Scarica il File in PDF – SANFELICE – IL MEDITERRANEO E LA GUERRA IBRIDA – luglio 2018
IL MEDITERRANEO E LA GUERRA IBRIDA
Amm. Sq. Ferdinando SANFELICE di MONTEFORTE
LUGLIO 2018
Introduzione
Da qualche tempo si fa un gran parlare della “Guerra Ibrida”, come di una nuova forma di lotta tra Stati e tra organizzazioni non-statuali (gruppi di potere, organizzazioni estremiste e terroriste, ecc.) nella quale si ricorre all’impiego dei modi più disparati per danneggiare gli avversari e accrescere la propria potenza.
Questo termine è stato, in effetti, utilizzato per la prima volta in ambito USA nel 2005, per poi essere adottato dalla NATO. Infatti, nella dichiarazione finale del vertice alleato in Galles, nel 2014, si legge: “Faremo in modo che la NATO sia in grado di affrontare le sfide specifiche poste dalle minacce poste dalla guerra ibrida, in cui un ampio spettro di misure palesi e occulte, militari, paramilitari e civili sono utilizzate in un progetto altamente integrato”[1].
Da tale dichiarazione, si è sviluppato un dibattito a livello accademico, che peraltro non ha ancora portato a definire questo concetto in modo univoco. Infatti, come nota una rivista dell’Alleanza, “il succo del dibattito è che gli attuali avversari usano mezzi convenzionali e non convenzionali, regolari e irregolari, palesi e nascosti, e sfruttano tutte le dimensioni della guerra per combattere la superiorità occidentale nella guerra convenzionale. Le minacce ibride sfruttano l’intero spettro della guerra moderna; esse non sono limitate ai mezzi convenzionali”[2].
Sempre in ambito NATO, alcuni considerano che “in generale, la guerra ibrida può essere concepita come una combinazione creativa di approcci e mezzi civili e militari che sono dispiegati in modo sincronizzato”[3].
Al di fuori della NATO, le definizioni proposte sono numerose e divergono tra loro anche sensibilmente, sotto alcuni aspetti. La prima definizione, riportata in un documento dell’UE, afferma che “il concetto tenta di spiegare la mescolanza di attività coercitive e sovversive, metodi convenzionali e non convenzionali (diplomatici, militari, economici, tecnologici) che possono essere usati in modo coordinato da attori statuali e non statuali per conseguire specifici obiettivi, rimanendo al di sotto della soglia della guerra dichiarata formalmente. Vi è di solito un’enfasi sullo sfruttamento delle vulnerabilità dell’obiettivo e sull’intento di generare ambiguità per compromettere i processi decisionali. Massicce campagne di disinformazione, che usano i social media per controllare le narrative politiche o per radicalizzare, reclutare e dirigere attori delegati possono essere veicoli per le minacce ibride”[4].
Una seconda definizione, fornita da un ex Comandante Supremo NATO, ora un apprezzato studioso di strategia, sostiene che “l’idea fondamentale della guerra ibrida è quella di trovare lo spazio (operativo), al di sotto della chiara azione militare, con impatto diretto e riconoscibile (di tipo) tattico, operativo e strategico, e di comprimerlo in una zona in cui viene creata una sufficiente ambiguità per fornire a un attore offensivo migliori possibilità di conseguire un obiettivo, senza una totale, evidente azione offensiva”[5].
Una terza definizione, anch’essa di fonte accademica, parla di guerra ibrida come “l’utilizzo sincronizzato di strumenti di potere multipli miranti a specifiche vulnerabilità entro l’intero spettro di funzioni societarie per conseguire effetti sinergici”[6].
Da quanto detto in ambito NATO, nonché da queste definizioni, emergono alcuni elementi significativi:
- La guerra ibrida, secondo la maggioranza delle opinioni di origine accademica, è costituita da una serie di azioni destinate a rimanere al di sotto della soglia dei conflitti dichiarati.
- La NATO, invece, vede la “Guerra Ibrida” come una serie di dispute che includano anche il conflitto armato. Il modello di tale forma di guerra, spesso citato in via ufficiosa, è quello della rivolta del Donbass, contro il governo ucraino.
- Questo tipo di lotta punta a colpire le vulnerabilità dell’avversario, siano esse di tipo economico, tecnico (specie la componente cibernetica), infrastrutturale, informativo, sociale o demografico;
- Ogni mezzo è buono per danneggiare il nemico, incluse le false notizie e la propaganda. La creatività nel trovare modi sempre nuovi per creare imbarazzo o danneggiare il campo avverso ne è quindi una componente essenziale;
- Per conseguire gli effetti sperati, non basta una sola azione, bensì servono più atti sincronizzati, del tipo più diverso.
Anche se l’uso di mezzi diversi dalle armi è antico quanto il mondo, poter dire che è in atto una “guerra ibrida” presenta una serie di difficoltà. Anzitutto, è difficile a uno Stato capire se esso sia o meno oggetto di una guerra ibrida, in un mondo nel quale le Nazioni, anche quelle amiche, si scambiano spesso dispetti e si tendono trabocchetti, in nome del motto latino “Mors tua, vita mea”, ma non per questo dichiarano di essere coinvolti in una “guerra Ibrida” tra loro. Pensate al calore di certe discussioni in ambito UE, e sarete tentati di assimilarle a questa forma di conflitto, salvo poi a scoprire che, alla fine, i contendenti si mettono d’accordo.
Il secondo problema è che il ricorso sia ad attori “per procura”, sia a mezzi che celano l’identità dell’aggressore, come avviene nel campo della sponsorizzazione del terrorismo, nell’ambiente cibernetico e nelle sue applicazioni informative, rende difficile alla vittima identificare con certezza, fino a smascherarlo di fronte alla propria opinione pubblica, l’aggressore. Quindi, in assenza di prove attendibili, non vi è spesso una sufficiente giustificazione per un’eventuale reazione, almeno in tempo reale.
Non a caso, il tipo di difesa che viene raccomandato dagli esperti è la “resilienza”, alias la capacità di assorbire i colpi minimizzandone le conseguenze. In sintesi, a fronte di attacchi di tal genere, non si può far altro che “parere i colpi” e resistere, almeno fintantoché sarà possibile scoprire chi sia il nostro nemico.
Il terzo problema è che la creatività umana è infinita: si può usare tutto per sovvertire uno Stato avversario, e la consapevolezza sull’esistenza di questa infinita varietà di possibili atti ostili può produrre nelle vere o presunte vittime di questo tipo di aggressione una reazione di paranoia, simile a quella di coloro che si sentono odiati da tutti. La paranoia, a livello governativo, conduce spesso a eccessi di reazione, con conseguente allentamento di legami con Nazioni amiche, un fatto di cui, un domani, ci si potrebbe pentire.
Una volta ammesso che sono pochi gli attori statuali desiderosi di sovvertire l’equilibrio esistente, nell’attuale contesto internazionale, in quanto anche loro diverrebbero vittime di sconvolgimenti radicali, bisogna ammettere che azioni ostili, al di sotto della soglia dei conflitti armati, siano sempre più popolari presso gli statisti, desiderosi di “farla pagare” a chi li ha danneggiati, siano essi amici, avversari o nemici giurati.
L’uso di mezzi diversi dalla guerra convenzionale e dichiarata, per danneggiare gli avversari non è, in effetti, un fenomeno recente. Singole misure in tal senso sono state utilizzate ampiamente nel passato: si pensi all’appoggio britannico alla guerriglia spagnola, durante l’invasione napoleonica, alle “Guerre dell’Oppio” del XIX secolo, che ridussero la Cina all’impotenza, corrompendo larghe fasce della sua popolazione, oppure all’azione del governo USA che, tra le due guerre mondiali, appoggiò la resistenza cinese contro il Giappone, e, più di recente, bloccò l’invasione anglo-francese del Canale di Suez, facendo crollare la sterlina sul mercato di New York.
Per quanto riguarda poi lo sfruttamento di agenti “per procura”, basti pensare a quanti Paesi, negli ultimi tre secoli, hanno finanziato i movimenti di guerriglia o, peggio, i gruppi terroristici per conseguire i loro obiettivi. Da questa casistica oltremodo ampia si può capire quanto spesso le Nazioni abbiano cercato di “tirare il sasso e nascondere la mano”, quando non volevano esporsi direttamente in una situazione che li danneggiava.
A fronte di un nutrito numero di studiosi di questo fenomeno apparentemente nuovo, vi sono alcuni che, sulla base degli esempi storici sopra riportati, nonché di numerosi altri simili, affermano che la “Guerra Ibrida” non esista, ma sia semplicemente una nuova forma della guerra, quale è sempre esistita. L’unico aspetto evidenziato da quasi tutti, è che l’enfasi viene data ai mezzi non violenti, anziché alle armi.
In effetti, già negli anni 1950 c’era chi sosteneva che “quando un governo valuta che il nemico possegga la superiorità militare, vuoi in generale, vuoi in un teatro specifico, può saggiamente adottare una strategia dallo scopo limitato. Esso potrà preferire l’attesa finché l’equilibrio di forze possa cambiare. Può decidere di attendere, o anche di limitare in permanenza il proprio sforzo militare, mentre l’azione economica o navale decida l’esito”[7].
Il ricorso a mezzi non violenti per danneggiare un avversario, specie quelli economici, inoltre, era stato analizzato in precedenza, negli anni tra le due guerre mondiali, e uno studioso sovietico, SVECHIN, parlando dell’arma economica, aveva avvertito che “le spade economiche sono a doppio taglio e spesso infliggono le stesse ferite a coloro che le impugnano, come fanno al nemico”[8]. Questa osservazione, di enorme attualità anche oggi, data la guerra dei dazi in corso, si può facilmente estendere a tutti gli altri mezzi non violenti. Bisogna, infatti, aver cura che le misure intraprese nella “Guerra Ibrida” non danneggino chi le usa, dato che possono ritorcersi facilmente contro di esso.
Quindi, come si vede, le azioni ostili che non comportino l’uso della forza, come quelle economiche, erano già nel secolo scorso oggetto di interesse presso gli studiosi di strategia, i quali le avevano definite come “strategie dallo scopo limitato”, nel senso che esse non miravano a schiacciare il nemico, ma semplicemente a indebolirlo, e avevano avvertito che tali misure sono armi di difficile maneggio.
Bisogna quindi affrontare il problema della “Guerra Ibrida” con razionalità, come compete a ogni buon stratega. Il primo parametro di base, per poter asserire di essere oggetto di una minaccia ibrida non può che essere l’esame complessivo dei rapporti bilaterali: solo se abbiamo prove adeguate che qualcuno ci vuole male, e ci danneggia in modo ripetitivo e spesso crescente, allora, a fronte di una serie di atti ostili concomitanti, possiamo sospettarlo di aver scatenato una “guerra ibrida” contro di noi.
Il secondo parametro è infatti costituito dalla sincronizzazione delle azioni ostili: se una serie di misure economiche si unisce a massicci attacchi cibernetici – quale quello portato contro l’Estonia nel 2007 – a fenomeni di sovversione emersi di recente, spesso senza preavviso, nonché a una serie di incidenti dolosi di carattere apparentemente inspiegabile, solo allora sarà possibile asserire di essere oggetto di una “Guerra Ibrida”. La sincronizzazione di questi eventi nel tempo e nello spazio sarà quindi il metro di giudizio definitivo.
La situazione nel Mediterraneo
Nel Mediterraneo allargato, oggi, assistiamo a una serie di dispute, in parte estremamente violente e in parte al di sotto della soglia dei conflitti. Si devono infatti distinguere il quadro generale di violenza senza limiti, che sta sconvolgendo la “Galassia Islamica” dai fenomeni più o meno ad esso collegabili, che possono far parte della “Guerra Ibrida”. Vengono infine le varie “punture di spillo” isolate, sintomo di contenziosi tra Nazioni che non intendono rompere le relazioni diplomatiche, ma che vogliono inviare messaggi circa la loro fermezza nel non tollerare questa o quella lesione ai loro interessi. Quando di recente asserito da Presidente TRUMP, circa l’insoddisfacente stato dei rapporti tra gli USA e l’UE, è un esempio di questa terza tipologia.
Quindi, il quadro generale ci mostra anzitutto l’acuirsi della guerra all’ultimo sangue tra Sunniti e Sciiti, un conflitto che, dopo un periodo segnato dalla prevalenza di questi ultimi, sta ora evolvendo a favore dei Sunniti, grazie all’aiuto di alcune Nazioni occidentali – specie gli Stati Uniti – e malgrado gli Sciiti godano dell’appoggio di Russia e Turchia.
Decisivo, a tal proposito, per ottenere l’appoggio di alcune Nazioni occidentali, è stata la svolta moderata dei principali sostenitori della fazione sunnita, con la conseguente perdita di appoggio (e di territorio) da parte degli estremisti dell’IS, senza peraltro che quest’ultimo scomparisse; altrettanto dicasi dell’altra componente estrema, al Qaeda, che non appare peraltro aver perso il proprio potere in modo significativo.
Mentre la guerra combattuta da forze regolari, con l’appoggio delle potenze maggiori, coinvolge sempre più i teatri siriano e yemenita, si moltiplicano gli attentati terroristici in Iraq e Pakistan, la pirateria nel Corno d’Africa si sta riprendendo e l’IS sta mostrando una inattesa capacità di resistenza anche in Libia.
Il secondo aspetto del quadro generale è costituito da una sempre maggiore commistione tra gli attori delle guerre interetniche africane e gli estremisti islamici, il che rende l’Africa un terreno di lotta sempre più accanita. In definitiva, si capisce perché Papa FRANCESCO, già nel 2014, abbia affermato che “siamo entrati nella Terza guerra mondiale, solo che si combatte a pezzetti, a capitoli”[9].
Il terzo aspetto è l’inasprimento della lotta per le risorse naturali dell’area, siano esse su terra, come il petrolio cirenaico, o sul mare, nelle Zone Economiche Esclusive, le cui frontiere sono in maggioranza ancora incerte. Mentre, finora, l’Italia aveva dato prova di notevole generosità nei confronti delle rivendicazioni dei propri vicini, nel Levante e nel Mar Egeo le dispute stanno raggiungendo un livello sempre più preoccupante.
Il recente, forzato allontanamento manu militari di una nostra piattaforma petrolifera che stava per iniziare le prospezioni nel Mediterraneo Orientale è l’indice di una tensione crescente tra Stati sui diritti di possesso delle risorse marine. La convinzione alla base di queste dispute è che molti governi si sono convinti che le risorse della terra non bastino più per tutti, e si debba cercarle anche nel mare, dovunque esse siano, anche a costo di privarne altri, anche quando questi ultimi vantano diritti ben consolidati. Questo fenomeno, che ha portato alla “Marittimizzazione dei conflitti”, è diventato evidente nei mari intorno alla Cina, ma sta prendendo piede anche da noi, nel Mediterraneo orientale e nel mar Egeo.
Il quarto aspetto della situazione del Mediterraneo è dato dalla sempre minore solidarietà tra i Paesi occidentali, sia in ambito europeo, sia in quello transatlantico. “Dagli amici mi guardi Iddio”, recita un vecchio proverbio, e la tensione tra Paesi da tempo alleati nella NATO e membri dell’Unione Europea, sembra approfondirsi, con il moltiplicarsi degli argomenti in cui il disaccordo sembra insanabile, confermando la validità di questo adagio.
Certo, con la fine della minaccia sovietica gli interessi strategici dei vari Paesi non collimano più, ma in un mondo dominato da giganti, sia pure con i piedi d’argilla, l’UE e la NATO rimangono le uniche organizzazioni che consentono all’Occidente, un tempo padrone del mondo, di esercitare una pur limitata influenza sugli eventi.
La necessità di una maggiore solidarietà tra gli Europei è ancor più urgente oggi: come avviene in tutte le guerre dallo “scopo illimitato”, alias quelle miranti alla distruzione dell’avversario, ambedue le parti in conflitto – per intenderci i Sunniti e gli Sciiti – cercano di coinvolgere i neutrali, e in particolare l’Occidente, sia per intimidirlo, convincendolo a farsi da parte e rinunciare a influenzare la lotta in corso, sia per creare le condizioni di un conflitto generalizzato che compatti il campo sunnita (e questa è la strategia dell’IS, mutuata da al Qaeda), sia infine per ottenere appoggio e sostegno.
Questi modi di trattare i neutrali, da parte dei belligeranti, non sono una novità: chi conosce la Storia sa che dal 1780, quando fu creata la “Lega dei Neutri” per reagire ai soprusi delle fazioni in guerra tra loro, la posizione dei neutrali non è mai comoda: la questione si ripeté durante le guerre napoleoniche, poi nelle due Guerre Mondiali, e oggi ce ne stiamo accorgendo ancora una volta, specie in Europa, in modo traumatico.
Le manifestazioni di guerra ibrida nel Mediterraneo
L’aspetto maggiormente evidenziato dalla stampa internazionale è una conseguenza della lotta tra Sunniti e Sciiti, che sta coinvolgendo oltre un miliardo di persone e ha causato finora la morte di centinaia di migliaia – se non milioni – di persone, e sta provocando un flusso di migranti senza precedenti. Appunto questo esodo, tipica conseguenza dei conflitti violenti, è all’origine del primo tra i fenomeni ascrivibili alla “Guerra Ibrida”. L’immigrazione, infatti, è una tragedia che si presta ad essere sfruttata a tali fini.
L’ultimo rapporto dell’Alto Commissariato ONU dei Rifugiati calcola infatti in 67,7 milioni coloro che sono bisognosi di assistenza, tra rifugiati, immigrati esterni ed interni, apolidi e persone private delle loro abitazioni. Si tratta di cifre impressionanti, mai viste nei decenni precedenti, che forniscono un’idea precisa sulla violenza che pervade non solo l’area del cosiddetto MENA (Middle East North Africa) ma si è esteso all’Africa centro-settentrionale, a un livello tale che nessun Paese sviluppato è in grado di fermarla.
L’immigrazione di massa dall’Africa sub-sahariana nonché dalle zone di guerra sopra indicate sta destabilizzando l’Europa, mettendone a rischio la stessa esistenza dell’Unione Europea. Nei decenni precedenti, il nostro continente aveva assorbito l’immigrazione da Est, pur con serie difficoltà, in quanto caratterizzata da un tasso relativamente alto di criminalità, ed ora è talmente satura di queste migrazioni verso l’Europa, che le opinioni pubbliche di molti Stati Membri reagiscono al suo intensificarsi in modo fortemente negativo.
Per ora, molti Stati membri dell’UE stanno cercando di fare lo “scaricabarile”, cercando di inviare allo Stato più vicino l’eccesso di migranti (anche l’Italia è tentata di fare lo stesso con la Libia), il che non è una vera e propria strategia.
Sono appunto i numeri elevatissimi di questa migrazione, di gran lunga superiori rispetto a quelli del passato, che spaventano: oltretutto, con la guerra all’ultimo sangue che devasta il mondo tutto intorno al Mediterraneo, la prospettiva preoccupante è quella di un protrarsi all’infinito di questo esodo biblico verso l’Europa, l’unico continente della mackinderiana “World Island” dove non c’è guerra, ed è possibile trovare pace e opportunità di una vita meno tribolata.
Appare anche ovvio che un fenomeno di così grande ampiezza attiri l’interesse di chi vuole sfruttare questa massa di disperati ai propri fini: i trafficanti, le tribù sahariane e le organizzazioni estremiste cercano di lucrare, facilitando questi movimenti, mentre gli Stati usano questi derelitti ai propri fini, per esercitare pressione su altri Stati. Neanche questo è un fenomeno recente: da decenni gli Stati del Nord Africa e quelli dei Balcani occidentali hanno usato questi poveracci per premere sull’Europa, e l’Italia – un ponte gettato tra l’Africa e il Vecchio Continente – si è trovata in prima linea fin dall’inizio.
L’aspetto nuovo, mai visto prima, è che si sta assistendo all’improvvisa “marittimizzazione” di molte ONG, oltre che al loro incremento numerico. Se si pensi che, a suo tempo, persino la Croce Rossa Internazionale rinunciò ad armare proprie navi ospedale, visti i costi di esercizio, sorge spontanea la domanda su chi stia profondendo somme enormi per consentire alle ONG di operare sul mare con proprie navi e perché. Non bastano infatti sponsor privati, sia pur ricchissimi, per spiegare l’origine di questa improvvisa moltiplicazione delle disponibilità finanziarie di queste ONG, molte delle quali, oltretutto, sono di costituzione piuttosto recente.
Viene poi un secondo fenomeno meritevole di analisi, e precisamente il proliferare di attacchi cibernetici, un tempo diffusi solo nel Nord dell’Europa e ora sempre più frequenti anche da noi. Fino a poco tempo fa, si pensava che questi attacchi fossero il prodotto di criminali informatici, e al massimo rispecchiassero le tensioni Nord-Nord, quando essi erano chiaramente il prodotto di attori particolarmente potenti, come nel caso dell’Estonia nell’aprile 2007.
Ora anche il Sud del mondo, e in particolare qualche ambiente estremista, sta utilizzando l’ambiente informatico per i propri fini, finora come mezzo di propaganda, grazie alla diffusione di messaggi e di narrative di chiara impronta jihadista. Ci vorrà poco tempo, e il rischio di attacchi informatici alle nostre infrastrutture critiche proverrà anche da questa parte del mondo.
Il terzo fenomeno ascrivibile alla “Guerra Ibrida” è appunto l’azione continua, da parte dei gruppi estremisti di matrice islamica, intesa ad alimentare il “terrorismo fai da te” nei nostri Paesi. I governi europei hanno agevolato, da molti decenni, l’arrivo di gruppi numerosi di persone, per sopperire al continuo bisogno di mano d’opera per le attività lavorative più umili, che non attraggono i nostri cittadini.
A differenza degli immigrati dall’Est, la prima generazione di coloro che provenivano dal Maghreb e dal Mashreq non aveva creato problemi, accettando le privazioni, e in alcuni casi una vera e propria “ghettizzazione”, svolgendo lavori umili e mal retribuiti, ma ora ci si sta accorgendo che i loro figli e nipoti, delusi dalla loro mancata integrazione, presentano un livello preoccupante di adesione all’estremismo islamico.
Il quarto fenomeno è costituito dalle pressioni esercitate da Stati potenti sui loro vicini più deboli, spesso sfocianti in “guerre per procura”, in cui i combattenti irregolari di una parte (spesso definiti “omini verdi”) sono armati di tutto punto, tanto da tenere in scacco le forze regolari, e conquistare territori relativamente vasti, per poi “concederli” a una terza Nazione, che da quel momento può essere legittimamente sospettata di averli sponsorizzati.
Il quinto fenomeno, in atto da tempo, ma che sta riprendendo forza in modo graduale, ma preoccupante, è la pirateria, non solo alla soglia d’ingresso del Mediterraneo, il golfo di Aden, dove gli attacchi ai mercantili sono ancora pochi, grazie alla presenza di forze navali europee, russe, cinesi, giapponesi e indiane, ma anche nel golfo di Guinea, dove la media degli attacchi è in crescita costante.
Il sesto e ultimo fenomeno è l’uso sempre maggiore dell’arma economica in Europa, malgrado si sappia che questa, spesso, sia a doppio taglio, come osservava il già citato studioso sovietico degli anni 1930, SVECHIN. L’uso di dazi e di sanzioni, da parte di Stati potenti e di gruppi di Nazioni viene spesso presentato come un modo per far recedere un avversario dal compiere atti azzardati, o quantomeno a limitarne l’espansione mediante l’uso della forza. In realtà, si tratta di una nuova specie di gioco d’azzardo, dove si saprà solo dopo un certo tempo chi ha vinto e chi ha perso.
Detto questo, è necessario collegare questi fenomeni tra loro per scoprire, sia pure in via preliminare, chi sia indiziato di combattere una guerra ibrida contro qualcuno. Inutile dire che, nel caso della Galassia Islamica, vi sono numerosi indizi che nel suo ambito si stia utilizzando fin troppi aspetti ascrivibili a una guerra ibrida contro l’Europa: il “terrorismo fai da te” che colpisce le nostre città, l’immigrazione dai Paesi sub-sahariani, a maggioranza islamica, nonché la propaganda martellante contro l’Occidente, svolta dai gruppi estremisti, sono tutti presenti nelle azioni svolte da questi.
La peculiarità è che questi atti sono compiuti contro l’uno o l’altro degli Stati occidentali, in modo selettivo: vi sono attentati terroristici in alcune Nazioni europee e non in altre, mentre le ondate migratorie vengono dirette contro Nazioni ancora diverse. Sembra quasi che alla “Galassia Sunnita” faccia paura l’Unione Europea e ne voglia minare la compattezza.
Questa selettività si riscontra anche nel caso della Russia, che agisce in modo aggressivo contro alcuni Stati, specie quelli un tempo appartenenti alla propria zona d’influenza, mentre mantiene un atteggiamento diverso, caso per caso, con gli altri membri dell’UE, malgrado anch’essi abbiano a suo tempo votato le sanzioni contro Mosca, dopo l’annessione dell’Abkazia, dell’Ossezia e della Crimea, seguita dalla “rivolta” del Donbass, dove i combattenti appaiono ben riforniti delle armi più moderne.
Qui si può notare quanto sia difficile reagire contro queste forme di aggressione, specie su un piano collettivo: ognuno, istintivamente, cerca di schivare il colpo che viene inflitto al vicino, e non si pensa subito che solo facendo fronte comune si può indurre alla ragione chi ci vuole male.
Va anche detto che, spesso, chi viene colpito ha compiuto nel passato più o meno recente atti che gli altri non hanno approvato, e per questo la selettività delle aggressioni ha buon gioco nel frenare gli slanci di solidarietà. Alla fine, però, se noi Occidentali non ci aiuteremo l’un l’altro, a prescindere dalle recriminazioni e dalle gelosie, il risultato sarà la fine della pur scarsa coesione europea ed atlantica, i due unici bastioni che ci proteggono dall’assoluta irrilevanza mondiale.
Per questo, è necessario porre in atto una serie di azioni, anzitutto sul piano della sicurezza. Chi si comporta verso uno dei membri della NATO o della UE in modo aggressivo, deve essere messo all’indice da tutti, secondo una strategia di controffensiva che sia soprattutto efficace.
Con questo si vuol dire che non basta rimandare indietro i migranti, in modo che il Paese di transito posto immediatamente più a Sud di noi ne soffra, ma si deve attuare un’azione più selettiva, accogliendo, ad esempio, chi viene da Paesi che hanno legami storici con noi, ma soprattutto creando aree di sviluppo protette dove questi disperati possano trovare lavoro e tranquillità.
Neanche questa forma di stabilizzazione è nuova, dato che fu applicata, a suo tempo, da un generale francese, GALLIENI, in Madagascar. Le sue direttive per la pacificazione dell’isola erano oltremodo chiare:
“- Mediante posti avanzati, guadagnare terreno in avanti, poco per volta, in modo da diminuire progressivamente l’estensione delle regioni occupate dai guerriglieri;
– Organizzare al tempo stesso le zone arretrate, richiamandovi le popolazioni, facendo riprendere le coltivazioni e tenendo i villaggi e gli abitanti al riparo da nuove incursioni dei ribelli”[10].
In campo cibernetico si sta già facendo molto, e non tutto può essere dato in pasto alla stampa, ma non basta curare la resilienza dei sistemi e delle infrastrutture critiche: si deve essere in grado di scambiare informazioni su tutti gli eventi sospetti, scoprire gli autori degli attacchi, paralizzarli e controbilanciare le narrative di propaganda in modo efficace, non solo con le parole, ma con i fatti, cooptando in modo maggiore le seconde e terze generazioni degli immigrati del passato.
Poi, il commercio internazionale, la nostra fonte principale di benessere, va difeso, sul mare come su terra, contro i criminali (spesso assoldati da terzi), contro i gruppi estremisti e contro chiunque ci impedisca il libero uso del mare per il commercio e per le ricerche sottomarine.
Soprattutto, gli Stati occidentali devono scambiarsi più informazioni su tutti gli argomenti concernenti casi sospetti di “Guerra Ibrida”, in modo da ottenere una maggiore solidarietà, grazie alla comune conoscenza della situazione. Solo, infatti, avendo un quadro comune e completo è possibile impegnare forze e mezzi, inclusi quelli finanziari, per sventare queste minacce, che mettono in pericolo il nostro futuro.
[1] NATO Summit Declaration, 5 settembre 2014, paragrafo 13.
[2] NATO Review. Hybrid War. Does it even exist?, 2015, https://www.nato.int/docu/review/2015/also-in-2015/hybrid-modern-future-warfare-russia-ukraine/en/index.htm
[3] NATO Defence College Research Paper n° 139, “The Evolution of the Hybrid Threat and Resilience as a countermeasure”, September 2017
[4] EU, Joint Communication to the European Parliament and the Council, April 2016
[5] ADM Stavridis in the Proceedings of the US Naval Institute, 2016
[6] Multinational Capability Development Campaign “Understanding Hybrid Warfare” January 2017
[7] B. H. LIDDELL HART. Strategy. Ed. Frederick A. Praeger, 1955, pag. 334.
[8] A. A. SVECHIN. Strategy. Ed. East View Publications, 1997, pag. 109.
[9] M. ANSALDI. Il Papa: “La Terza guerra mondiale è già iniziata” in Repubblica.it, 18 agosto 2014.
[10] F. SANFELICE di MONTEFORTE – L. QUADARELLA SANFELICE di MONTEFORTE. Due secoli di Stabilizzazione. Ed. Aracne, 2015, pag. 262.