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IL MONDO SOTTOMARINO, I SUOI PROBLEMI E LE MINACCE DA AFFRONTARE
Alcune riflessioni sul Simposio delle Marine a Venezia
Amm. Sq. Ferdinando SANFELICE di MONTEFORTE
Introduzione
Nell’ormai lontano 1954, Folco Quilici diresse il film-documentario “Sesto Continente” nel quale mostrava al grande pubblico le bellezze e i pericoli che si celavano sotto la superficie del mare. Il successo del film fu tale che, oltre agli incassi notevoli per l’epoca, crebbero a dismisura gli appassionati subacquei, un’attività fino ad allora riservata quasi solo ai professionisti, militari e civili. A quegli anni risale pure l’attenzione del pubblico alle attività tese a sfruttare i fondali marini, attività iniziate oltremare, come nel Golfo del Messico, ma che si stavano diffondendo anche nei mari intorno all’Europa.
Un vantaggio collaterale fu la maggiore attenzione, da parte della nostra opinione pubblica, alle questioni che riguardavano l’impiego militare delle profondità marine, che oggi potremmo chiamare sesta dimensione[1]. Fino agli anni 1960, l’attività maggiormente visibile fu la guerra di mine, con la bonifica dei nostri litorali dai campi minati stesi durante la Seconda Guerra mondiale, che implicavano l’esplosione degli ordigni giacenti sul fondo, con tanta paura e scomodità da parte dei bagnanti, che dovevano essere ogni volta allontanati.
Il secondo, ancor più spettacolare, fu la nascita dei sottomarini nucleari che, pochi anni dopo l’uscita del film nelle sale, diedero la misura delle loro capacità rivoluzionarie emergendo al Polo Nord, dopo aver navigato sotto i ghiacci.
In effetti, la Guerra Fredda, fin dai primi anni, aveva avuto una componente sottomarina non secondaria. L’Unione Sovietica si era concentrata nella costruzione di centinaia di sommergibili, il cui ruolo era di minacciare l’interruzione dei rinforzi e dei rifornimenti che gli Stati Uniti avrebbero inviato in Europa, nel caso di un’aggressione dall’Est.
L’Occidente, quindi, sviluppò nuove tecnologie, oltre a migliorare quelle allora disponibili per contrastare questa minaccia, impiegando aerei da pattugliamento, navi con sensori acustici (i cosiddetti SONAR), i Sottomarini d’attacco a propulsione nucleare e persino impianti fissi, posti nei passaggi obbligati che i sommergibili sovietici avrebbero dovuto attraversare per raggiungere i flussi di traffico dell’Occidente.
A questi mezzi si aggiunsero, a partire dagli anni 1960, i sottomarini lanciamissili balistici, dislocati in prevalenza nell’oceano Artico, che grazie alla loro relativa invulnerabilità, esercitavano un effetto di deterrenza ben superiore a quello posto dai siti missilistici basati a terra.
Tornando al settore civile, nella seconda metà del XX secolo, anno dopo anno, si intensificarono sempre più i tentativi di sfruttamento dei fondali marini, mediante piattaforme ancorate sul fondo, in grado di estrarre idrocarburi da giacimenti posti sotto i fondali, anche a grande profondità. Inoltre, fu ripresa la posa dei cavi di comunicazione transoceanica, rimpiazzando i vecchi cavi telegrafici – in gran parte tagliati dai belligeranti nel secondo conflitto mondiale – con cavi di concezione più moderna.
Quest’ultima attività si è ripetuta più volte, per mantenere i sistemi di comunicazione sottomarina al passo con l’evolvere delle tecnologie di comunicazione, tanto che oggi un gran numero di cavi è in fibra ottica, con una capacità di far transitare una mole di messaggi che avrebbe impressionato i pionieri delle comunicazioni.
Sembrava quindi che gli studi e le iniziative tese a utilizzare l’ambiente marino a fini sia economici che militari procedessero in parallelo, ma due avvenimenti hanno creato una divergenza di progresso tra i due campi: da una parte, nel 1991, con l’implosione dell’Unione Sovietica, la componente militare interruppe bruscamente gli studi e gli sviluppi in campo subacqueo, ritenendo che la minaccia subacquea fosse finita, se non per sempre, almeno per alcuni decenni.
Dall’altra, l’entrata in vigore della Convenzione delle Nazioni Unite sulla Legge del Mare (UNCLOS)[2] aveva permesso agli Stati litoranei di autorizzare le ricerche sullo sfruttamento del mare e dei suoi fondali nell’area compresa tra la costa e il limite esterno della piattaforma continentale, per la prima volta in esclusiva.
La sicurezza di ottenere le “Royalties” dalle attività estrattive, se in alcuni casi ha dato luogo a contenziosi, anche violenti, tra Stati limitrofi, ha incoraggiato la concessione di licenze a società del settore, moltiplicando in tal modo le attività offshore e incoraggiando lo sviluppo di studi sull’ambiente marino e di tecnologie sempre nuove per massimizzare l’efficacia.
Di conseguenza, da un lato le numerose società specializzate in attività estrattive subacquee avevano continuato ad accumulare conoscenze sull’ambiente marino e avevano sviluppato nuove tecnologie, dall’altro, invece, in campo militare le ricerche e gli sviluppi si erano fermati.
Questo divario di conoscenze si è approfondito negli anni a cavallo del millennio, e solo quando la tensione mondiale è cresciuta, l’Occidente si è reso conto di essere costretto a fronteggiare di nuovo una minaccia subacquea, da parte di Paesi che avevamo erroneamente creduto fossero diventati ormai nostri amici.
Quindi, ora, il mondo militare, rimasto indietro per aver sospeso le ricerche per oltre venti anni, è alla ricerca di sinergie con quello civile, per recuperare il gap di conoscenze e di “know how” sul mondo sottomarino. A questo fine è stato dedicato il “Simposio Trans Regionale sul Potere Marittimo”, che si è svolto a Venezia dal 7 al 10 ottobre scorsi[3], con la partecipazione dei Capi delle maggiori Marine mondiali, oltre che di leader politici e industriali del settore marittimo.
Il mare come ambiente geostrategico
Tutti sanno che il mare ricopre il 71% della superficie del nostro pianeta, ma pochi sono al corrente del fatto che i fondi spesi per migliorare la nostra conoscenza dei fondali e, in generale, dell’ambiente marino sono una piccola frazione di quanto viene speso per i programmi spaziali.
Questo non è che un aspetto particolare del fenomeno noto nel mondo anglosassone come “Sea Blindness” (cecità marittima) ritenuto la causa principale dello scarso interesse verso le attività e i problemi dell’ambiente marittimo e in particolare quelle del Sesto Continente. Questo fenomeno, purtroppo, non è nuovo. Come osservava, nel 1963, l’Ammiraglio Spigai, parlando dei nostri compatrioti, questi “non si sono ancora accorti che il mare è il loro fegato, non funzionando il quale è finita. Le signore sono convinte che il mare serva per farci i bagni (il verbo bagnarsi diventa attivo, quando si paga molto) e i mariti credono che, fatto e spedito il prodotto, tutto sia finito”[4].
Bastano poche cifre per rendersi conto che, oggi ancor più che in quegli anni, il mare sia diventato il “fegato dell’umanità”. L’80% della popolazione mondiale, oggi, vive a meno di 200 km. dalla costa, il 90% dei beni viene trasportato per mare, sui suoi fondali giacciono 1,4 milioni di km. di cavi, quasi tutti in fibra ottica, che assicurano il 98% delle comunicazioni digitali, gli oleodotti e i gasdotti sottomarini non sono più un’eccezione, e sotto i fondali si celano ricchezze ben maggiori di quelle reperibili sulla terra. Basti pensare che le cosiddette “terre rare” preziose per le nostre tecnologie, esistono nel mare in quantità sei volte superiore rispetto a quelle estraibili su terra.
In breve, il mare è la “nuova frontiera” dell’umanità, anche perché è capace, grazie alle ricchezze che cela al suo interno, di soddisfare le esigenze della popolazione planetaria, la cui crescita sta esaurendo le risorse reperibili sul suolo o nel sottosuolo.
Ma l’ambiente marino resta ancora in gran parte inesplorato. Malgrado l’impegno delle Marine per sviluppare l’oceanografia, fin dal XIX secolo, ancora oggi solo i 2% dei fondali abissali ci è noto, e l’80% del fondo marino non è stato ancora esplorato.
Con l’incremento delle attività, civili e militari, non supportata da una conoscenza dell’ambiente marino pari alle esigenze, si sono verificati numerosi incidenti, anche mortali. Basti citare, tra tutti, il più sintomatico, accaduto l’8 gennaio 2005 al sommergibile nucleare San Francisco, a sud-est dell’isola di Guam, nell’oceano Pacifico. Il battello stava compiendo le prove annuali alla massima velocità subacquea quando urtò una montagna sottomarina, mai prima localizzata. La violenta collisione causò la morte di un membro dell’equipaggio e il ferimento degli altri 98, e danni allo scafo talmente gravi che il rientro alla base fu oltremodo difficoltoso.
Il fatto che un analogo incidente, questa volta con soli 11 feriti tra i membri dell’equipaggio, sia accaduto a un altro sottomarino americano, lo USS Connecticut, conferma l’affermazione di alcuni scienziati, convinti che vi siano ben 100.000 montagne sottomarine – in prevalenza di origine vulcanica – che si elevano oltre i 1.000 metri rispetto ai fondali circostanti.
Questa situazione non è, però, un fenomeno immutabile: sappiamo quanto dinamica sia la vita dei vulcani, e talvolta abbiamo visto addirittura sorgere isole dalla superficie del mare, come l’isola Ferdinandea nel Canale di Sicilia nel 1831 – oggi ridotta a un basso fondale, noto come “Banco Graham”[5] – e di conseguenza dovremmo dedicare più tempo e risorse per conoscere l’ambiente marino e le sue mutazioni.
Bisogna ammettere che l’Oceanografia, una scienza che, come è accaduto spesso nella Storia, ha un Italiano, Luigi Ferdinando Marsili, tra i suoi pionieri, richiede sforzi enormi per esplorare piccoli tratti di mare: come osservava sempre l’Ammiraglio Spigai, “il mare è grande e per radunare qualche elemento di reale interesse sulla sua natura occorrono milioni di osservazioni compiute in luoghi e circostanze diverse”[6]
Questo spiega il sorgere di Istituzioni Internazionali che hanno cercato di convincere i governi dei Paesi marittimi a condividere le informazioni a carattere idrografico e oceanografico in loro possesso. Tra questi, il più noto è lo “Institut Océanografique de Monaco-Fondation Albert Ier”, che fin dal 1911 raccoglie i dati forniti dai Paesi e dalle industrie aderenti e li mette a disposizione della comunità mondiale. Malgrado ciò, le Nazioni hanno cura di tenere segrete le informazioni sulle caratteristiche del fondo marino di alcune zone per loro cruciali, in modo da impedire a malintenzionati e avversari di sfruttare tali conoscenze.
I rischi e le minacce
Purtroppo, l’ambiente marino, con la fine della Guerra Fredda, non è diventato un luogo di pace. Innanzitutto, vi sono i contrasti dovuti alla corsa per lo sfruttamento delle risorse del mare. Infatti, sono ancora numerosi i contenziosi riguardanti le aree di confine tra Nazioni limitrofe: gli accordi bilaterali sulla suddivisione delle Zone Economiche Esclusive, che secondo la Convenzione sul Diritto del Mare avrebbero dovuto consentire a ognuno di godere della sicurezza di estrazione dei beni subacquei, sono stati conclusi solo in minima parte.
La conseguenza è che da anni le compagnie specializzate nell’estrazione dei beni esistenti sotto il fondo marino corrono il rischio di vedere le proprie piattaforme minacciate e, in alcuni casi, attaccate perché operavano in aree rivendicate da Stati limitrofi.
A questo si aggiungono i tentativi di strumentalizzare ai propri fini l’utilizzo sempre più diffuso della sua superficie per il commercio internazionale: con quasi 51.000 mercantili in mare o in porto, ogni giorno, non ci si deve meravigliare che il mare sia un ambiente affollato. Come avviene in simili casi, si creano fattori di tensione, dovuti al fatto che molti Paesi e comunità costiere ritengono di non beneficiare abbastanza dei proventi del traffico marittimo, e per questo si dedicano a interdirlo o a condizionarlo, a volte direttamente, a volte mediante terzi.
La pirateria, le rapine armate in mare e le azioni terroristiche contro il commercio, però, sono spesso delle “proxy wars” (guerre per procura), sobillate da Stati o gruppi di potere che intendono cambiare gli equilibri geopolitici, in genere a danno dell’Occidente. Al momento, l’attenzione è concentrata sullo Stretto di Bab-el-Mandeb, dove gli Houthi yemeniti, che controllano il litorale nord dell’area, attaccano dallo scorso novembre il traffico di passaggio, con un tale accanimento da aver causato la riduzione del traffico da e verso il Canale di Suez valutato tra il 50% e l’80%.
Questa minaccia non si è ridotta neanche dopo l’avvio di due operazioni tese a neutralizzare la minaccia: l’operazione “Aspides” di antiterrorismo, per la protezione dei mercantili, lanciata dall’Unione Europea e l’operazione “Prosperity Guardian” di contro-terrorismo, per distruggere le basi degli Houthi, lanciata da una coalizione guidata dagli Stati Uniti.
Bab-el-Mandeb, uno dei passaggi obbligati di una delle principali arterie di traffico tra l’Asia e l’Europa, non è però l’unica zona rischiosa per il commercio. Lo Stretto di Hormuz, infatti, è stato più volte il teatro di attacchi a mercantili, tanto che l’Unione Europea ha avviato dal 2020 un’operazione navale di protezione delle navi di passaggio. Non è da meno lo Stretto di Malacca, dove il compito di garantire la sicurezza del traffico navale in transito è stato assunto dai Paesi litoranei, coalizzati nell’Organizzazione ReCAAP (Regional Cooperation Agreement on Combating Piracy and Armed Robbery against Ships in Asia).
Il proliferare degli atti di “guerra ibrida”, in cui si cerca di danneggiare l’avversario con azioni di ogni tipo, condotte anche da non militari, ha reso indispensabile la difesa delle infrastrutture critiche sottomarine, come i gasdotti e i cavi sottomarini. L’esigenza è tornata alla ribalta dopo il danneggiamento del gasdotto North Stream nel mar Baltico e dopo il tranciamento dei cavi sottomarini che attraversavano lo Stretto di Bab-el-Mandeb.
Neanche le zone artiche sono esenti dal proliferare delle minacce, visto che sono riprese le schermaglie tra i sottomarini russi e quelli occidentali al di sotto della calotta polare. Dall’oceano Artico, infatti, i sottomarini nucleari capaci di lanciare missili balistici possono colpire qualsiasi punto degli Stati Uniti, dell’Europa e della Russia. Per questo il loro dispiegamento, dopo gli anni di relativamente buoni rapporti Est-Ovest, ha dato origine di nuovo a incontri ravvicinati tra questi mezzi potentissimi e pericolosi e i sottomarini dediti alla loro caccia, con questi ultimi che cercano di sloggiare i primi dalle posizioni ottimali di lancio. Nel passato, non sono mancate collisioni subacquee tra questi mezzi, eventi particolarmente pericolosi, data la tipologia dei mezzi coinvolti, e il rischio che si ripetano non è trascurabile.
Non si può dimenticare, infine, tra le minacce, né che esistono estesi campi minati posati dai contendenti russo e ucraino nel mar Nero, né i risvolti marittimi del conflitto israelo-palestinese, né, tantomeno l’alta tensione nella zona dello Stretto di Taiwan.
In breve, è tornata la guerra aperta ai nostri confini, e il mare – incluso l’ambiente sottomarino – non è esente da combattimenti e da insidie poste ai terzi dalle due parti in conflitto. Dobbiamo capire questo cambio radicale di situazione e predisporci per non soccombere quando saremo attaccati.
In definitiva, al giorno d’oggi, la difesa sul mare e la sicurezza marittima sono sfide da non sottovalutare per la loro complessità.
La salvaguardia dell’ambiente
Mentre sempre più operatori economici si dedicano allo sfruttamento del mare e delle sue risorse, cresce la preoccupazione che questa nuova “corsa all’oro” possa distruggere la stessa fonte di queste ricchezze, a causa di azioni irresponsabili.
Infatti, ogni sfruttamento insensato è foriero di conseguenze negative, in un ambiente integrato, com’è il mare, dove si svolgono numerose attività legali e illegali, tanto diversificate tra loro da interferire le une con le altre. Basti pensare che il 70% dei danneggiamenti ai cavi in fibra ottica posati sui fondali marini è dovuto alle reti dei pescherecci, che dragano il fondo del mare nonostante questo sia un atto proibito in molti Paesi, e soprattutto nelle acque europee. Un’altra attività controversa è il cosiddetto “Deep sea mining”, l’estrazione di idrocarburi e di minerali esistenti a grande profondità, ritenuta da alcuni foriera di guasti irreversibili all’ambiente marino.
Un’altra attività che si sta sviluppando in modo incontrollato è il turismo subacqueo. La perdita del sommergibile “Titan” che portava il 18 giugno 2023 alcuni ricchi turisti a visitare il relitto del “Titanic” ha attirato l’attenzione generale su questa attività, spesso gestita in modo poco sicuro. Anche se esistono convenzioni internazionali sulla ricerca e soccorso subacquei, l’ultima delle quali risale al 1979, il quadro normativo internazionale andrà inevitabilmente aggiornato, con l’uso sempre più massiccio delle profondità del mare da parte di civili.
Da non dimenticare, inoltre, che nelle zone di guerra o di tensione l’uso dei mezzi di scoperta attivi, i SONAR, disturba profondamente i mammiferi marini. La creazione di “Santuari” per queste specie in pericolo di estinzione, come il “Pelagos”, che si stende tra la Liguria, la Costa Azzurra e la Corsica, diventa sempre più necessaria.
La preoccupazione per prevenire o ridurre possibili danni ambientali ha già portato ad alcune iniziative, come la regolamentazione dell’IMO (International Maritime Organization) sulla riduzione del rumore indotto dalle navi, un altro fattore di grave disturbo della fauna marina. Anche numerose Nazioni hanno adottato un approccio integrato ai problemi del mare, che includono la protezione del suo ambiente, stabilendo “santuari”, “aree di ripopolamento” e zone nelle quali sia proibito l’uso dei SONAR.
In Italia, di recente, è nato il Polo Nazionale della Dimensione Subacquea (PNS), costituito sulla falsariga dell’analogo “Secrétariat Général de la Mer” francese. Il PNS è un organo di coordinamento interministeriale gestito dalla nostra Marina, sotto la supervisione del Ministero della Difesa.
Il mare, inoltre, ha bisogno di essere manutenuto, per riparare i danni che gli esseri umani gli hanno inflitto nel tempo. Basti pensare alla “Great Pacific Garbage Patch”, un agglomerato di plastica e pattume che galleggia al centro di quell’oceano, tra la California e le isole Hawaii, e contiene 3,3 milioni di tonnellate di materiale galleggiante. La sua estensione ha raggiunto, negli anni, i 10 milioni di km². Altre isole più piccole, ma sempre di dimensioni preoccupanti, esistono nel Pacifico meridionale, nell’Atlantico settentrionale e meridionale, nell’oceano Indiano e addirittura nel Mar Glaciale Artico.
A questo si aggiunge il fatto che da secoli il fondo del mare è stato usato come discarica; ai materiali sversati, incluse decine di migliaia di fusti contenenti scorie nucleari, si aggiungono i relitti, alcuni dei quali attirano i cercatori di tesori, per i carichi preziosi che queste navi trasportavano all’atto della loro perdita.
Mentre l’eliminazione, o quantomeno, la riduzione di queste isole di plastica galleggiante, pur richiedendo decenni di lavoro e spese elevate, è un’impresa fattibile, sarà estremamente difficile ridurre i materiali di scarto lasciati dall’uomo sui fondali marini, un pericolo per la fauna marina destinato ad aggravarsi con il tempo.
Analoga preoccupazione riguarda lo sfruttamento dei fondali, anche se nel 1994 è stata costituita la “International Seabed Authority”, un organo intergovernativo cui partecipano 167 Stati oltre all’Unione Europea. Il suo ruolo è la salvaguardia dei fondali marini al di sotto dei 200 metri di profondità, e a tal fine agisce sulla base del “High Seas Treaty” teso a garantire la biodiversità delle zone di mare alturiere.
L’accordo, in particolare, si concentra sulle aree al di là delle giurisdizioni nazionali (BBNJ); il testo è stato adottato dall’ONU nel 2023, ed è stato firmato da 104 Nazioni, non ha però ancora raggiunto il livello indispensabile di ratifiche (ce ne vogliono almeno 60) per la sua entrata in vigore. Appare inevitabile che ogni azione tesa ad applicare le norme di questo trattato vedrà impegnate le Marine dei Paesi firmatari, come prime responsabili.
In sintesi, ormai da anni le Marine sono impegnate, oltre che per le missioni a carattere militare, anche per la protezione dell’ambiente marino, localizzando e denunciando chi lo inquina e lo danneggia. Si tratta di una benemerita opera di controllo, che rientra nel tentativo di creare una “Governance” globale dell’ambiente marino.
L’evoluzione dei mezzi
Il rinnovato interesse verso l’ambiente marino, inteso sia come fonte di ricchezza, sia come ambiente operativo, sia infine come un bene prezioso da salvaguardare, ha dato origine a una serie di iniziative per sviluppare nuovi mezzi e tecnologie.
Queste riguardano anzitutto il settore sanitario, dove la Medicina Subacquea sta compiendo progressi notevoli, sia per garantire la sicurezza e la salute a chi opera a grandi profondità, sia per scoprire tempestivamente possibili pandemie e nuovi tipi di batteri e virus che si celano nelle profondità marine.
Vengono poi le tecnologie per approfondire la conoscenza dei fondali, visto che ne conosciamo solo il 28%, un livello assolutamente inadeguato per garantire le operazioni in sicurezza per ogni tipo di attività.
Va detto però che molte zone di mare sono piagate da conflitti marittimi, e quindi sta sorgendo la necessità di disporre di mezzi atti a rilevare i fondali in ambienti caratterizzati da elevata minaccia, pena il rischio di subire danni, anche gravi, ai mezzi partecipanti.
L’importanza di rilievi idrografici in questo tipo di ambienti non è nuova. La nostra Marina, ad esempio, nell’imminenza della caduta dell’Eritrea, si trovò a dover esfiltrare dal mar Rosso, nel 1941, il più possibile delle navi da guerra e dei sommergibili di stanza a Massaua, e farle giungere in porti amici, eludendo il blocco britannico nel Golfo di Aden.
Il punto più pericoloso era, appunto, lo Stretto di Bab-el-Mandeb, che, come notò il Capitano di Fregata Marino Iannucci, comandante dell’avviso Eritrea, una delle navi che violarono il blocco, è “largo undici miglia, fra (l’isolotto di) Perim e la fronteggiante, deserta costa della Somalia Francese, ma di esso solamente una fascia che si estende fino a otto miglia da Perim è scandagliata e navigabile”.[7]
Dato che la zona scandagliata era costantemente pattugliata da unità britanniche, per forzare il blocco bisognava passare vicino alla costa della Somalia Francese. Fortunatamente, come racconta sempre il comandante, “l’Ammiraglio Bonetti (Comandante della Marina a Massaua) mi consegna un grafico veramente prezioso. Sono quattro linee di scandagli che egli, alcuni anni prima, aveva eseguito con la nave idrografica Cherso nella zona non ancora idrografata dello Stretto di Bab-el-Mandeb. I fondali risultano abbastanza regolari e, per quanto non si possa avere assoluta sicurezza, sembra sia da escludere la presenza di bassifondi”[8].
Fu così che alcune navi italiane e tutti i sommergibili sopravvissuti al primo anno di guerra furono in grado di raggiungere l’Oceano Indiano, sfuggendo alla sorveglianza britannica.
Non si è mai saputo se la zona dello Stretto fosse stata, in precedenza, scandagliata dai Francesi, né se questi avessero mantenuti segreti i risultati, ma comunque questo episodio mostra quanto utili sono i rilievi condotti furtivamente in acque potenzialmente ostili, come quelli condotti dalla Nave Cherso nel periodo tra le due guerre mondiali.
Non vi sono solo problemi dovuti alla scarsa conoscenza delle zone di mare. A parte le attività vulcaniche, di cui si è già accennato, vi sono situazioni contingenti, dovute a sconvolgimenti politici, che hanno un impatto non trascurabile, sia pure temporaneo, sull’ambiente marino. Nelle aree di crisi, in particolare, le rade e i porti spesso si riempiono di navi e imbarcazioni affondate in acque relativamente basse, per incuria o per sabotaggio. La conoscenza della situazione idrografica in queste zone di mare è sempre essenziale, e sono necessari sistemi per controllare lo stato di queste aree marine di particolare importanza, specie per le operazioni litoranee, come lo sbarco e/o l’evacuazione dei connazionali.
Ad esempio, nel 1997 Nave San Giorgio dovette entrare nella rada di Durazzo, il 17 aprile 1997, per svolgere un’operazione di evacuazione di connazionali, durante la crisi dell’Albania. La rada era ingombra di relitti di imbarcazioni affondate, e la nave ne urtò uno, posto nel canale di accesso al porto, e subì uno squarcio di dieci metri allo scafo. Solo dopo alcuni mesi, quando la situazione in Albania si normalizzò, fu possibile compiere rilievi che accertarono le cause dell’incidente. Va detto che l’evento fu oggetto di interrogazioni al Ministro della Difesa da parte di alcuni Deputati[9].
In definitiva, in questi tempi di crisi e di conflitti è necessario pensare a come compiere i rilievi idrografici anche in presenza di minaccia. Chiaramente, questa attività non può essere sempre svolta dalle navi idrografiche attualmente in possesso delle varie Marine, poco armate e facilmente localizzabili.
Un’altra attività rischiosa è la guerra di mine, in ambiente di minaccia. Da alcuni anni le principali Marine si sono dedicate a risolvere questo problema, anche se finora i risultati non sono stati del tutto positivi. L’esempio classico ci è dato dal finto sbarco a Kuwait City, da parte delle unità americane, il 18 febbraio 1991, quando – nonostante un’attività speditiva di contromisure mine – la USS Tripoli e la USS Princeton furono danneggiate da mine, quando si avvicinarono alla costa. Anche in questo campo, l’utilizzo di robot e di veicoli guidati a distanza potrà aumentare le probabilità di successo delle operazioni in presenza di mine.
L’intenzione generale è, infatti, di fare largo uso di mezzi non pilotati, siano essi filoguidati o autonomi. Le industrie estrattive e i centri di ricerca hanno sviluppato vari mezzi di questo genere, e alcune Marine ne stanno già sviluppando versioni militarizzate, resistenti alle contromisure: i mezzi esistenti in campo civile, infatti, sono utilizzabili ai fini militari, così come sono attualmente, solo in ambienti a basso livello di minaccia, dove non esiste il rischio di contrasto. Anche in campo subacqueo, infatti, la guerra cibernetica è ormai una realtà, e per questo i mezzi comandati a distanza devono poter resistere al disturbo o all’inganno elettronici.
Ancora più importante è lo sviluppo di sistemi di sorveglianza subacquea, un settore di ricerca interrotto ormai da troppi anni. Si è iniziato con la sorveglianza dei cavi sottomarini, e si pensa di riuscire a breve a sorvegliare anche gli oleodotti e gasdotti posati sui fondali. La sorveglianza di area non è ancora possibile, ma in varie Nazioni occidentali esistono studi ed esperienze per sviluppare anche tale capacità. Rendere trasparente l’ambiente marino non sarà facile, ma è un obiettivo che nel lungo termine potrebbe diventare una realtà. C’è già che parla di “Underwater Dominance” (Dominio Subacqueo), un settore del Potere Marittimo fino ad ora inesistente.
In sintesi, esiste il consenso generale sulla necessità di affrontare quella che ormai viene chiamata “Seabed Warfare” (Guerra dei fondali), un segno che il Sesto Continente è sempre più coinvolto in azioni offensive da cui ci si deve difendere.
Conclusioni
Come notava giustamente un delegato al Simposio di Venezia, questo incontro è stato un’occasione preziosa per fare il punto di situazione sull’ambiente sottomarino, riunendo i Capi delle Marine di ben 67 Nazioni, oltre a numerosi esperti internazionali. Tal genere di eventi, per dirla con le parole dello stesso delegato, “non potrebbero essere realizzati se non da una Marina di grandi tradizioni, che sola può avere l’esperienza, l’interesse e anche il “potere convocatorio” necessario per portare a compimento con successo una tale operazione ogni due anni”[10]. L’evento, quindi, è stato un successo per la nostra Marina.
L’attenzione rivolta al Sesto Continente, argomento principe del convegno, non è stata una scelta occasionale: in tempi di guerra, capire cosa avviene nel mondo oscuro delle profondità marine non è cosa inutile.
Vi sono infatti alcune attività da regolamentare, altre da controllare, altre infine da ostacolare, e soprattutto è ormai necessario difendere le infrastrutture vitali che sono posate sui fondali o servono per sfruttarli.
La guerra sottomarina, in particolare, ha assunto aspetti nuovi, e per questo richiede nuove capacità, il cui sviluppo è ancor più urgente in campo militare, vista la stasi delle attività di ricerca e sviluppo che dura dal 1991, quando sembrò finire la minaccia subacquea sovietica.
Fortunatamente, in campo civile sono comparse nuove tecnologie, la cui “militarizzazione” potrebbe permettere alle Marine di recuperare il tempo perduto. Sta di fatto, però, che anche il Sesto Continente è diventato un teatro di guerra – ancor più rispetto al passato – e le Marine dovranno dotarsi dei mezzi idonei a operare in questa realtà.
[1] Le sei dimensioni, elencandole in ordine di nascita concettuale, sono: terrestre, marittima, aerea, sottomarina spaziale e cibernetica.
[2] La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, adottata dopo anni di negoziato a Montego Bay nel 1982, è entrata in vigore nel novembre 1994.
[3] XIV Trans Regional Seapower Symposium, che aveva come tema “A spotlight on the depths: the Underwater as the new frontier for humankind“.
[4] V. SPIGAI, “Il Problema Navale Italiano”, Vito Bianco Editore, 1963, pag. 23.
[5] Dopo quasi due secoli dalla sua breve comparsa, e malgrado l’attuale situazione, è ancora oggi al centro di varie rivendicazioni internazionali.
[6] V. SPIGAI, “Il Mare e le sue leggi”, Società Editrice Tirrena, 1958, pag. 21.
[7] M. IANNUCCI, L’avventura dell’Eritrea, Ed. Rivista Marittima, 1951, pag. 17.
[8] Ibid, pag.23.
[9] Interrogazione Giovanni PACE, PEPE e LANDI, seduta n° 227 del 10 luglio 1997.
[10] P. CASARDI, “La Diplomazia Navale e il XIV Simposio Trans-Regionale Marittimo di Venezia. 7-11 Ottobre 2024”, Lettera Diplomatica n° 1390 del 18 novembre 2024.