Scarica il file in PDF – punti sensibili commercio marittimo- gennaio 2021- Sanfelice
I PUNTI SENSIBILI DEL COMMERCIO MARITTIMO
Amm. Sq. Ferdinando SANFELICE di MONTEFORTE
- Introduzione
Il benessere degli Europei dipende in massima parte dal commercio intercontinentale marittimo, una delle principali fonti di reddito per l’Occidente, e in particolar modo per l’Italia. Il nostro sviluppo economico, negli ultimi decenni, ha beneficiato dall’attuale globalizzazione degli scambi, e ha creato una rete di interdipendenze che riduce i rischi di conflitti senza limiti. Questo si deve, appunto, all’attuale globalizzazione, che appare molto più durevole rispetto ai tentativi, compiuti nei secoli precedenti, di internazionalizzare il commercio o la finanza, naufragati a causa delle guerre tra Europei.
Anche l’attuale globalizzazione, però, ha avuto i suoi momenti di crisi, sia pure per un breve periodo, durante il quale stavano palesandosi crepe preoccupanti nel meccanismo del sistema globale dei commerci, a causa dell’inasprirsi della concorrenza tra i suoi principali attori. Ci sono voluti i nuovi progetti, specie il cinese OBOR (One Belt One Road) per dare nuove speranze che quest’epoca di benessere duri molto più a lungo, rispetto ai periodi analoghi del nostro passato.
Il commercio intercontinentale marittimo, però, non si svolge solo lungo percorsi oceanici, in alto mare, dove i grandi spazi costituiscono un elemento di sicurezza, e solo le maggiori Potenze, grazie alla loro abbondanza di mezzi, potrebbero danneggiarlo, o per lo meno condizionarlo, ma attraversa una serie di passaggi obbligati, appunto i “colli di bottiglia”.
In questo, le rotte commerciali tra l’Asia e le Americhe sono privilegiate, dovendo superare esclusivamente i passaggi obbligati della catena d’isole poste a levante del continente asiatico, e poi attraversare il Canale di Panama, la principale porta di accesso per i prodotti dell’Asia diretti alla costa orientale degli Stati Uniti, dove la fame di materie prime e di prodotti è maggiore.
Per quanto riguarda, invece, le rotte commerciali tra l’Asia e l’Europa, le strettoie, veri e propri “colli di bottiglia”, o in lingua Inglese “Choke Points” (strozzature) sono più numerose e si trovano vicino ad aree di forte instabilità. Queste strettoie non sono solo i cosiddetti “Stretti Internazionali”, il cui attraversamento è regolamentato dal Diritto Internazionale, ma anche di quei passaggi obbligati, come il Canale di Sicilia o quello di Otranto, che non hanno alternative per le navi dirette ad alcune specifiche destinazioni.
Queste strettoie costituiscono i veri e propri “punti strategici”[1] del traffico marittimo, poiché le navi vi si accalcano, per superarli, e sono esposte ad attacchi ancor più di quando navigano in mare aperto, dovendo rallentare, mettersi in fila, e procedere, spesso, a bassa velocità, per evitare i pericoli posti dalla natura (scogli, bassi fondali, correnti) in ognuno di questi tratti di mare. Questa situazione che – come vedremo – costringe spesso le navi a rallentare per tempi lunghi, può essere sfruttata a proprio vantaggio da attori intenzionati a danneggiare i flussi del commercio, limitarli o condizionarli, per conseguire i propri obiettivi strategici.
Tra i possibili oppositori di questo flusso ininterrotto di beni, trasportati dal commercio marittimo, vi sono i popoli che non hanno finora usufruito di una parte adeguata del benessere prodotto dalla globalizzazione e dalla conseguente interdipendenza delle economie nel mondo.
Bisogna, infatti, ricordare che, nella Storia, i popoli della terra tagliati fuori dalla prosperità che il commercio intercontinentale marittimo produce, hanno sempre cercato nei modi più diversi di ritagliarsi una fetta di queste ricchezze, anche a spese altrui. Quest’invidia dura tuttora e si materializza, fin troppo spesso, in aggressioni contro il commercio, condotte direttamente, in caso di conflitto aperto, oppure utilizzando intermediari (proxy) come ad esempio i pirati, se non ci si vuole esporre a rappresaglie da parte dei Paesi di appartenenza delle vittime.
Questo rende i colli di bottiglia, specie quelli più frequentati dal traffico marittimo, dei veri e propri “teatri di operazioni”, dove alcuni cercano di difendersi e altri attaccano, che in alcuni casi contengono veri e propri “punti sensibili”[2], nei quali è possibile ottenere risultati decisivi, mediante un uso di forze relativamente ridotte.
- La Strategia dei “Colli di bottiglia”
La possibilità di influire sugli eventi con forze limitate, offerta agli attori internazionali da questi “punti sensibili”, non è sfuggita all’attenzione degli studiosi di strategia. Infatti, i “colli di bottiglia” si prestano a numerosi tipi di azione, proprio perché sono – a seconda delle situazioni strategiche – barriere che possono rendere difficile al nemico di penetrare in aree vitali, i punti ideali per un blocco commerciale, nei confronti di un Paese che non abbia accesso diretto al mare aperto, oppure punti nei quali è possibile ricavare profitti enormi, mediante atti di pirateria.
Come osservava, infatti, uno studioso britannico: “talora, il luogo migliore per impegnare il nemico è in un collo di bottiglia geografico, attraverso il quale egli debba passare. Il vantaggio del controllo dei «Choke Points» è che si può impiegare unità che non potrebbero sopravvivere a lungo in operazioni di controllo delle sortite vicino alle basi nemiche”[3]. Questo significa, però, che le operazioni nei “colli di bottiglia” impongono l’uso di mezzi diversi, almeno in parte, da quelli impiegabili in mare aperto.
Un tal tipo di azione non è, peraltro, sempre facile. Infatti, come osservava, di recente, un nostro profondo studioso del problema dei “colli di bottiglia”:
“tutte le Marine, nel corso dei secoli, hanno sviluppato strategie locali per il raggiungimento di obiettivi più limitati del controllo delle linee di comunicazione. Queste strategie sono state adottate dai Paesi di minor sviluppo marittimo o dalle stesse potenze navali per compiti locali”[4].
Influire sugli eventi in economia, impegnando forze limitate, sembrerebbe la soluzione ideale e più facile per ogni attore internazionale, ma non è sempre così.
Come, infatti, notava lo stesso studioso italiano: “è difficile pensare che il problema (del controllo dei colli di bottiglia) abbia una soluzione se l’avversario è in grado di esercitare una qualsiasi azione aeronavale nell’area. Ecco che il «Choke Point Control» di limitata spesa diviene un grosso campo d’impiego di risorse per la difesa della propria sovranità o delle proprie ricchezze”[5].
Questo dimostra che anche le posizioni più vantaggiose dipendono, per essere sfruttate, dai rapporti di forza tra i contendenti. Infatti, “la parte (in conflitto) che è inferiore nell’aria è costretta a operare durante le ore notturne o col cattivo tempo[6]”. Il predominio di una parte sull’altra, nei bacini ristretti e nei “colli di bottiglia” non è però assoluto. Infatti, come notava uno studioso, “persino la parte più debole può compiere attacchi di sorpresa contro bersagli nemici in mare con un’alta probabilità di successo”[7].
Esaminando la carta geografica, inoltre, si può notare una serie di situazioni molto importanti ai fini della Strategia. Anzitutto, “gli Stati litoranei che posseggono ambedue (le rive del) l’unico sbocco di un mare ristretto, godono di una posizione particolarmente favorevole”[8].
L’esempio più probante è dato dagli Stretti Turchi, che sono l’uscita obbligata dal Mar Nero verso i mari caldi, e danno al governo di Ankara la possibilità di influenzare gli eventi in quel mare, favorendo o danneggiando attori non litoranei. Infatti, questi ultimi si trovano spesso a essere condizionati nei loro movimenti strategici, e quindi “soffrono di una posizione di debolezza, in quanto il loro collegamenti con i mari lontani e i loro movimenti navali per e da un mare ristretto sono controllati da Paesi potenzialmente ostili”[9]
Durante il conflitto in Georgia dell’agosto 2008, ad esempio, la Turchia ritardò il passaggio di navi da guerra USA dirette appunto nel Mar Nero, consentendo alla Marina russa di agire indisturbata, per eliminare le navi georgiane e operare in appoggio alle forze di terra.
Ma chi possiede ambedue le rive di un “collo di bottiglia” di questo tipo “è anche in una posizione di forza per condurre incursioni navali nelle acque di altri Stati litoranei (del bacino)”[10]. Ad esempio, l’incursione degli incrociatori tedeschi “Goeben” e “Breslau”, venduti all’Impero ottomano, contro il porto di Costanza, nell’autunno 1914, è una conferma della validità di quanto affermato dagli studiosi.
Questo rischio d’incursioni provenienti dagli Stretti Turchi spiega perché, nella Storia, la Russia ha fatto ogni sforzo per possedere una flotta nel Mar Nero, la cui forza fosse prevalente rispetto a quella della flotta ottomana.
La situazione di vantaggio, per chi controlli l’unica via d’uscita da un mare ristretto, non è solo tipica degli Stretti Turchi, ma vale anche per chi possegga una sola sponda di questo tipo di “collo di bottiglia” esclusivo, purché la sponda opposta non appartenga a una Nazione nemica, come nel caso della Danimarca per gli accessi al Mar Baltico e l’Italia per il Canale di Otranto.
Inoltre, i “colli di bottiglia” che esistono tra le isole di uno o più arcipelaghi, poste a poca distanza tra loro, possono inoltre essere sfruttati in modo sistematico, ai fini difensivi, diventando “uno degli elementi principali sui quali poggia il controllo di ogni mare ristretto”[11].
L’esempio classico è costituito dalla lunghissima catena d’isole poste davanti alla costa orientale dell’Asia, dalla penisola di Kamchatka fino allo Stretto di Malacca. Queste isole consentirono al Giappone di proteggere, con poche forze, il traffico di materie prime tra l’Indonesia e la Malesia fono al territorio metropolitano, almeno finché la US Navy non fu in grado di schierare un numero consistente di sommergibili oceanici, che penetrarono all’interno di questi varchi, sia pure a un prezzo altissimo in termini di perdite, e distrussero la flotta mercantile giapponese, riducendo alla fame l’Impero del Sol Levante.
Inutile dire che, oggi, la Cina intende sfruttare la stessa catena d’isole per costituire dei “santuari” nei quali operare con tranquillità. Sulla base dei documenti e delle conferenze tenute da uno dei principali strateghi cinesi, l’Ammiraglio Liu Huaqing, infatti, “fonti cinesi e occidentali sono state in grado di dedurre due linee difensive oceaniche (della Cina). Le aree marittime, delineate dall’Ammiraglio in senso generale, rientrano in quelle che sono note come la prima catena di isole (appunto le isole tra la Kamchatka e la Malesia) che costituiscono la fase uno della sua strategia. Nella fase due, in un futuro immaginario, la Cina dovrebbe estendere la propria influenza a quella che Liu chiama la parte nord del Pacifico, delimitata dalla seconda catena di isole, dalle Curili al Giappone, le isole Bonin, le Marianne e le Caroline”[12].
Su queste due linee difensive si poggiano le operazioni della Marina cinese, denominate dalla letteratura strategica americana come “Anti-Access” (contrasto all’ingresso) e di “Area Denial” (negazione d’area), e note con l’acronimo di “A2AD”, per “santuarizzare” i mari prospicienti, rendendoli sicuri per la Cina.
I “colli di bottiglia”, inoltre, consentono operazioni che si potrebbero definire di “Sortie Denial” (negazione di sortita) qualora si voglia rinchiudere un avversario entro un dato bacino e impedirgli ogni accesso ad acque oceaniche. Questo è reso ancora più agevole dall’eventuale possesso, da parte di un Paese, delle isole poste all’imboccatura di un “collo di bottiglia”.
Per tale motivo, quindi, il Trattato di Losanna dispose la smilitarizzazione delle isole greche di Lemnos e Samotracia, prospicienti gli Stretti Turchi, in modo da evitare un eccessivo vantaggio di una parte e prevenire possibili conflitti tra le due Nazioni dell’Egeo. In effetti, vi sono numerosi esempi storici di utilizzo dei “colli di bottiglia” per confinare un avversario all’interno di un bacino marittimo.
Anzitutto, durante la Seconda Guerra Mondiale, la Gran Bretagna, dalla sua base di Gibilterra, impedì all’Italia di svolgere commerci con le Americhe, oltre a rendere oltremodo ardui ai nostri sommergibili gli spostamenti verso e dall’oceano Atlantico.
Inoltre, l’India sta sfruttato le isole Andamane e Nicobare, di cui mantiene il possesso, militarizzandole, in modo da poter dominare lo sbocco occidentale dello Stretto di Malacca, vitale per consentire alla Cina di accedere al petrolio del Golfo Persico e ai prodotti dell’Africa, attraverso l’Oceano Indiano.
Un tipo di azione simile al blocco è quella svolta dalla NATO, tra il 1992 e il 1996, denominato “Operazioni di Interdizione (o Intercettazione) Marittima” (MIF), pattugliando il Canale d’Otranto, per attuare l’embargo deciso dall’ONU nei confronti degli Stati dell’ex Jugoslavia, in modo da spingerli a terminare la guerra civile tra di loro e raggiungere un modus vivendi.
Bloccare il traffico sospetto di contrabbando di guerra nel Canale di Otranto, fuori quindi della portata della Marina Serbo-Montenegrina era, infatti, più agevole ed efficace, rispetto a quanto sarebbe stato possibile agendo al largo delle coste del Paese sotto embargo, una dimostrazione di quanto utili possano essere i “colli di bottiglia”; quando convenientemente sfruttati.
La differenza tra questo tipo di operazione e il classico “Blocco Navale”, è ben spiegata nella dottrina della US Navy nei termini seguenti:
- “un’operazione MIF è l’azione di negare l’accesso a specifici porti, per l’importazione/esportazione di beni, a una specifica Nazione o (a più) Nazioni. Le Nazioni usano periodicamente le forze militari per influenzare un Paese a conformarsi agli standard internazionali di comportamento.
- Le operazioni di Intercettazione Marittima sono una di quelle misure, intese a risolvere dispute mediante azioni al di sotto della soglia dei conflitti armati. Esse sono intese a controllare il flusso di armi e di beni verso e da un Paese (preso come) obiettivo.
- I Comandanti e gli altri decisori-chiave dovrebbero avere una conoscenza, a livello operative, dei principi e del Diritto Internazionale Marittimo, prima di iniziare un’operazione MIF;
- Le Nazioni Unite stabiliranno normalmente le norme per un embargo e autorizzeranno l’uso della forza nella sua imposizione, mediante una risoluzione del Consiglio di Sicurezza;
- Il diritto a imporre un embargo potrebbe anche discendere dal diritto internazionale consuetudinario, che definisce il diritto per una Nazione, o per un gruppo di Nazioni di difendersi da una minaccia alla pace o a una reale rottura della pace (anche chiamato “autodifesa individuale o collettiva”).”[13]
Oggi, come si è accennato all’inizio, l’Occidente si preoccupa soprattutto di assicurare una libera e sicura navigazione tra il continente asiatico e l’Europa, per garantire un flusso sicuro dei beni tra i due continenti, e uno studio recente ne fornisce un esempio probante.
- Un esempio dell’importanza dei “colli di bottiglia”
Un recente studio, pubblicato dal britannico “Royal Institute of International Affairs”[14], mette in evidenza una serie di rischi legati al possibile blocco di uno o più “colli di bottiglia”. Lo studio, infatti, sottolinea la situazione di pericolo che il traffico di derrate alimentari corre, nell’attuale situazione di tensione crescente tra le Potenze:
Anzitutto, lo studio nota che: “Il commercio internazionale di generi alimentari si basa su una rete di rotte marittime e terrestri, lungo le quali vi sono 14 “Choke points” di importanza strategica globale. Questi “Choke points” sono esposti a un insieme di rischi di intoppi che minacciano di ritardare carichi critici di cibo, ma questo rischio di intoppi resta ampiamente sottovalutato nelle attuali analisi sulla sicurezza alimentare. / Oggi, il sistema del cibo è una complessa rete di dipendenze commerciali e di catene di rifornimento internazionali, caratterizzata da una crescente inter-connettività. Tra il 2000 e il 2015, i volumi di prodotti alimentari scambiati sul mercato internazionale sono aumentati del 127%, per un totale di 2.2 miliardi di tonnellate”[15].
In questa situazione di crescente interdipendenza, “I rischi di un’interruzione dei flussi commerciali di derrate alimentari sono:
- Per i contadini, un ridotto accesso ai mercati, ritardo o cancellazione delle spedizioni, con implicazioni finanziarie per i commercianti;
- Per gli armatori o le imprese logistiche, incremento di costi e disservizi, anche se i profitti aumenterebbero, se i clienti fossero costretti a usare rotte più lunghe;
- Per le Assicurazioni, un modo per registrare perdite (iniziali), ma anche di maggiori profitti a regime;
- Per le ONG, impedimenti all’aiuto alimentare di emergenza e di forniture vitali da distribuire alle comunità che ne abbisognano;
- Per tutti i consumatori, interruzioni dei rifornimenti che potrebbero dar luogo a politiche governative e a reazioni dei mercati che porterebbero all’aumento dei prezzi di molte derrate, con conseguenze dirette o indirette sul costo del cibo”[16]
Dato che gran parte del traffico globale dei raccolti strategici passa attraverso uno o più di questi “Choke Points”, alcune derrate sono quelle più esposte a rischi. Infatti, sempre secondo tale studio:
- Il 55% del mais, grano, riso e soia commerciati internazionalmente sono trasportati attraverso almeno un “Choke Point”
- Una parte minore ma comunque significativa (11%) si appoggia per il transito a uno o tutti e due i Choke Points marittimi per i quali non esistono rotte alternative: gli Stretti Turchi e lo Stretto di Hormuz
- In termini di tonnellaggio, il transito annuale di granaglie varia da 24 milioni di tonnellate (attraverso lo Stretto di Hormuz) fino ai 108 milioni di tonnellate (attraverso lo Stretto di Malacca);
- L’Algeria, la Tunisia, la Libia e l’Egitto sono compresse tra lo Stretto di Gibilterra ad ovest e il Canale di Suez e lo Stretto di Bab-el-Mandeb ad est. Il 70% delle importazioni di grano in questi Paesi passa attraverso almeno un Choke Point che non ha alternative convenienti.
- Il 77% delle esportazioni di grano da Russia, Ucraina e Kazakhstan deve attraversare gli Stretti Turchi, e il 39% di queste esportazioni deve continuare attraverso il Canale di Suez e lo Stretto di Bab-el-Mandeb per raggiungere l’oceano Indiano e le sue destinazioni al di là di esso.
- Il Canale di Panama collega il centro principale americano di esportazione del mais e della soia, sul Golfo del Messico, con I mercati dell’Asia. Il canale gestisce il 36% e il 49% rispettivamente delle esportazioni USA di queste due derrate.
- L’India, il secondo maggior consumatore mondiale di fertilizzanti al fosfato, dopo la Cina, e il maggior importatore di fosfato di diammonio (DAP), dipende dalla Cina per il 58% delle sue importazioni di DAP. Il 100% di questo commercio deve attraversare lo stretto di Malacca.
Naturalmente, questi rischi non si limitano alle derrate alimentari, ma tutto il flusso di beni – siano essi materie prime o prodotti finiti – ne è soggetto.
- Le operazioni di controllo dei “colli di bottiglia”
La necessità di sventare i rischi alla stabilità mondiale, oltre che alla sicurezza del traffico mercantile, spiega perché, negli scorsi decenni, l’Occidente abbia svolto operazioni di controllo dei “colli di bottiglia”, nei periodi di maggiore crisi internazionale. Due esempi saranno sufficienti per chiarire quale importanza sia attribuita a quest’aspetto della “Sicurezza Marittima”.
Il primo esempio ci è dato dall’operazione, condotta dalla NATO nello “Stretto di Gibilterra(“STROG Ops”), nell’ambito dell’Op. Active Endeavour (OAE), decisa per contrastare il rifornimento di materiali sensibili ai terroristi, dopo l’attacco alle Torri Gemelle del 2001.
Nel marzo 2003, infatti, OAE è stata allargata per scortare, attraverso lo Stretto di Gibilterra, navi non-militari di Stati Membri dell’Alleanza che lo richiedessero. Quest’estensione della missione – la Task Force STROG (Stretto di Gibilterra) – fu concepita per aiutare a prevenire attacchi terroristici come quelli, al largo dello Yemen, contro lo USS Cole nell’ottobre 2000 e contro la petroliera francese Limburg due anni dopo.
L’area di Gibilterra era considerata, infatti, particolarmente vulnerabile a causa dell’estrema ristrettezza dello Stretto (14 km di larghezza per 59 di lunghezza) e per il fatto che circa 3.000 mercantili lo attraversano giornalmente. In totale, 488 navi si avvantaggiarono della scorta da parte della NATO finché la missione fu sospesa nel maggio 2004.
Il secondo esempio, dello stesso periodo, riguarda l’operazione nello Stretto di Bab-el-Mandeb, nell’ambito Op. Enduring Freedom (OEF). Durante le prime fasi dell’Operazione Enduring Freedom, cinque motocannoniere tedesche della classe Gepard furono dislocate per un anno a Gibuti, per scortare mercantili e unità da guerra USA e Britanniche attraverso lo Stretto.
La missione fu interrotta alla fine del 2002, ufficialmente per motivi finanziari (necessità di spese impreviste per potenziare i sistemi di condizionamento d’aria delle motocannoniere destinate a rimpiazzare quelle dislocate all’inizio del conflitto), anche se, in realtà, l’opposizione parlamentare al Bundestag (il Parlamento tedesco) aveva criticato questo invio di navi, ritenendolo in contraddizione con la posizione ufficiale del governo, che si era rifiutato di partecipare all’operazione OEF, che includeva l’invasione dell’Iraq.
- I punti sensibili del traffico mondiale
Andiamo a esaminare, ora, alcuni di questi “punti sensibili” delle rotte del commercio, concentrandoci su quelli di nostro più diretto interesse, e precisamente sui “colli di bottiglia” che influiscono sulla sicurezza dei traffici commerciali tra l’Asia e l’Europa. Sarà possibile, in questo modo, vedere come sia possibile migliorare, o garantire, la sicurezza dei traffici marittimi, vera a propria fonte della nostra prosperità.
Lo Stretto di Malacca
Lungo 580 miglia nautiche, lo Stretto separa la Malesia e l’isola di Sumatra in Indonesia. Viene percorso in 2 giorni alla velocità di 12 nodi. Circa 100.000 navi lo attraversano annualmente. Il nome dello Stretto deriva dal fatto che, dal 1400 al 1511, il Sultanato di Malacca ne dominava ambedue le rive, e questo dominio durò fino all’arrivo delle Potenze occidentali.
Prima il Portogallo e successivamente i Paesi Bassi ne occuparono la riva meridionale, mentre bisognò attendere l’inizio del XIX secolo, quando la Gran Bretagna occupò la Malesia, affinché lo Stretto passasse sotto il completo controllo occidentale.
Furono appunto queste due ultime Potenze a tracciare un confine arbitrario lungo lo Stretto e si accordarono per contrastare i pirati nelle rispettive zone di competenza. Infatti, già allora la pirateria nell’area era una minaccia importante, e i popoli litoranei la praticavano, per acquisire prosperità, a danno dei mercantili che trasportavano in Europa le spezie e i minerali preziosi.
Lo Stretto fu dominato, durante la Seconda Guerra Mondiale, dal Giappone, che invase la Malesia l’8 dicembre 1941, occupandola interamente il 15 febbraio 1942, quando la fortezza di Singapore si arrese. Quasi contemporaneamente, le forze giapponesi invasero l’Indonesia, nel gennaio 1942, e la conquistarono internamente all’inizio del marzo successivo. Per tutta la durata della Seconda Guerra Mondiale, quindi, le forze delle Nazioni Unite furono bloccate a ponente dello Stretto, non avendo la capacità di riconquistarlo, e il Giappone ebbe quindi la possibilità di utilizzarlo senza opposizione.
Dopo la resa del Giappone, l’Indonesia divenne indipendente il 1° gennaio 1949, dopo quasi quattro anni di guerriglia, e la Malesia ottenne la stessa condizione di Stato indipendente il 31 agosto 1957. Poiché quest’ultima Nazione possedeva la parte nord del Borneo, mentre l’Indonesia, che ne possedeva la parte meridionale, non intendeva riconoscere la Malesia come Stato, le parti decisero di risolvere la disputa con l’uso della forza.
Nel 1962-66, quindi, iniziò un conflitto non dichiarato, noto come “Konfrontasi”. L’Indonesia impiegò, prevalentemente, milizie di volontari, appoggiate dalle Forze Armate, mentre la Malesia, che aveva aderito al Commonwealth, ricorse all’aiuto britannico, australiano e neozelandese. Dopo quattro anni di combattimenti nella giungla del Borneo, senza che nessuna delle due parti riuscisse a prevalere, l’Indonesia riconobbe lo Stato di Malesia nella sua interezza l’11 agosto 1966. Lo Stretto di Malacca, sorvegliato dalla Marina Britannica, non fu teatro di atti di guerra, ma questo favorì il risorgere della pirateria.
La pirateria, soprattutto originata dagli abitanti della regione di Aceh, nell’isola di Sumatra, ha costretto i Paesi rivieraschi a collaborare, creando il ReCAAP (Regional Cooperation Agreement on Combating Piracy and Armed Robbery against Ships) nel 2004. Quest’organizzazione, nella quale l’Italia è stata ammessa in qualità di osservatore, ha ridotto il numero di attacchi ai mercantili, anche se abbordaggi continuano a verificarsi, specie nei confronti di mercantili di ridotte dimensioni.
Lo sbocco occidentale dello Stretto di Malacca, però, è controllato dalle isole Andamane e Nicobare, sotto la sovranità dell’India. Queste isole sono state fortemente militarizzate, con la costruzione di basi navali e aeroporti militari, e consentono all’India, in caso di altri conflitti con la Cina, di bloccare il flusso di petroliere, provenienti dal Golfo Persico, indispensabile per l’economia cinese.
All’estremità orientale vi è la città-Stato di Singapore. Questa Città-Stato si è preoccupata di sviluppare una Marina relativamente potente, e gode dell’appoggio americano, tanto che la US Navy è stata autorizzata di usare il porto di Singapore per disporre di una base di appoggio.
Vi sono, in effetti, alcuni passaggi alternativi, che possono consentire il transito tra l’Oceano indiano e il Mar della Cina Meridionale ai mercantili. Questi sono:
- Stretto della Sonda. Largo 26 km, con banchi di sabbia e isolotti rocciosi (pericolosi). Lo Stretto viene usato dai mercantili giapponesi e di altri Paesi asiatici, ma è vietato alle navi da guerra. L’Indonesia controlla ambedue le rive, e questo impone ai governi, le cui navi utilizzano lo Stretto, a mantenere buoni rapporti con il governo di Giacarta;
- Stretto di Lombok. Ad est di Bali, largo 26 km e profondo, quindi più sicuro per la navigazione. Viene normalmente usato dalle mega-petroliere e dalle navi da guerra, inclusi i sommergibili, sempre con il benestare dell’Indonesia che ne controlla le rive;
Una possibile futura alternativa è costituita dall’Istmo di Kra. Il taglio dell’istmo, lungo 44 km, fu proposto già nel 1677, poi nel 1793 ed infine nel 1882, quando il re di Tailandia proibì a de Lesseps di compiere rilievi dettagliati, su pressioni britanniche.
Il taglio non sarebbe, peraltro, un’opera agevole sul piano ingegneristico. La difficoltà principale risiede nella necessità di superare un dislivello di 75 m, maggiore, tanto per fare un paragone, con quello che fu necessario compensare durante il taglio dell’Istmo di Panama, pari a soli 29 metri. In ogni caso, la Cina l’ha ora inserito tra i progetti della «Nuova Via della Seta», malgrado la regione sia in subbuglio per i movimenti indipendentisti delle popolazioni locali, di fede islamica.
Lo Stretto di Hormuz
Lo Stretto di Hormuz è lungo 90 miglia nautiche, e separa l’Iran – il cui territorio occupa tutta la riva nord – dall’Oman e dagli Emirati Arabi Uniti. Il numero di navi che lo attraversa è pari a 40 mercantili ogni giorno, e la quantità di prodotti petroliferi ammonta quotidianamente ai 21 milioni di barili. L’80% del greggio che attraversa lo stretto, va ai mercati asiatici, soprattutto Cina, Giappone, India, Corea del Sud e Singapore.
Ogni guerra tra Paesi del Golfo Persico, dal 1980 ad oggi, ha causato una crisi dei trasporti, con attacchi alle petroliere e scontri tra navi da guerra. I Paesi occidentali, durante i periodi di crisi, sono ricorsi alla scorta diretta dei mercantili di bandiera. L’Italia è stata costretta, durante le guerre tra i Paesi rivieraschi del Golfo Persico a inviare unità da guerra, dopo l’abbordaggio del Jolly Rubino, la notte sul 3 settembre 1987, che portò all’invio del XVIII Gruppo Navale dopo che alcuni battelli armati iraniani avevano attaccato la nave portacontenitori al largo dell’isola di Fārsi, ferendo alcuni componenti dell’equipaggio.
In tempi recenti, la tensione tra gli USA e l’Iran ha portato il governo di Washington a proporre una coalizione per rendere sicuri i transiti dei mercantili, mentre Teheran minacciava di bloccare tutto il flusso di petrolio dal Golfo, se il greggio iraniano fosse stato discriminato. In effetti, dal maggio 2019, si sono verificati i seguenti incidenti marittimi nell’area:
- Sei attacchi contro mercantili;
- Abbattimento di un veicolo a pilotaggio remote (UAV) in acque internazionali;
- Tentativo d’intercettazione della M/N British Heritage, che batteva bandiera dell’isola di Man;
- Cattura della M/N panamense Riah;
- Cattura della M/N britannica Stena Impero;
- Detenzione e successivo rilascio della M/N liberiana
In sintesi, lo Stretto di Hormuz rimane uno dei “colli di bottiglia” più esposti alle conseguenze delle tensioni tra i Paesi rivieraschi, oltre ad essere usato dal governo iraniano come arma di pressione verso le Grandi Potenze, con la minaccia di interdirne il traffico.
Lo Stretto di Bab-el-Mandeb
Lo Stretto, tra lo Yemen e Gibuti, è largo 30 km, ed è caratterizzato dalla presenza dell’isolotto Perim, che lo divide in due parti di ampiezza differente. Fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale, il traffico si svolgeva solo tra l’isolotto e lo Yemen, ma ora i rilievi idrografici hanno portato i mercantili a seguire prevalentemente la rotta a sud dell’isolotto.
Grazie al possesso del vicino porto di Aden, fin dal 1839, la Gran Bretagna ha dominato il passaggio fino al 1967, quando si è ritirata, dopo quattro anni di guerriglia indipendentista, restituendo l’area allo Yemen.
Durante l’operazione Enduring Freedom lo Stretto è stato sorvegliato da motocannoniere tedesche, tra il 2001 e il 2002 (come si è visto). Oggi è uno dei teatri principali della «guerra civile» dello Yemen. Unità navali saudite lo pattugliano, e vengono spesso attaccate da motoscafi radiocomandati e da razzi, di produzione iraniana, in possesso degli Houti (Sciiti). Finora, solo tre mercantili, due sauditi e uno turco, sono stati attaccati con razzi.
Rimane la minaccia, divulgata nel 2017 dal canale TV Al Masirah, secondo il quale «le navi da guerra e le petroliere degli aggressori e i loro transiti non saranno al sicuro dal fuoco delle forze navali yemenite, quando ordinato dalle superiori autorità». Va detto, però, che queste ultime hanno sempre fatto attenzione a non attaccare navi appartenenti a Nazioni non direttamente coinvolte nel conflitto.
Lo Stretto di Gibilterra
La città di Gibilterra, appartenente alla Spagna, fu conquistata da una forza anglo-olandese nel 1704 e ceduta alla Gran Bretagna nel 1713 (Trattato di Utrecht). Da allora, è sempre stata una base della Royal Navy, essenziale per bloccare il traffico nemico.
Lo Stretto di Gibilterra è caratterizzato da forti correnti, una superficiale che va dall’Atlantico al Mediterraneo, e una sottomarina che procede il senso opposto. Durante la Seconda Guerra Mondiale, numerosi sommergibili italiani e tedeschi lo hanno attraversato in immersione, malgrado le forti correnti e i pattugliamenti di navi da guerra britanniche, che hanno causato, direttamente o indirettamente, alcune perdite (5 U-Boot);
La Spagna non ha mai accettato questa situazione, tanto che ha vietato alle navi da guerra dei Paesi NATO l’accesso nei propri porti, se le navi provengono da Gibilterra. Un modus vivendi è stato recentemente raggiunto, per effetto della BREXIT, in modo da non impedire ai lavoratori spagnoli che hanno trovato impiego nella città, di raggiungerla quotidianamente, oltre a garantire il flusso di beni indispensabili alla vita della sua popolazione.
La minaccia terroristica ha spinto la NATO a pattugliare lo Stretto, durante l’Operazione Active Endeavour, come si è visto.
Il Canale di Suez
Fin dall’antichità, i governanti dell’Egitto hanno pensato a collegare il Mediterraneo con il Mar Rosso, scavando un canale nell’Istmo di Suez. Il primo a pensare seriamente al progetto fu il Faraone NECO II (609-595 a.C) che fece iniziare lo scavo, salvo poi interromperlo, viste le difficoltà finanziarie e organizzative, anche perché alcuni scienziati lo avevano sconsigliato dal completare l’impresa, asserendo che vi fosse un sensibile dislivello tra i due mari, e il collegamento avrebbe quindi provocato una catastrofe.
Quasi un secolo dopo, invece, il re persiano Dario, che aveva conquistato l’Egitto, completò il progetto, con esito positivo, anche se il percorso tra i due mari non era diretto. L’opera fu mantenuta in esercizio nei secoli successivi, fino all’epoca dei Tolemaidi, che la fecero decadere, per gli eccessivi costi di manutenzione.
Ci volle l’occupazione dell’Egitto da parte di Roma per considerare di nuovo la riapertura del Canale, ma bisognò attendere l’avvento al trono dell’Imperatore TRAIANO per farlo riaprire, tanto che l’opera fu chiamata «Traianos Potamos».
Con la decadenza dell’Impero Romano l’opera cadde in disuso ancora una volta, finché il conquistatore arabo dell’Egitto, Amr bin al As lo fece riaprire, ma, successivamente, il califfo al Mansur nel 767 ne decretò l’interramento, un secolo dopo. I costi per mantenere aperta questa via d’acqua erano, infatti, esorbitanti, e richiedevano moltissima mano d’opera.
Dopo la conquista di Costantinopoli da parte degli Ottomani, e il successivo dirottamento dei flussi di commercio intercontinentale attraverso la cosiddetta “Rotta del Capo”; che circumnavigava l’Africa, per giungere alle Indie, la Repubblica di Venezia cercò di rientrare in quei flussi e, nel 1502, il Doge inviò Benedetto SANUDO in Egitto, per proporre la riapertura del canale di Suez.
Questo, in effetti, avrebbe consentito a Venezia di competere con i Portoghesi, che avevano il monopolio della «Rotta del Capo» di Buona Speranza, ma il Sanudo non riuscì a convincere il governo egiziano, e la missione si concluse senza successo. Non per questo si smise, in Occidente, di concepire progetti per collegare i due mari, anche se bisognò attendere il XIX secolo, e la fine delle guerre tra Europei, per vedere il sorgere di nuovi progetti, favoriti dalla tecnologia, che avrebbe reso un po’ meno arduo lo scavo. Il progetto che, alla fine risultò il migliore fu quello dell’Ingegnere austro-ungarico Luigi NEGRELLI, che era stato incoraggiato, tra gli altri, da un Ministro del governo piemontese, Pietro Paleocapa, anche lui un ingegnere.
Il progetto dell’ingegner Negrelli fu adottato dal diplomatico e imprenditore francese Fernand DE LESSEPS. Questi – ispirato dal libro di Jacques-Marie Le Père, che aveva compiuto sondaggi per ordine di Napoleone Bonaparte, durante il breve periodo di dominazione francese dell’Egitto – si entusiasmò all’impresa, raccolse i finanziamenti, ottenne il benestare del Capo del governo egiziano, il Khedivè, e adottò il progetto. La sua cura fu, però, quella di escludere i Piemontesi, che non offrivano adeguate prospettive di finanziamento.
L’altra ragione che aveva portato De Lesseps a escludere il Piemonte, era dovuto alle relazioni strettissime tra il governo di Torino e la Gran Bretagna, che fece di tutto per boicottare l’impresa, salvo poi, a cose fatte, acquisire un portafoglio significativo di azioni della Compagnie Universelle du Canal Maritime de Suez, comprandole dal governo del Khedivè, in gravi difficoltà finanziarie, nel 1875.
Il Canale fu inaugurato nel 1869, e si rivelò subito una fonte di proventi notevole, visto che il traffico dall’Europa verso le Indie e l’Asia orientale fu rapidamente dirottato verso la nuova rotta. Nel 1882, un anno dopo la “Rivolta dei Colonnelli”, condotta da Arabi Pascià, il quale minacciò di nazionalizzare il Canale, la Gran Bretagna occupò l’Egitto.;
Dopo la rivoluzione e l’indipendenza dell’Egitto, nel 1952, il Capo del Governo, colonnello Nasser, occupò la zona del Canale, nel 1956, nazionalizzandolo e sostituendo i piloti europei con ufficiali della Marina egiziana. Ovviamente, questo atto di forza non fu considerato accettabile dai governi francese e britannico, per cui una forza anglo-francese, al comando del generale Beaufre, invase la zona il 3 novembre 1956, per difendere i diritti delle società proprietarie, approfittando dell’attacco sferrato da Israele contro l’Egitto. Nonostante il successo militare, però, nel marzo 1957 la forza anglo-francese dovette ritirarsi, per l’opposizione USA, timorosa della minaccia di un intervento sovietico, a favore dell’Egitto.
Per ottenere il suo scopo, il governo di Washington aveva fatto crollare il valore della sterlina sul mercato di Wall Street, ponendo il governo di Londra nell’alternativa tra il continuare l’occupazione, e finire in bancarotta, oppure ritirarsi e garantire un minimo di benessere economico alla propria popolazione.
Bisogna, infatti, considerare che in quegli anni la Gran Bretagna, ormai priva delle parti più ricche del suo impero, e sommersa dai debiti contratti durante le due Guerre Mondiali, era costretta a politiche di austerità, gravose per la popolazione. Un ulteriore aggravamento, quindi, non sarebbe stato sopportabile.
Il Canale rimase chiuso dal 1967 fino al 1975, quando fu riaperto, grazie ai crediti internazionali, favoriti dal riallineamento dell’Egitto nel campo occidentale. Da allora, il traffico riprese regolarmente, favorito da periodici ampliamenti, per consentire il transito alle navi di maggiori dimensioni, che nel frattempo erano entrate in esercizio.
La più recente crisi per l’Egitto si è verificata nel periodo 2000-2008, quando il risorgere della pirateria nel Golfo di Aden ha causato una forte diminuzione dei transiti (20%-25%) e ha contribuito ad aggravare la crisi economica che ha rovesciato il regime di Mubarak. Dopo un periodo di turbolenze interne, l’Egitto ha ottenuto i finanziamenti necessari per raddoppiare il Canale, rendendo così i transiti più agevoli, anche alle navi grandi, senza il bisogno di soste intermedie.
- Conclusioni
Dopo questa lunga panoramica, è necessario trarre alcune conclusioni. Anzitutto, i “colli di bottiglia” sono zone di particolare utilità, ai fini strategici, dato che si prestano sia a operazioni difensive, con forze quasi sempre limitate, sia a operazioni offensive – in primo luogo l’Interdizione (o Intercettazione) Marittima.
Essi sono, però, dei punti di particolare vulnerabilità del traffico mercantile, e impongono la capacità, da parte dei Paesi interessati a mantenere sicuri i flussi commerciali, di controllarli con forze adeguate ed efficaci.
Il fatto che, nel recente passato, si sia fatto appello a un solo Paese, la Germania, per ottenere questi tipi di forze, indica la scarsità di mezzi idonei a tali missioni. La tendenza generale delle costruzioni navali, in Occidente vede, infatti, che la preferenza generale delle Marine è orientata verso unità militari di grandi dimensioni, adatte quindi a svolgere compiti militari nelle agitate acque degli oceani.
Questo, intendiamoci, non è assolutamente un male, viste le sfide e le tensioni che crescono tra le Potenze mondiali. Va però considerato che un minimo di forze adatte a missioni di controllo dei “colli di bottiglia” debba esistere, anche perché proprio in acque ristrette gli attori non-statuali sono in grado di incidere sui flussi di commercio più efficacemente che non in mare aperto.
Come al solito, sarà necessario qualche incidente, si spera senza vittime – come nel caso del Jolly Rubino, dove solo il Comandante si ruppe una gamba, scendendo velocemente da una scaletta – per convincere i governi occidentali a predisporre le capacità adatte ai “colli di bottiglia”, moderando la tendenza, già accennata al gigantismo delle unità militari.
[1] Secondo una definizione della Strategia Teorica, “I punti strategici sono quei siti dai quali si può minacciare più opportunamente e più efficacemente il nemico; che in pari tempo non ci espongono ad esserne minacciati con vantaggio, e che perciò importa occupare” (in L. Fincati, Aforismi militari, Forzani & C., 1882, p. 20).
[2] Come osservava uno stratega contemporaneo, “Per vincere è necessario far massa nel momento opportuno, nella direzione opportuna e coi mezzi opportuni contro il punto sensibile dell’avversario” (G.Fioravanzo, “La guerra sul mare e la guerra integrale”, Ed.Schioppo, 1930, vol. I, p. 71).
[3] G. TILL, Seapower”. Ed. Routledge, 2009, pag. 182.
[4] P. P. RAMOINO. “Fondamenti di Strategia Navale”. Ed. Forum di Relazioni Internazionali, 1999, pag. 77.
[5] P.P. RAMOINO. Op. cit. pag. 81.
[6] M. VEGO. “Naval Strategy and Operations in narrow seas”. Ed. Frank Cass, 1999, pag. 26.
[7] Ibid.
[8] Ibid. pag. 17.
[9] Ibid. pag. 18.
[10] Ibid.
[11] Ibid. pag. 47.
[12] J. H. HOLMES & T. YOSHIHARA. “Chnese Naval Strategy in the 21th Century”. Ed. Routledge, 2008, pag. 30.
[13] US NAVY. Experimental Tactics (EXTAC) 1012.
[14] B. BAILEY & L. WELLESLEY. “Choke Points Vulnerabilities in Global Food Trade”. Ed. Chatham House, June 2017.
[15] Ibidem.
[16] Ibidem.