Scarica il file in PDF – tesi fresi APPROFONDIMENTI SUL TERRORISMO
I primi fermenti Jihadisti.
Storia di un’epoca senza fine
Gian Domenico Fresi
(tesi Master in “Analista del Medio Oriente”, Università degli Studi Niccolò Cusano UNICUSANO – a.a. 2018-2019 – relatore Prof. Laura Quadarella Sanfelice di Monteforte)
Introduzione
Capitolo 1 – Origini della militanza Islamica
1.1. Le origini del fenomeno
1.2. Matrici ideologiche
1.3. Capisaldi del messaggio jihadista
1.4. Differenze tra jihadismo e islamismo
Capitolo 2 – Globalizzazione della militanza jihadista
2.1. Gli anni 50 e la guerra fredda
2.2 L’impatto del conflitto Afghano
2.3 L’islamismo radicale
2.3.1 Jihad difensivo e Jihad offensivo
2.3.2 Il ruolo di Osama Bin Laden
Capitolo 3 – Lo jihad oggi
3.1 La nascita di al-Qaeda
3.2 Osama Bin Laden e Ayman al Zawahiri
3.3 L’Islamic State
3.3.1. La potenza dei media
3.4 Jihad e il nuovo terrorismo
3.4 Terrorismo islamico. Gilles Kepel e Olivier Roy. Due tesi a confronto
Conclusioni
Bibliografia
Introduzione
E’ opportuno premettere che con il termine jihadismo si fa tradizionalmente riferimento al macro fenomeno del fondamentalismo islamico, il quale attraverso una capillare organizzazione di soggetti e raggruppamenti promuove lo “jihad” contro tutti coloro che, a vario titolo, sono considerati infedeli[1].
Anticipando brevemente alcuni concetti che saranno oggetto di trattazione, quello della jihad rappresenta un elemento centrale dell’Islam. Dal punto di vista letterale può essere tradotto come “sforzo” (religioso, politico e militare), e coloro che in questo “sforzo” sono impegnati vengono identificati come “mujahidin”.
Il termine compare più volte nel Corano ed indica lo sforzo che il fedele deve compiere nell’agire secondo la volontà divina, ossia secondo il volere di Dio.
L’obiettivo della trattazione sarà quello di tracciare un quadro quanto più possibile dettagliato, benché sintetico, del fenomeno.
Al fine di agevolare il lettore nella comprensione del presente elaborato, si partirà da una analisi dapprima concettuale del macro fenomeno, anche attraverso il pensiero dei diversi studiosi che, a vario titolo, hanno contribuito alla formazione e rafforzamento del pensiero jihadista.
Si focalizzerà poi l’attenzione sugli avvenimenti storici che maggiormente ne hanno rafforzato portata e diffusione, sino ad arrivare ai giorni nostri ed all’attuale evoluzione del fenomeno.
Capitolo 1 – Origini della militanza Islamica
1.1. Le origini del fenomeno
Al fine di meglio comprendere compiutamente le origini della militanza islamica si rende necessario fare riferimento agli avvenimenti degli scorsi decenni, i quali hanno contribuito alla sua nascita e sviluppo.
Benché le radici della militanza islamica siano da ricercarsi in epoca antecedente, gli anni settanta sono di fatto maggiormente rappresentativi della ascesa del così detto “fondamentalismo islamico”.
Da una parte troviamo infatti il confronto e lo scontro con il mondo occidentale e dall’altro il venire meno delle ideologie post-coloniali mediorientali. Questo contesto di smarrimento e crisi intellettuale crea un vuoto che determina il ritorno all’Islam e da qui la sua progressiva radicalizzazione[2].
La matrice dell’islamismo moderno viene sovente ricondotta al movimento egiziano dei Fratelli Musulmani[3], fondato nel 1928 dall’egiziano Hasan al-Banna, con la finalità di ripristinare il califfato e tornare alla versione più antica dell’Islam.
Hasan al-Banna aveva studiato all’università di al-Azhar, avvicinandosi pian piano al movimento del salafismo riformista, che rivendicava un ritorno alla purezza dell’Islam.
Negli ambienti accademici il termine salafismo indica una corrente di pensiero estremista che predicava il ritorno alla tradizione: i salafisti possono dunque essere definiti come gli integralisti dell’Islam che respingono aprioristicamente ogni innovazione[4].
Hasan al-Banna partecipa a diverse manifestazioni di protesta, disgustato dall’abbandono della fede e dall’occidentalizzazione presente nella capitale egiziana.
L’uccisione del presidente egiziano Anwar Sadat, giudicato miscredente, fu l’inizio della “guerra contro il nemico vicino”, ossia contro le autorità locali con il fine ultimo di instaurare un Stato che fosse realmente Islamico.
1.2 Matrici ideologiche
Tra i più importanti ispiratori del pensiero musulmano merita nota Abudullah Azzam ed il suo slogan: “il jihad e il fucile e nient’altro: niente negoziati, niente conferenze e niente dialoghi”.
Palestinese, nato nel 1941 nel villaggio di Seleet al Hartiyeh, vicino a Jenin, in Cisgiordania, è considerato uno dei padri della jihad moderna. La presenza nel regno e la sua autorevolezza intellettuale gli hanno permesso di farsi un nome tra i sostenitori della jihad. È lui a fondare agli inizi degli anni Ottanta a Peshawar, in Pakistan, il Bayt al Ansar (l’ufficio di servizio ai mujaheddin), che diventerà un formidabile strumento per reclutare, accogliere e distribuire i volontari musulmani.
Il suo nome è citato in centinaia di messaggi Internet così come i suoi testi sono seguiti alla stregua di precetti religiosi, e lo stesso Bin Laden l’ha usato come una bandiera[5].
Come più approfonditamente si esaminerà nel paragrafo che segue, secondo il suo pensiero, ogni mussulmano doveva impegnarsi per scacciare gli infedeli [6].
Altra figura di forte rilievo fu quella di Sayyid Qutb, importante ideologo che aveva fortemente influenzato i militanti egiziani degli anni settanta.
Nei suoi numerosi scritti, fonte di ispirazione non solo dei militanti musulmani[7] degli anni settanta ma altresì di quelli dei decenni successivi, egli rilevava che il mondo musulmano versava in uno stato di decadenza, morale e socio-economica: era per questo necessario un colpo di stato, un’inversione di rotta.
Per Qutb la sottomissione a Dio rappresenta il rifiuto di ogni altro padrone terreno e umano: “il mondo e l’uomo stesso appartengono a Dio e dunque in assoluto a nessun uomo”[8].
E’ proprio con le ideologie di Sayyid Qutb che inizia a delinearsi la distinzione tra il “nemico vicino” e il “nemico lontano”. Il primo era considerato l’invasore nel proprio territorio ed altresì le diverse autorità e i sovrani miscredenti. Il secondo comprendeva tutti gli stati “nemici”, potenzialmente pericolosi per lo stato islamico e che dovevano pertanto essere combattuti[9].
Come si avrà modo di rilevare nel prosieguo della trattazione, la strategia jihadista nasce inizialmente con la finalità di combattere il nemico vicino, che a quel tempo era considerato il regime egiziano.
Solo successivamente si evolse in chiave globale, tipica di al-Qaida.
1.3 Capisaldi del messaggio jihadista
Come anticipato, Abdallah Azzam è considerato uno dei due fondatori e capi dell’islamismo estremista[10]. Il secondo fondatore era il saudita Osama Bin Laden.
Azzam fu un’importante pedina nella organizzazione della guerra arabo – afgana (vedi cap.2) ed in qualche modo fu la guida, l’ispirazione ed il maestro di Bin Laden.
La dottrina di Azzam si articolava in tre punti fondamentali:
l’interpretazione del concetto di jihad (inteso come sforzo e impegno) strettamente legato al concetto di lotta armata;
la necessità di liberare le terre islamiche dagli invasori e colonizzatori (vedi l’Afghanistan , la Palestina e la Cecenia) e di instaurare su queste un vero e proprio regime islamico privo da ogni possibile contaminazione;
la necessità di iniziare a combattere quello che egli definiva “il nemico lontano”, ossia l’Occidente e gli Stati Uniti [11].
Azzam sosteneva altresì la necessita di imporre la religione mussulmana a tutti i non credenti o a quelli che egli definiva “falsi credenti”. La conversione doveva essere raggiunta con ogni mezzo ed era, a tale fine, lecita l’uccisione.
Quando, nel 1979, l’Unione Sovietica invase l’Afghanistan, da buon militante e teorico islamico, emise una fatwa (editto) dal nome “Difesa delle Terre Islamiche, il primo dovere secondo la Legge”.
In tale editto, egli professava l’obbligo personale per tutti i musulmani alla partecipazione alla lotta afgana e palestinese per la libertà; spiegava che il jihad non doveva limitarsi a quello difensivo ma che doveva essere anche offensivo[12].
Da una parte quindi la difesa delle proprie terre (una difesa che era obbligatoria per tutti maschi musulmani di età militare) finalizzata all’espulsione dello straniero, dall’altra l’attacco al nemico sul suo territorio.
Azzam, non era solo un grande studioso ma altresì un militante attivo.
Non a caso egli sosteneva che: “La vita della umma (comunità di tutti i musulmani) dipende unicamente dall’inchiostro dei suoi studiosi e dal sangue dei suoi martiri. Nulla è più bello che scrivere la storia della umma con l’inchiostro di uno studioso e con il suo sangue. E ancora qualcosa di più bello è quando il sangue e la penna sono uno, sicché la mano dello studioso che impiega e muove la penna è la stessa mano che impiega il suo sangue[13].
Azzam aveva dunque come finalità quella di “creare” guerrieri che fossero altresì uomini di cultura, così come era egli stesso.
Il suo contributo nella guerra per la liberazione del popolo musulmano può pertanto considerarsi non solo teorico, attraverso le sue opere, ma altresì pratico nella veste di guerrigliero attivo.
1.4 Differenze tra jihadismo e islamismo
Nel linguaggio comune, spesso i termini jihadismo e islamismo vengono usati, impropriamente, come sinonimi.
Impropriamente perché, nonostante entrambi i concetti trovino il loro fondamento e loro radice nella religione, questi hanno una evoluzione e portata nettamente differente: uno è infatti di natura politica, l’altro essenzialmente militare.
Al fine di meglio comprendere il significato del termine Jihad è necessario partire dall’analisi etimologica dello stesso.
Il termine racchiude in se diversi significati, entrambi fortemente legati allo “sforzo”: da una parte lo sforzo fisico, dall’altro lo sforzo intellettuale, quest’ultimo inteso come miglioramento religioso e spirituale.
Questo “sforzo” è stato anche interpretato come impegno strettamente politico e da qui il collegamento implicito o esplicito alle diverse forme di militanza politica, la c.d. “militanza islamica” delle azioni militari volte all’espansione dell’Islam.
Per completezza argomentativa appare opportuno rilevare come nel tempo sia invalsa una distinzione tra “grande jihad” e “piccolo jihad” : il primo indicherebbe lo sforzo interiore, il secondo lo sforzo bellico, difensivo o offensivo[14].
Da qui deriva l’identificazione, il più delle volte impropria , dello jihadismo con l’espressione “guerra santa”.
Capitolo 2 – Globalizzazione della militanza jihadista
2.1. Gli anni 50 e la guerra fredda
All’indomani della Seconda guerra mondiale la rivalità tra le grandi potenze non era cessata.
Aver vinto la Seconda guerra mondiale non aveva portato ai vincitori alcun senso di sicurezza. Alla fine degli anni 50, né gli Stati Uniti né l’Unione Sovietica né la Gran Bretagna potevano infatti concludere che le vite umane e le risorse sacrificate per sconfiggere la Germania e il Giappone gli avessero resi più sicuri: “i membri della Grande Alleanza erano ormai avversari nella guerra fredda”[15] .
Le super potenze erano ora più che mai nemiche e disponevano degli strumenti per eliminarsi a vicenda: in particolare l’Unione sovietica e gli Stati Uniti rivendicavano una posizione di parità negli armamenti nucleari.
Ciò che parallelamente emergeva era la probabilità ed il rischio di un conflitto nucleare su vasta scala, così potente da poter essere considerato un vero e proprio suicidio. Entrambe le potenze però sapevano bene che ogni ipotetico ed eventuale conflitto avrebbe avuto quale esito necessario ed inevitabile l’olocausto globale della “mutua distruzione assicurata” (Mad)[16].
La Mad avrebbe pertanto agito da deterrente[17].
Un periodo di distensione tra le superpotenze si intravide a partire dalla fine del 1969, grazie a degli accordi concreti i SALT (Strategic Army Limitation Talks), negoziati per la limitazione delle armi strategiche, la cui finalità era limitare la corsa agli armamenti nucleari e scongiurare così ogni possibile epilogo infausto. Tali accordi fissavano il numero massimo dei missili balistici intercontinentali e di quelli in dotazione a sommergibili di cui ognuna delle parti poteva disporre.
L’inizio della sequenza di eventi che portò all’invasione dell’Afghanistan può essere fatto risalire a uno di questi accordi ed in particolare a quello raggiunto durante il vertice di Mosca del 1972. In una dichiarazione congiunta, Nixon e Breznev promisero che ognuno dei due paesi avrebbe evitato tentativi di ottenere vantaggi unilaterali a spese dell’altro, così da garantire la stessa stabilità (con il senno del poi più apparente che reale) che ormai caratterizzava i rapporti tra le superpotenze nell’Asia, nel Medio Oriente, nell’Africa e nell’America latina[18].
Mosca e Washington avrebbero pertanto dovuto ignorare qualsiasi opportunità si fosse loro presentata per modificare lo status quo nelle aree del Terzo Mondo.
Ben presto però fu chiaro che i principi fondamentali di detto accordo non dovevano essere interpretati letteralmente.
Nell’aprile del 1978 infatti, in Afghanistan un colpo di stato marxista rovesciò il governo filoamericano in carica.
La tentazione di sfruttare la situazione era troppo grande per poter resistere e nel giro di poco tempo l’Unione Sovietica stava già inviando aiuti al nuovo regime filosovietico di Kabul.
I russi avevano infatti sempre mantenuto un vivo interesse nei confronti dell’Afghanistan, un paese con cui condivideva oltre 2.000 chilometri di frontiera e che da un punto di vista strettamente geografico metteva i sovietici in una posizione migliore per marciare verso sud[19].
2.2 L’impatto del conflitto Afghano
L’occupazione Sovietica è storicamente considerata uno dei fattori determinanti nella “globalizzazione” della militanza jihadista.[20]
La prevedibile resistenza del popolo Afghano contro l’invasione da parte dell’URSS del 1979 veniva identificata come una missione sacra, una resistenza contro lo straniero, la cui occupazione veniva letta come una “invasione del territorio dell’islam da parte degli infedeli”, provocando malcontenti e diverse rivolte interne: “una reazione a difesa dell’identità contro l’opera di smantellamento culturale intrapresa dai comunisti”[21], i quali, preso il potere nel 1978 con un colpo di stato, firmarono un trattato di pace con l’Unione Sovietica, che mirava a riformare il Paese dal punto di vista della politica agraria, di alfabetizzazione e diffusione del socialismo .
L’invasione, da una parte venne interpretata come un atto di prevaricazione che giustificava la difesa, dall’altra come il pretesto per combattere in nome di un Islam “puro” il principale nemico ateo: il comunismo.
Nella guerra contro lo straniero invasore, ai guerriglieri locali si affiancarono migliaia di combattenti stranieri, i mujahidin, provenienti dai diversi Paesi Musulmani.
Appare opportuno sottolineare che i guerriglieri afghani erano generosamente foraggiati dagli americani che a partire dalla II Guerra Mondiale si contendevano con la Russia il controllo della politica mondiale.
L’invasione si inquadrava infatti nella cornice della Guerra Fredda tra le due allora super potenze, URSS e USA, in un territorio che era storicamente crocevia di due grandi direttrici: la “via della seta” (dal mediterraneo e dal Golfo Persico verso la Cina) ed il “Passo Khyber” (il corridoio tra Pakistan e Afghanistan, via di accesso dall’Asia Centrale all’India: la via che collegava l’Europa e la Russia all’India).
Ricordiamo infatti brevemente i più salienti avvenimenti che negli anni Settanta mutarono gli equilibri mondiali[22]:
– l’India dichiara guerra al Pakistan in favore dell’indipendenza della parte orientale del paese (quello che sarà il futuro Bangladesh);
– Il Pakistan si trova stretto in una morsa: ad Est l’India, ad Ovest l’URSS e cerca quindi di controllare l’Afghanistan per scongiurare che anche questo diventi russo;
– L’Unione Sovietica a sua volta in politica estera era tagliata fuori: a Ovest per la chiusura europea a seguito della definizione del Sistema Monetario Europeo[23], a Est per via dei nuovi rapporti con gli Stati Uniti d’America e il Trattato sino-giapponese del 1978. L’unico sbocco per la politica estera russa era a sud: l’Afghanistan.
Appare opportuno rammentare che l’Afghanistan fu governato fino agli anni settanta da un sistema feudale nel quale il 75% delle terre era di proprietà del 3% della popolazione. Proprio negli anni settanta, le forze oppositrici di quel regime feudale formarono il Partito Democratico Popolare Afghano (PDPA), riuscendo a forzare la caduta della monarchia nel 1973, per poi arrivare al governo nel 1978.
Il PDPA, una volta al governo si fece promotore di diverse riforme: la legalizzazione dei sindacati, l’istituzione di un salario minimo, una campagna di alfabetizzazione e riforme nell’area sanitaria. Favorì altresì una emancipazione delle donne, aprendo loro un’educazione pubblica e agevolandole nel mercato del lavoro, dell’università, addirittura dando loro dei posti di governo.
Il PDPA eliminò anche le coltivazioni di oppio, laddove sino a quel momento l’Afghanistan produceva il 70% dell’oppio impiegato per la produzione dell’eroina.
E’ chiaro che tutte queste riforme incontravano l’opposizione di quei soggetti che da queste venivano fortemente danneggiati e tra questi i proprietari terrieri (che sfruttavano l’agricoltura ed altresì i lavoratori), i leader religiosi, fortemente contrari all’ emancipazione della donna e i trafficanti di oppio.
Le forze estremiste e fondamentaliste Afghane, finanziate dal governo federale degli USA cercavano pertanto di boicottare le riforme del PDPA. L’opposizione del governo dell’USA era diretta prevalentemente alla nazionalizzazione della terra e a tutti i cambiamenti in contrasto con il sistema federale.
Ciò di cui il governo degli Stati Uniti aveva, in quegli anni, paura era l’espansione dell’Unione Sovietica la quale collaborava con il PDPA.
La preoccupazione dell’USA non era tanto il popolo Afghano ma l’influenza dell’Unione Sovietica nel mondo, a costo di appoggiare una delle forze più retrograde nel mondo, come i fondamentalisti islamici afghani.
“L’orgoglio Afghano era stato profondamente ferito e questo avrebbe stimolato la naturale xenofobia di quel popolo indomito, consapevole del fatto che, fin dai secoli passati, chi veniva da lontano nel loro paese era un nemico che cercava di dominarlo e quindi era una conseguenza di sofferenze e lutti”[24]
Non ci si può a questo punto esimere da una riflessione strettamente personale.
Il PDPA a quel tempo stava cercando di attuare delle politiche di cui il paese aveva veramente bisogno. Se si fosse permesso a queste (innovative) politiche di trovare attuazione la storia avrebbe seguito altre direzioni: non ci sarebbe stata l’invasione sovietica in Afghanistan, non ci sarebbe stato Bin Laden, Al-Qaeda e probabilmente tutto il male che ne è scaturito.
2.3 L’islamismo radicale
2.3.1 Jihad difensivo e Jihad offensivo
Dei numerosi inviti alla lotta cruenta contro gli infedeli è possibile trovare ampia traccia tra le pagine del Corano. Tra questi, un passo molto importante recita: <<Combattere per la causa di Allah contro coloro che vi combattono, ma senza eccessi, che Allah non ama coloro che eccedono. Uccideteli ovunque li incontriate, scacciateli da dove vi hanno scacciato. Ma non attaccateli vicino alla santa Moschea fino a che essi non vi abbiano aggrediti. Se vi assalgono uccideteli (Cor. II,190-191)>>.
In questo passo si parla di guerra difensiva: i musulmani vengono invitati a rioccupare le terre che sono state loro sottratte e a rispondere alle aggressioni. In caso di difesa tutti devono combattere ed anche i bambini e le donne devono dare il loro contributo attraverso operazioni di supporto o di disturbo nei confronti del nemico.
Ma lo jihad non è solo difensivo.
Nello stesso Corano si parla infatti anche di “guerra offensiva” rinvenibile in tutte quelle ipotesi che esulano e vanno oltre le legittime situazioni di difesa del popolo musulmano: <<Combatteteli finché non vi sia più politeismo e la religione sia tutta per Allah (..). Combattete coloro che non credono in Allah e nell’Ultimo Giorno, che non vietano quello che Allah e il suo Messaggero hanno vietato, e quelli, tra la gente della scrittura, che non scelgono la religione della verità, finché non versino umilmente il tributo, e siano soggiogati>> (Cor. IX,29).
La guerra diventa dunque uno strumento per ottenere il dominio sugli altri popoli .
Va osservato che il Corano da una parte legittima il ricorso alla forza al solo fine di una lecita difesa e dall’altra invece promuove una politica di invasione dello straniero con ogni mezzo e in ogni luogo.
Siffatte posizioni sembrano a ben vedere contrastanti ed antitetiche; la comprensione del fondamento della dottrina mussulmana, del richiamo a sanguinose lotte e invasioni in nome di un Profeta che è un Dio “giusto” rimane peraltro, a parere dello scrivente e senza giudizio alcuno, una contraddizione in termini difficilmente superabile.
E’ possibile affermare che l’idea di uno jihad offensivo nasca parallelamente alla diffusione del salafismo e delle idee radicali del movimento, le quali erano sempre più protese verso la proclamazione dello stato islamico che doveva necessariamente passare attraverso un’offensiva indiscriminata e diffusa[25].
Nei secoli si è infatti mantenuta viva la convinzione che la guerra per essere lecita dovesse essere proclamata dal Califfo e che potesse intervenire solo successivamente ad un chiaro invito, non accolto, di conversione; non era viceversa necessaria alcuna autorizzazione o invito esplicitò alla conversione in caso di risposta armata ad una attacco subìto, indipendentemente dai costi che questo aveva.
Per comprendere la portata di questo pensiero è sufficiente pensare alla questione palestinese e all’attacco all’Afghanistan da parte dell’Unione Sovietica nel 1979: tutto veniva considerato legittimo e la morte in guerra rendeva il soldato un “martire” al quale era garantito l’accesso al Paradiso ed un posto privilegiato. Ciò che veniva in risalto erano le intenzioni intime del militante: solo chi combatteva con le giuste intenzioni (e dunque per la vittoria del Profeta Allah) avrebbero avuto accesso al compenso promesso.
Quanto altresì rileva, e merita menzione, è che i jihadisti non parlano mai di suicidio, anche laddove questo venga concretamente incarnato in un sacrificio personale a favore di una esaltazione della religione; essi, ora come allora, parlano sempre di martirio.
Relativamente a tale ultima circostanza non può che rilevarsi, a parere dello scrivente, una certa forzatura interpretativa quasi a voler considerare legittima e consolatoria una morte che, descritta ed interpretata come martirio anche quando martirio non è, costituisce l’unica via per l’auspicata salvezza acclamata nel Corano.
2.3.2 Il ruolo di Osama Bin Laden
Diciassettesimo di cinquantuno figli, nasce nel 1957 in Arabia Saudita, dall’imprenditore e grande uomo d’affari Muhammad Bin Laden, un povero muratore che negli anni ’30 emigrò dalla regione yemenita dell’Hadramaut in Arabia Saudita dove, entrato nelle grazie della famiglia reale, nel giro di pochi decenni creò un potente gruppo economico-finanziario che attualmente spazia dalle imprese di costruzioni al petrolio, dalle banche ai servizi di comunicazione, e che viene considerato il terzo gruppo economico-familiare più ricco del regno. Mohammed morì nel 1968 in un incidente aereo nei cieli degli Usa, lasciando ai figli una fortuna personale stimata in undici miliardi di dollari.
Un particolare inquietante e singolare è che anche Salem, fratello di Osama e socio in affari petroliferi con la famiglia del presidente Bush, morirà a causa di un incidente aereo negli Usa.
Grazie al patrimonio e alle ricchezze altolocate, I fratelli Bin Laden crebbero, ricchi e spensierati, a stretto contatto con i principi di casa reale, frequentando le migliori scuole e gli ambienti più rinomati della finanza e del jet set occidentali[26].
Osama Bin Laden iniziò gli studi universitari in ambito aziendale per poi abbracciare i principi del radicalismo islamico.
Durante il suo percorso accademico, peraltro mai portato a compimento, egli conobbe infatti il professore Shayk Abdullah Azzam[27], un uomo dotato di forte carisma, fortemente legato alle correnti fondamentaliste, che divenne presto il suo maestro spirituale.
Furono proprio Azzam e a Bin Laden che fondarono il MAK (Maktab al-KhidamatI), un’organizzazione con il compito di raccogliere i fondi e reclutare mujahidin nella guerriglia in Afghanistan contro l’invasione dell’Unione Sovietica.
Il MAK era una organizzazione capillare che raccoglieva donazioni dai musulmani che venivano poi saccentemente investiti nella guerra[28]; manteneva stretti rapporti con il servizi segreti Pakistani, tramite i quali anche la stessa CIA inviava denaro ai mujahidin afghani.
Fu proprio grazie al forte sostegno da parte della CIA che divenne possibile l’instaurazione in Afghanistan, ad opera di Osama Bin Laden, di una roccaforte poco distante dal confine Pakistano: il “tunnel di Khost”, un immenso centro di addestramento e deposito armi che, per la sua posizione strategica, era considerato il quartier generale della brigata internazionale Islamica.
Quanto alla sua popolarità, non può non rilevarsi come Osama Bin Laden, parallelamente al conseguimento del suo obiettivo di creare una vera rete internazionale terroristica, divenne un’icona e una figura di forte rilievo non solo all’interno dell’ambito fondamentalista ma altresì tra la gente comune.
E’ significativo in tal senso uno studio dell’università della Colombia, condotto dal professore Rohan Gunaratna, il quale ha infatti evidenziato che il 70% dei bambini nati nella popolosa città di Kano tra l’11 settembre 2001 e la fine dello stesso anno sono stati chiamati Osama[29].
Capitolo 3 – Lo jihad oggi
3.1 La nascita di Al-Qaeda
Nell’immaginario collettivo, Al-Qaeda è spesso considerata la naturale evoluzione dello jihadismo.
Benché uniti da un medesimo filo conduttore, nondimeno è improprio parlare di continuità tra i due fenomeni.
Lo jihad nasceva infatti come lotta di liberazione e non sosteneva alcuna tattica terroristica.
Al-Qaeda deve invece inquadrarsi più propriamente come una alternativa allo Stato Islamico (IS), connotata da caratteri di cieca violenza e terrorismo[30].
Non a caso si è spesso definita Al-Qaeda come lo “jihadismo terrorista”: un movimento nel quale la religione e gli stessi testi sacri del Corano diventano un pretesto che giustifica il ricorso alla violenza estrema.
E’ sicuramente vero che il termie “al-qā’ida” si iniziò a usare già al tempo dell’invasione sovietica in Afghanistan, ma questa non era che la traduzione dall’arabo del termine “database”.
I servizi di sicurezza statunitensi avevano infatti costituito a quei tempi un folto database che raccoglieva i nominativi di tutti coloro (arabi e non) che volevano battersi contro i sovietici e affiancare il popolo afgano nella guerra contro l’invasione delle loro terre.
Il database si rendeva necessario perché, come si è visto, era la stessa USA che addestrava e riforniva di armi i combattenti della jihad.
Il protratto impegno dei mujahidin in Afghanistan (tra il 1979 e il 1989) e le forti correnti filosofiche che caldeggiavano la guerriglia armata, hanno fatto si che le iniziali tendenze jihadiste si trasformassero in un fenomeno di tali dimensioni e portata da non poter più essere considerato marginale, bensì sempre più radicato nel mondo musulmano e con connotati via via più violenti[31].
Si può certamente affermare che la guerra in Afghanistan fu l’“incubatrice” sociale e religiosa dell’Islam radicale globale, proprio perché mise in contatto tra di loro tantissimi militanti radicali, le cui posizioni si erano formate nei movimenti di resistenza e opposizione ai regimi politici[32].
I concetti di jihad, jihad armato e Al-Qaeda, possono e devono essere scissi nel loro significato.
Ebbene, jihad come movimento religioso e di liberazione, al quale si affianca lo jihad armato, non come mera conseguenza del primo, ma parte integrante di questo. Diversi teorici Jihadisti hanno infatti considerato lo jihad armato una sorta di “sesto pilastro”, non scritto, dell’ Islam[33].
3.2 Osama Bin Laden e Ayman al Zawahiri
La strategia di Bin Laden, di cui si è avuto modo di parlare nel precedente capitolo, era supportata dal leader nascente di al-Qaeda, il suo presunto “secondo”, ma in realtà nuovo teorico dell’organizzazione: il medico egiziano Ayman al-Zawahiri.
Figura mediatica di spicco dell’organizzazione, l’egiziano Ayman al Zawahiri, nato il 19 giugno 1951 al Cairo, è considerato la vera mente che ha portato Al-Qaeda a intraprendere una battaglia sul piano globale.
Membro di una famiglia benestante, cresce in ambiente ricco e occidentalizzato, diventa medico chirurgo ma abbraccia presto il credo dei Fratelli Musulmani.
A soli quindici anni, affascinato da una figura-faro per tutti gli islamisti, Sayed Qutb (vedi cap. 1), fondatore della fratellanza e giustiziato dagli egiziani, crea, a scuola, una cellula clandestina per rovesciare il governo ed instaurare lo Stato Islamico.
Appare opportuno ricordare, per completezza di trattazione e seppure per brevi cenni, i più salienti avvenimenti storici che hanno determinato l’avvicinamento tra Ayman al Zawahiri e Osama Bin Laden.
– Dal 1970 Sadat, giunto al potere dopo Nasser, si appoggia ai movimenti islamisti per cambiare la mentalità degli Egiziani dopo Nasser[34].
– Alla firma della pace con Israele nel 1978 gli islamisti rivolgono la loro ira contro Sadat, che viene assassinato in un complotto nell’ottobre del 1981.
– Segue una grande repressione, in cui anche al-Zawahiri viene imprigionato e sottoposto ad atroci torture.
– Durante la detenzione al-Zawahiri aderì al salafismo radicale una dottrina che predica il rigetto totale dei valori e degli influssi occidentali: il credo abbracciato dallo Stato Islamico. In prigione ha modo di rivedere le sue teorie rivoluzionarie e, sempre ispirato a Sayyd Qutb, durante il suo processo del 1982, proclama: ‘noi siamo il vero fronte islamico e la vera opposizione islamista contro il sionismo , il comunismo e l’imperialismo!’
– Rilasciato nel 1984, emigra in Arabia Saudita e di lì a Peshawar, per poi raggiungere il fronte afghano per unirsi ai mujaheddin, arrivando però troppo tardi per combattere contro i sovietici.
Fu proprio nella cittadina afghana di Kandahar che, nel 2000, al-Zawahiri incontrò per la prima volta Osama bin Laden. Con l’audacia che lo aveva sempre caratterizzato, il giovane jhadista respinse l’invito del saudita Bin Laden a entrare a far parte di al Qaeda.
Al Zarqawi non condivideva infatti l’idea di battersi contro gli Usa, il nemico lontano: voleva invece portare la sua lotta contro il nemico vicino, il governo giordano, con l’obiettivo di insediare uno Stato autenticamente Islamico nella regione[35]. La sua priorità era la costituzione di un regime islamico in Egitto e la successiva riconquista della Palestina[36].
Questa divenne la finalità del modesto campo di addestramento che impiantò a Herat, in Afghanistan, nei pressi del confine iraniano, dove preparava attentatori suicidi per missioni in Medio Oriente.
Fedele alle proprie ideologie, l’ingresso di al-Zarqawi nell’arena iraniana fu segnato dai primi attentati kamikaze nel paese. Nell’agosto 2003, un camion-bomba esplose presso il quartier generale delle Nazioni Unite a Baghdad, uccidendo il capo della delegazione dell’Onu e diversi suoi membri. Qualche giorno dopo, il padre della seconda moglie di al Zarqawi si schiantò con l’auto carica di esplosivo presso la Moschea dell’Imam Ali, a Najaf.
Come anticipato, per Osama Bin Laden il primo nemico da combattere continuava invece ad essere quello lontano, gli Americani e l’occidente, sostenitori dei regimi corrotti dei paesi arabi[37].
Nonostante le diverse vedute, Osama Bin Laden e al-Zawahiri, troveranno però un punto di incontro nel 1998 in Afghanistan. Nel proclamare la creazione del “Fronte Islamico mondiale per la Guerra Santa contro gli Ebrei e i Crociati”, saranno due dei cinque firmatari di una fatwa secondo la quale tutti i musulmani avevano il dovere di uccidere gli americani e i loro alleati[38].
Si arriverà in questo modo al superamento della concezione di una “dimensione locale” della guerra (propria dello jihad armato), a favore di una visione più orientata verso una prospettiva globale, caratterizzata da una lotta senza confini.
Nasce così Al-Qaeda ed il diffondersi dei suoi slogan propagandistici: “Uccidere gli americani e i loro alleati è un obbligo individuale di ogni musulmano che possa farlo in ogni paese ”[39].
È ben noto alle cronache come la strategia della lotta contro il “nemico lontano” abbia avuto il suo esito più eclatante e dirompente con gli attentati a New York e Washington dell’11 settembre 2001[40], facendo di Al-Qaeda una vera e propria organizzazione terroristica[41].
3.3 L’Islamic State.
Lo Stato Islamico è un’organizzazione estremista islamica, d’ispirazione salafita, che considera il jihād globale un dovere di ogni musulmano.
Come al-Qaeda e molti altri gruppi jihadisti odierni, lo Stato Islamico trova le sue radici nell’ideologia dei Fratelli Musulmani, la prima organizzazione islamista al mondo.
Nel 2013 lo Stato Islamico dell’Iraq (allora denominata Al Qaeda in Iraq) per mezzo del suo capo Abu Back al Baghdadi, ha proclamato unilateralmente la propria unificazione con la branca siriana di al-Qaeda (Al Nusra), che aveva conquistato una parte del territorio siriano nell’ambito della guerra civile contro il governo di Baššār al-Asad[42].
Nel giugno 2014 lo stesso Abu Back al Baghdadi, ha proclamato la nascita di un califfato nei territori caduti sotto il suo controllo, in un’area compresa tra la Siria nord-orientale e l’Iraq occidentale; per la totale assenza di titoli che giustificassero l’auto-proclamazione di Califfo in capo ad Al Baghdadi, molti leader del mondo islamico hanno però sempre sostenuto l’illegittimità di tale auto proclamazione.
Prima di tale proclamazione l’Islamic State (IS) si faceva chiamare “ad-Dawla al-Islāmiyya fī al-ʿIrāq wa l-Shām” (in arabo: الدولة الإسلامية في العراق والشام, ad-Dawla al-Islāmiyya fī al-ʿIrāqi wa sh-Shām, sigla in arabo داعش, ovvero Dāʿish o Daesh), tradotto in italiano come Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (Islamic State of Iraq and Syria, ISIS) o Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Islamic State of Iraq and the Levant, ISIL).
Tornando al suo leader, Abu Back al Baghdadi si è dimostrato da subito un grande stratega. Nulla nelle sue azioni era casuale e lasciato al caso, ogni sua mossa e strategia erano studiati nei minimi dettagli.
Non a caso, un elemento simbolico fu il luogo prescelto per l’annuncio della costituzione del “Califfato” islamico: la moschea di Mosul, detta al-Nūrī, perché fondata dal sultano turco Nūr al-Dīn il quale avviò proprio da Mosul la riconquista islamica della Terrasanta occupata dai crociati.
Anche il suo “nome di battaglia” non è casuale, bensì dai connotati fortemente evocativi: Abū Bakr era il primo califfo “ortodosso” (rāshid) della umma islamica; Al-Baghdādī sottolinea la matrice del suo capo e del movimento: l’Iraq, di cui Baghdād è la capitale e che fu, dall’VIII al XIII secolo, sede prestigiosa del califfato abbaside[43].
Implacabile nelle sue intenzioni e nelle sue suggestioni, già nel giugno 2014 il messaggio del Califfo alla popolazione musulmana era chiaro: questa è la vostra terra abbiamo bisogno di voi, vi vogliamo, senza il vostro lavoro non ci sarà possibile creare questa nuova nazione. Tuttavia, se per qualche motivo non potete unirvi a noi, fate tutto ciò che potete, dovunque vi troviate[44].
Quanto alle sue origini, Abu Back al Baghdadi, nasce nel 1971 a Samarra, in Iraq, da una famiglia molto religiosa; rivendica una discendenza diretta dal Profeta Maometto.
Ha conseguito una laurea in Studi islamici presso l’Università di Baghdad, una formazione accademica che conferisce credibilità alla sua interpretazione dell’Islam e ha promosso la sua immagine di moderna versione del Profeta.
Prima della sua cattura ed in ragione degli asseriti[45] studi svolti, operava come imam (capo religioso) nella capitale.
A differenza dei leader di al Qaeda, fortemente concentrati sul nemico lontano (gli Stati Uniti) egli riteneva che la priorità dovesse essere la conquista territoriale.
Al pari di al Zargawi, Al Baghdadi era fortemente convinto che in mancanza di una base territoriale vasta e forte in Medio Oriente la loro lotta era destinata al fallimento. Il suo sogno era ambizioso: ricreare il Califfato di Baghdad attraverso una guerra di conquista tradizionale contro i nemici vicini, gli sciiti.
Nella sua prima apparizione ufficiale dopo l’autoproclamazione a califfo, ha urlato nella Grande Moschea di Mossul, adeguatamente abbigliato da imam. Le sue parole non erano quelle di un barbaro terrorista, ma di una saggia e pragmatica guida religiosa: “Io sono il wali [leader] che presiede su di voi anche se non sono il migliore di voi, per cui se vedete che ho ragione, siatemi di aiuto. Se vedete che ho torto, consigliatemi e rimettetemi sulla buona strada, e obbeditemi tanto quanto io obbedisco al Dio che è in voi”[46].
Fino al momento in cui si è autoproclamato califfo, di lui circolavano soltanto due fotografie: una mostra un uomo dall’aria grave, con un volto paffuto e dalla carnagione olivastra; l’altra, diffusa dal governo iracheno nel gennaio 2014, presenta una figura barbuta e seria, in abito nero.
E’ singolare la circostanza che Al Baghdadi abbia continuato a coprirsi il volto anche in presenza dei suoi più fidati luogotenenti, cosa che gli ha procurato il soprannome di “Sceicco invisibile”.
3.3.1. La potenza dei media
È innegabile che la popolarità dello Stato Islamico scaturisce dal richiamo esercitato dai suoi straordinari successi, saggiamente portati a conoscenza del mondo intero attraverso una capillare opera di diffusione mediatica, dove internet è il principale canale di diffusione.
La propaganda dello Stato Islamico è un’operazione di alta tecnologia, gestita da veri professionisti[47], che ha più volte mostrato di essere molto seducente agli occhi di potenziali jihadisti, soprattutto in Occidente (prova ne è il grande afflusso di europei e americani desiderosi di partecipare al conflitto siriano).
Uno dei canali maggiormente sfruttati dall’IS è Twitter, chiamato in arabo Alba, pubblicizzato come modo per tenersi aggiornati sulle ultime notizie dei gruppi jihadisti, attraverso una sapiente opera di utilizzo dei così detti hashtag (#), anche agganciandosi a eventi mondiali dietro la cui confusione ed entusiasmo cela i propri messaggi.
Significativa in tal senso è stata la Coppa del Mondo del 2014, in occasione della quale lo Stato Islamico ha usato hashtag come #Brazi!2014, #ENG, #France e #wc2014.
Questa tattica gli ha permesso di accedere a milioni di ricerche su Twitter sulla Coppa del Mondo nella speranza che qualcuno dei lettori cliccasse sui link e venisse così reindirizzato verso il suo materiale di propaganda, in particolare verso un video che mostrava jihadisti britannici e australiani impegnati a convincere altri musulmani occidentali a entrare nelle loro fila.[48]
Anche se i feed dello Stato Islamico su Twitter vengono regolarmente censurati, essi vengono frequentemente ricreati e rimbalzati tra le vare piattaforme on-line appositamente create per lo scopo, consentendo all’organizzazione di mantenere una forte presenza in rete.
Da non sottovalutare, sempre in tema di “strumenti utili alla propaganda” la Radio Al-Bayan e l’agenzia di stampa Amaq, una tra le più importanti fonti di divulgazione di Daesh.
Merita menzione e approfondimento la celebre rivista Inspire, pubblicata online a partire dal 2010 per reclutare ed addestrare giovani che risiedono in Occidente.
Inspire è stata la prima rivista jihadista scritta in inglese, con il lungimirante obiettivo di voler raggiungere non solo le nuove (sempre più numerose) leve occidentali ma altresì riportare a se i giovani musulmani che vivendo negli stessi paesi occidentali che si voleva combattere potevano non avere un arabo fluente.
Come si avrà modo di approfondire nel prosieguo della trattazione, la rivista Inspire può essere considerata uno strumento di rilevante importanza, anche in relazione ai risultati concretamente raggiunti, per il reclutamento, l’indottrinamento ed altresì il concreto addestramento dei suoi destinatari, all’interno del fenomeno del c.d. terrorismo “fai da te”.
Non solo l’IS ma altresì AQ ha intrapreso un’importante campagna mediatica volta a portare dalla propria parte il maggior numero di organizzazioni terroriste e di nuovi combattenti, attraverso un’opera di proselitismo senza precedenti.
L’IS ha operato una vera e propria “campagna acquisti” che ha portato a stravolgere i sistemi di reclutamento, a sostituire quei rigidi canoni che AQ ha sempre richiesto ai gruppi terroristici affinché potessero essere considerati ufficialmente affiliati dell’organizzazione centrale.
Se infatti AQ aveva sempre chiesto alle organizzazioni che ad essa si volevano affiliare, il pieno e rigoroso rispetto delle sue metodologie e della sua agenda globale (cui si poteva affiancare quella locale purché non in conflitto con quest’ultima), l’IS di fatto accettava e accetta dichiarazioni di fedeltà da qualsiasi gruppo voglia prestare giuramento ad al Baghdadi, in cambio della costituzione (spesso solo nominale) di una nuova Provincia (Wilayah) del Califfato, altresì offrendo loro, in cambio di una fedele affiliazione sui teatri di guerra di volta in volta indicati dal Califfo, il sogno (o forse l’utopia) di una “terra promessa” [49].
E’ facile capire come solo di utopia può parlarsi poiché ciò che viene promesso ai giovani (e meno giovani) militanti sono soldi, potere, armi, donne; alle famiglie è offerta una casa, il lavoro ed una dimensione chiaramente surreale ed ovattata nel quale crescere i figli, il tutto condito dalla promessa di una corretta applicazione della legge Islamica senza alcuna interferenza esterna da parte del nemico occidentale.
Una cosa è certa, dalla sua proclamazione e negli ultimi anni lo Stato Islamico ha conseguito una serie di successi senza precedenti: mai, infatti, dalla fine della Seconda guerra mondiale un gruppo armato ha conquistato un territorio di tali dimensioni[50].
In conclusione, nonostante le evidenziate differenze tra l’IS e AQ, nondimeno deve darsi atto di come entrambe operino con la medesima finalità, che è quella della ricostituzione del Califfato. Inoltre, per entrambe i nemici sono tre: gli sciiti, i governi mussulmani appostati perché amici degli occidentali e l’Occidente (che con i suoi valori è visto come la rovina del “puro Islam”) [51].
3.4 Jihad il nuovo terrorismo
Oggi in tutto il mondo, in ogni Paese, esistono terrorismi di ogni genere, ma quello di matrice islamica pare destare preoccupazioni mondiali.
Di terrorismo si parla infatti in molti paesi dell’America Latina, dell’Africa e dell’Asia; si tratta solitamente di guerriglie rivoluzionarie e lotte etniche, fenomeno endemico che raramente raggiunge le prime pagine della cronaca mondiale e tantomeno provoca grossi interventi occidentali[52].
Anche nell’evoluta Europa non mancano episodi di terrorismo, basti pensare quello nostrano delle Brigate Rosse (e movimenti affini). Anche in questo caso si tratta però di fenomeni locali, con scarsa incidenza sugli equilibri e gli scenari mondiali.
Per quanto di nostro interesse, ai fini della presente trattazione, il terrorismo islamico fino a qualche anno fa rientrava in queste categorie e nessuno (forse) avrebbe mai pensato che sarebbe potuto trascendere in questo modo.
Il punto di non ritorno può essere considerato, a mio parere, l’11 settembre; da quel momento l’Occidente e il mondo intero si sono sentiti minacciati come mai prima di allora; il terrorismo islamico ha superato i confini delle singole nazioni ed è andato al di là del mondo islamico stesso.
Non è facile dare una definizione esaustiva del terrorismo islamico in quanto questo assume aspetti molto diversi. Un carattere che sicuramente lo distingue è il suicidio religioso.
Il combattente islamico porta la strage nell’ambito dei territori “nemici” facendosi esplodere secondo un rituale abbastanza preciso nell’attesa di raggiungere immediatamente il paradiso. Gli Occidentali li denominano impropriamente Kamikaze ma loro si considerano shaid[53].
Il termine shaid è stato coniato al tempo della guerra fredda tra Iran e Iraq, quando giovani iraniani chiamati pasdaran (cioè i Guardiani della Rivoluzione), indossavano in testa un nastro nel quale erano scritti dei versi del Corano; forti di tale “protezione” religiosa si avvicinavano ai campi minati, sacrificavano la propria esistenza facendo esplodere le mine per permettere poi il passaggio all’esercito regolare. Quei shaid non potevano però essere considerati terroristi, in quanto si immolavano nell’ambito di una “guerra regolare” (sempre che si possa parlare di guerra regolare!).
Oggi il shaid è colui che si lascia esplodere uccidendo indistintamente tutti coloro che sono intorno a lui e che sono considerati nemici[54].
Nella nuova prospettiva globale, parlare di terrorismo non può prescindere dall’analisi delle nuove forme di attacco emerse nel corso degli ultimi anni.
Mi riferisco al già menzionato “terrorismo fa da te”, ma altresì all’“homegrown terrorist” e ai “foreign fighter”, e ai “Lone Wolf” . Queste ultime tre definizioni rientrano, come appresso si vedrà, all’interno del “terrorismo fai da te”.
In termini generici, i terroristi “fai da te” sono imprevedibili nelle loro azioni. Si tratta di giovani combattenti che agiscono in autonomia e con la stessa autonomia si documentano e studiano i comunicati diffusi online dai gruppi jihadisti ed il relativo materiale propagandistico. Potremo definirli autodidatti.
Il Terrorista “homegrown” è colui che si è radicalizzato ed addestrato direttamente in Occidente (sovente come terrorista “fai da te”) dove vive e spesso è anche nato; canale fondamentale, ma non esclusivo, nella sua formazione è internet.
Il “foreign fighter” è invece un combattente straniero che dopo essersi radicalizzato parte per andare a combattere al fronte in nome del Jihad, riceve un addestramento militare e spesso torna o si reca in Occidente, in tutta la sua pericolosità che deriva non solo dalla formazione militare sul campo ma altresì dal disadattamento proprio del essere reduce di guerra.
Il “lone wolf” agisce in piena autonomia e non dunque all’interno di una una organizzazione terroristica, con una modalità “fai da te”; egli può essere allo stesso un “homegrown terrorist” o un “foreign fighter”, a seconda della sua formazione[55].
Tornando al terrorismo “fai da te”, oggi considerato il vero pericolo e rischio che l’Occidente si trova a dover fronteggiare, questo nasce come vera e propria ideologia e si sviluppa dalla branca di AQ nella Penisola Arabica, che faceva capo al Awlaki[56], fondatore della celebre rivista Inspire che, come anticipato, nasce con lo scopo di formare nuovi terroristi. Da tale scopo nasce proprio il titolo della rivista che, come spiegato nel primo numero, deriva da un versetto del Corano nel quale Allah si rivolgerebbe a Maometto con le seguenti parole: “And insipire the believers to fight”[57].
La pericolosità di tale rivista è oggi un dato di fatto incontrovertibile.
E’ sufficiente pensare che all’interno della stessa, nella sezione Open Source Jihad sono minuziosamente esposte le complesse fasi preparatorie di un attacco ed altresì istruzioni per la preparazione di pericolosi ordigni esplosivi; si tratta di veri e propri manuali addestrativi, idonei a guidare chiunque verso la realizzazione di attacchi terroristici in Occidente.
Ad oggi sono ancora numerosi gli attentati compiuti in Occidente grazie, o forse sarebbe meglio dire a causa, all’utilizzo di tale rivista.
E’ chiaro inoltre che, non solo la propaganda ma altresì la diffusione dei comunicati di rivendicazione degli attentati e degli attacchi, abbia un’importanza cruciale: attraverso l’esaltazione e la sponsorizzazione di tali eventi, il rischio concreto è infatti quello di fenomeni di macabra emulazione di cui la storia e i tragici avvenimenti degli ultimi anni sono ormai testimoni. Si tratta insomma di un fenomeno che si autoalimenta.
3.5 Terrorismo islamico. Gilles Kepel e Olivier Roy: due tesi a confronto
“Il fenomeno del terrorismo ha cambiato pelle rispetto all’11 settembre; al-Qaeda e l’Isis sono due organizzazioni differenti e spesso in competizione tra loro”[58].
Per capire il fenomeno e le diverse sfaccettature non si può non mettere a confronto il pensiero dei due maggiori esperti francesi di jihad, Gilles Kepel e Olivier Roy, nettamente divisi nel giudizio sul terrorismo islamico in Europa.
Entrambi francesi e conosciuti sulla scena internazionale, accademici e legati dalla comune passione per lo studio dell’Islam.
Il primo sostiene che a muovere gli attentatori sia solo un’ideologia integralista.
Il secondo li identifica come emarginati; la religione è solo un fattore periferico.
Olivier Roy, sulla rivista Le monde del 27 novembre 2015[59], parla di «rivolta generazionale e nichilista». «Questa non è la rivolta dell’islam o dei musulmani, – sostiene il politologo – ma un problema che riguarda due categorie diverse di giovani (i ragazzi della seconda generazione di immigrati ed i convertiti all’islam). Non è una radicalizzazione dell’islam, ma un’islamizzazione del radicalismo».
A suo parere la religione ha un ruolo marginale. E’ piuttosto il disagio dei giovani delle periferie, i quali non si riconoscono nei valori della propria famiglia di provenienza né tantomeno in quelli della società occidentale in cui vivono. Tale frustrazione li spinge ad immolarsi sotto il simbolo forte e identitario dell’Isis.
Sul versante opposto Gilles Kepel, per il quale, viceversa, deve continuare a parlarsi di «radicalizzazione dell’islam»; una radicalizzazione che spinge verso forme sempre più estreme ed in particolare verso il salafismo (una versione molto conservatrice dell’Islam, importata dal Medio Oriente, terreno fertile per il terrorismo).
La tesi generale sostenuta da Kepel è quella della radicalizzazione jihadista, religiosa, della popolazione arabo-musulmana presente in Europa, sotto l’influenza dei conflitti in Medio Oriente.[60].
Le due visioni, per quanto apparentemente contrapposte, potrebbero essere due volti della stessa medaglia.
Su un punto però Kepel e Roy possono essere accomunati: la profonda sfiducia circa la possibilità che il radicalismo islamico venga battuto nel prossimo futuro e la necessità che l’Europa elabori presto una politica comune per combatterlo in modo molto più efficiente.
Conclusioni
“La storia ci insegna che ad ogni azione corrisponde una conseguenza. Ogni conseguenza, a sua volta, costituirà l’innesco di una nuova azione”.
Il presente elaborato si è posto l’obbiettivo di rispondere alla seguente domanda: “cosa è la Jihad?”.
Come si è avuto modo di rilevare attraverso l’analisi dei diversi avvenimenti storici richiamati, la Jihad è nata inizialmente come ideologia, per poi diventare ispirazione di numerosi attentati terroristici nei quali militari, militanti e civili hanno perduto la propria vita.
Uno sguardo unicamente volto al presente non sarebbe stato sufficiente a rispondere compiutamente al quesito; si rendeva necessario un lungo passo indietro nella storia al fine di rinvenirne le radici e le evoluzioni.
Si è pertanto delineato, seppure sinteticamente, il quadro dei rapporti tra Unione Sovietica e Stati Uniti durante la guerra fredda, periodo durante il quale le due superpotenze si contendevano la supremazia globale.
Tale inquadramento si è reso necessario al fine di comprendere il delicato e precario equilibrio all’interno del quale, tra il 1979 e il 1989, ha trovato terreno fertile l’invasione, ad opera dell’URSS, del territorio Afghano e la conseguente resistenza armata del suo popolo, i mujaheddin.
Sono proprio questi nuovi combattenti, nati nel sottobosco di una cultura fortemente estremista e conservativa, le nuove pedine degli USA.
In guerra vige il detto :“il nemico del mio nemico è mio amico”.
L’obbiettivo degli Stati Uniti non era solo l’indebolimento della Russia; l’America voleva ardentemente che l’URSS avesse il proprio Vietnam. Ad ogni costo.
I mujaheddin erano quello di cui gli Stati Uniti avevano dunque bisogno. Dare loro sostegno economico e militare costituiva una opportunità imperdibile che arrivava al momento giusto.
Ciò nonostante, gli Stati Uniti avrebbero dovuto andare oltre un interesse strettamente personale e valutare con più lungimiranza l’opportunità di sostenere quel gruppo di estremisti che combattevano contro l’URSS, quantomeno in relazione alle possibili conseguenze future a livello globale.
Il delicato decennio tra il 1979 al 1989 in Afghanistan, può infatti essere tristemente considerato l’incubatrice ed altresì la matrice del terrorismo islamico dei giorni nostri e l’occidente ha senza dubbio l’obbligo di ragionare sulle proprie responsabilità.
Gli USA hanno infatti sottovalutato il potenziale distruttivo di diversi protagonisti chiave di questa resistenza, uno tra tutti: Bin-Laden.
Anche la stessa Unione Sovietica non può essere considerata esente da responsabilità.
Benché indiscutibile la bontà delle riforme filo-sovietiche che si volevano attuare nella società Afghana, queste non avrebbero dovuto essere imposte in modo così violento ed innovativo in un paese così fortemente ancorato ad una religione e ad una cultura conservativa.
La storia insegna che l’imposizione di un modello di stato non è infatti mai stata una tattica vincente.
Il sistema di amministrazione di un Paese non può infatti essere semplicemente deciso a tavolino, copiato ed esportato; deve invece passare attraverso un processo di integrazione e adattamento che non può prescindere dalle radici storiche e dalla cultura della popolazione che occupa lo Stato.
Oggi la maggior parte degli jihadisti più estremisti continua a vedere il mondo occidentale come una cultura persa nel materialismo e sempre più lontana dallo stile di vita islamico. L’estremista dei giorni nostri vive e fa parte della società dell’occidente e fa sempre più ricorso allo strumento della lotta, non più globale ma personale, che combatte come singolo operando nell’anonimato e in modo isolato.
Non a caso l’attuale terrorismo ha assunto una forma sempre più “glo-cale” .
Recenti ricerche parlano inoltre di un islamismo radicale che assolda tra le sue fila anche le donne; gli ultimi dati rivelano infatti l’esistenza di almeno trentamila donne gravide affiliate al nuovo terrorismo: la così detta generazione dei “Leoncini”.
Quanto in conclusione si può certamente affermare è che la storia è maestra e dovrebbe essere presa in considerazione per evitare che vengano ripetuti gli stessi errori del passato: quello che oggi è il presente, domani sarà un nuovo tassello da aggiungere ai libri di storia.
Ad oggi l’interazione tra Islam e occidente è vista come uno scontro di civiltà ed’ è difficile dire se un punto di incontro potrà mai essere trovato.
Quello che è certo è che le prospettive future non appaiono confortanti soprattutto considerato che oggi si uccide ancora in nome di Dio.
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[6] A. PLEBANI, Jihad e terrorismo. Da al-Qa‘ida all’ISIS: storia di un nemico che cambia, Ed. Digitale 14.03.2016 , p.36.
[7] Tra questi merita menzione l’egiziano Ayman al Zawahiri, considerato la vera mente che ha portato Al-Qaeda a intraprendere una battaglia sul piano globale (vedi infra al cap.3).
[8] P. CANDELIERE, Islam e modernità: Slavoj Žižek e Michel Onfray a confronto, cit.
[9] G.BATTISTON, Le radici dello Stato Islamico ; articolo pubblicato il 28.03.2017 sulla rivista on-line “TRECCANI il Tascabile”.
[10] A. PLEBANI, Jihad e terrorismo. Cit. p.35.
[11] F.BURGAT, Il Fondamentalismo islamico. Algeria, Tunisia, Marocco, Libia, SEI, Torino 1988, ristampa del 1995, p. 26.
[12] Per la distinzione tra Jihad difensivo e offensivo si veda infra il capitolo 2, par. 2.3.1
[13] Tratto da: ABDALLAH AZZAM, Martyrs, The Building og Nations, in www.ummah.com, consultazione dell’ 08.04.2019.
[14] A. PLEBANI, Jihadismo globale. Strategie del terrore tra Oriente e Occidente , cit pp.6 ss.
[15] J. L. GADDIS, La Guerra fredda. Cinquant’anni di paura e di speranza, MONDADORI , Milano, 2005, ristampa 2017, p.66.
[16] J. SMITH, La guerra fredda 1945-1991, Universale Paperbacks Il Mulino 2000, p. 137
[17] Lo scrittore John Lewis Gaddis, nel suo libro “La guerra Fredda Cinquant’anni di paura e speranza”, per meglio spiegare i rapporti tra le due super potenze durante la Guerra Fredda richiama un romanzo di Yann Martell, “Vita di Pi”, che egli considera una favola allegorica con finalità pedagogica sulla guerra fretta. Nell’improbabile storia di una scialuppa di salvataggio che avrebbe potuto trasformarsi in scialuppa di morte, i protagonisti sono un ragazzo e una tigre del Bengala, entrambi vittime di un naufragio ed entrambi confinati a bordo di una piccola imbarcazione alla deriva del Pacifico. In assenza di un linguaggio comune tra loro non poteva esserci alcun discorso razionale. Esisteva però una compatibilità di interessi: il ragazzo non voleva essere divorato dalla tigre; la tigre, per mangiare aveva bisogno che il ragazzo pescasse anche per lei. Tutti e due, pur non comunicando, capiscono la situazione e tutti e due sopravvivono.
Gaddis, richiamando il romanzo “Storia di Pi” afferma che “ciò che fecero le armi nucleari fu di far capire agli Stati che, anche in assenza di un linguaggio, di un’ideologia o di interessi comuni, essi condividevano la preoccupazione per una reciproca sopravvivenza, data la presenza della tigre che loro stessi avevano creato e con la quale dovevano ora imparare a convivere” (J. SMITH, La guerra fredda 1945-1991, cit.p.111) .
[18] J. L. GADDIS, La Guerra fredda, cit, p. 257.
[19] J. L. HARPER, La guerra fredda, Storia di un mondo in bilico, Il Mulino 2013, p. 235.
[20] P. MAGGIOLINI, Il fondamentalismo islamico: mille volti che guardano un’unica verità, Marsilio Editore, Venezia 2015, pp. 57-58.
[21] G. KEPEL, Jihad. Ascesa e declino. Storia del fondamentalismo islamico, cit. pp. 89-94.
[22] H. KISSINGER, Ordine Mondiale, Ed. Mondadori 2015, pp. 290-298.
[23] “Il sistema monetario europeo, detto anche SME, entrato in vigore il 13 marzo 1979 e sottoscritto dai paesi membri dell’allora Comunità Europea, costituì un accordo per il mantenimento di una parità di cambio prefissata”.
[24] L. QUADARELLA SANFELICE DI MONTEFORTE, F. SANFELICE DI MONTEFORTE, Due secoli di stabilizzazioni. Gli insegnamenti del Passato per il peacekeeping del futuro, Aracne editore, 2015, p.123.
[25] G. KEPEL, Jihad. Ascesa e declino. Storia del fondamentalismo islamico, cit. p. 260.
[26] A. SPATARO, Il fondamentalismo islamico dalle origini a Bin Laden, Editori Riuniti, Roma 2001, p.15.
[27] Vedi paragrafo 1.2.
[28] M.INTROVIGNE, Osama Bin Laden, Apocalisse sull’Occidente, Elledici, 2001, pp.42 ss.
[29] R. GUNARATNA, Inside A Qaeda. Global Network of Terror, Columbia University Press, New York 2002.
[30] M. CAMPANINI, L’alternativa Islamica. Aperture e chiusure del radicalismo, Bruno Mondadori, Milano 2012, p. 64.
[31] D. COMMINS, The Wahhabi Mission and Saudi Arabia, I.B. Tauris, ed. digitale 2006, p. 174, nella quale si legge: “In brief, the war in Afghanistan amplified the jihadist tendency from a fringe phenomenon to a major force in the Muslim World”.
[32] D. COOK, Storia del Jihad, Einaudi Editore 2007, pp. 218-223.
[33] E’ opportuno ricordare i cinque pilastri dell’Islam : la dichiarazione di fede, la preghiera rituale, il pellegrinaggio a la Mecca, il digiuno/purificazione durante il mese sacro del Ramadan e l’elemosina legale.
[34] Nel decennio successivo i movimenti islamisti hanno una grande diffusione, diventando molto autorevoli.
[35] Di avviso contrario a tali teorizzazioni era ‘Azzam, ragione per la quale quando quest’ultimo venne ucciso in un attentato molti pensano che fosse stato ucciso da Zawahiri e Bin Laden.
[36] A tale proposito merita menzione una significante pubblicazione del 1992, ‘La mietitura amara’, nella quale Al-Zawahiri sostenne che uno dei motivi per cui il tentativo di rivoluzione dei Fratelli Musulmani in Egitto fosse fallito era l’avere accettato di affidarsi alla democrazia, al potere del popolo, l’avere rigettato la violenza, l’aver rinunciato a combattere in Palestina e essersi affidato alle elezioni come via di cambiamento. WASIM DAHMASH, “Kepel in breve”, in www.sguardosulmediooriente.it, consultazione del 15 aprile 2019
[37] Ricordiamo che nel 1990 Saddam invade il Kuwait e minaccia l’Arabia Saudita; i Sauditi rifiutano la proposta di Osama Bin Laden di costituire una ‘legione araba’ per difendere il regno, chiamando invece in soccorso gli Americani, il nemico lontano, gli invasori. Tale epilogo rafforza le profonde convinzioni del saudita.
[38] G. OLIMPIO, AlQaeda.com, Milano 2008, p. 260.
[39] G. BATTISTON, Arcipelago jihad: Lo Stato Islamico e il ritorno di al-Qaeda, Ed. dell’Asino, 2016, pp. 77-79.
[40] Per completezza di trattazione deve però osservarsi che la dinamica degli attentati, le personalità degli attentatori e le circostanze degli accadimenti non sono privi di punti oscuri. Il famoso, ben documentato, film-inchiesta di Michael Moore, “Farenheit 9/11”, tra gli altri, ha suscitato inquietanti interrogativi. Per dovere di cronaca è necessario ricordare come alcuni abbiano sostenuto che l’11 settembre fu un complotto organizzato dalla CIA. Di certo tale nefasto epilogo fornì al presidente neo-eletto americano George W. Bush junior il pretesto opportuno per realizzare una politica che molti del suo entourage tendenzialmente islamofobi e anti-arabi avevano già teorizzato e probabilmente progettato addirittura fin dai primi anni Novanta ai tempi della prima guerra del Golfo.
[41] Partendo dal dato storico che, al tragico epilogo dell’11 settembre gli Stati Uniti reagirono invadendo, nello stesso 2001, l’Afghanistan, rifugio di Bin Laden e sede dei Talebani, per alcuni studiosi il folle disegno di Bin Laden e al-Zawahiri contava proprio su tale invasione e sulla circostanza che i popoli musulmani, nuovamente invasi e aggrediti dal “nemico lontano”, si sarebbero finalmente sollevati, avrebbero impugnato la bandiera del jihad e combattuto all’unisono contro il nemico. Purtroppo (o per fortuna), nulla andò secondo i macabri piani: il terrorismo e così al-Qaeda erano privi di solide basi popolari; non si ebbe infatti alcuna insurrezione di massa ed alcuna “guerra santa” generalizzata. MASSIMO CAMPANINI, L’islamismo jihadista da Al-Qaeda all’IS, articolo tratto dalla rivista Nuova Secondaria, ottobre 2015.
Deve altresì rilevarsi che l’11 settembre fu un’azione che pochi, all’interno della comunità jihadista, approvarono. Anche se qualcuno in Medio Oriente esultò al crollo delle Torri gemelle, la stragrande maggioranza era invece convinta che da una simile tragedia non potesse nascere nulla di buono.
[42] Gli esponenti di quest’ultima smentirono però la notizia, ribadendo la propria fedeltà ad AQ ed al suo leader, Al Zawahiri.
[43] Il califfato abbaside è stato fondato dai discendenti del più giovane zio del profeta Maometto, Abbas ibn Abd al-Muttalib (566-653), a Kufa nel 750 e, successivamente (dal 762), con capitale a Baghdad. Gli Abbasidi furono la terza dinastia, araba, a reggere il mondo islamico.
[44] L. NAPOLEONI, Isis, lo stato del terrore. L’attacco all’Europa e la nuova strategia del califfato, cit. 84
[45] Non si e mai trovata infatti conferma effettiva di tale percorso accademico.
[46] L. NAPOLEONI, Isis, lo stato del terrore. L’attacco all’Europa e la nuova strategia del califfato, SERIE BIANCA FELTRINELLI, 2016, p.16 ss.
[47] Si può parlare, senza alcuna retorica o esagerazione di altissima professionalità dei propri adepti (alcuni dei quali hanno sviluppato e perfezionato le proprie skills in Occidente). Non a caso, per fare giusto un esempio, quando Twitter e Facebook hanno bloccato il video della decapitazione di James Foley (il fotoreporter e giornalista statunitense, macabramente giustiziato all’interno dell’autoproclamato Califfato, da Jihadi John, terrorista britannico di origini irachene facente parte del cosiddetto Stato Islamico dell’Iraq e del Levante), nel giro di qualche ora la squadra della propaganda del Califfato ne aveva ripristinato l’accesso tramite siti alternativi, come Diaspora.
[48] S. SCARANI, Jihad – Significato e attualità, Paoline edizioni, 2006, p.71
[49] Laura Quadarella Sanfelice di Monteforte, Dalle “Primavere Arabe” all’espansione jihadista:Al Qaeda, l’Islamic State e la minaccia del “terrorismo fai da te”, su www.osservatorioanalitico.com, articolo del 22 febbraio 2016.
Deve altresì rilevarsi come, anche nel reclutare i “nuovi soldati del Califfo”, l’IS non avendo rigidi canoni come AQ attirasse a se migliaia di giovani: era possibile arruolarsi sotto le fila dello Stato Islamico anche se la propria condotta di vita non avesse risposto ai canoni del “puro Islam”.
[50] L. NAPOLEONI, Isis, lo stato del terrore.L’attacco all’Europa e la nuova strategia del califfato, cit., p.16
[51] L. QUADARELLA SANFELICE DI MONTEFORTE, Perché ci attaccano. Al Qaeda, l’Islamic State e il terrorismo “fai da te”, Aracne editrice, Seconda edizione , 2017, p.60
[52] V. PISANO, Aggregazioni terroristiche contemporane: europee, mediorientali, nordafricane, Adnkronos Libri, Roma, 2005.
[53] Lo shaid può essere uno Shahid al-said (martire fortunato), uno shahid al-mugattil (martire ucciso in combattimento), il quale se la sarebbe potuta anche cavare ma ha scelto l’estremo sacrificio. L’espressione più alta è l’Istishadi, colui che si vota al martirio. Esiste inoltre lo Shahid al-mazlum, il martire che è morto senza averlo previsto o voluto.
[54] Questo fenomeno terroristico ha la sua massima rappresentanza in Al Qaeda e il suo volto in Osama Bin Laden, ma di fatto ha innestato un meccanismo che va molto oltre, e che da parte dei terroristi è divenuta un’ideologia capace di ispirare diversi gruppi.
[55] L. QUADARELLA SANFELICE DI MONTEFORTE, Perché ci attaccano. Al Qaeda, l’Islamic State e il terrorismo “fai da te”, cit, p.83.
L’autrice ci ricorda che , con le modifiche del febbraio 2015 agli artt. 270 quater, 270 quater.1, e 270 quinquies del nostro codice.penale, oggi, in Italia è punito per il reato di terrorismo internazionale, non solo il reclutatore ma altresì il reclutato che si rechi a combattere nelle fila di organizzazioni terroristiche ed anche colui che si addestri a tale fine (dove l’utilizzo di strumenti informatici diviene un’aggravante).
[56] Per maggiori approfondimenti vedi Il terrorismo “fai da te” tra Al Qaeda e l’Islamic State, di Laura Quadarella Sanfelice di Monteforte, in www.mediterraneaninsecurity.it , del novembre 2017
[57] L. QUADARELLA SANFELICE DI MONTEFORTE, Perché ci attaccano. Al Qaeda, l’Islamic State e il terrorismo “fai da te”, cit, p.91.
[58] LORENZO CREMONESI, Radicalizzazione dell’Islam o islamizzazione del radicalismo?, tratto da: Il Corriere della Sera, articolo del 15 luglio 2016.
[59] OLIVIER ROY, “L’islam è un pretesto”, Le Monde, Francia. 27 novembre 2015, p.47. (Traduzione di Andrea Sparacino). “La France en guerre ! Peut-être. Mais contre qui ou contre quoi ? Daech n’envoie pas des Syriens commettre des attentats en France pour dissuader le gouvernement français de le bombarder. Daech puise dans un réservoir de jeunes Français radicalisés qui, quoi qu’il arrive au Moyen-Orient, sont déjà entrés en dissidence et cherchent une cause, un label, un grand récit pour y apposer la signature sanglante de leur révolte personnelle. L’écrasement de Daech ne changera rien à cette révolte.
Le ralliement de ces jeunes à Daech est opportuniste : hier, ils étaient avec Al-Qaida, avant-hier (1995), ils se faisaient sous-traitants du GIA algérien ou pratiquaient, de la Bosnie à l’Afghanistan en passant par la Tchétchénie, leur petit nomadisme du djihad individuel (comme le « gang de Roubaix »). Et demain, ils se battront sous une autre bannière, à moins que la mort en action, l’âge ou la désillusion ne vident leurs rangs comme ce fut le cas de l’ultragauche des années 1970.
Il n’y a pas de troisième, quatrième ou énième génération de djihadistes. Depuis 1996, nous sommes confrontés à un phénomène très stable : la radicalisation de deux catégories de jeunes Français, à savoir des « deuxième génération » musulmans et des convertis « de souche ».
Le problème essentiel pour la France n’est donc pas le califat du désert syrien, qui s’évaporera tôt ou tard comme un vieux mirage devenu cauchemar, le problème, c’est la révolte de ces jeunes. Et la vraie question est de savoir ce que représentent ces jeunes, s’ils sont l’avant-garde d’une guerre à venir ou au contraire les ratés d’un borborygme de l’Histoire”.
[60] A tale ultima considerazione si oppone fortemente Roy, il quale sottolinea come in realtà le biografie dei terroristi mostrano come essi non abbiano una formazione religiosa. Egli non nega che da circa una quarantina d’anni si sia sviluppato un Islam fondamentalista ma ciò che sottolinea a gran voce e che “il fondamentalismo non basta a produrre violenza”. OLIVER ROY, Generazione ISIS. Chi sono i giovani che scelgono il Califfato e perché combattono l’Occidente, edizione formato Kindle , 2017, Feltrinelli editore (traduzione a cura di M.GUARESCHI)