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Hamas, il gruppo terroristico che non vuole la pace
Valentina Spata
- Hamas, il movimento di resistenza islamico e le sue origini
L’acronimo Hamās sta per Harakat al-Muqāwwama al-Islāmiyya, ovvero “Movimento di Resistenza Islamico“, inoltre il termine in arabo può significare “entusiasmo”, “zelo”.
Hamas è un’organizzazione politica e militare palestinese costituita nel 1987 durante la Prima Intifada. Originariamente fondata come movimento di resistenza all’occupazione israeliana, Hamas si è trasformata in un attore politico di rilievo, soprattutto nella Striscia di Gaza. È considerata un’organizzazione terroristica dall’Unione Europea, dagli Stati Uniti, da Israele, Canada, Regno Unito, Australia e Giappone.
Fu fondata nella sua componente paramilitare alla fine degli anni Ottanta da Ahmad Yāssīn come appendice della Fratellanza Musulmana Palestinese. La particolarità fondamentale di Hamas è che essa è un’organizzazione fortemente legata alla Palestina e che non ha alcun interesse a colpire obiettivi oltre Israele e le sue truppe definite di “occupazione”.
Nel suo Statuto, redatto alla fine del 1987 e nel 1988, anche se inizialmente poco condiviso e successivamente oggetto di discussioni da parte dei leader dell’organizzazione, viene dichiarato che “Israele sarà stabilito e rimarrà in esistenza fintanto che l’islam non lo cancelli completamente“, e si esprime inoltre il desiderio di “combattere il male, sconfiggerlo e superarlo affinché le terre tornino ai loro legittimi proprietari; il richiamo alla preghiera si diffonda dalle moschee, proclamando l’istituzione di uno Stato islamico” (cioè sostituire la teocrazia islamica allo Stato di Israele).
Hamas si differenzia completamente dagli altri movimenti integralisti musulmani che promuovono la lotta in tutto il mondo islamico. Hamas ha usato sia mezzi politici, sia mezzi terroristici per realizzare l’obiettivo di uno Stato palestinese islamico, operando sostanzialmente nella Striscia di Gaza e in poche aree della Cisgiordania.
Le origini di Hamas risalgono al 1967. Dopo la Guerra dei sei giorni e l’occupazione israeliana della Striscia di Gaza, nell’area si diffuse il movimento dei Fratelli Musulmani, l’organizzazione islamista nata in Egitto negli anni ’20. Uno dei leader era lo sceicco Ahmed Yassin, che negli anni ’70 fondò a Gaza la Mujama al-Islamiya (Centro islamico), un’organizzazione di assistenza sociale, come branca palestinese dei Fratelli musulmani. Nei primi anni il Centro non si occupò di politica, al punto che era regolarmente registrato come organizzazione caritatevole nello Stato di Israele, ma negli anni ’80 la situazione cambiò. In Palestina scoppiò la prima Intifada, cioè una vasta rivolta contro l’occupazione israeliana e il Centro islamico decise di partecipare alla lotta. A tale scopo Yassin e altri dirigenti costituirono Hamas, che doveva essere una sorta di ramo militare dei Fratelli Musulmani. La fondazione del movimento, pertanto, rientra nella crescita dell’islamismo politico che si verificò negli anni ’80 e ‘90 in diversi Paesi mediorientali.
In Palestina, la scena politica era dominata da Fatah, il partito guidato da Yasser Arafat, che seguiva una linea politica nazionalista e laica e aveva il controllo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Fatah era impegnato nella lotta per l’indipendenza palestinese e aveva un forte sostegno tra la popolazione. Tuttavia, c’era anche un’opposizione significativa da parte di Hamas, che era impegnata in attacchi terroristici contro Israele.
La situazione politica in Palestina era estremamente complessa e spesso violenta, con continue tensioni tra i diversi gruppi politici e con Israele. Le negoziazioni di pace erano difficili a causa di questa instabilità e della mancanza di un consenso politico unito tra i palestinesi.
Fatah controllava l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) e negli anni ’90 intraprese un processo di pace con Israele. Hamas non approvava questa linea: non ha mai voluto la pace con Israele.
Durante il processo di pace tra israeliani e palestinesi, Hamas ha spesso adottato posizioni di opposizione e scetticismo nei confronti di tali iniziative. Mentre alcuni gruppi palestinesi, come l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), hanno partecipato ai negoziati di pace, Hamas ha mantenuto una posizione più dura, rifiutando il riconoscimento di Israele e insistendo sul diritto dei palestinesi di resistere all’occupazione.
Hamas è stato coinvolto in diverse azioni e attentati terroristici che hanno contribuito a complicare ulteriormente il processo di pace. Il suo coinvolgimento in attacchi contro obiettivi israeliani e la sua posizione politica hanno portato a tensioni e ostacoli nei negoziati tra israeliani e palestinesi.
Inizialmente Hamas ha attaccato obiettivi militari israeliani e nei primi anni indirizzò le sue azioni soprattutto contro i palestinesi accusati di collaborare con lo Stato ebraico. Dal 1994, in seguito a una strage di palestinesi compiuta da un estremista israeliano, l’organizzazione iniziò a prendere di mira anche i civili di Israele, facendo spesso ricorso agli attentatori suicidi e compiendo in alcuni casi vere e proprie stragi. Tra gli attacchi più noti del 1994 ci sono l’attentato al bus n. 5, dove un kamikaze si fece esplodere a bordo di un autobus a Tel Aviv uccidendo 22 persone e ferendone oltre 40, e l’attentato al bus n. 19, dove un altro kamikaze si fece esplodere a bordo di un autobus a Gerusalemme uccidendo 5 persone e ferendone decine.
Questi attentati fecero aumentare la tensione tra Israele e i palestinesi, portando ad un aumento della violenza nelle zone contese della regione.
Il movimento di resistenza islamica non fu, però, percepito da Israele, almeno durante i primi anni della sua attività, come una reale minaccia.
Secondo Jean François Legrain:
«le Mouvement de la résistance islamique…avait de tout temps bénéficié d‟une grande quiétude, d‟une absence de répression de la part des Israéliens qui voyaient avec intérêt son émergence en tant que concurrent de l‟OLP. Absence de répression, donc, afflux des financements et liberté totale dans les activités de l‟association qui, jusqu‟au soulèvement, misait sur la réislamisation de la société dans un retrait total de la lutte anti-israélienne»[1].
Infatti, all’inizio Israele considerava Hamas come un’organizzazione terroristica marginale, senza capacità di mettere in pericolo la sicurezza del paese. Tuttavia, con il passare del tempo e la crescita di Hamas sia a livello politico che militare, Israele ha iniziato a prendere sul serio la minaccia rappresentata dal movimento di resistenza islamica.
La percezione di Hamas come minaccia è cresciuta soprattutto a seguito della sua presa di controllo della Striscia di Gaza nel 2007 e dell’uso di razzi e attentati suicidi contro obiettivi israeliani. Questi attacchi hanno causato la morte di civili israeliani e hanno minato la sicurezza del paese.
Di conseguenza, Israele ha intrapreso azioni militari contro Hamas, tra cui operazioni militari nella Striscia di Gaza e l’implementazione di un blocco economico sulla regione. Queste misure hanno portato a tensioni costanti tra Israele e Hamas e hanno contribuito a mantenere viva la percezione di Hamas come una minaccia per la sicurezza del paese.
Facendo un passo indietro, va ricordato come agli inizi degli anni Settanta Moshe Dayan, allora Ministro della Difesa israeliano, permise ad alcuni predicatori legati ai Fratelli Musulmani, dopo la loro espulsione dall’Egitto, di stabilirsi nella Striscia di Gaza. Questa decisione causò tensioni tra i palestinesi locali, che vedevano i Fratelli Musulmani come una minaccia al loro potere e all’unità nazionale. Tuttavia, Dayan riteneva che permettere ai Fratelli Musulmani di stabilirsi nella Striscia di Gaza avrebbe indebolito l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), che all’epoca era il principale movimento di resistenza contro Israele.
La presenza dei Fratelli Musulmani nella Striscia di Gaza si rivelò controversa e portò ad un aumento della violenza e della destabilizzazione nella regione. Tuttavia, Dayan riteneva che fosse una mossa strategica per indebolire i palestinesi e garantire la sicurezza di Israele.
Questa decisione di Dayan riflette la complessità delle dinamiche politiche e strategiche nella regione e le difficili scelte che i leader devono fare per garantire la sicurezza nazionale.
Inoltre, a partire dal 1967 sino alla fine degli anni Ottanta le autorità israeliane sostennero alcuni esponenti di Hamas, fornendo loro agevolazioni per la costruzione di moschee nei territori occupati, al fine di creare una sorta di contro-potere islamico all’OLP, senza tuttavia considerare che il movimento fondato da Ahmad Yasin avrebbe potuto, in seguito, trasformarsi in un’organizzazione militare capace di mettere in pericolo l’esistenza stessa dello Stato d’Israele.
In effetti, all’inizio l’approccio adottato dal movimento di resistenza islamica, a partire dalla sua creazione avvenuta pochi giorni dopo l’inizio della sommossa dell’8 dicembre 1987, non era focalizzato sulla lotta contro l’occupazione israeliana, ma piuttosto sulla creazione di associazioni di beneficenza e comitati di assistenza per sostenere le famiglie più bisognose e i disoccupati, oltre che occuparsi della gestione di asili, scuole e ospedali. Mi ricorda molto l’efficienza della macchina amministrativa dell’Islamic State descritta dagli abitanti di Mosul nel libro “Vivere a Mosul con l’Islamic State: Efficienza e brutalità del Califfato” scritto dalla Dott.ssa Laura Quadarella Sanfelice di Monteforte[2].
Fornendo dei palliativi ad una popolazione ridotta a vivere in condizioni di povertà e di estremo disagio, il movimento di resistenza islamica ha creato attorno alla rete di moschee una sorta di contro-società rispettosa dei precetti del Corano.
- L’evoluzione di Hamas e la perdita di autorità dell’OLP
I militanti di Hamas si sono attivati anche nelle università, in particolare modo in quella islamica di Gaza, che è stata fondata nel 1978 e che costituisce il centro nevralgico della loro strategia, e negli istituti islamici di Hebron e di Gerusalemme in cui si formano, ancora oggi, migliaia di studenti palestinesi. Sicuramente la situazione di impasse politique, dovuta anche alla incapacità dell’OLP di garantire la sicurezza e di mettere fine allo stato di disordine nei territori occupati, ha contribuito allo sviluppo sempre più rapido di Hamas.
Nel dicembre 1992, in seguito all’uccisione di una guardia di frontiera israeliana, rivendicata da alcuni esponenti del movimento di resistenza islamica per il mancato rilascio dello shaykh Yasin, il governo israeliano ha adottato il provvedimento di espulsione di 415 palestinesi, sospettati di appartenere ad Hamas e al Jihad islamico[3].
Inoltre, in seguito ad una serie di attentati, il governo israeliano prese i primi provvedimenti repressivi, arrestando e condannando circa 200 militanti di Hamas, tra cui il suo stesso fondatore.
L’OLP non tenne conto della crescita del sostegno popolare ad Hamas[4] che, già a partire dalla fine degli anni Ottanta, si impose come una forza di primo piano sullo scenario politico palestinese.
Nel primo comunicato in cui è apparso l’acronimo Hamas e nell’articolo 2 dello Statuto del 1988 è detto, in modo esplicito, che «il movimento palestinese è una costola dei Fratelli Musulmani». La connotazione religiosa è espressa all’articolo 1 che recita: «La base del movimento di resistenza islamica è l’Islam»[5].
Invece nella Carta dell’OLP del 17 luglio 1968 la parola Islam non è mai menzionata; l’articolo 3 stabilisce che solo il popolo palestinese ha «il diritto legittimo sulla sua patria», mentre l’articolo 9 definisce la lotta armata «la sola via per la liberazione della Palestina»[6].
Per più di venti anni l’OLP ha operato per la creazione di uno Stato laico, indipendente e sovrano, in cui tutti i suoi cittadini, sia la popolazione locale, che i palestinesi insediatisi nei campi profughi, potessero affermare la loro identità nazionale.
Il declino dell’OLP fu causato da motivazioni di diversa natura: la scomparsa di esponenti di primo piano (Abu Jihad nel 1988 e Abu Iyad nel 1991); le difficoltà a livello finanziario, soprattutto a partire dall’inizio della guerra del Golfo, l’interruzione dell’afflusso di ingenti somme di denaro fornite annualmente dall’Arabia Saudita (il deteriorarsi dei rapporti con questo paese arabo fu dovuto anche all’ostilità di Hamas al processo di pace).
In seguito alla firma dell’accordo di pace tra Israele e l’OLP, «Dichiarazione dei princìpi sulle disposizioni interne di autonomia» nella Striscia di Gaza e a Gerico, il 13 settembre 1993, noto come accordi di Oslo, cui si è opposto il movimento della resistenza islamica e che il presidente siriano Hafez al-Assad ha definito un accordo clandestino, si verificò una scissione tra le due principali correnti dell’OLP[7]: il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FDLP)[8] e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP)[9].
I due requisiti fondamentali della legittimità di Arafat vennero meno: la capacità di promuovere la questione palestinese come una rivendicazione legittima agli occhi della comunità internazionale e la predisposizione a mantenere i legami tra le varie componenti del popolo disperso. Inoltre, il fallimento dei negoziati di Camp David del luglio 2000 determinò, da un lato l’indebolimento politico-militare dell’ Autorità nazionale palestinese (ANP)[10] e, dall’altro il rafforzamento delle correnti islamiche. Il principale beneficiario di questa situazione è stato Hamas, che ha adottato una nuova strategia di lotta armata, basata sugli attentati suicidi, ad opera della brigata Ezzedin al-Qassam che ha iniziato ad operare nel 1994 per la liberazione dei territori occupati nel 1967 e per la creazione di uno Stato islamico. Tuttavia, anche Fatah non ha rinunciato alla lotta armata, con l’istituzione nel 2000 delle brigate dei martiri di al-Aqsa.
Con lo scoppio della prima sommossa, Hamas sin dalla sua fondazione considerò, come obiettivo principale, l’azione di richiamo all’Islam, operando soprattutto tra i giovani meno abbienti, diplomati o laureati, ma per lo più disoccupati. A tal proposito Gilles Kepel aveva affermato:
«Hamas si sforzerà di canalizzare la rabbia sociale eterogenea ed imprevedibile di questa gioventù e di trasformarla in uno «zelo» religioso al servizio del proprio progetto specifico di società… Grazie al forte contenuto morale del suo messaggio, esso farà dei giovani meno abbienti i portatori di un’autenticità islamica, ai quali spetterà l’incarico di punire il «vizio» delle classi medie o borghesi, la cui libertà di costumi o la cui occidentalizzazione sarà denunciata come un effetto della «depravazione ebraica»[11].
Dopo venti anni di occupazione israeliana, Hamas ha provveduto alla creazione di istituzioni religioso-caritative e alla diffusione di una rigorosa educazione islamica fra le masse, riconducendo il popolo palestinese alla sua filiazione originaria. Pertanto, attraverso l’utilizzo della sua arma più potente, il movimento di resistenza islamica è riuscito a conquistare una posizione di prima linea rispetto sia a Fatah, che alle altre fazioni impegnate nella realizzazione di uno stato indipendente. Nonostante il richiamo alla fratellanza musulmana da parte di Hamas, in realtà, già prima della sua nascita, il pensiero islamico attecchì sul territorio palestinese.
- Gli ebrei e il Partito di “Satana” secondo Hamas
Nonostante il movimento di Hamas neghi l’odio per gli ebrei e lo imputi all’Europa, la sua Carta fondatrice ne è pervasa.
“L’antisemitismo di Hamas è un antisemitismo islamista in senso stretto, si articola su una guerra interreligiosa”, spiega Vincent Lemire, professore di storia presso l’Università Gustave Eifell e direttore del centro di ricerca francese a Gerusalemme. “La carta fondatrice di Hamas è un concentrato di deliri antisemiti e complottisti. Gli ebrei sarebbero responsabili di tutto, anche della Rivoluzione francese. Si rispolvera il Protocollo dei Savi di Sion, testo antisemita secondo cui gli ebrei hanno un piano per impadronirsi del mondo. Ci sono tutti gli stereotipi più banali sul tema”, continua l’esperto. Hamas si distingue in maniera chiara da altri gruppi: “È molto diverso dal Fatah o dalla OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina): quest’ultima rivendicava nel 1964 uno stato palestinese sovrano dal mare al Giordano, ma non è mai stato un movimento antisemita. Lo Stato di Palestina avrebbe dovuto accogliere musulmani, cristiani ed ebrei”[12].
Il movimento di resistenza islamica, nei suoi vari scritti, ha messo in evidenza l’essenza religiosa di quella che può essere definita una guerra tra il partito di “Satana”, come inteso da Hamas, e il partito di Dio, ossia fra ebrei e musulmani, prima ancora che tra israeliani e palestinesi, in quanto le origini di questo conflitto risalirebbero al tempo dell’invasione crociata.
In realtà le origini di tale conflitto devono essere ricondotte, secondo Ibrahim Quqa, uno dei fondatori di Hamas, alla lotta che gli ebrei intrapresero contro il profeta Muhammad, al momento del suo arrivo a Medina, in un disperato sforzo di impedire la diffusione dell’Islam, rifiutando le sue offerte generose e travisando il suo messaggio. Inoltre, egli ha interpretato il comportamento di Israele nei confronti dei palestinesi che vivono nei territori occupati, come una vendetta per le vittorie del profeta dell’islam sulle tribù ebree di Medina, avendo Dio raccolto gli ebrei in Palestina «not in order that it would be a home and land for them, but to serve as their graveyard, so that he would free the whole world from this pest»[13].
Quanto alla lotta contro il movimento ebraico, che deve essere condotta sino al suo annientamento, essa è indispensabile per la liberazione della Palestina.
Secondo Quqa, la questione non è tanto politica o economica, ma piuttosto religiosa e spirituale. La radice del conflitto risiede nella rivalità tra la religione divina dell’islam e le false religioni ebraica e cristiana. Quqa ha quindi dichiarato che la lotta dei palestinesi contro Israele non può essere risolta mediante negoziati, ma solo con la guerra santa e la resistenza armata.
Questa visione estremista del conflitto israelo-palestinese, alimentata da motivazioni religiose profonde, ha contribuito a perpetuare la violenza e la divisione tra le due comunità. La retorica di odio e l’ideologia estremista hanno reso ancora più difficile trovare una soluzione pacifica e duratura al conflitto.
Tuttavia, è importante ricordare che queste sono solo opinioni di uno dei fondatori di Hamas e non rappresentano necessariamente le opinioni di tutti i palestinesi o musulmani. C’è una varietà di opinioni e prospettive all’interno della comunità palestinese e musulmana riguardo al conflitto israelo-palestinese e alla sua risoluzione.
Hamas, inoltre, fa riferimento al pensiero di Hasan al-Banna secondo il quale gli ebrei, oltre a costituire una minaccia e una sfida per il mondo musulmano, avendo messo in luce la decadenza del mondo islamico, rappresentano anche un’esperienza benefica, offrendogli un’opportunità di purificazione[14].
In varie pubblicazioni ricorrono espressioni fortemente offensive nei riguardi degli ebrei le quali, in qualche modo, richiamano alcuni versetti del Corano. Più precisamente si tratta di quei versetti in cui gli ebrei sono definiti «scimmie spregevoli» (II, 65) e «scimmie abbiette» (VII, 166), «coloro…che uccidono i Profeti ingiustamente» (III, 21, 112, 181) e «porci» (V, 60, 80). Inoltre in alcuni volantini viene fatta un’equiparazione tra ebrei e nazisti («the Nazi Jews», «Jewish Nazism», «Nazi Zionism») e si afferma che le azioni di Israele vanno oltre quelle dei nazisti in quanto «the Jews represent Nazism in its most criminal form»[15].
Hamas ha definito il sionismo un insediamento coloniale, il cui fine è quello di cacciare i palestinesi dalla loro terra per lasciarla ai coloni ebrei, ricorrendo ad ogni forma di violenza. Sempre nella stessa nota si dice che l’azione militare, intesa come mezzo strategico per liberare la Palestina dall’occupazione, dalla profanazione dei luoghi santi e dalla violazione dei diritti civili, deriva la propria legittimità dalla religione e dalle norme internazionali.
Nel Documento storico pronunciato in occasione di un congresso tenutosi nell’agosto 1989, rivolto al movimento Fatah, Hamas ha sostenuto che il riconoscimento di Israele è un tradimento commesso nei riguardi di quei martiri musulmani che sono morti per la liberazione della Palestina, a partire dall’epoca del profeta sino ad oggi. Il tono si fa più severo quando si afferma che riconoscere la «falsa entità ebraica» equivale a «tradire Dio, il suo messaggero e la fede».[16]
La soluzione pacifica del conflitto, come è stata formulata dal movimento di resistenza islamica, potrà realizzarsi solo il giorno in cui avverrà la totale liberazione della terra palestinese usurpata dal nemico, e quando su di essa sarà fondato lo Stato islamico. Hamas ha riproposto agli ebrei le due opzioni previste dal diritto musulmano sin dai tempi della nascita della comunità islamica (Ummah): se essi accettano pacificamente di diventare una minoranza all’interno di essa, acquisendo lo status di protetti, godranno della libertà di culto, come in passato è stato garantito, sotto il dominio islamico, alle varie comunità religiose. Però, se essi rifiutano, l’unica soluzione è lo sforzo inteso come combattimento sulla via di Dio che ogni musulmano è obbligato a compiere fino alla vittoria finale.
Pertanto, la posizione di Hamas, su questo punto, si pone in sintonia con quella dell’OLP, essendo lo scontro armato l’unica strategia adottabile per la liberazione della Palestina dal nemico che usurpa una terra islamica.
Poiché per il movimento di resistenza islamica la soluzione dei due Stati, attraverso i negoziati e nel rispetto delle risoluzioni delle Nazioni Unite, non è raggiungibile, il ricorso alla resistenza contro l’occupazione militare e fino alla liberazione della terra palestinese, è diventata la condicio sine qua non della sua militanza.
- La violenza, l’uso della forza e il martirio di Hamas
L’uso della forza e della violenza da parte di Hamas è stato ampiamente documentato nel contesto del conflitto israelo-palestinese. Hamas ha utilizzato diverse tattiche, tra cui attentati suicidi, lancio di razzi e altri attacchi armati.
Queste azioni hanno portato a vittime civili sia tra la popolazione israeliana che palestinese. Mentre alcuni possono considerare le azioni di Hamas come forme di resistenza, molti Paesi e organizzazioni internazionali classificano Hamas come un’organizzazione terroristica a causa delle sue attività violente contro civili.
L’uso della forza è stato brutale, comportando ciò che Stephen J. Stedman ha definito «counterescalation of violence by the limited spoiler»[17].
Poiché i negoziati di pace – ritenuti ingiusti in quanto non hanno messo fine alle operazioni militari israeliane né portato alla soluzione dei due Stati – non hanno riconosciuto la figura di un mediatore imparziale che avrebbe dovuto garantire il rispetto dei diritti negati al popolo palestinese, il ricorso alla violenza rappresenta l’unico mezzo di pressione su Israele. È significativo il fatto che Hamas abbia motivato la sua opposizione al processo di pace sostenendo che essa è espressione della volontà popolare. Questo sta a significare che, quando si parla di processo di pace, si deve tenere in considerazione che manca la volontà, in primis, da parte di Hamas sostenuto, purtroppo, da una fetta consistente della popolazione.
Nel maggio 2006 alcuni suoi leader hanno respinto la proposta del presidente dell’ANP, Mahmud Abbas, di tenere un referendum sul processo di pace, sostenendo che esso non era necessario in quanto il loro movimento aveva vinto le elezioni per volontà popolare ed era chiamato a perseguire l’interesse nazionale. Il ricorso alla logica contrattuale è stato dettato, almeno in parte, dal ruolo centrale del procedimento elettorale e del discorso politico. Hamas ha anteposto la logica del mandato popolare al diritto divino, ritenendo che quest’ultimo non abbia un’autorità sufficiente per salvaguardare l’interesse nazionale.
Tra gli studi più significativi che hanno analizzato la relazione tra l’uso della violenza e la valutazione del processo di pace da parte di Hamas bisogna annoverare quello di Adrew Kydd e di Barbara Walter[18].
In questo studio, Kydd e Walter analizzano come Hamas abbia utilizzato la violenza come strategia per influenzare la percezione dell’opinione pubblica palestinese verso il processo di pace con Israele. I risultati mostrano che Hamas tende ad aumentare l’uso della violenza nei momenti in cui il processo di pace sembra avanzare, al fine di sabotarlo e consolidare il proprio potere. Questo studio evidenzia l’importanza di considerare il ruolo della violenza nel processo di pace tra Israele e Palestina e il suo impatto sulla percezione dell’opinione pubblica.
Hamas ha cercato, attraverso le campagne di suicide bombing, di esercitare su Israele una maggiore pressione al fine di accelerarne il ritiro dai territori occupati. Ciò è confermato dalle parole di un suo leader, Ahmad Bakr:
«Tutto ciò che è stato finora raggiunto è la conseguenza delle nostre azioni militari. Senza il cosiddetto processo di pace, avremmo ottenuto ancora di più. Israele può battere tutte le armate arabe. Tuttavia, non può fare nulla contro un giovane con un coltello o una carica esplosiva addosso. Se gli israeliani vogliono sicurezza, abbandoneranno i loro insediamenti a Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme.»[19].
Ahmad Bakr inoltre ha ribadito quanto è stato espresso da altri membri della leadership riguardo alla completa liberazione della terra di Palestina attraverso il ricorso alla violenza, che si pone come una giustificazione di natura strumentale e non religiosa.
Tuttavia, le operazioni di martirio sono espressione anche della politica attuata dalle cellule armate del movimento, secondo le quali i suicide bombing rappresentano il mezzo più efficace di cui la resistenza palestinese dispone.
Dopo lo scoppio della sommossa nel settembre 2000 l’accettazione degli attentati suicidi, da un punto di vista morale e sociale, da parte della maggioranza dei palestinesi, ha comportato da un lato la diminuzione del loro valore simbolico, dall’altro ha reso la loro capacità di attuazione un’importante fonte di legittimità politica.
L’accettazione degli attentati suicidi da parte della società palestinese ha avuto conseguenze profonde sul conflitto, trasformando queste azioni estreme in un’arma politica e minando gli sforzi per una soluzione pacifica.
Questo cambiamento di valutazione nell’opinione pubblica è stato determinato soprattutto dall’avere rappresentato gli attentatori suicidi nella veste di martiri ed eroi e dall’avere incoraggiato i giovani a seguirne l’esempio, essendo il suicidio la più nobile azione che ciascun musulmano possa compiere sulla terra per porre fine alla violenza inferta da Israele.
È su questo terreno che Hamas ha potuto far attecchire la pratica delle operazioni di martirio, agevolato in questo proposito dalle severe misure adottate dal governo israeliano soprattutto in materia economica e di sicurezza (chiusura dei confini, punizioni collettive e demolizioni di abitazioni).
Le tattiche di Hamas non includono solo gli attentati suicidi trasformati in martiri ma anche una serie di azioni, tra cui il regolare lancio di razzi dalla Striscia di Gaza verso il territorio israeliano, mirando spesso a città e comunità civili. Questa pratica ha causato non solo danni materiali ma anche vittime tra la popolazione israeliana; attacchi armati che ha condotto contro forze di sicurezza israeliane e postazioni militari; attività di guerriglia urbana in situazioni di conflitto, ad esempio nascondendosi tra la popolazione civile o utilizzando infrastrutture civili per scopi militari; reti di tunnel sotterranei costruiti e utilizzati per scopi militari, inclusi attacchi sorpresa e infiltrazioni nel territorio israeliano.
- L’azione terroristica di Hamas nascosta da azioni benefiche
Matthew Levitt, in un articolo intitolato «Hamas from cradle to grave»[20], ha fatto riferimento all’operato di investigatori che hanno evidenziato come sistematicamente gruppi affiliati ad Hamas nascondano le loro attività terroristiche dietro la facciata caritatevole, sociale e politica. Pertanto, le fondazioni caritatevoli gestite dal movimento di resistenza islamica avrebbero un ruolo cruciale nella preparazione degli attentati suicidi contro i civili israeliani.
Secondo Yoav Biran, direttore generale dell’ Israeli Foreign Ministry: «There is only one Hamas, and it is a terrorist organization. Its social fund is a mechanism to transfer money to terrorist activity»[21].
Lo shaykh Yasin ha più volte ribadito il fatto che le varie ali che compongono Hamas sono compatte e coordinate, essendo parte di uno stesso corpo: «Non possiamo separare l’ala dal corpo. Se lo facciamo, il corpo non sarà in grado di volare. Hamas è un unico corpo. ».[22]
Alcuni leader di Hamas ammettono, senza alcuna titubanza, il ruolo centrale che l’ala politica gioca nella operational decision-making di gruppo: tra di essi il comandante militare Salah Shihada secondo il quale «Il potere politico è sovrano sull’apparato militare, e una decisione del potere politico ha la precedenza sulla decisione del potere militare, senza intervenire nelle operazioni militari.»[23].
Un altro membro di Hamas, Abd al-Aziz al-Rantisi, ha evidenziato il primato del livello politico: «The Hamas political leadership has freed the hand of the brigades to do whatever they want against the brothers of monkeys and pigs…Hamas‟s political wing determines overall policy for the movement»[24].
La logica attraverso la quale le due ali operano e le pressioni cui sono sottoposte differiscono, tuttavia, in maniera significativa. Infatti, mentre la condotta dell’ala militare è dettata da interessi relativi all’efficienza e alla segretezza operative, la condotta dell’ala politica invece è legata ad elementi come la visibilità e la legittimità. Mentre la popolarità dell’ala politica può essere accresciuta anche dalle operazioni compiute dal braccio militare, le operazioni militari che non godono del sostegno popolare possono comportare una diminuzione dell’indice di gradimento della leadership, ripristinando una situazione non dissimile a quella verificatasi verso la fine degli anni Novanta.
Infine, come ricorda Jeroen Gunning, storicamente l’ala politica del movimento si è formata prima rispetto a quella militare e, pertanto, «the political wing of Hamas is not a mere “front‟ in the sense of being a creation of the armed organization and subservient to it, but the core of the mainstream Islamic movement»[25].
Dalle operazioni investigative condotte a partire dagli anni Novanta risulta evidente il ruolo delle istituzioni sociali (moschee, scuole, orfanotrofi, campi estivi e leghe sportive) di Hamas nelle attività terroristiche dirette e organizzate dai suoi stessi affiliati.
Hamas ha costituito un apparato onnicomprensivo in cui i giovani palestinesi vengono reclutati, attraverso l’invito a seguire i dettami islamici e aderire alla lotta contro Israele per la liberazione della Palestina. Questa organizzazione fornisce ai giovani un senso di appartenenza, identità e scopo, mentre li istruisce sulle credenze estreme e radicate nell’ideologia islamica. Hamas utilizza la retorica religiosa e nazionalista per reclutare nuovi membri, spesso sfruttando la situazione di disagio e disperazione in cui molti giovani palestinesi si trovano a vivere. Una volta reclutati, i giovani vengono addestrati militarmente e sono spesso coinvolti in attacchi violenti contro Israele. Questo modello di reclutamento e addestramento ha permesso a Hamas di consolidare il suo potere e la sua presenza nella regione, mentre continua a perpetuare il conflitto in corso.
La moschea Gihad ad Hebron, ad esempio, ha una squadra di calcio che non è particolarmente famosa per le qualità dei suoi giocatori, alcuni dei quali sono responsabili degli attentati suicidi compiuti durante i primi mesi del 2003. Sulle maglie dei giocatori c’è scritto: «Prepare for the enemy and to fight the occupation».
In seguito agli attentati suicidi compiuti a Gerusalemme e ad Ashkelon nel febbraio-marzo 1996, il Primo Ministro israeliano Shimon Peres ha detto che Hamas, attraverso le istituzioni caritatevoli che dispongono di ingenti somme di denaro elargite dai governi islamici, riesce a camuffare la sua vera natura, delegando ad esse il compito di acquistare materiale esplosivo necessario per le operazioni suicide.[26] Il ruolo logistico del reclutamento, negli attacchi compiuti nei primi mesi del 1996, è tra gli esempi disponibili più documentati tra le fonti non classificate. Il comandante militare Hassan Salama ha apertamente riconosciuto di essere stato sostenuto dai facilitator di Hamas «from contacts to recruiting, to locating the places, and all these matters»[27] e di essere entrato furtivamente in Israele, dalla Striscia di Gaza, evitando i checkpoint israeliani. Anche un leader come Abd al-Aziz al-Rantisi ha esortato i palestinesi ad aiutare i fugitives di Hamas, affermando che: «protecting the fighters and to offer them support is part of our religion, is part of the holy war»[28].
In base ad un rapporto del Federal Bureau of Investigation (FBI) sulla Holy Land Foundation, i fondi delle charity committees sono gestiti e controllati da Hamas. Il rapporto del FBI ha dimostrato che i fondi raccolti da queste organizzazioni di beneficenza sono stati utilizzati per finanziare le attività terroristiche di Hamas, compreso il reclutamento di terroristi e l’acquisto di armi. Queste organizzazioni sono state inoltre coinvolte nel supporto logistico e finanziario ai membri di Hamas imprigionati, così come alle loro famiglie.
L’FBI ha scoperto anche che le charity committees agivano come intermediari per i finanziamenti provenienti da Paesi stranieri, tra cui Arabia Saudita, Qatar e Iran, che sono stati utilizzati per sostenere le attività terroristiche di Hamas.
Queste rivelazioni hanno sollevato preoccupazioni sulla trasparenza e l’integrità delle organizzazioni di beneficenza, che sono state utilizzate come facciata per il finanziamento del terrorismo. Il governo degli Stati Uniti ha quindi adottato misure per monitorare e regolamentare più strettamente le attività delle charity committees al fine di prevenire il finanziamento del terrorismo e proteggere la sicurezza nazionale.
Alcune dichiarazioni rilasciate dai leaders testimoniano come i palestinesi dipendono dalla carità di Hamas: lo shaykh Yasin, ad esempio, a proposito di una famiglia di dieci membri che vive in una stanza, ha affermato: «we gave them 1,200 shekels ($300). Sometimes it’s a sack of flour, or at very least the taxi fare home»[29]. Inoltre, secondo l’Israel Ministry of Foreign Affairs, non poche abitazioni fungono da rifugio per i fugitives che si spostano da un posto all’altro per evitare di essere catturati, mentre alcuni palestinesi insospettabili vengono impiegati per il trasferimento dei fondi a favore del gruppo.[30] Ibrahim al-Yazuri considera Hamas, di cui è stato uno dei fondatori, «un movimento jihadista palestinese che lotta per la liberazione di tutta la Palestina dalla tirannica occupazione israeliana » e sostiene che il movimento si prende cura dei suoi membri, in particolar modo di quelli che «si impegnano nella benedetta jihad contro l’odiosa occupazione israeliana, poiché sono soggetti alla detenzione o al martirio », così come dei loro familiari e figli, provvedendo al loro sostegno materiale e morale, perché questa è « una delle verità fondamentali del lavoro islamico e rappresenta quindi i doveri dello Stato islamico»[31].
Secondo l’FBI il fatto che Hamas ha elargito dai 2 ai 3 milioni di dollari alle famiglie degli attentatori suicidi e dei prigionieri rinchiusi nelle carceri israeliane ha comportato «a constant flow of suicide volunteers and buttresses a terrorist infrastructure heavily reliant on moral support of the Palestinian populace»[32].
Da un’analisi condotta dall’Israel Government Presse Office risulta che le organizzazioni di beneficenza di Hamas forniscono una maggiore assistenza economica ai suoi sostenitori. Inoltre, sempre secondo tale rapporto, i familiari sia degli attivisti di Hamas uccisi o feriti mentre eseguivano gli attentati, che di quelli incarcerati per il loro coinvolgimento in tali azioni, «in genere ricevono un sussidio iniziale, una tantum compreso tra $ 500 e $ 5.000, oltre a un’indennità mensile di circa $ 100»[33].
Non pochi sono anche gli esempi di ragazzi che vengono reclutati nelle file di Hamas: il comandante militare Muhammad Zakarna ha reclutato un ragazzo palestinese di 12 anni per il trasporto di armi utilizzate per il compimento di un attentato in un villaggio della Cisgiordania. Il ragazzo, nella seguente deposizione alla polizia, non ha espresso alcun pentimento e ha dichiarato: «I have no heart, like the Jews have no heart…I hate Jews, and at any opportunity I have, I will kill Jews. I am a shahid [martyr]»[34].
Ai giovani palestinesi affiliati ad un movimento islamico studentesco in cui opera Hamas, nell’area di Betlemme, vengono distribuite instruction cards con le foto degli attentatori suicidi, incoraggiandoli a seguire i loro passi.
Altro materiale educativo prodotto da attivisti di Hamas e distribuito dai suoi comitati di beneficenza include collectible postcards con le immagini degli attentatori suicidi, con iscrizioni del tipo: «Oh, Mother, the time for leaving [this world] is quickly approaching» e «Oh, Mother, do not speak of me should I fall and lie dead on the ground»[35]. Nei campi profughi di al-Fawwar, le trading cards dei ragazzi, ritraggono i suicide bombers e gruppi di giovani cantano inni ai martiri[36]. Pertanto, questi campi estivi, in cui viene insegnata ai bambini la storia dell’islam con le foto dei suicidi bombers di Hamas, instillano «seeds of hate against Israel».[37] Un press reports della Islamic Charity Association descrive una catena di montaggio di uomini e ragazzi palestinesi che impacchettano articoli di genere alimentare al suono della musica elogiativa di Hamas.
Questo tipo di materiale educativo prodotto da attivisti di Hamas mostra chiaramente come il gruppo terroristico cerchi di glorificare e idealizzare gli attentatori suicidi, spingendo i giovani a emularli e ad aderire alla causa della jihad violenta. Queste pratiche di propaganda sono estremamente pericolose e dannose, in quanto promuovono la violenza e l’odio anziché la pace e la tolleranza.
In base ad un sondaggio compiuto nella Striscia di Gaza dall’organizzazione norvegese FAFO nel settembre 2005, il 61% degli intervistati ha reputato necessari gli attentati contro i civili israeliani per ottenere concessioni politiche. Secondo un opinion poll condotto dal Palestinian Authority’s State Information Service, tra l’11 e il 13 giugno 2002, sia in Cisgiordania che nella Striscia di Gaza, l’81% del campione intervistato ha affermato di non essere d’accordo con l’opinione dell’ANP secondo la quale le operazioni di martirio sono atti terroristici. Inoltre, sempre in base allo stesso sondaggio, l’86% degli intervistati si è dichiarato a favore degli attacchi militari contro le truppe di occupazione israeliana e contro gli insediamenti ebrei all’interno dei territori palestinesi. Il 69% dei palestinesi crede che l’obiettivo cui sono finalizzate le operazioni di martirio, all’interno delle città israeliane, sia quello di porre fine all’occupazione, mentre il 13,4% ritiene che esso consista nell’indebolire il processo di pace e, infine, l’11,3% crede che gli attentati suicidi siano finalizzati a screditare l’ANP davanti alla comunità internazionale.
Il fondatore dell’Institute of Islamic Political Thought di Londra ha inoltre sottolineato come la nozione di suicide bomber sia stata estranea all’islam sunnita sino a quando essa non è stata impiegata in riferimento alla Palestina.
Nonostante la sua sacralità, secondo la religione islamica, la vita può essere sacrificata per porre fine ad ogni forma di oppressione. Il martire è colui che sacrifica la propria vita per una giusta e nobile causa, come ad esempio l’occupazione della terra rivendicata. Anziché essere ucciso dal nemico egli sceglie di ucciderlo, mettendo fine alla propria esistenza, essendo consapevole del fatto che solo questo gesto estremo gli consente di colpire l’oppressore.
Pertanto, il principale ruolo dei gruppi islamici di assistenza sociale sembrerebbe non essere quello di soddisfare le esigenze di una popolazione che vive sotto occupazione, ma piuttosto quello di sostenere azioni terroristiche. Queste azioni sono rese possibili grazie alla grande quantità di denaro e di armi che giungono ad Hamas soprattutto dall’Iran di Mahmud Ahmadinegad, il quale ha affermato, in un vertice tenutosi a Damasco pochi giorni prima delle elezioni palestinesi del 25 gennaio 2006, che «l’Iran rimane un saldo alleato del popolo palestinese e della sua giusta battaglia».[38]
- Hamas e le elezioni legislative del gennaio 2006
L’esito delle votazioni del 25 gennaio 2006, svoltesi in maniera del tutto regolare, ha colto di sorpresa non solo gli Stati Uniti, l’Unione Europea e la Federazione Russa ma anche gli stessi vincitori: Hamas ha ottenuto, infatti, 74 seggi su 132.
Secondo Thierry Le Roy il contesto politico in cui si sono svolte queste elezioni riflette un sistema bipartitico costituito dal movimento islamico Hamas e da quello laico Fatah, laddove il primo «recueille les votes qui correspondaient à l’opposition, alors sous-estimée, au «processus de paix» d‟Oslo; cette opposition est politique comme souvent l’islamisme, et nationale, ce qui demeure plus spécifiquement palestinien»[39].
L’OLP e l’ANP, dominati da Fatah, sono stati accusati di corruzione, nepotismo e inefficienza nel gestire gli affari del territorio palestinese. Inoltre, il fallimento dei negoziati di Camp David ha portato all’aumento del sentiment antisraeliano tra la popolazione, favorendo l’ascesa di Hamas che si presentava come un’alternativa più radicale e combattiva nei confronti di Israele.
I risultati delle elezioni del 2006 hanno quindi rappresentato la reazione dei palestinesi alla delusione per il mancato raggiungimento di uno stato indipendente e alle promesse non mantenute da parte di Fatah. Hamas ha ottenuto una significativa vittoria nelle elezioni, riflettendo il crescente sostegno alla sua linea politica e il desiderio dei palestinesi di un cambiamento significativo.
Tuttavia, è importante considerare che Hamas ha successivamente assunto un atteggiamento più combattivo nei confronti di Israele e la sua gestione autoritaria e la mancanza di progressi nella soluzione del conflitto israelo-palestinese hanno portato a una diminuzione del consenso popolare nei confronti di Hamas, che è stata contestata anche all’interno della società palestinese.
Le statistiche compiute dal sociologo Gilal Hilal hanno avuto come filo conduttore la tipologia di sostegno ai due principali movimenti politici, senza tuttavia trascurare il dato relativo alla categoria dei cosiddetti non-affiliati, nella quale rientrano sia gli indipendenti islamici, che quelli nazionalisti. I dati relativi al sostegno per regione hanno rivelato per Hamas una maggiore percentuale nella Striscia di Gaza, soprattutto in seguito al ritiro israeliano nell’agosto 2005, a differenza di Fatah che, sin dal 2004, ha conseguito il maggiore consenso in Cisgiordania.
Un’altra interessante osservazione è stata quella relativa all’età degli elettori: i più giovani hanno mostrato una maggiore propensione a sostenere Hamas, mentre gli anziani hanno preferito Fatah. Questo potrebbe essere dovuto alla differente storia e alle diverse narrazioni politiche dei due movimenti, che possono risuonare in modo diverso con le diverse generazioni.
Infine, le statistiche hanno mostrato che i non-affiliati sono una categoria importante da tenere in considerazione, in quanto potrebbero giocare un ruolo fondamentale nelle elezioni future. La loro scelta di non appoggiare né Hamas né Fatah potrebbe essere dovuta a una crescente insoddisfazione verso entrambi i movimenti e alle crescenti richieste di nuove alternative politiche.
In conclusione, le statistiche di Gilal Hilal hanno offerto uno spaccato interessante sul sostegno ai principali movimenti politici palestinesi, rivelando tendenze sorprendenti legate a genere, età e regione. Questi dati potrebbero essere utili per comprendere meglio il panorama politico palestinese e per prevedere possibili sviluppi futuri.
È emerso, altresì, che i settori più poveri della popolazione hanno sostenuto Hamas, a differenza della fascia dei redditi più alti che si è orientata verso Fatah. Inoltre, Hamas ha guadagnato consensi per la sua vicinanza alla popolazione, in particolare per il suo sostegno ai poveri e ai bisognosi attraverso programmi di assistenza sociale. Questo ha contribuito a migliorare l’immagine del movimento agli occhi dei palestinesi.
Infine, il confronto con Israele e la resistenza armata contro il controllo israeliano della Striscia di Gaza ha contribuito a consolidare il sostegno verso Hamas, che è visto come il principale attore nella lotta per l’indipendenza e la liberazione della Palestina.
La crescita di Hamas è legata soprattutto all’immagine di efficienza e di disciplina del movimento stesso, a differenza di Fatah. Questo ha portato alla percezione da parte della popolazione che Fatah sia corrotta e inefficiente, mentre Hamas è vista come un’alternativa più disciplinata e capace di garantire un ordine sociale più stabile.
Secondo alcuni analisti[40] una parte degli elettori avrebbe dato il proprio voto ad Hamas non per adesione ai suoi princìpi o in sostegno al suo programma elettorale, ma per esprimere la propria disapprovazione dell’attività politica condotta da Fatah, soprattutto in riferimento alle vicende di corruzione. Tuttavia, un gruppo non trascurabile di palestinesi non ha votato Hamas in quanto diffida della sua ideologia e, in particolar modo, del suo conservatorismo religioso. Infatti, i risultati elettorali rispecchiano una divisione della società civile in due principali correnti.
In seguito alla conquista della Striscia di Gaza, Hamas ha fatto ricorso alla violenza anche nei riguardi delle minoranze non musulmane, cristiane e greche-ortodosse, che per secoli hanno convissuto in pace con la maggioranza della popolazione di fede islamica. Uomini armati e mascherati hanno attaccato istituzioni religiose cristiane situate nella città di Gaza, tra cui la scuola delle suore del Rosario e la Chiesa latina, distruggendo croci e Bibbie. Il clima di tensione e violenza ha costretto molte famiglie cristiane a lasciare la Striscia di Gaza per cercare rifugio altrove. Questi attacchi hanno generato una profonda preoccupazione per la sicurezza delle minoranze religiose presenti nella regione e hanno sollevato interrogativi sulla capacità di Hamas di garantire la convivenza pacifica e il rispetto dei diritti umani di tutte le comunità religiose presenti sul territorio.
Le organizzazioni internazionali e i governi di diversi paesi hanno condannato fermamente questi attacchi e hanno chiesto ad Hamas di garantire la protezione e la libertà di culto per tutte le minoranze religiose presenti nella Striscia di Gaza. L’Unione Europea, ad esempio, ha espresso la sua preoccupazione per la situazione e ha sottolineato l’importanza di rispettare la libertà religiosa di tutte le comunità presenti nella regione.
Inoltre, risultano documentati alcuni casi di conversioni forzate all’Islam ad opera di gruppi radicali, oltre ad episodi di tensioni tra i cristiani e i musulmani di Gaza, anche se non sembrano aver suscitato alcuna reazione da parte delle istituzioni[41].
Amnesty International ha denunciato l’arresto illegale di un numero rilevante di membri di Fatah e dell’ANP da parte dell’executive Force, l’unità militare di Hamas schierata, a partire dall’aprile 2006, dall’ex-Ministro degli interni Sayyid Sayyam in supporto delle brigate al-Qassam. Secondo quanto riportato da una news agency palestinese, il leader dell’EF Gamal Garra ha sottolineato la necessità di proteggere il popolo palestinese dagli attacchi dei suoi nemici e ha difeso l’uso della tortura come strumento per garantire la sicurezza del paese. Tuttavia, molte organizzazioni per i diritti umani condannano fermamente l’uso della tortura e della violenza come mezzi per reprimere l’opposizione politica e chiedono che venga rispettata la dignità e l’integrità di tutti i prigionieri. La comunità internazionale è chiamata a monitorare attentamente la situazione e a intervenire per garantire il rispetto dei diritti umani nel territorio palestinese.
Può suscitare perplessità il fatto che i palestinesi che hanno lanciato pietre in segno di protesta contro alcuni uomini di Hamas siano stati arrestati e definiti «outlaws», mentre il lancio delle pietre contro gli israeliani, da parte di giovani palestinesi, durante le sommosse verificatesi nel 1987 e nel 2000, è stato definito da Hamas un atto di resistenza.
Salah al-Naeimi, in un articolo pubblicato sul giornale al-Sharq al-Awsat, intitolato «Hamas: A Lawless Authority», sostiene che Hamas ha instaurato un regime autoritario e corrotto, che reprime brutalmente ogni forma di dissenso e dissidenza.
Secondo l’autore, Hamas si è trasformato da un movimento di resistenza contro l’occupazione israeliana in un’autorità senza scrupoli, che governa con il pugno di ferro e viola i diritti umani dei propri cittadini. La popolazione di Gaza soffre a causa della mancanza di sicurezza, della precarietà economica e della perdita di dignità umana.
Al-Naeimi conclude il suo articolo esortando Hamas a rispettare lo stato di diritto e a garantire i diritti fondamentali dei suoi cittadini. L’autore sottolinea che solo attraverso il rispetto della legge e dei diritti umani sarà possibile garantire una vita dignitosa per la popolazione di Gaza e porre fine al regime autoritario e corrotto di Hamas.
- Hamas colpisce Israele: l’attacco del 7 ottobre
Con il suo recente e feroce attacco terroristico ad Israele, contro la popolazione civile e le forze armate, Hamas ha leso profondamente il già precario senso di unità vigente nel mondo arabo. L’America per conto suo deve contribuire a prevenire un conflitto più ampio che potrebbe scoppiare in tutta l’area mediorientale.
L’attacco su larga scala da parte di Hamas contro Israele, avvenuto la mattina del 7 ottobre, ha rappresentato un momento significativo che ha evidenziato le divisioni nel mondo intero, poiché ha rivelato i cambiamenti nei rapporti di potere e negli equilibri su scala globale. Agendo come uno “spoiler“, Hamas è riuscito a innescare un’escalation di violenza che ha minato gli equilibri emergenti nella regione, mettendo a repentaglio il processo di “normalizzazione” dei rapporti tra Israele e il mondo arabo in corso da alcuni anni, il quale si basa sull’integrazione economica, lo sviluppo infrastrutturale e che ha trovato espressione più evidente negli Accordi di Abramo e nei colloqui diplomatici per l’adesione dell’Arabia Saudita.
L’attacco di Hamas contro Israele è inedito per ampiezza, portata, coordinamento e danni causati, soprattutto in termini di perdite di vite umane. Era dalla guerra del 1973 che non si verificava un’offensiva simile. Per i servizi segreti si è trattato della peggiore sconfitta dai tempi della guerra dello Yom Kippur del 1973.
Non si tratta di miliziani ma di terroristi che hanno compiuto uno dei maggiori attacchi terroristici della Storia, secondo per numero di vittime solo a quello dell’11 settembre ma primo per numero di terroristi, di rapiti, di feriti, di dispersi e, se calcolato in proporzione agli abitanti del Paese colpito, anche (e di gran lunga) per numero di morti.
Dal punto di vista militare, i membri di Hamas hanno varcato la linea di confine fortificata con Israele in diversi punti dopo la preghiera dell’alba, conducendo attacchi via terra, aria e mare. Hanno preso di mira obiettivi tattici precisi, utilizzando diversi mezzi di infiltrazione nel territorio nemico e dimostrando una sorprendente capacità di coordinamento. Al momento non si sa nulla riguardo alle eventuali scorte di armi attualmente presenti nella Striscia di Gaza, né su come siano giunte fino a lì.
Sembra che l’attacco dell’organizzazione estremista e terroristica di Hamas allo stato ebraico abbia colto di sorpresa non solo il Mossad, l’agenzia di intelligence israeliana, ma anche il governo di Tel Aviv, accademici, personale diplomatico e parlamentari. Tuttavia, la realtà è che l’esplosività della situazione nella Striscia di Gaza (ma anche a Nablus, Betlemme, Gerico o Hebron) è stata sottovalutata da tutti.
È impossibile, allo stato attuale, prevedere cosa accadrà di preciso. Le reazioni delle diplomazie internazionali si dividono tra un incondizionato appoggio a Israele dal mondo occidentale, totalmente compatto e chi invece – Egitto, Russia, Paesi del Golfo – predica calma, prudenza e invita ad evitare escalation.
Le cause che hanno scatenato l’attacco sono probabilmente legate al tentativo di normalizzare i rapporti tra Israele e alcune nazioni, con l’Arabia Saudita in testa.
Tuttavia, ci devono essere anche altre ragioni legate all’Iran, che attribuisce la manovra destabilizzante a Hamas, strumentalizzando la causa palestinese, che costituisce la madre di tutte le battaglie. L’obiettivo di Teheran non è solo quello di distruggere gli Accordi di Abramo, ma anche di isolare Israele, che è impossibile da sconfiggere in quanto è l’unica potenza nativa con un arsenale nucleare; destabilizzare gli Stati Uniti presenti su diversi fronti; privare la Turchia della missione panislamica e acquisire visibilità e potere per ottenere l’egemonia dell’intera regione.
L’azione iniziata all’alba dai combattenti del partito fondamentalista palestinese solleva molti interrogativi sul futuro. Attualmente, nessuno può prevedere cosa potrebbe accadere: le diplomazie internazionali potrebbero essere in grado di intervenire affinché le parti accettino un cessate il fuoco. Oppure potrebbe essere l’inizio di una guerra prolungata che potrebbe restare circoscritta a Palestina e Israele, ma non è escluso che possa estendersi ad altre nazioni del Medio Oriente.
I governi dei paesi arabi si trovano in una situazione estremamente difficile da gestire. Infatti, diversi di essi avevano già concordato o stavano per redigere accordi di grande importanza e innovativi volti a normalizzare i rapporti politici e diplomatici con Israele, in particolare con i paesi vicini e con le nazioni partner nella pace da lungo tempo, come Giordania ed Egitto. Quest’ultimi hanno finora beneficiato, anche dal punto di vista economico, di relazioni diplomatiche e di sicurezza reciprocamente vantaggiose che hanno contribuito alla stabilità dell’intera regione. Allo stesso tempo, il sostegno alla causa palestinese è elevato tra le popolazioni arabe, e nel mezzo di una guerra che sembra destinata a causare massicce distruzioni a Gaza, i leader arabi devono in qualche modo seguire una linea di politica internazionale molto attenta e prudente per evitare di innescare una più grave reazione sia interna che diplomatica.
Nel frattempo, l’incerta Autorità Palestinese, a lungo al potere in Cisgiordania, sta affrontando sfide sempre più pressanti. Attualmente si trova di fronte alla reale possibilità che la Cisgiordania possa essere tragicamente coinvolta militarmente nella guerra di Hamas con Israele, mentre i combattimenti diventano sempre più cruenti a Gaza.
Un attacco simile è stato certamente pianificato a lungo. Ed è difficile immaginare che Hamas non abbia ricevuto sostegno esterno, non solo da gruppi legati alla jihad islamica.
La posizione diplomatica dell’Iran non lascia dubbi riguardo alla sua “approvazione”: il generale dei Guardiani della Rivoluzione Yahya Rahim-Safavi, citato dall’agenzia Isna, ha dichiarato di sostenere “con fierezza l’operazione palestinese”. Gli Hezbollah, in Libano, hanno reagito all’attacco lanciando a sua volta razzi contro Israele (il cui esercito ha risposto con bombardamenti aerei). Per non parlare degli attacchi delle milizie Huthi, gruppo yemenita, che mettono in repentaglio il traffico marittimo nel Canale di Suez. Gli Huthi hanno messo sotto pressione i Paesi, Europa compresa, che sostengono Israele e aprendo una pericolosa finestra di opportunità per i pirati somali.
- Conclusione
La richiesta del riconoscimento della causa nazionale palestinese e della creazione di uno Stato indipendente e sovrano tramite la lotta armata è stata avanzata dall’OLP circa vent’anni prima della nascita di Hamas. Il movimento fondato dallo shaykh Yasin è riuscito ad appropriarsene, attribuendole una connotazione religiosa ispirata ai dettami islamici e rivendicando il ricorso alla resistenza e alle operazioni di martirio.
Il richiamo all’elemento religioso ha permesso ad Hamas di sostenere la concezione della sacralità della terra di Palestina affidata alle generazioni islamiche sino al giorno del Giudizio, mentre l’uso della resistenza armata ha assunto il significato di diritto alla difesa contro l’occupazione e le operazioni militari israeliane. Dal canto loro gli israeliani si disinteressarono dell’attività assistenziale e religiosa svolta in quegli anni da Hamas, anzi esse furono guardate da loro favorevolmente, in quanto facevano concorrenza ai comitati giovanili controllati dai laici del partito di Fatah, che inizialmente esercitava l’egemonia politica. Sul piano politico Yassin, che la sua influenza politica e le numerose iniziative assistenziali del suo movimento potessero essere ostacolate dagli israeliani, inizialmente evitò di fare appelli espliciti alla resistenza armata contro Israele.
Con la partecipazione di Hamas all’Intifada la lotta per la liberazione della Palestina compie un salto di qualità. La leadership della lotta non è più nelle mani degli shebab che lanciano pietre, ma è ora guidata da carismatici leader convinti della giustezza della causa per cui combattono. Appartengono a una generazione che è stata “indottrinata” dai religiosi della fratellanza nei decenni passati e ora ottengono sostegno non solo da una parte della popolazione beneficiata in vari modi nei centri di assistenza, ma anche dalla borghesia religiosa, dai commercianti e da molti professionisti. Da questo momento in avanti Hamas assume il controllo, in luogo del Jihad Islamico che non ha seguito popolare, della lotta armata contro l’«occupante sionista», in una posizione di antagonismo, anche se non di lotta, con i laici dell’Olp, considerati dagli occidentali i soli rappresentanti della causa della liberazione della Palestina.
È fondamentale esaminare lo statuto dell’18 agosto 1988 per comprendere il programma ideologico-politico di Hamas. Da allora, molte cose sono cambiate all’interno del movimento: l’assunzione di responsabilità di governo nel 2006 ha portato a una riduzione o reinterpretazione di alcuni principi inizialmente sottolineati nella Carta e ampiamente utilizzati nella propaganda. Tuttavia, il testo rimane ancora oggi un punto di riferimento imprescindibile per chi desidera comprendere appieno la natura e il progetto politico di Hamas.
Secondo lo statuto la lotta per la liberazione della Palestina è obbligo religioso per «ogni musulmano, in qualunque Paese egli viva» (art. 14), perché la Palestina è terra sacra, «terra islamica affidata alle generazioni dell’islam fino al giudizio finale» (art. 11). Inoltre, come riportato dallo stesso articolo, la Palestina è una terra islamica che si estende dal fiume Giordano fino al Mar Mediterraneo, e nessuno ha il diritto “di disporre o cedere anche un singolo pezzo di essa”; coloro che lo faranno dovranno rendere conto davanti ad Allah nel giorno del giudizio. Basandosi su questo principio, Hamas rifiuta di partecipare a iniziative diplomatiche di pace o a conferenze internazionali che implicano la creazione o il riconoscimento di due Stati (uno ebraico e l’altro palestinese) sul sacro suolo dell’islam.
Fino a quando Hamas continuerà a credere di poter indebolire, o addirittura distruggere, lo Stato israeliano attraverso la resistenza armata, il conflitto perdurerà. Hamas ritiene che gli israeliani comprendano solo il linguaggio della forza e che i palestinesi siano soggetti a un’occupazione militare che richiede e giustifica una risposta equiparabile, rendendo pertanto la resistenza armata l’unico mezzo legittimo.
Centrali saranno le ulteriori azioni che potrebbe decidere di intraprendere l’Iran e centrale sarà la posizione dei Paesi arabi, che dopo l’attacco di Hamas, la pesante risposta militare israeliana e le recenti azioni iraniane, debbono trovare un equilibrio tra i loro sentimenti di vicinanza al popolo palestinese e la distanza dalle azioni di Hamas e dell’Iran: i sunniti non possono in questo momento schierarsi con i palestinesi della Striscia di Gaza perché troppo vicini agli sciiti!
La storia di questo conflitto ci ha mostrato l’inadeguatezza di qualunque strategia di pace che non è stata raggiunta né con le armi né tentando la strada dei negoziati. Si sono create e aggravate fratture sociali e culturali col susseguirsi di operazioni che tenevano in scarsa considerazione gli impatti devastanti che il conflitto ha avuto, e continua ad avere, sulla vita di donne, uomini e bambini.
La comunità internazionale ha tentato più volte di risolvere il conflitto tramite negoziati di pace e accordi diplomatici, ma finora con scarsi risultati. Le questioni fondamentali, come lo status di Gerusalemme, i confini di uno stato palestinese indipendente e la gestione dei rifugiati palestinesi, restano ancora irrisolte. In tutto questo, non va dimenticato che Hamas è un’organizzazione terroristica il cui obiettivo non è quello di perseguire un processo di pace, bensì la totale distruzione dello Stato di Israele. Inoltre, mentre la situazione in Medio Oriente si surriscalda, diverse organizzazioni terroristiche straniere hanno recentemente minacciato attacchi contro gli americani e l’Occidente. L’FBI teme che in diversi paesi possano verificarsi attacchi terroristici simili a quelli di Hamas contro Israele. Con queste parole il direttore del Federal Bureau of Investigation, Christopher Wray, si è rivolto alla Commissione per la Sicurezza Nazionale del Senato durante un’audizione sulle minacce mondiali alla sicurezza statunitense, commentando poi la situazione interna del paese: “La realtà è che la minaccia terroristica è stata elevata per tutto il 2023, ma la guerra in corso in Medio Oriente ha portato la minaccia di un attacco contro gli americani negli Stati Uniti a un livello completamente diverso[…] È un momento di preoccupazione. Siamo in un periodo pericoloso. Non è il momento di farsi prendere dal panico. Ma è un momento di vigilanza”. Queste preoccupazioni, come già abbiamo visto, riguardano tutto l’Occidente, Europa compresa.
La minaccia terroristica in Italia è considerata bassa, stando a quanto dichiarato dalle autorità competenti nei giorni successivi all’escalation militare in Medio Oriente, ma l’attenzione viene comunque mantenuta alta.
[1] Les Palestiniens entre l’OLP et Hamas , https://www.jstor.org/stable/24275706
[2] Laura Quadarella Sanfelice di Monteforte, “Vivere a Mosul con l’Islamic State. Efficienza e brutalità del Califfato”, Mursia, 2019.
[3] Le Hamas au pouvoir, Éditions Milan, 2006, p. 21.
[4] L’adozione di provvedimenti specifici (confisca delle terre e delle risorse naturali) da parte del governo israeliano, ha comportato lo spostamento di migliaia di palestinesi dalle zone rurali verso i campi profughi ed i centri urbani, a favore del movimento di resistenza islamica.
[5] Lo Statuto di Hamas, https://www.cesnur.org/2004/statuto_hamas.htm?fbclid=IwAR0oOre2NnYwGJlS4KN6EdTXApK8A6_4f3k-YPsUUg_HMdGChWkco-HR9LQ
[6] Ibidem
[7] L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP; in arabo منظمة التحرير الفلسطينية, Munaẓẓamat al-Taḥrīr al-Filasṭīniyya) è un’organizzazione politica palestinese, considerata dalla Lega araba, a partire dal 1974, la legittima «rappresentante del popolo palestinese.
[8] Il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina (FDLP) (in arabo الجبهة الديموقراطية لتحرير فلسطين, al-Jabha al-Dīmūqrāṭiyya li-Taḥrīr Filasṭīn), indicata come Fronte Democratico, è un’organizzazione politica e militare palestinese di ispirazione marxista-leninista.
[9] Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina o Fronte per la Liberazione della Palestina noto anche con l’acronimo FPLP o con quello inglese PFLP (in arabo الجبهة الشعبي لتحرير فلسطين, al-Ǧabha al-Šaʿbiyya li-Taḥrīr al-Falasṭīn), è un’organizzazione politica e militare palestinese di orientamento marxista.
[10] Sigla dell’Autorità nazionale palestinese, l’istituzione politica costituita nel 1994 in seguito agli accordi di pace tra l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) e il governo israeliano, con il compito di amministrare i territori gradualmente evacuati dagli israeliani.
[11] J. Kepel, Jihad, Roma, Carocci, 2001, p. 185 – https://www.lastampa.it/esteri/2023/10/31/news/gilles_kepel_se_israele_vuole_uscire_da_questa_crisi_deve_prima_sbarazzarsi_di_netanyahu-13820647/
[12] Intervista al prof. Vincent Lemin, RSI, https://www.rsi.ch/info/mondo/%E2%80%9CHamas-%C3%A8-antisemita-in-senso-stretto%E2%80%9D–1997788.html
[13] The Islamization of the Palestinian-Israeli Conflict, https://www.jstor.org/stable/4283922 .
[14] Cfr. R. Mitchell, The Society of the Muslim Brotherhood, Oxford, Oxford University Press, 1969, p
[15] The Anti-Semitism of Hamas, in Palestine-Israel Journal of Politics, Economics, and Culture, https://www.proquest.com/docview/235665117?sourcetype=Scholarly%20Journals .
[16] The Islamization of the Palestinian-Israeli Conflict , https://www.researchgate.net/publication/248951137_The_Islamization_of_the_Palestinian-Israeli_Conflict_The_Case_of_Hamas
[17] SJ Stedman, ‘Problemi spoiler nei processi di pace,’, in Sicurezza internazionale, vol. 22, n. 2 (1997), pag. 5
[18] A. Kydd, B. Walter, Sabotaging the Peace: The Politics of Extremist Violence, in “International Organization” 2012.
[19] Dying to win: the strategic logic of suicide terrorism
[20] M. Levitt, Hamas from cradle to grave, https://www.meforum.org/582/hamas-from-cradle-to-grave
[21] Ibidem
[22] Matthew Levitt, https://www.meforum.org/582/hamas-from-cradle-to-grave
[23] Ibidem
[24] ibidem
[25] J. Gunning, Peace with Hamas? The transforming potential of political participation, in “International Affairs”, https://onlinelibrary.wiley.com/doi/abs/10.1111/j.1468-2346.2004.00381.x
[26] M. Levitt, Hamas. Politics, Charity, and Terrorism in the Service of Jihad, https://www.washingtoninstitute.org/policy-analysis/hamas-politics-charity-and-terrorism-service-jihad
[27] Ibidem
[28] Ibidem
[29] C. Hours, Charity and Bombings: Hamas Gains Ground with Desperate Palestinians, Agence France-Presse, 15 agosto 2001.
[30] The Financial Sources of the Hamas Terror Organization, Israel Ministry of Foreign Affairs, 30 luglio 2003
[31] M. Levitt, Hamas. Politics…, cit., p. 121.
[32] Terrorism Against Democracy, https://www.files.ethz.ch/isn/189454/Terrorism%20Against%20Democracy%20-%20012115.pdf
[33] Hamas’s Use of Charitable Societies, https://www.imra.org.il/story.php?id=18342
[34] A. Hass, The Youngest Palestinian Under Arrest, in “Ha‟aretz”, 24 ottobre 2003
[35] M. Levitt, Hamas from cradle to grave, https://www.meforum.org/582/hamas-from-cradle-to-grave
[36] Ibidem
[37] L’uso dei bambini palestinesi nell’Intifada di Al-Aqsa
https://jcpa.org/article/the-use-of-palestinian-children-in-the-al-aqsa-intifada/
[38] M. Emiliani, Hamas alla prova del governo. La Palestina sull’orlo della guerra civile, Bologna, Il Ponte, 2007, p. 102
[39] T. Le Roy, Le vote ðamas: quoi de neuf ?, in “Revue d‟études palestiniennes”, n. 99, 2006, p. 15
[40] Fatah Struggles with Tainted Image, https://www.elgaronline.com/edcollchap/edcoll/9781786438010/9781786438010.00023.xml
[41] Gaza in crisis, https://www.academia.edu/49228032/Gaza_in_Crisis_by_Noam_Chomsky