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I TRAFFICI MARITTIMI E LA GUERRA IN UCRAINA
Amm. Sq. Ferdinando SANFELICE di MONTEFORTE
La guerra in Ucraina ha sconvolto il panorama internazionale, mettendo seriamente in pericolo la qualità di vita di noi Europei: l’aumento dei prezzi di beni di prima necessità, come i combustibili e le granaglie, legato alla chiusura dei commerci con il mar Nero e il Mar d’Azov, ha mostrato quanto profonda sia la nostra dipendenza dall’importazione delle materie prime, e di conseguenza dai traffici marittimi.
Nulla di nuovo! Già nel 1914 Salandra, all’epoca Capo del Governo, osservava, a proposito dell’Italia, che “non erano venute meno le ovvie ragioni per le quali a noi era impossibile partecipare a una guerra contro la Francia ed Inghilterra alleate: non il bisogno assoluto di rifornimenti per via di mare di cose essenziali alla economia nazionale ed alla vita stessa: grano e carbone soprattutto”[1].
Appunto, il grano e il carbone (oggi si parla di energia). La chiusura delle importazioni dal mar Nero ci costringe a cercare altri Paesi fornitori per il grano, attraverso accordi con Paesi più lontani. A questo si aggiunge, per l’approvvigionamento energetico, la consapevolezza del “grave pericolo cui espone la Nazione la dipendenza da un combustibile proveniente da Paesi stranieri, sui quali noi non esercitiamo nessun controllo geografico e neppure completo finanziario”[2], un fenomeno noto fin dagli anni 1930 e che preoccupava persino la Gran Bretagna. I fornitori di energia, che possiamo considerare alternativi al gas russo, rientrano, in gran parte, in questa tipologia, con l’aggravante che, spesso, si tratta di Paesi afflitti da discordie interne, e quindi altamente instabili.
Come si è arrivati a questa situazione, che minaccia la nostra qualità di vita e rischia di stravolgere tutto il sistema internazionale dei commerci marittimi? Già nel 2014, dopo l’occupazione manu militari della Crimea e il supporto al secessionismo del Donbass, da pare della Russia, gli Occidentali – sia gli USA, sia l’Unione Europea – avevano comminato una serie di sanzioni, per scoraggiare Mosca dall’intraprendere altre avventure militari.
Iniziarono gli USA, bloccando il permesso di esportare beni di consumo high tech in Russia, e la UE ha seguito l’esempio, impedendo investimenti significativi alle loro imprese, tagliandole fuori da un loro cliente importante. Ambedue, poi, hanno deciso misure finanziarie contro individui e imprese russe, che hanno limitato i flussi di capitale con la Russia.
Come accade in questi casi, Mosca rispose con contro-sanzioni, bloccando, oltre all’esportazione dei motori missilistici per raggiungere la Stazione Spaziale Internazionale, anche le “notevoli importazioni di cibo dall’Europa, danneggiando tanto i contadini dell’UE quanto i propri stessi cittadini a causa del rialzo dei prezzi dei generi alimentari”[3].
Si sa che le armi economiche, come osservava uno studioso sovietico, “sono a doppio taglio, e spesso infliggono le stesse ferite a coloro che le impugnano, rispetto a ciò che fanno al nemico”[4]. Non ci si deve stupire, quindi, che le sanzioni decise nel 2014, graduate in modo da minimizzare gli effetti sui Paesi UE, non abbiano scoraggiato la Russia, nella sua sempre più profonda ostilità verso l’Ucraina.
Parallelamente, si è verificato anche un altro fenomeno, decisamente più potente, rispetto alle stesse sanzioni. Infatti, con la fuga di imprese e di servizi dalla Russia, si è iniziato lo smantellamento, sia pure graduale, dell’intricata rete di rapporti commerciali e industriali, che avevano avuto la funzione di creare un elevato livello di interdipendenza – il più collaudato sistema di prevenzione dei conflitti. Fino all’invasione dell’Ucraina, però, questo fenomeno era rimasto su livelli limitati.
Ora, purtroppo, abbiamo la dimostrazione che il fatto di aver mantenuto un certo livello di interdipendenza, almeno per i beni essenziali, non ha evitato la degenerazione di una disputa secolare – quella tra Russi e Ucraini – in guerra aperta all’ultimo sangue, per cui l’Occidente si sta domandando se convenga mantenere “normali” relazioni commerciali con un Paese, come la Russia, che usa la propria forza militare in violazione della Carta dell’ONU in modo assolutamente massiccio.
La dimostrazione che questa perdita di fiducia nei confronti di Mosca, quale interlocutore affidabile, non sia solo un fenomeno dibattuto a livello accademico ci è data, da un lato, dal moltiplicarsi di sanzioni da parte dell’Occidente, e dall’altra dall’accelerazione della fuga delle imprese occidentali, di fronte a questo atteggiamento aggressivo russo che – se accettato sia pure obtorto collo – potrebbe incoraggiare altre, più pericolose avventure.
Tutti, infatti, hanno in mente quanto avvenne, ad esempio, con la Germania di Hitler negli anni 1930, che male interpretò il c.d. appeasement e si sentì incoraggiata da quella che interpretò come inerzia delle Potenze europee, finché non fu troppo tardi. Per questo, anche i due settori vitali delle granaglie e dell’energia sono stati messi sotto esame, e ci si è dedicati alla ricerca di filiere alternative, per giungere all’isolamento economico della Russia, e ridurne le capacità offensive, prima che si arrivi a un’ennesima guerra mondiale.
Naturalmente, ci si trova di fronte a una situazione che, per noi Europei, è causa di preoccupazioni notevoli: siamo arrivati al confronto, sempre più accanito, tra due “Grandi Potenze”, ambedue esportatrici di energia e di granaglie, e in mezzo c’è l’Europa, che importa in quantità massicce ambedue queste tipologie di beni, e sta raggiungendo la convinzione di rinunciare, se non per sempre, almeno per tempi lunghi, a uno di questi due fornitori.
Fino a questo brusco risveglio, i governi europei si erano dimostrati poco lungimiranti, cullandosi nell’illusione che – in fondo – nulla di grave sarebbe accaduto. Ciò malgrado l’Europa, già nel 2008, avesse segnalato che “È essenziale una maggiore diversificazione di combustibili, fonti di approvvigionamento e rotte di transito, come lo sono il buon governo, il rispetto dello stato di diritto e gli investimenti nei paesi d’origine”[5]. Nonostante questo avvertimento, valido non solo per la sicurezza energetica, ma anche per quella alimentare, i governi europei avevano continuato ad approvvigionarsi di questi beni essenziali al proprio sviluppo acquisendoli laddove questi costavano di meno.
Si era quindi arrivati al paradosso di incrementare gli scambi proprio con la Russia, oggetto di sanzioni in altri settori. Non meraviglia, quindi, che il benessere di noi Europei stia diventando sempre più precario, non avendo predisposto per tempo alternative alle importazioni di questi beni essenziali.
È un fatto, quindi, che i nostri governi debbono ora orientare politicamente, agendo all’ultimo minuto, le importazioni e – più in generale – gli scambi commerciali e finanziari, abbandonando il vecchio principio liberistico, valido solo in tempo di pace, della ricerca delle fonti più a buon mercato. Ovviamente, i fornitori alternativi, di fronte alla nostra fretta di concludere questi accordi, stanno praticando prezzi e condizioni non certo favorevoli a noi, profittando della nostra imprevidenza.
Tra i Paesi europei, l’Italia è quella che dipende, più degli altri, dalle materie prime e dall’energia provenienti dall’estero. Essa deve quindi attuare una “strategia degli approvvigionamenti”, insieme agli altri Paesi membri dell’UE, oppure, se non si raggiungerà alcun accordo, anche da sola.
Vi sono tre opzioni possibili, in linea generale, attuabili separatamente o anche, per taluni aspetti, in simultanea. La prima consiste nel legarsi, mediante contratti a lungo termine, con un grosso fornitore – possibilmente non una superpotenza – mediante clausole che garantiscano una regolarità di forniture, anche in situazioni di volatilità dei mercati. Questo è, ad esempio, l’approccio adottato dalla Germania, che si sta rivelando utile, avendola messa al riparo dall’improvviso aumento dei prezzi dell’energia dei mesi scorsi.
L’inconveniente di questo approccio è, soprattutto, legato all’identità del fornitore stesso, che agisce in condizioni di quasi monopolio: se quest’ultimo si rivela un potenziale nemico, si correrà il rischio di dover rescindere il contratto, pagando o meno le relative penali, e dover poi affannarsi a trovare fornitori che possano sostituirsi totalmente al precedente, talvolta a prezzi da strozzinaggio.
La seconda opzione è di rendersi indipendenti, il più possibile, da forniture esterne. La via più gradita dall’opinione pubblica è quella delle energie alternative, sia quelle rinnovabili, sia quelle riguardanti l’uso, quando e se si troveranno metodi poco costosi, dell’idrogeno, dato che la possibilità di incrementare l’estrazione di idrocarburi dalle nostre zone economiche esclusive, lumeggiata alcuni anni fa, non ha incontrato il favore generale, viste le implicazioni negative per il turismo, altra fonte di benessere per il nostro Paese.
Anche se si dice che il mondo galleggia su un mare di idrocarburi, bisogna ammettere che la loro estrazione non è sempre praticabile a costi contenuti. Il pericolo, poi, di inquinamenti disastrosi, per un Paese come il nostro che sta valorizzando le proprie bellezze naturali e monumentali a fini turistici, ha finora scoraggiato più di un governo dall’intraprendere questa strada.
Fortunatamente esiste una terza alternativa, e precisamente quella suggerita, fin dal 2008, dall’UE. Nella già citata “Relazione sull’attuazione della strategia europea in materia di sicurezza”, veniva infatti notato che: “le importazioni proverranno da un numero limitato di paesi, molti dei quali sono confrontati a minacce per la stabilità. Siano quindi di fronte a una serie di sfide in materia di sicurezza che richiedono la responsabilità e la solidarietà di tutti gli Stati membri”[6]. La proposta, come si è visto, consisteva nel proteggersi mediante un elevato livello di diversificazione delle fonti.
Diversificare significa, in linea di massima, acquisire pochi beni da molti fornitori, in modo da non trovarsi nei guai, se una fonte si chiude, o bisogna abbandonarla. Questo approccio, se attuato nei confronti di Paesi poco stabili intrinsecamente, impone accordi omnicomprensivi, a livello bilaterale, in modo da rendere le forniture più stabili e sicure: la situazione è appunto quella di rendere il fornitore non solo interdipendente con noi, ma meno instabile, grazie al miglioramento della qualità di vita della sua popolazione. Questo è, appunto, ciò che il nostro governo ha iniziato a fare, nelle ultime settimane, con alcuni Paesi del Nord Africa.
Comunque, questa soluzione non esclude le altre. Infatti, avere il massimo possibile di produzioni proprie è un modo per attenuare l’impatto delle crisi. Questo è valido sia per i combustibili sia, e soprattutto, per il grano e per gli altri generi alimentari che importiamo da Paesi che praticano prezzi concorrenziali, rispetto alla nostra agricoltura.
Una “Strategia della Diversificazione” delle fonti di produzione, per noi che siamo importatori netti, è quindi indispensabile per tutte le materie prime, non solo per il grano e per l’energia. Se ben concepita, infatti, la diversificazione è l’unica arma a disposizione di ogni Paese importatore di materie prime, e questo è particolarmente vero per l’Italia, se sarà in grado si scegliere di rifornirsi da chi è nostro amico, danneggiando così chi ci vuole male.
Vediamo, quindi, un primo, forte legame che esiste in questo campo, quello tra le strategie energetiche e le relazioni internazionali. Chi abbia esperienza di lavoro con qualche compagnia petrolifera lo avrà già notato: i rapporti che queste intrattengono con altri Paesi e perfino con attori non statuali sono numerosi. Ovviamente, uno Stato deve farsi parte dirigente in materia, per non sottostare ad approcci che potrebbero essere controproducenti, sul piano internazionale, visto che le compagnie petrolifere hanno come scopo principale quello di dimostrare agli azionisti i profitti ottenuti nell’anno appena trascorso. La “sindrome del 31 dicembre” è un fenomeno che può portare a scelte disastrose, nel lungo periodo.
Importare, quindi, deve far parte di accordi più ampi, soprattutto per creare una situazione di interdipendenza, un legame reciproco che duri nel tempo e prevenga colpi di testa delle controparti. Questo è il ruolo dello Stato, che dovrà sovrapporsi alle iniziative delle compagnie petrolifere, temperandole e incanalandole in un ambito più ampio. Se questo è valido per i combustibili, lo è a maggior ragione per i beni alimentari, dove grandi compagnie hanno poteri simili a quelli delle ex “Sette Sorelle” di un tempo.
Una volta soddisfatte le necessità vitali del Paese, però, il lavoro non è finito. Anzitutto, bisogna essere consapevoli che il cambio di fornitori provoca effetti non secondari, in giro per il mondo.
Diceva, infatti, Mahan: “il mare, o l’acqua, è solo un grande mezzo di circolazione creato dalla natura, proprio come il denaro è stato creato dall’uomo per lo scambio di prodotti. Cambiate il flusso di uno qualsiasi di questi fattori, come direzione o intensità, e modificherete le relazioni politiche e industriali del genere umano”[7]. L’attuale tendenza occidentale a “de-russificare” gli approvvigionamenti dei beni essenziali, appunto il grano e l’energia, si colloca appunto in questa linea.
Anche questi cambiamenti non sono una novità. Basti pensare cosa avvenne dopo il 1453, quando la “Via della Seta” fu chiusa dall’Impero Ottomano, prima con la conquista di Costantinopoli e poi con il dominio dell’Oceano Indiano: alcuni Paesi occidentali capirono che bisognava ricercare altre vie del commercio marittimo. La Spagna, da poco liberata dalla presenza araba, aprì la via delle Americhe, mentre il Portogallo riuscì a collegarsi direttamente con l’India, sia pure al prezzo di feroci battaglie navali, per distruggere il potere marittimo della Sublime Porta nell’Oceano Indiano.
Noi mediterranei, però, ci ritrovammo tagliati fuori dal grande commercio, perdemmo ricchezza e potenza, finendo per diventare delle pedine nel grande gioco tra le potenze dell’epoca, quasi tutte con le coste che si affacciavano sull’Oceano Atlantico.
Dovemmo, quindi, attendere che si creassero le condizioni per lo scavo del Canale di Suez per ritrovarci, ancora una volta, al centro della rete dei traffici marittimi, e riprendere, così, almeno una parte del passato benessere.
Come si vede, ogni deviazione dei grandi flussi del commercio comporta conseguenze economiche pesanti e, di conseguenza, un’alterazione dei rapporti tra Nazioni. Non è detto, però, che tutti accettino questi cambiamenti senza reagire: la pirateria, ad esempio, è un fenomeno che, spesso, viene sponsorizzato da chi vuole influire sui flussi del commercio.
All’inizio del XXI secolo, ad esempio, la pirateria del Corno d’Africa ha provocato una deviazione dei flussi commerciali, che hanno abbandonato la via diretta dall’Asia all’Europa, attraverso il golfo di Aden e il mar Rosso, per circumnavigare l’Africa, privilegiando il tal modo, dopo vari secoli, di nuovo i porti atlantici dell’Europa.
Bisogna quindi considerare, specie quando aumenta la tensione internazionale, come avviene ora, la necessità di proteggere le “autostrade del commercio”, le “filiere”, come si dice oggi. Dovendo rinunciare alle fonti vicine, per la guerra in Ucraina, e precisamente i gasdotti che attraversano quella disgraziata Nazione, e i porti del Mar Nero, dove caricavamo il grano, dipendiamo da “filiere” più lunghe e, di conseguenza, più vulnerabili. Questa volta, però, non si tratta più di proteggerle solo dai pirati o dai terroristi, ma bisogna anche essere pronti a prevenire atti ostili da parte dei Paesi che ci considerano nemici.
Questo vale, come si è accennato, non solo per i traffici marittimi, ma anche per gli oleodotti/ gasdotti, in gran parte posati sui fondali marini. La loro protezione, come osservava l’UE, è necessaria specie perché partono da – o passano per – zone di guerra o di instabilità. Guardate le filiere cui ci stiamo affidando, specie quelle che provengono dall’Africa Occidentale o passano attraverso il golfo di Aden e il mar Rosso, per notare quanto necessario sia garantirle. Se ci affidiamo alla buona sorte, e non pensiamo a proteggere il flusso di merci e di energia che le utilizza, rischiamo il tracollo!
[1] A. SALANDRA. La Neutralità Italiana. Ed. Mondadori, 1928, pag. 92.
[2] B. ACWORTH. La Gran Bretagna in pericolo. Ed. Bompiani, 1938, pag. 174.
[3] P. KHANNA. Connectography, Ed. Fazi, 2016, pag. 273.
[4] A. A. SVECHIN. Strategy. East View Publications, 1997, pag. 109.
[5] UE. Relazione sull’attuazione della Strategia Europea in materia di Sicurezza. 11 dicembre 2008, pag. 5.
[6] UE. Relazione sull’attuazione della strategia europea in materia di sicurezza. 11 Dicembre 2008, pag. 5.
[7] A. T. MAHAN. Strategia Navale. Ed. Forum Relazioni Internazionali, 1997, Vol. I pag 201.