Scarica il File in PDF – HORMUZ UNA STORIA SENZA FINE- Sanfelice – agosto 2018
HORMUZ. UNA STORIA SENZA FINE
Amm. Sq. Ferdinando SANFELICE di MONTEFORTE
AGOSTO 2018
Introduzione
Il Mediterraneo, nell’attuale guerra senza limiti che sconvolge tutta la metà occidentale dell’Asia, dalla Siria allo Yemen, all’Iraq, fino all’Afghanistan e al Pakistan, si è trovato a risentire non solo di contraccolpi interni, o di quelli alle sue porte, in particolare a Bab-el-Mandeb, ma purtroppo è esposto anche a ciò che di pericoloso accade in quelle aree, poste più ad est rispetto al Golfo di Aden, da sempre essenziali per il suo commercio.
Le recenti minacce, da parte dei massimi leader iraniani, di chiudere al traffico internazionale lo Stretto di Hormuz, “qualora le proprie esportazioni di petrolio fossero bloccate”[1] hanno infatti attirato nuovamente l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale sull’importanza di tale stretto, attraverso il quale transita una parte non certo trascurabile del commercio diretto o proveniente dal Mediterraneo.
Più in generale, sta crescendo la consapevolezza generale sulla vulnerabilità ad attacchi del commercio che attraversa Hormuz, come avveniva nei decenni scorsi, ma ci si rende conto anche che un’analoga situazione riguarda gli altri passaggi obbligati per il commercio internazionale marittimo.
Va infatti ricordato che i passaggi obbligati, nella Strategia Marittima, hanno sempre avuto un ruolo primario, dato che in questi tratti di mare è più facile a un Paese litoraneo attaccare i flussi di commercio oppure impedire il passaggio, con mezzi relativamente limitati, alle navi mercantili: solo una Marina avversaria, ben superiore alla propria, sarebbe in grado di opporsi.
Sul piano difensivo, per converso, Il cosiddetto “Choke Point Control” è ritenuto un approccio economico ed efficace per prevenire interruzioni, impedendo a qualche attore, statuale o meno, di disturbare i flussi commerciali e militari attraverso il passaggio. Ovviamente, i mezzi impiegati per tale approccio di prevenzione dovranno essere credibili, in grado quindi di respingere ogni aggressione.
Un’ulteriore conferma dell’importanza dei “Choke Points” per il commercio mondiale, a supporto di queste considerazioni, si è avuta da un recente studio della Chatam House, una tra le più prestigiose istituzioni britanniche, che segnala l’importanza e soprattutto la vulnerabilità dei “Choke Points” ai fini del commercio internazionale.
Lo studio, in particolare, evidenzia che: “Questi Choke Points sono esposti a tre categorie di rischi distruttivi. Anzitutto vi sono i rischi meteorologici e climatici, incluse le tempeste e gli allagamenti che potrebbero chiuderli temporaneamente, insieme al danneggiamento delle infrastrutture che ne riduce l’efficienza e le rende più vulnerabili agli eventi estremi.
Quindi i pericoli di sicurezza e quelli dovuti ai conflitti (che) possono derivare da guerre, instabilità politica, pirateria, crimine organizzato e/o dal terrorismo. Infine, la terza categoria di rischi è istituzionale, come una decisione da parte delle autorità (locali) di chiudere un Choke Point o di limitare il passaggio”[2] di merci.
Anche se lo studio si concentra sull’importanza dei Choke Points ai fini del commercio internazionale delle derrate alimentari, le osservazioni fatte sulla loro pericolosità sono di applicazione generale: basta dare uno sguardo a come si sviluppano i flussi del commercio marittimo per avere un’idea precisa di quanto importanti essi siano anche per noi Europei.
Il commercio marittimo internazionale che si svolge tra l’Asia e l’Europa meridionale può essere diviso in due flussi principali, che attraversano ambedue più di un passaggio obbligato. Il primo flusso si sviluppa attraverso gli arcipelaghi del Mar Cinese meridionale, per poi entrare nello Stretto di Malacca e sfociare di lì nell’Oceano Indiano, ed entrare quindi nel Mar Rosso attraverso lo Stretto di Bab-el-Mandeb, e accedere, finalmente al Mediterraneo attraverso il Canale di Suez.
L’altro flusso, che segue un percorso più breve ma non meno esposto è quello che dai Paesi del Golfo Persico, attraverso lo stretto di Hormuz, si raccorda al precedente vuoi per dirigere ad Ovest ed entrare nel “Mare Nostrum”, vuoi per prendere rotta verso Est verso l’Asia Sud-Orientale.
Come si può facilmente immaginare, quest’ultima rotta è utilizzata soprattutto dalle numerose petroliere che riforniscono di carburante, più che l’Europa, soprattutto la Cina e gli Stati del Continente americano, il che rende lo Stretto di Hormuz di importanza ancora più generale, sul piano internazionale, rispetto agli altri passaggi obbligati.
Il grido di allarme sulle minacce al libero transito attraverso i “Choke Points”, lanciato dalla Chatam House non poteva essere più tempestivo: non è passato neanche un anno dalla pubblicazione dello studio che la leadership iraniana ha minacciato, il 4 luglio scorso, di chiudere lo Stretto di Hormuz alle petroliere, qualora le esportazioni iraniane di petrolio fossero bloccate.
Questa dichiarazione non è solo una reazione al ritiro degli Stati Uniti dall’accordo raggiunto a Vienna il 14 luglio 2015 tra l’Iran, il P5+1[3] e l’Unione europea, ma costituisce una vera e propria minaccia di prendere in ostaggio il commercio internazionale, qualora la tensione con gli USA si approfondisse; per questo essa ha attirato ancora una volta l’attenzione del mondo su questo passaggio obbligato, già da decenni sotto osservazione.
Lo Stretto di Hormuz
Posto all’imboccatura del Golfo Persico, tra l’Oman e gli Emirati Arabi Uniti da un lato e la costa iraniana dall’altro, lo Stretto di Hormuz è largo 34 miglia marine (63 kilometri) ed è un passaggio sinuoso, che obbliga le navi che lo attraversano a un paio di cambiamenti di rotta, che ne limitano la velocità e le rendono più vulnerabili a eventuali attacchi. Oltretutto, proprio alla sua estremità settentrionale, si trova la base principale navale iraniana di Bandar Abbas, dove il grosso della flotta iraniana è normalmente ormeggiato.
Sul piano giuridico, lo Stretto è stato oggetto di contrastanti interpretazioni, da parte delle Nazioni interessate, in particolare l’Iran e gli Stati Uniti. Nel firmare la Convenzione Internazionale sul Diritto del Mare (UNCLOS) del 1982, nota anche come la Convenzione di Montego Bay, l’Iran infatti pose la riserva interpretativa secondo cui “appariva naturale che solo gli Stati parte della Convenzione abbiano titolo per beneficiare dei diritti contrattuali creati in essa. Tale considerazione riguarda specificatamente (ma non esclusivamente) il diritto di passaggio di transito attraverso gli Stretti usati dalla navigazione internazionale”[4].
Dato che gli Stati Uniti non avevano (e non hanno finora) ratificato la Convenzione, questa riserva da parte dell’Iran tendeva appunto escludere quest’ultima Nazione dall’uso senza restrizioni degli Stretti e, in particolare, di quello di Hormuz.
Ovviamente, gli Stati Uniti[5] respinsero tale riserva replicando, mediante un’apposita Nota Verbale, che, per quanto riguardava gli stretti, “i regimi di passaggio di transito, previsti dalla Convenzione, sono basati chiaramente dalla pratica abituale consolidata nel tempo, e riflettono l’equilibrio di diritti e interessi di tutti gli Stati, a prescindere dal fatto che essi abbiano firmato o ratificato la Convenzione”[6].
Questo contenzioso, apparentemente limitato agli esperti di Diritto Internazionale, era un riflesso dell’ostilità USA verso l’Iran, specie dopo la rivoluzione khomeinista del 1979, l’attacco all’Ambasciata americana di Teheran e il fallito tentativo, da parte delle forze speciali americane, con l’Operazione Eagle Claw, di liberare il proprio personale diplomatico, tenuto in ostaggio, il 24 aprile 1980.
Negli anni successivi i rapporti bilaterali rimasero caratterizzati da un’ostilità latente, fino a sfociare in un conflitto vero e proprio di lì a pochi anni, durante la guerra Iran-Iraq, con danni e perdite umane da ambo le parti.
Il primo “conflitto” tra USA e Iran
Nel corso della lunga guerra tra Iraq e Iran, durata dal 1980 al 1988, ambedue le parti, avendo riconosciuto l’impossibilità di conseguire una vittoria decisiva sul campo in tempi brevi, rivolsero i loro sforzi verso la guerra economica, cercando di impedire il traffico petroliero dell’avversario, la fonte principale di introiti in valuta pregiata, indispensabile per continuare a combattere. Ebbe così origine la “Tanker War” (Guerra delle Petroliere) che coinvolse inevitabilmente i Paesi terzi, specie quelli importatori di petrolio.
Fu in effetti l’Iraq a iniziare, attaccando con aerei armati di missili dapprima le petroliere che uscivano dal porto iraniano di Bandar Khomeini, il più settentrionale, e quindi, nel 1984, quelle che utilizzavano il terminale dell’isola di Kharg e il vicino porto di Bushehr.
A questo punto l’Iran decise di rispondere. Avendo l’esercito di Teheran distrutto già all’inizio della guerra i terminali petroliferi iracheni, posti molto vicino alla zona di guerra, l’Iraq aveva fatto ricorso al trasporto via terra del petrolio, costruendo un oleodotto che raggiungeva i terminali petroliferi del Kuwait.
Quindi, l’Iran, che aveva nel frattempo conquistato la penisola di al-Faw, all’estremo sud dell’Iraq, la utilizzò per attaccare, con missili costieri antinave di produzione cinese, il terminale kuwaitiano di Mina-al-Ahmadi, dove sostavano numerose petroliere, per caricare il petrolio iracheno.
Più a sud, nei pressi dello Stretto di Hormuz, l’attività delle forze iraniane si limitò ad attacchi da parte delle imbarcazioni veloci armate dai Pasdaran – i combattenti paramilitari iraniani – che disturbavano i mercantili di passaggio, finché il governo di Teheran non ordinò, per rendere più credibile la minaccia di un blocco dello Stretto, il posizionamento di altri missili costieri, anch’essi prodotti in Cina.
Il numero crescente di danni a petroliere di proprietà occidentale, sia pure battenti bandiera-ombra, fu tale da creare un serio problema politico in molti Paesi occidentali[7]; malgrado su questo punto le statistiche siano discordi, variando tra una stima minima di 340 e una, massima, di 451 petroliere colpite, a seconda delle fonti, si trattava comunque di numeri elevatissimi.
L’impatto di tali danneggiamenti fu però risentito soprattutto negli Stati Uniti, le cui grandi compagnie petrolifere possedevano un elevato numero di queste navi.
Non potendo scortare direttamente petroliere battenti bandiere diverse da quella USA, nel frattempo, le navi da guerra americane avevano iniziato un pattugliamento nel centro del Golfo Persico, per proteggere indirettamente il traffico mercantile diretto verso la sponda occidentale del Golfo.
Purtroppo, l’abitudine dei piloti iracheni di fidarsi fin troppo dei dati radar, soprattutto di notte, senza preoccuparsi di accertare il tipo e la nazionalità del bersaglio provocò l’attacco contro la fregata americana, la USS Stark, che fu colpita da missili aria-mare di produzione francese il 17 maggio 1987, e seriamente danneggiata, con pesanti perdite umane.
La reazione del governo di Washington fu moderata, tanto che ci si limitò ad accettare le scuse irachene, unite al fatto che il pilota, colpevole di questo attacco, era stato condannato a morte; i militari delle due parti, da quel momento, si concentrarono sull’elaborazione di procedure bilaterali atte ad evitare ulteriori incidenti.
Nel frattempo, il coinvolgimento di Paesi terzi da parte dell’Iran aumentava, insieme alla pressione nei confronti della Casa Bianca, sia da parte del governo del Kuwait, che chiedeva maggiore protezione per i propri terminali, sia da parte degli armatori americani.
Nel marzo 1987, il governo USA autorizzò il cambio di bandiera – da quella kuwaitiana a quella americana – per 11 petroliere, di proprietà USA, che da quel momento ebbero diritto ad essere scortate da unità da guerra della US Navy. Il primo convoglio ebbe luogo il 21-22 luglio 1987, seguito da altri a intervalli regolari, tanto che nell’anno si ebbero 23 convogli, per un totale di 56 petroliere scortate.
Questo ruolo americano più diretto nel contenere il conflitto fu visto come un’indebita ingerenza da parte iraniana, tanto che alcuni convogli furono disturbati, mentre transitavano attraverso lo Stretto di Hormuz, da imbarcazioni dei Pasdaran, dando origine a vivaci scambi di colpi.
La minaccia posta alle navi in transito attraverso Hormuz spinse il governo USA a un’altra mossa, che assomigliava sempre più a un coinvolgimento diretto nel conflitto tra Iraq e Iran, e precisamente la dislocazione, nel bel mezzo dello Stretto, di una corazzata classe Iowa. In effetti, queste, pur essendo ormai a fine vita, erano le uniche unità della US Navy in grado di assorbire con danni limitati l’impatto di un missile avversario, grazie alla loro corazzatura.
Negli stessi giorni, però, fu iniziato, sempre da parte iraniana, il minamento delle acque del Golfo Persico, e già il 24 luglio una delle petroliere che avevano assunto bandiera americana, la Bridgeton, fu danneggiata dallo scoppio di una mina, mentre navigava sotto scorta di navi da guerra USA. Il moltiplicarsi di questi incidenti spinse la US Navy a incrementare la sorveglianza, tanto che, il 21 settembre successivo venne localizzata, nel bel mezzo del Golfo, una piccola nave intenta a posare mine.
Prontamente attaccata da forze speciali eliportate, la nave risultò iraniana: si trattava, in effetti, della piccola nave da sbarco Iran Ajr e vi furono trovate a bordo 10 mine di produzione cinese ancora in attesa di essere posate sul fondo. Il mezzo fu catturato e rimorchiato verso le coste saudite, le mine vennero rimosse e il 26 settembre la nave venne affondata in acque internazionali.
Il 19 ottobre successivo, 6 cacciatorpedinieri americani attaccarono e distrussero a colpi di cannone la piattaforma petrolifera di Rashadat, ritenuta una base avanzata dei mezzi veloci dei Pasdaran, i quali, pochi giorni prima, avevano sparato contro un elicottero USA.
Queste reazioni americane, dei veri e propri atti di guerra, non fecero altro che intensificare l’attività iraniana di disturbo al traffico internazionale: continuarono infatti le schermaglie tra navi USA e mezzi dei Pasdaran nello Stretto e neanche i danneggiamenti di petroliere, per causa di mine, si ridussero, finché il 14 aprile 1988 la fregata americana USS Samuel B. Roberts , che scortava una petroliera, non si trovò in mezzo a un gruppo di mine affioranti e quindi ben visibili sulla superficie del mare, per un loro probabile malfunzionamento.
Sperando di sottrarsi a tale minaccia, l’unità fece “macchine indietro”, ma così facendo urtò un’altra mina che la danneggiò gravemente, tanto che fu solo grazie all’impegno e all’abilità dell’equipaggio e del suo comandante che la nave non affondò e poté essere riportata negli USA, sia pure a bordo di una nave mercantile, specializzata in recuperi marittimi.
Il governo di Washington ritenne che tale atto di aggressione dovesse essere punito. Il 18 aprile successivo, quindi, scattò l’Operazione Praying Mantis (Mantide Religiosa), che portò all’affondamento di una fregata iraniana e al danneggiamento di un’altra, nonché alla distruzione di una piattaforma e al danneggiamento di altre nei complessi petroliferi di Salman e Nasr, peraltro apparentemente prive di personale militare iraniano. Anche numerosi mezzi minori dei Pasdaran vennero affondati.
Queste azioni di guerra spinsero il governo di Teheran ad adire la Corte Internazionale di Giustizia, che vari anni dopo, il 6 novembre 2003, si pronunciò a sfavore degli Stati Uniti, con una motivazione ben chiara: “In quanto risposta al minamento, da parte di un’agenzia non identificata, di una singola nave da guerra degli Stati Uniti, che era stata danneggiata seriamente ma non affondata, e senza perdite umane, né l’Operazione Praying Mantis nel suo complesso, né quella sua parte che distrusse le piattaforme di Salman e Nasr, può essere considerata, date le circostanze del caso, come un uso proporzionato della forza in autodifesa”[8].
Mentre i negoziati per un armistizio tra l’Iran e l’Iraq, grazie alla mediazione dell’ONU, procedevano in modo positivo, tanto da concludersi con la firma delle parti il 20 agosto 1988, la US Navy continuava nella sua azione per proteggere il traffico mercantile internazionale da attacchi da parte dell’Iran, specie nello Stretto di Hormuz. Intanto, il 29 aprile il governo USA ampliò la missione dell’US Navy fino a comprendere la protezione di tutto il traffico mercantile neutrale, specie quello delle Nazioni amiche, al di fuori delle aree di esclusione.
Nello stesso periodo, però, Washington decise la sostituzione delle corazzate USA con moderni incrociatori antiaerei classe Ticonderoga. Le ragioni erano di tipo economico, per risparmiare sugli elevatissimi costi di esercizio delle corazzate, in servizio da molti decenni – il che poneva enormi sforzi per mantenerle efficienti – per non parlare del costo degli equipaggi di tali navi, decisamente numerosi, ma così facendo si soddisfaceva anche la necessità di compensare l’indisponibilità di aerei-radar (AWACS), a causa dei molteplici impegni di tale componente.
Si trattò, in effetti, di un errore, data la vulnerabilità di questi incrociatori ai missili antinave costieri, ma il tutto fu aggravato dal fatto che la prima unità della classe inviata nello Stretto di Hormuz era la più recente, il USS Vincennes, che aveva appena completato l’allestimento e l’addestramento preliminare. La maggior parte dell’equipaggio, infatti, non aveva esperienza di operazioni reali.
Il USS Vincennes arrivò in zona di operazioni il 29 giugno, e il 3 luglio si trovò impegnato in uno scambio di colpi con i mezzi veloci dei Pasdaran; durante questa azione, l’unità localizzò un velivolo che decollava dall’aeroporto di Bandar Abbas, dove si trovavano alcuni aerei iraniani da combattimento, ceduti anni prima dagli USA al governo dello Shah, gli F 14 Tomcat.
Il velivolo decollato, in realtà, era un AIRBUS A 300, diretto a Dubai con 290 civili a bordo, ma l’equipaggio del USS Vincennes temendo un attacco, reagì, lanciando due missili antiaerei che abbatterono l’aereo, causando la morte di tutti i passeggeri, incluso un cittadino italiano.
Questo incidente scalfì la reputazione degli Stati Uniti, tanto che il governo USA accettò di compensare ampiamente le vittime, pur non ammettendo, per anni, le proprie responsabilità, un atto che fu compiuto solo dall’Amministrazione CLINTON.
La tragedia, e il conseguente senso di colpa per averla provocata, ridimensionò, pur senza annullarlo, il risentimento dell’opinione pubblica americana per l’attacco all’Ambasciata USA a Teheran, durante la rivoluzione del 1979, aprendo così la strada a un lento, progressivo miglioramento delle relazioni bilaterali, una tendenza che però, anni dopo, avrebbe subito un’ulteriore battuta d’arresto, come vedremo.
Va ricordato che anche altre Marine occidentali, in questa fase, schierarono proprie unità nel Golfo Persico; tra queste vi fu la nostra Marina, che dislocò prima un Gruppo Navale tra il settembre 1987 e il settembre 1988, per proteggere i nostri mercantili, sotto coordinamento dell’allora UEO[9], e quindi dall’agosto 1990 al luglio 1991, per la bonifica delle acque del Golfo dalle mine posate dalla Marina irachena, durante l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq.
La disputa USA-Iran negli anni successivi
L’ostilità tra gli USA e l’Iran si riaccese quando, nel 1995, il governo di Washington impose un embargo al petrolio iraniano, da parte delle compagnie petrolifere americane; da allora, piccoli scontri ebbero luogo periodicamente, nelle acque dello Stretto, unite a sospetti di incursioni, da parte di forze speciali americane, in territorio iraniano, nel 2003.
Nel 2007, dopo il fallimento della politica di cauto riavvicinamento, praticata dal governo di Teheran, l’avvento al potere dei radicali, capeggiati da AHMADINEJAD, portò a nuove minacce di chiusura dello Stretto, insieme ad alcuni incidenti.
I primi due di questi ebbero luogo nel dicembre 2007, quando alcuni mezzi veloci dei Pasdaran avvicinarono lo USS Whidbey Island, una nave da sbarco, ma si ritirarono quando l’unità americana sparò alcuni colpi di avvertimento. Quindi, il 6 gennaio 2008, alcuni mezzi dei Pasdaran si avvicinarono a tre navi da guerra USA, un incrociatore, un caccia e una fregata, senza peraltro aprire il fuoco contro di esse.
Nel corso di quella crisi, il governo iraniano diffuse una serie di video in cui si mostravano numerosi lanci di razzi e di piccoli missili, per dimostrare la propria capacità di chiudere lo Stretto di Hormuz, in caso di aggressione da parte degli USA. L’analisi delle immagini, in realtà, mostrò che il video era una compilazione di lanci avvenuti in momenti e località diversi, e apparve subito agli esperti che tali armi erano ben lungi dall’essere una minaccia credibile.
Bisognò attendere il 2011, quando l’Iran svolse un’importante esercitazione, denominata Velayat-90, nelle acque del Golfo di Oman, nelle immediate adiacenze dello Stretto di Hormuz, per dimostrare di possedere la capacità di bloccare lo Stretto.
In un’intervista rilasciata in tale occasione, il capo della Marina Iraniana, l’Ammiraglio Habibollah SAYYARI, dichiarò che “chiudere lo Stretto di Hormuz, per le Forze Armate iraniane è veramente facile, o come si dice in Iran, è più facile che bere un bicchiere d’acqua”[10].
La reazione americana fu affidata a un comunicato della Quinta Flotta, all’epoca comandata dall’Ammiraglio Mark FOX, in cui si affermava che la forza “non avrebbe consentito alcuna interruzione al traffico nello Stretto di Hormuz”[11]. Non vi furono ulteriori episodi di tensione, dopo tale scambio di dichiarazioni, anche se, il 3 gennaio successivo, queste minacce vennero ripetute, da parte della leadership iraniana, in occasione dell’ingresso di una portaerei USA nel Golfo, anche questa volta senza che si verificasse alcun incidente.
Le valutazioni degli esperti, già all’epoca, erano però che l’Iran avrebbe potuto bloccare i transiti attraverso lo Stretto solo per alcuni giorni, fino all’inevitabile reazione americana.
Le minacce recenti
La decisione, da parte del governo di Washington, di ritirarsi dall’accordo sul nucleare iraniano, è stata seguita, nei mesi successivi, da pressioni USA intese a convincere alcuni Paesi di interrompere le importazioni di petrolio dall’Iran, finora con successo limitato.
Come osservato, in questi mesi, da un prestigioso Centro Studi americano, la Brookings Institution, “questa strategia unisce i due principi fondamentali della politica di TRUMP nel Medio Oriente: il convincimento che l’Iran è alle radici di tutte le crisi della regione e l’avversione a impegnare ulteriori vite o finanziamenti americani per migliorarle”[12].
Oltretutto, le pressioni USA, intese a provocare il collasso del regime fondamentalista iraniano, privandolo della sua fondamentale fonte di entrate, ben si sposavano con l’avvicinamento dell’Amministrazione americana alla “Galassia Sunnita”, e in particolare all’Arabia Saudita.
La reazione delle autorità iraniane non si è fatta attendere: il 3 luglio, il Presidente ROUHANI, in visita a Berna, al Forum per l’Innovazione e l’industria, ha dichiarato che:
“Gli Americani hanno affermato di voler interrompere completamente le esportazioni iraniane di petrolio. Essi non capiscono il significato di questa dichiarazione, in quanto non vi è alcun motivo per cui il petrolio iraniano non venga esportato, mentre il petrolio (del resto) della regione viene esportato”[13].
Il giorno successivo, a Vienna, il comandante delle Guardie Rivoluzionarie iraniane ha rafforzato il messaggio del suo Presidente, affermando che “le sue forze, che pattugliano lo Stretto di Hormuz – attraverso il quale passa un quinto del petrolio mondiale a mezzo di petroliere – erano pronte a mettere in pratica le dichiarazioni di ROUHANI”[14].
Il 21 luglio, la Guida Suprema iraniana, l’Ayatollah Ali KHAMENEI, a fronte delle reazioni internazionali, ha avallato pubblicamente quanto detto dal Presidente ROUHANI, affermando che “se il petrolio iraniano non verrà esportato, nessun petrolio della regione lo sarà”[15].
Queste minacce, per ora solo verbali, hanno spinto l’Amministrazione di Washington a un atteggiamento formalmente duro, ma unito a una certa qual flessibilità, tanto che il 1 agosto successivo il Presidente TRUMP si è dichiarato disposto a condurre negoziati bilaterali, senza condizioni preliminari, incontrando peraltro il rifiuto iraniano, motivato dalla scarsa affidabilità degli USA, che hanno rinnegato un impegno precedente.
Merita citare che, nel corso di questo scambio di dichiarazioni, alcune voci di dissenso si siano levate anche all’interno dell’Iran, mettendo in dubbio la fattibilità delle minacce dei leader iraniani. Infatti, “recentemente l’ex comandante marittimo delle Guardie Rivoluzionarie iraniane, il Maggior Generale Hossein ALAEJ, ha criticato queste minacce, affermando che (esse) non erano state ben analizzate, aggiungendo che l’Iran non è in grado di chiudere lo Stretto di Hormuz, ma l’America è capace di riaprirlo”[16] al traffico marittimo.
Nei giorni successivi, la polemica verbale è continuata, sugli stessi toni, un segno che le parti non hanno, al momento, intenzione di passare dalle parole ai fatti.
Conclusioni
Il rischio di un tentativo iraniano inteso a chiudere lo Stretto di Hormuz, o quantomeno di disturbarne il traffico, non è remoto: anche se questa sarebbe una misura disperata, il cui esito – come affermato dal generale ALAEJ – sarebbe un insuccesso, essa non va esclusa del tutto.
Le motivazioni dietro un tale gesto, da parte iraniana, non appaiono però legate solo alla volontà di reagire a un eventuale embargo, da ritenersi poco probabile, date le divergenze di interessi tra i Paesi occidentali, e la volontà della Cina di continuare a rifornirsi anche dall’Iran per soddisfare le proprie necessità energetiche.
Infatti, bisogna considerare che, prima o poi, i leader iraniani si troveranno nelle condizioni di tentare un’azione clamorosa, tipo la chiusura di Hormuz, dato il momento particolarmente difficile che stanno attraversando, nella guerra a tutto campo contro la “Galassia Sunnita”, che sta andando di male in peggio, sia in Siria sia, soprattutto, in Yemen, nel tentativo di rovesciare questa situazione sfavorevole.
Scartato quindi il rischio immediato di un blocco delle esportazioni iraniane di petrolio, data la posizione contraria da parte dell’UE e della Cina, che hanno deciso di resistere alle pressioni USA, rimane – e diventa ogni giorno più probabile – il rischio che l’Iran, messo com’è alle strette sul piano militare nei due teatri di conflitto, possa intraprendere almeno una serie di azioni di disturbo nello Stretto, per spingere la comunità internazionale a trovare un compromesso.
Qualora tale misura fosse attuata, però, sarebbe sicuro il coinvolgimento delle forze americane, allo scopo di garantire la libera circolazione dei mercantili attraverso lo Stretto di Hormuz: gli Stati Uniti lo hanno fatto già durante la guerra Iran-Iraq, tra il 1980 e il 1988, come si è visto, e lo faranno ancora.
Il risultato di un tale tipo di escalation sarebbe una sensibile levitazione del prezzo del petrolio, anche in caso di insuccesso iraniano, con un ulteriore impedimento alla fragile crescita delle economie europee, oltre a una loro crescente difficoltà di approvvigionamento di petrolio dal Golfo.
A questo punto, la domanda è: nel caso di un aggravamento della crisi di Hormuz, l’UE sarà capace di superare l’attuale situazione interna di profonda disunione, e schierarsi compatta, sostenendo gli sforzi della diplomazia con una decisa azione di protezione del proprio traffico mercantile, mediante l’invio di forze navali, come fatto nel passato dall’UEO, oppure continueremo a subire gli effetti dei contenziosi altrui senza reagire?
Sono anni che noi Europei siamo costretti a intervenire d’urgenza nel Golfo Persico e nella parte occidentale dell’Oceano Indiano, con buona pace di coloro che parlano di delimitare il “Mediterraneo Allargato”, ponendo limiti alla sua estensione. Dobbiamo capire che il Golfo Persico e, in particolare lo Stretto di Hormuz, sono vitali per la nostra sopravvivenza economica.
Quando (e se) la nostra opinione pubblica accetterà la realtà che la nostra area di interesse permanente non finisce a Suez, ma arriva fino al Golfo Persico, avremo finalmente acquisito una consapevolezza dei pericoli che incombono in quest’area e la inseriremo finalmente nelle nostre aree di possibile intervento, per stabilizzarla.
[1] Vds. REUTERS. Iran leader backs suggestion to block Gulf oil exports if own sales stopped, 21 giugno 2018 (https://uk.reuters.com/article/us-iran-nuclear-oil-khamenei/iran-leader-backs-suggestion-to-block-gulf-oil-exports-if-own-sales-stopped-idUKKBN1KB0EI )
[2] CHATAM HOUSE. Choke Points and Vulnerabilities in Global Food Trade. Giugno 2017, pag. 6 (https://www.chathamhouse.org/publication/chokepoints-vulnerabilities-global-food-trade ).
[3] Il P 5+1 comprende i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (Cina, Francia, Regno Unito, Russia, Stati Uniti) più la Germania.
[4] US DEPARTMENT OF STATE. Limits in the Seas. United States Response to Excessive national Maritime Claims. 9 March, 1992. Pag. 68. Il testo integrale delle riserve presentate dall’Iran è reperibile sul sito delle Nazioni Unite all’indirizzo https://treaties.un.org/pages/ViewDetailsIII.aspx?src=TREATY&mtdsg_no=XXI-6&chapter=21&Temp=mtdsg3&clang=_en#EndDec ( Interpretative declaration on the subject of straits
“In accordance with article 310 of the Convention on the Law of the Sea, the Government of the Islamic Republic of Iran seizes the opportunity at this solemn moment of signing the Convention, to place on the records its “understanding” in relation to certain provisions of the Convention. The main objective for submitting these declarations is the avoidance of eventual future interpretation of the following articles in a manner incompatible with the original intention and previous positions or in disharmony with national laws and regulations of the Islamic Republic of Iran. It is, . . . , the understanding of the Islamic Republic of Iran that:
1) Notwithstanding the intended character of the Convention being one of general application and of law making nature, certain of its provisions are merely product of quid pro quo which do not necessarily purport to codify the existing customs or established usage (practice) regarded as having an obligatory character. Therefore, it seems natural and in harmony with article 34 of the 1969 Vienna Convention on the Law of Treaties, that only states parties to the Law of the Sea Convention shall be entitled to benefit from the contractual rights created therein.
The above considerations pertain specifically (but not exclusively) to the following:
— The right of Transit passage through straits used for international navigation (Part III, Section 2, article 38).
— The notion of “Exclusive Economic Zone” (Part V). – All matters regarding the International Seabed Area and the Concept of “Common Heritage of mankind” (Part XI).
2) In the light of customary international law, the provisions of article 21, read in association with article 19 (on the Meaning of Innocent Passage) and article 25 (on the Rights of Protection of the Coastal States), recognize (though implicitly) the rights of the Coastal States to take measures to safeguard their security interests including the adoption of laws and regulations regarding, inter alia , the requirements of prior authorization for warships willing to exercise the right of innocent passage through the territorial sea.
3) The right referred to in article 125 regarding access to and from the sea and freedom of transit of Land-locked States is one which is derived from mutual agreement of States concerned based on the principle of reciprocity.
4) The provisions of article 70, regarding “Right of States with Special Geographical Characteristics” are without prejudice to the exclusive right of the Coastal States of enclosed and semi-enclosed maritime regions (such as the Persian Gulf and the Sea of Oman) with large population predominantly dependent upon relatively poor stocks of living resources of the same regions.
5) Islets situated in enclosed and semi-enclosed seas which potentially can sustain human habitation or economic life of their own, but due to climatic conditions, resource restriction or other limitations, have not yet been put to development, fall within the provisions of paragraph 2 of article 121 concerning “Regime of Islands”, and have, therefore, full effect in boundary delimitation of various maritime zones of the interested Coastal States.
Furthermore, with regard to “Compulsory Procedures Entailing Binding Decisions” the Government of the Islamic Republic of Iran, while fully endorsing the Concept of settlement of all international disputes by peaceful means, and recognizing the necessity and desirability of settling, in an atmosphere of mutual understanding and cooperation, issues relating to the interpretation and application of the Convention on the Law of the Sea, at this time will not pronounce on the choice of procedures pursuant to articles 287 and 298 and reserves its positions to be declared in due time.”).
[5] Gli Stati Uniti non essendo parte della Convenzione non poterono fare opposizione.
[6] US DEPARTMENT OF STATE. Limits in the Seas. United States Response to Excessive national Maritime Claims. 9 March, 1992. Pag. 68
[7] Va ricordato, tra gli altri episodi, l’abbordaggio, da parte dei Pasdaran, del mercantile italiano Jolly Rubino.
[8] INTERNATIONAL COURT OF JUSTICE. Report on Judgement. Case Concerning Oil Platforms, 6 November 2003, Art. 77. (https://www.icj-cij.org/en/case/90/judgments)
[9] L’Unione Europea Occidentale era un’organizzazione internazionale regionale di sicurezza militare e cooperazione politica, nata con il trattato di Bruxelles del 17 marzo 1948 e sciolta nel 2011, allorquando la sua funzione si ritenne superata anche alla luce del crescente ruolo dell’Unione Europea in campo di politica estera e di difesa.
[10] Vds. REUTERS. U.S. Fifth Fleet says won’t allow Hormuz disruption, 28 dicembre 2011, (www.reuters.com/article/us-iran-hormuz-closure-idUSTRE7BR09E20111228 )
[11] Ibid.
[12] S. MALONEY. Trump tightens the screws on Iran’s oil. Brookings Institution, Friday, 29 June 2018. (https://www.brookings.edu/blog/order-from-chaos/2018/06/29/trump-tightens-the-screws-on-irans-oil/ )
[13] S. KOLTROWITZ. Iran’s Rouhani hints at threat to neighbors’ exports. Reuters, 3 luglio 2018. (https://uk.reuters.com/article/us-iran-nuclear-usa-oil/irans-rouhani-hints-at-threat-to-neighbors-exports-if-oil-sales-halted-idUKKBN1JT0NB )
[14] S. DEHGHAN. Iran threatens to block Strait of Hormuz over US oil sanctions. The Guardian, 5 July 2018. (https://www.theguardian.com/world/2018/jul/05/iran-retaliate-us-oil-threats-eu-visit-hassan-rouhani-trump )
[15] REUTERS. Iran leader backs suggestion to block Gulf oil exports if own sales stopped. 21 luglio 2018. (https://www.reuters.com/article/us-iran-nuclear-oil-khamenei/iran-leader-backs-suggestion-to-block-gulf-oil-exports-if-own-sales-stopped-idUSKBN1KB0EI )
[16] AL ARABJA. Khamenei rejects talks with US, praises Rouhani threat to close Hormuz Strait. 21 luglio 2018. (http://english.alarabiya.net/en/News/middle-east/2018/07/21/Khamenei-rejects-talks-with-US-applauds-Rouhani-threat-to-close-Strait-of-Hormuz.html )