quasi tutti i beni di consumo, si caratterizza per un profondo deficit di partita corrente senza contare le spese susseguenti all’elargizione di sussidi a favore della popolazione meno abbiente e per il sostentamento dei profughi[28]; il problema del costante ri-bilanciamento economico si sostanzia tuttavia nel saldo di un prezzo politico sempre più elevato che giustifica e richiede talvolta, come nel 2020, il ricorso alle urne.
Gli aiuti finanziari ricevuti dall’estero di fatto devono permettere alla monarchia di sostenere il bilancio ed espandere la base imponibile senza aumentare le tasse, uno sforzo in linea con l’adesione giordana alle riforme strutturali raccomandate dal FMI[29] di stampo neoliberista che hanno però causato alla lunga risultati economici recessivi. Si è avuta dunque la rimozione di qualsiasi protezione sui prodotti nazionali e la fine della gestione dell’economia da parte del settore privato, con la cancellazione delle restrizioni agli investimenti esteri e la rimozione dei sussidi con la cessione delle società di proprietà pubblica.
Importante non sottovalutare selettivamente sotto la prospettiva economica alcune voci che rivestono un ruolo strategico: la pandemia non solo ha fiaccato uno dei settori economici fondamentali, quello turistico, ma ha anche intaccato le rimesse dall’estero: la loro contrazione si è ovviamente convertita nei rientri che hanno inciso con l’innalzamento del tasso di disoccupazione. Alla fine del 2021 il rapporto debito pubblico/PIL ha raggiunto circa il 109% e nel 2023 arriverà presumibilmente al 115,2%, un tasso che potrebbe impedire la percezione di ulteriori prestiti. Con l’aumento dei prezzi energetici e la sovvenzioni governative per produttori e per cittadini comuni, il debito pubblico crescerà ulteriormente. La Banca Mondiale auspica tuttavia una crescita economica reale con un tasso di crescita medio annuo del 2,3%.
Una diplomazia difficile
La Giordania è consapevole di come l’Arabia Saudita abbia ormai ridotto il suo sostegno visto anche l’andamento del mercato petrolifero, ma non per questo ha potuto esimersi dallo svolgere un ruolo nel contesto bellico yemenita, sostenendo MbS[30] in occasione del caso Kashoggi. Su un piano parallelo si pongono le relazioni con gli EAU, altro partner strategico, con cui Amman intesse complessi rapporti, come dimostrato in ambito libico; pur seguendo la linea saudita-emiratina anti Qatar, Amman non ha mai del tutto congelato le sue relazioni con Doha che ha garantito aiuti finanziari e lavoro per molti giordani.
La ricomposizione della querelle qatarino saudita, in questo senso, è una notizia positiva, in grado di permettere aperture verso la Turchia, anche alla luce dell’assist offerto dal Presidente Erdoğan in occasione della repressione del presunto tentativo di colpo di stato, una sorta di contraccambio per il sostegno ricevuto da Amman per il golpe del 2016 che tuttavia non può cambiare il sistema politico che lascia avvinta la Giordania a Riyadh unica capace, a differenza di altri, di continuare ad essere prestatore di ultima istanza e guardiana delle pericolose avance della Fratellanza Musulmana; resiste quindi l’equilibrio tra la diplomazia economica saudita ed il budget security giordano.
La diversificazione delle relazioni diplomatiche ha riguardato anche la Russia a riprova di quanto il Regno consideri il Cremlino un soggetto politico rilevante all’interno della multipolarità regionale. Sotto quest’ottica l’amministrazione Biden offre motivazioni per sperare in un più efficace ruolo di Washington, che non ha mancato di sostenere Re Abdallah nel caso del complotto del Principe Hamza, e pur alla luce di un interesse negli ultimi anni quasi interamente assorbito dal dossier nucleare iraniano.
La firma dell’accordo di difesa tra Washington e Amman, pur aspramente criticato in Giordania, rafforza il ruolo strategico del Regno, un ruolo compreso anche da MbS che, nel suo tour estivo, ha toccato, oltre Egitto e Turchia, proprio la Giordania allo scopo di “coordinare gli sforzi per opporsi all’Iran e discutere di questioni politiche“. Non è un mistero che in tale ambito gli USA, prima di tornare all’Indo Pacifico, abbiano guardato a patti politico militari volti all’Iran, così come a Siria, Hezbollah, Hamas e più tardivamente alla Russia; ricordiamo nel 2006-2007 Condoleeza Rice, precorsa nel 1955 da John Foster Dulles segretario di stato con il Presidente Eisenhower con il tentativo fallito del Patto di Baghdad, che auspicava che il Medio Oriente modellato in forma USA includesse un’alleanza militare guidata dagli Stati Uniti con almeno Arabia Saudita, Egitto e Giordania, ma con l’elemento israeliano allora incompatibile.
Interessanti comunque le affermazioni del Re che non sembrerebbe opporsi alla formazione di un’alleanza militare mediorientale simile a quella atlantica, vista anche la preoccupazione con cui è stata valutata la risposta americana agli attacchi missilistici Houthi contro l’Arabia Saudita. Le evoluzioni delle relazioni internazionali, spettatrici della normalizzazione dei rapporti turco israeliani dopo il caso Mavi Marmara, hanno coinvolto anche l’Egitto di Al Sisi, che continua a coltivare rapporti politico-diplomatici con Iraq, Giordania, Bahrein e EAU secondo dinamiche che, preceduti gli Accordi di Abramo, hanno ammorbidito la crisi del Golfo[31], e che ora aprono alle chance di cooperazione economica e soprattutto energetica[32].
Non a caso Il Cairo, Amman e Baghdad puntano al completamento del progetto di collegamento elettrico tra le reti dei tre Paesi, con la creazione di una città industriale ai confini iracheno-giordani. Anche il Bahrein ha aderito all’iniziativa di partenariato industriale integrato con Egitto, EAU e Giordania; a questo si accompagna una dichiarazione di intenti tra EAU, Israele e Giordania, mediata dagli USA, per la costruzione nel regno hashemita di un impianto solare (Prosperity Green) che fornirà energia ad Israele che desalinizzerà l’acqua marina (Prosperity Blue) per fornire acqua dolce[33] ad Amman, progetti che, nati sotto l’egida Bennett[34], dovranno tuttavia passare sia al vaglio della nuova amministrazione nata dalla recente consultazione elettorale israeliana, sia dall’accettazione della joint venture da parte della piazza giordana.
Che le contestazioni non siano da sottovalutare lo confermano gli ultimi avvenimenti cisgiordani che hanno visto l’insorgenza di una nuova formazione, la Lions’ den, che si teme possa condurre ad una nuova intifada, malgrado il non completo appoggio da parte delle maggiori fazioni palestinesi.
Energia e atomi mediorientali
In quanto a problemi di approvvigionamento[35] e joint venture energetiche, inevitabile un cenno all’immancabile opzione nucleare, presente fin dal 2013 con l’offerta russa di costruire una centrale a Qusair Amra, condizionata dalle promesse di investimenti stranieri. Non è una novità regionale: anche se l’attenzione internazionale è rivolta al JCPOA iraniano, dal Golfo all’Egitto diversi Paesi[36] puntano all’energia nucleare, foriera tuttavia di inevitabili risvolti militari e strategici. Il programma nucleare di Riyadh pone in evidenza la cooperazione con Pechino, soprattutto dopo che sia il sottosuolo saudita che quello giordano hanno mostrato la presenza di uranio e torio.
Conclusioni
Insomma, in un contesto multipolare come quello mediorientale la Giordania rimane un’anomalia. Paese dai confini disegnati a tavolino, spicchio di terra desertica, rappresenta l’esempio delle instabili peculiarità mediorientali. Vaso di coccio tra i vasi di ferro israeliano, saudita, egiziano e con il soffio delle guerre civili iraqena e siriana, la Giordania si è resa protagonista di un sottile equilibrismo che ha fatto dell’instabile stabilità il suo traballante punto fermo. La geopolitica ha reso Amman una pedina insostituibile per temperare l’attrito iranico-saudita e per garantire la sicurezza dello stato israeliano; il tempo per consolidare gli assetti è tuttavia esiguo, visti i tentativi di rafforzamento siriani, i possibili accordi autonomisti curdi, l’entente tra russi e ayatollah. Nel frattempo gli interessi di Amman si fondono con quelli di Baghdad, che cerca investitori utili alla ricostruzione. Doha prepara pacchetti di aiuti finanziari, Ankara punta ad un accordo di cooperazione economica: Amman e la sua assertività sono dunque sempre al centro dell’attenzione, lasciando che il rentierismo da posizione strategica continui a rendere ricca ed appetibile una terra altrimenti solo enigmatica.
[1] Gli hashemiti annoverano tra i propri capostipiti il bisnonno del Profeta Maometto.
[2] L’indipendenza nel 1946 e la nascita dello Stato di Israele nel 1948 concludono la fase iniziale di formazione del Regno, che assiste all’arrivo di profughi palestinesi ripetuto dopo la Guerra dei 6 Giorni nel 1967 con l’occupazione israeliana della Cisgiordania, fino a quel momento controllata da Amman. Ad oggi almeno il 65% dei cittadini giordani sono di origine palestinese.
[3] Vedi espansione economica e infrastrutturale della Cina nel Regno e i contatti con l’India.
[4] I rifugiati gravano sempre di più sulle casse e la creazione di uno stato indipendente al di là del Giordano offrirebbe la possibilità di liberarsi di parte dei profughi palestinesi.
[5] La corruzione porta ad esacerbare le divisioni inter-etniche e rinforza i movimenti radicali, come nelle comunità di Ma’an (da cui proveniva Abu Musab al-Zarqawi), Zarqa, Salt, e tra i Fratelli Musulmani.
[6] Nomina della Corte Costituzionale.
[7] Tra gli emendamenti, da ricordare la creazione del Consiglio di sicurezza nazionale, che include primo ministro, i ministri degli esteri e degli interni ed i capi degli apparati di sicurezza del regno. Si riunisce in emergenza su invito del re. Secondo alcuni analisti il consiglio crea un quarto ramo di governo.
[8] Islamic Action Front e movimenti sindacali come il Gruppo dei 36.
[9] Secondo alcune analisi la Giordania è il quinto stato al mondo per provenienza dei foreign fighters; se si conta il numero di combattenti per milione di abitanti, il Paese sale al terzo posto.
[10] Il 21% dei palestinesi d’Israele ha più deputati alla Knesset di quanti non ne abbia il 70% giordano nel parlamento di Amman.
[11] Tra gli imputati, con l’accusa di sedizione ci sono Bassem Awadallah, ex capo della Corte reale ed ex ministro delle Finanze poi consigliere economico del Principe Ereditario saudita, e Sherif Hassan Zaid, lontano parente di re Abdallah
[12] Secondo Oded Eran, ex ambasciatore d’Israele ad Amman è stato molto meno di un tentativo di colpo di stato e molto più di una disputa familiare.
[13] L’evento è comparabile agli arresti eseguiti nel 2017 presso l’hotel Ritz-Carlton ad opera del Principe ereditario Saudita, Mohammed bin Salman, che fece rinchiudere svariati membri della famiglia reale, accusandoli di corruzione; la mossa fu interpretata come un tentativo di bin Salman di rafforzare preventivamente la propria posizione.
[14] La rivalità familiare risale al 1999, quando Re Hussein nominò erede al trono suo figlio Abdallah al posto del Principe Hassan bin Talal (fratello di Re Hussein), facendo tuttavia promettere ad Abdallah che alla sua morte gli sarebbe poi succeduto il fratellastro Hamza, a cui fu concesso il titolo di principe ereditario. Nel 2009 Abdallah II sceglie di nominare come successore il figlio quindicenne Hussein, escludendo Hamzah.
[15] Pur con gli indispensabili distinguo, la storia riporta agli anni Cinquanta, con Nayif ibn Abdullah e il giovane Re Hussein, per individuare una situazione di tensione politica di simile entità. Nayif fu reggente dal 20 luglio al 6 settembre 1951 per il fratellastro Talal, ammalato di schizofrenia e comunque re di Giordania. Dal settembre 1951 Talal fu ritenuto idoneo ad assumere il potere sovrano
[16] Attestazioni di sostegno ad Abdallah sono giunte dal re del Marocco Mohammad VI, dal re del Bahrein Hamad bin Isa al-Khalifa, dall’emiro del Qatar Tamim bin Hamad al Thani, dall’emiro del Kuwait Nawaf al Ahmad Al Jaber al Saba, dal Presidente egiziano Abdel Fatah al Sisi, dal leader palestinese Abu Mazen, dal Mohammed bin Salman che ha perorato la causa di Awadallah.
[17] Del 1923, fu un accordo tra i governi inglese e francese che riguardava posizione e natura del confine tra i mandati di Palestina e Mesopotamia (inglesi) e il mandato su Siria e Libano (francese).
[18] La Siria meridionale è sempre stata più legata alla Giordania settentrionale che alla Siria settentrionale, appartenendo alla stessa provincia ottomana.
[19] La Giordania attribuisce all’Esercito siriano l’aumento del commercio di Captagon, la droga usata dai combattenti Isis.
[20] Viene proibita la pratica del takfir (sorta di scomunica) nei confronti di altri musulmani. La definizione di musulmano è molto ampia per la Giordania e il sunnismo moderato: la ummah esclude solo i gruppi fondamentalisti (ISIS, al-Qa’eda, alcune sette minoritarie e specifiche come gli ‘Alawiti). Gli Sciiti sono dunque inclusi, anche se nel Paese è temuto lo Sciismo politico (legato alla Repubblica Islamica Iraniana), che minerebbe l’identità nazionale del regno Hashemita.
[21] All’interno del trattato sono stabiliti gli accordi riguardanti il diritto esercitabile da entrambi i Paesi sull’acqua proveniente dai fiumi Yarmouk e Giordano nonché dalle falde sotterranee che attraversano il confine.
[22] Questo lega l’attenzione giordana per lo status della Spianata delle Moschee, in custodia alla casa reale hashemita. Gli interessamenti di Turchia, evocata dai palestinesi, e Arabia Saudita, favorita da Israele in cambio della normalizzazione delle relazioni diplomatiche, per giungere ai luoghi sacri gerosolimitani, hanno allarmato Amman, che non può perdere il controllo di al-Aqsa dopo aver perso la custodia della Mecca e Medina nel 1925.
[23] Le relazioni tra la Giordania e l’amministrazione Trump, si sono deteriorate fino a un punto minimo che ricorda il sostegno di Re Hussein a Saddam Hussein dopo l’invasione irachena del Kuwait.
[24]La distribuzione demografica vede le grandi città abitate dai palestinesi e le aree rurali popolate dai transgiordani. Secondo la legge elettorale le aree rurali hanno una rappresentanza parlamentare eccedente la dimensione demografica. Le aree urbane seguono un trend opposto, per garantire una maggioranza parlamentare basata sui transgiordani malgrado oggi questi siano una minoranza. Durante le proteste per l’imposizione fiscale la divisione etnica è apparsa meno netta. I provvedimenti volti a colpire le classi medie e medio-alte (gli ordini professionali) hanno saldato a queste ultime i cittadini più poveri che protestavano per il rialzo dei prezzi e per i tagli dei sussidi, nell’ambito delle condizionalità imposte dal Fmi.
[25] Vd. l’accordo di cooperazione in materia di difesa con gli Usa che deve agevolare il trasferimento di uomini e mezzi USA in Giordania e che rende il Regno una piattaforma di proiezione.
[26] Insieme dei paesi arabi che si trovano a est rispetto al Cairo e a nord rispetto alla penisola arabica.
[27] Stime che si aggirano sui 40-70 milioni di tonnellate disseminate su oltre il 60% del paese; si ritiene che la Giordania abbia il sesto giacimento più grande al mondo.
[28] Vd. i campi di Mragib al-Fahud, al-Azraq e Zaatari
[29]Fitch ha aggiornato l’outlook giordano da negativo a stabile.
[30] Mohammed Bin Salman, Principe ereditario saudita.
[31] Si fa riferimento all’embargo vs il Qatar da parte di Arabia Saudita, Emirati, Bahrein ed Egitto del 2017, revocato con la dichiarazione di Al Ula del gennaio 2021
[32] La Giordania approvvigiona il gas naturale attraverso il mercato internazionale; il costo sarebbe inferiore se si importasse il gas dai giacimenti israeliani di Leviathan e Tamar, poiché privo di sovrapprezzi dovuti a liquefazione o rigassificazione. I giordani (in gran parte di origine palestinese) sono contrari alla cooperazione con Israele. L’intervento USA, permettendo di mantenere politiche e fornitori filo-occidentali, ha consentito la firma di un MoU tra la texana Noble Energy (con base operativa presso il giacimento israeliano Leviathan) e la Giordania. Nel frattempo l’industria giordana del potassio ha firmato un accordo con Noble Energy per importare il gas naturale israeliano in 15 anni, che dovrebbe ridurre i costi di importazione di gas. Nonostante ciò, gli accordi sono oggetto di forte opposizione. Cresce intanto l’interesse internazionale per mercato del levante. La Chevron nel 2020 ha acquistato la Noble Energy e ha avviato il progetto per la costruzione di un gasdotto che unisca le città costiere israeliane di Ashdod e Ashkelon.
[33] È un problema che coinvolge anche l’Egitto, alle prese con i problemi conseguenti alla Grande Diga del Rinascimento Etiope sul Nilo
[34] Da ricordare che lo stesso Bennett non ha visto favorevolmente la soluzione dei due stati
[35] La Giordania ha importato greggio dall’Iraq fino all’intervento statunitense nel 2003, poi ha dovuto importare di gas egiziano
[36] L’Arabia saudita ha annunciato un piano per costruire 16 reattori nucleari entro il 2040; gli EAU secondo l’AIEA dispongono già di quattro reattori. Egitto e Turchia sono ugualmente impegnati a sviluppare il nucleare per soddisfare il proprio fabbisogno.