scarica il file in pdf – IL PARMIGIANO E IL PONTE TRANSATLANTICO -ottobre 2019 – sanfelice
IL PARMIGIANO E IL PONTE TRANSATLANTICO
Amm. Sq. Ferdinando SANFELICE di MONTEFORTE
Introduzione
Com’è possibile che una forma di parmigiano, per quanto pesante essa sia, possa incrinare in modo preoccupante il cosiddetto “ponte transatlantico”, quell’insieme di legami politici, culturali, economici e militari tra Stati Uniti ed Europa – ma in particolare tra Washington e Roma – che dura dal secondo dopoguerra, ancor prima della costituzione della NATO? Sembra un paradosso che ciò possa accadere ma, quantomeno, il rischio esiste.
Le sanzioni decise dal governo di Washington contro l’Europa, infatti, non sono altro che l’ultimo atto di una serie di dispute, omissioni e incomprensioni, che hanno reso sempre più difficile una piena collaborazione economica tra le due sponde dell’Atlantico, fin dai suoi primi, timidi passi.
Infatti, questa collaborazione non era certo partita bene: il suo inizio, la costituzione del nuovo ordine economico mondiale, comprendente il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo e, qualche anno dopo, il GATT (Accordo Generale sulle Tariffe e sul Commercio) aveva creato una serie di conseguenze negative, per i Paesi dell’Europa Occidentale, devastati dalla guerra.
Infatti, “la quantità di denaro disponibile era semplicemente insufficiente, e un sistema di laissez faire (quale quello messo in atto, con tali accordi) funziona a vantaggio del Paese nella posizione migliore per competere, in questo caso, gli incolumi e super-produttivi Stati Uniti, e a scapito di quelli meno preparati a competere, le Nazioni devastate dalla guerra”[1].
Per correggere questa situazione, che rischiava di stabilire un dominio assoluto da parte degli Stati Uniti sul mercato europeo, bloccandone in tal modo ogni possibilità di sviluppo, il governo di Washington concepì quindi un piano di aiuti, il Piano Marshall, ufficialmente noto come lo European Recovery Program (Programma di Recupero Europeo). Il Piano fu varato il 5 giugno 1947, alla vigilia del terzo anniversario dello Sbarco in Normandia, e fu considerato una misura indispensabile per evitare di consegnare l’intera Europa Occidentale nelle braccia dell’Unione Sovietica: la mancata rinascita industriale del Vecchio Continente avrebbe, infatti, potuto provocare una serie di rivolte popolari, e uno slittamento dei governi europei verso l’estrema sinistra, lontana dal liberalismo propugnato dal governo di Washington.
Il riarmo europeo e il “Burden Sharing”
Parallelamente, volendo armare i Paesi Europei, mettendoli in grado di resistere a un possibile attacco da parte dell’Armata Rossa, il Presidente Truman fece approvare dal Congresso, nel 1949, il Mutual Defence Assistance Act (Legge per l’Assistenza alla Mutua Difesa), il quale, attraverso successivi emendamenti, provvide gli Stati Europei di un numero cospicuo di mezzi bellici, dai fucili ai carri armati, cannoni, aerei e navi da guerra.
Questi mezzi erano disponibili a titolo gratuito, eccedendo (surplus) le esigenze, dopo la smobilitazione delle Forze Armate americane, ed erano pronti per la consegna, essendo stati mantenuti in stato di conservazione. Vi era una sola condizione politica per la cessione, e precisamente l’assenza di commerci con l’URSS; inoltre, fu prevista la clausola secondo cui i Paesi che ricevevano tali armamenti avrebbero dovuto restituirli in condizioni di pieno funzionamento, al termine delle loro esigenze, in pratica a fine vita operativa.
Questa concessione gratuita di armamenti sembrava un atto di estrema generosità, e fu indubbiamente un efficace mezzo per riarmare rapidamente l’Europa Occidentale, mettendola al sicuro dalla minaccia sovietica, ma ben presto gli Europei si accorsero che, dietro alla cessione, vi era un fenomeno mai considerato a fondo in precedenza: il cosiddetto after sale (il “dopo-vendita”), che giocava a loro svantaggio.
Infatti, per tenere in efficienza tutti questi mezzi, fino alla loro restituzione agli USA, i Paesi europei che avevano beneficiato di questi armamenti dovettero aprire linee di credito negli Stati Uniti, e pagare in dollari le parti di ricambio, con un esborso di valuta pregiata, quindi, che diventò ben presto insostenibile, poiché aumentava in proporzione all’invecchiamento dei mezzi stessi. Il malcontento dei governi verso questa forma di tributo non fu trascurabile, tanto che, come vedremo, gli USA dovettero cambiare approccio, dopo qualche anno.
Nel frattempo, era stato ratificato il Trattato di Washington, noto come Patto Nord Atlantico. Nel testo del Trattato, l’Articolo 2 prevedeva, tra l’altro, che gli Stati firmatari “Cercheranno di eliminare i conflitti nelle loro politiche economiche internazionali e incoraggeranno la collaborazione economica tra alcuni o tutti loro”[2]. È opportuno notare che l’articolo precedeva, nel testo del trattato, quello oggi più noto della difesa collettiva, considerata solo all’Articolo 5: la NATO, quindi, era nata con un’attenzione speciale a un partenariato complessivo tra gli Stati Membri, non solo e non tanto come alleanza difensiva a carattere militare.
Anche se vi furono, nei primi anni, le riunioni periodiche del cosiddetto “NATO Financial and Economic Board” (il Comitato Finanziario ed Economico), l’argomento della cooperazione economica passò rapidamente in seconda linea, e le riunioni dei Ministri delle Finanze dell’Alleanza non furono più tenute, dopo i primi anni di vita della NATO. L’Alleanza si concentrò quindi sugli aspetti politici e, soprattutto, militari della collaborazione tra i Paesi Membri, lasciando in sospeso la questione della collaborazione in campo economico.
Nel frattempo, la ripresa dell’industria europea stava provocando una “lenta erosione dell’indiscussa preminenza americana nella tecnologia, nella produzione e nelle finanze”[3], e quindi si creò gradualmente una situazione di concorrenza tra le due sponde dell’Atlantico.
Preoccupati di limitare le spese per la Difesa, a loro dire eccessive, tanto da rendere impossibile agli Stati Uniti assicurare il pieno benessere della popolazione, i legislatori americani iniziarono ad accusare gli Europei di spendere troppo poco per i loro strumenti militari, e quindi di essere dei “Consumatori di sicurezza”: in pratica, gli Stati europei erano accusati di devolvere risorse a favore dei programmi sociali, a scapito di difesa e sicurezza.
Le polemiche su tale argomento, presto definito come la questione del Burden Sharing (condivisione degli oneri), durano ancor oggi, dopo oltre quarant’anni dal loro inizio, con periodici dibattiti infuocati, in sede NATO. Durante alcuni periodi, il Congresso legò perfino la questione del Burden Sharing alla permanenza delle forze USA in Europa, ma poi si limitò ad approvare piccole riduzioni di organico: le basi americane nel Vecchio Continente erano indispensabili per agire nel Medio Oriente e in Asia Occidentale, e non potevano, infatti, essere chiuse, pena la perdita della capacità di proiezione in quella parte del mondo.
La concorrenza commerciale
Gli Stati Uniti iniziarono, per il resto, a difendersi dall’invasione di prodotti europei stabilendo unilateralmente regole, come quella che imponeva, ad esempio, una quantità minima di merci di ogni tipo per l’importazione negli USA, escludendo così i piccoli produttori, ma non avviarono azioni dirompenti nei confronti degli Europei, convinti com’erano, giustamente, che lo sviluppo dei Paesi del Vecchio Continente fosse il migliore antidoto a una crescita d’influenza dell’URSS.
In questo scenario di competizione commerciale, che stava diventando però sempre più accesa, il 4 luglio 1962 il Presidente Kennedy cercò di riannodare i legami transatlantici complessivi e, in un suo discorso alla “Independence Hall” di Filadelfia, invitò tutti i Paesi delle allora Comunità Europee a firmare una “Dichiarazione di Interdipendenza”.
Il passo del suo discorso, nel quale egli si riferiva ai rapporti transatlantici, diceva: “Crediamo che un’Europa unita sarà capace di giocare un ruolo maggiore nella difesa comune, di rispondere più generosamente ai bisogni delle Nazioni più povere, di unirsi agli Stati Uniti e ad altri nel ridurre le barriere commerciali, risolvere i problemi di commercio, di derrate e valutari, e di sviluppare politiche coordinate in tutte le aree economiche, politiche e diplomatiche”[4].
Come si vede, il Presidente accennava anche ad alcune critiche, già allora presenti nei media americani, verso la giovane Comunità Economica Europea, inclusa quella sulla nostra scarsa propensione alle spese militari, ma proponeva soprattutto un partenariato commerciale a beneficio delle due sponde dell’Atlantico.
La logica alla base della sua proposta – valida ancor oggi – era che nessuna alleanza può resistere ai cambiamenti geopolitici, ed essere durevole, se riferita al solo ambito militare e securitario, ma deve essere completata da una collaborazione in tutti i campi, compreso quello economico.
Purtroppo, la prematura morte del Presidente statunitense, seguita dalle crescenti preoccupazioni USA a causa del loro impegno in Vietnam, segnò la fine dei tentativi per giungere a questo tipo di dichiarazione, e a maggior ragione di qualsiasi atto teso a metterla in pratica.
I progetti di sviluppo degli armamenti
Negli anni successivi, la NATO riuscì a sviluppare la collaborazione tra Alleati nel campo dell’industria degli armamenti, con lo scopo di dare spazio alla crescente capacità delle industrie europee nel settore. Come primo passo si decise di lanciare alcuni appalti-concorso, per dotare la NATO di sistemi prodotti dal migliore offerente, che i singoli Paesi avrebbero poi dovuto considerare per l’acquisto. In questo campo, ricordiamo che l’Italia ebbe la sua parte di progetti vincenti, come l’obice da 105/14 e il caccia G-91. Ben presto, però, ci si avvide che era necessario cambiare sistema: erano, infatti, pochi i Paesi alleati che beneficiavano da questa iniziativa, per cui si dovette cambiare approccio e furono proposte attività specifiche di sviluppo cooperativo di armi e sistemi, sotto l’egida della Conferenza dei Direttori Nazionali degli Armamenti (CNAD).
Numerosi furono i progetti sviluppati, su base volontaria, da gruppi di Nazioni, come il sistema missilistico antiaereo “NATO Sea Sparrow”, per citarne uno. Purtroppo, la diversità degli approcci seguiti, nello sviluppo delle armi e dei sistemi, sulle due rive dell’Atlantico portò, nel tempo, a un blocco quasi totale di questa collaborazione tra i Paesi NATO.
Gli USA, infatti, consideravano ogni sistema d’arma come se fosse un insieme aperto a continue modifiche, ovviamente concentrate nella parte di progetto di loro produzione, mentre i Paesi europei erano riluttanti a seguire un tale approccio, che massimizzava i benefici per gli USA, a detrimento degli altri partner. Inoltre, i componenti prodotti oltre oceano erano delle “Black Boxes” (scatole nere) sigillate, che potevano essere riparate solo negli USA.
Bisogna riconoscere che quest’approccio americano, che seguiva la filosofia di possedere sistemi in grado di sostenere una continua evoluzione, per fronteggiare le minacce sempre nuove, non era limitato ai progetti cooperativi di ricerca e sviluppo, ma rispecchiava una prassi da tempo consolidata oltre oceano.
Quest’approccio, però, aveva già creato difficoltà a quei Paesi europei che avevano acquisito sistemi missilistici di produzione USA, e si trovavano a dover sborsare periodicamente somme considerevoli per aggiornarli, pena la perdita della disponibilità dei ricambi. La preferenza dei Paesi europei, quindi, si spostò verso una collaborazione tra Membri dell’Unione Europea (UE) nel campo degli armamenti, mediante accordi multilaterali.
Lo sviluppo a livello europeo della Cooperazione intergovernativa in campo di politica estera, prima, quindi la nascita della PESC – Politica Estera di Sicurezza Comune – e poi della PESD – la Politica Europea di Sicurezza e Difesa –, nonché la successiva costituzione dell’Agenzia Europea per la Difesa (EDA) hanno poi accentuato questa preferenza generalizzata verso sistemi costruiti in collaborazione tra Europei, riducendo le occasioni di collaborazione transatlantica. Infatti, a parte il caccia F-35 e l’iniziativa per il trasporto strategico, pochi sono stati, negli ultimi anni, i progetti sviluppati insieme agli USA.
Neanche l’iniziativa NATO della “Smart Defence” (Difesa Intelligente), ha raccolto un consenso tale da materializzarsi in sviluppi congiunti tra le due sponde dell’Atlantico; va detto che, anzi, con una tempestività degna di miglior causa, la PESD (ora CSDP – Common Security and Defence Policy, Politica di Sicurezza e Difesa Comune) tentò subito di creare un meccanismo alternativo alla “Smart Defence”, e rispose prima con il programma di “Pooling and Sharing”, e, più di recente, con il meccanismo di sviluppi multinazionali noto come PESCO, una Cooperazione Strutturata Permanente che, a similitudine delle cooperazioni rafforzate, prevede la partecipazione da parte degli Stati Membri su base volontaria.
Dal TTIP alla guerra dei dazi
La riduzione della collaborazione economica tra le due sponde dell’Atlantico, inclusa quella riguardante gli armamenti, ha fatto aumentare l’importanza di un accordo commerciale a carattere omnicomprensivo tra le parti, per scongiurare il rischio di una guerra economica, i cui effetti potevano ben presto generare l’effetto-valanga, alienando le due parti sempre più.
Nel 2013, quindi, sono state avviate trattative tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti, tese a formalizzare un trattato di cooperazione economica, denominato TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership, Partenariato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti). Dopo tre anni di trattative, nel 2016 le due parti arrivarono però alla conclusione che quest’accordo non era possibile, non essendovi concordanza di vedute su moltissimi aspetti, specie su come trattare le Multinazionali americane, per quanto riguardava le tasse che queste dovevano pagare in Europa.
Come riportato dai media europei, “Il De profundis del trattato transoceanico (era) arrivato direttamente dal vice cancelliere e ministro dell’Economia tedesco, Sigmar Gabriel il quale, in un’intervista alla rete televisiva pubblica Zdf, (aveva) rilevato che “i colloqui con gli Stati Uniti sono, di fatto, falliti perché noi Europei, naturalmente, non dobbiamo soccombere alle richieste americane: nulla si sta muovendo in avanti”[5].
Da quel momento, si sono moltiplicate le multe alle Multinazionali americane, sia da parte dell’UE, sia dei singoli Stati, per il mancato pagamento di tasse nei Paesi in cui esse operavano, nonché per altre irregolarità fiscali. Inevitabilmente, queste sentenze sono state interpretate oltre oceano come atti di guerra economica, e hanno creato, presso l’opinione pubblica USA, un’atmosfera favorevole a rappresaglie e rivalse da parte del governo di Washington, che si sono concentrate, all’inizio, sull’acciaio e l’alluminio.
Un tentativo di pacificazione in campo economico è stato fatto, nel corso della visita del Presidente della Commissione Europea Jean Claude Juncker alla Casa Bianca, il 25 luglio 2018. Infatti, la dichiarazione congiunta dei due leader, al termine dell’incontro, fece sperare in una schiarita, tanto che si parlò di “TTIP alleggerito”. Purtroppo, l’Executive Working Group, che avrebbe dovuto concordare i dettagli del trattato, non ha ancora finito i lavori, un segno che non sono tramontate le difficoltà che avevano portato allo stallo del 2016, anche se gli USA hanno potuto incrementare l’esportazione di soia e di gas naturale verso l’Europa, come gesto di buona volontà da parte dell’UE.
Negli ultimi mesi, quindi, l’Organismo per la risoluzione delle dispute del WTO (l’Organizzazione Mondiale del Commercio) ha emesso la sua sentenza su una disputa tra la Boeing e l’Airbus, vecchia di 15 anni, riconoscendo che l’Europa, concedendo aiuti di Stato alla seconda, aveva commesso un atto contrario alle regole dell’Organizzazione. Il WTO ha quindi autorizzato il governo americano a imporre tariffe all’Europa, a titolo di contromisura, per un ammontare di 7,5 miliardi di dollari.
Va detto che un analogo ricorso, ancora in corso di dibattimento al WTO, è stato presentato dalla Commissione Europea contro la Boeing che, a detta dell’UE, ha ricevuto analoghi aiuti dal governo di Washington. Ma quest’ultimo, senza attendere la sentenza sulla seconda disputa, ha immediatamente fatto scattare una serie di tariffe, tese a danneggiare prodotti europei, a titolo di applicazione della sentenza.
Stando ai primi documenti USA, riportati dai media, questi dazi dovrebbero essere pesanti, pari al “10%, per quel che riguarda la produzione di grandi velivoli da parte di Francia, Germania, Spagna e Gran Bretagna che animano il consorzio (Airbus). Ma non solo. Dazi al 25% arrivano anche per i vini francesi, le olive greche, il whiskey scozzese. Per l’Italia sono colpiti, tra gli altri prodotti, i formaggi, a partire da pecorino e parmigiano, i liquori e gli amari (l’elenco è disponibile nel registro federale Usa). Proprio del Parmigiano, ad esempio, hanno parlato della necessità di rincarare il prodotto da 40 a 45 dollari al chilo per i consumatori americani”[6].
L’Italia, quindi, pur non essendo direttamente coinvolta nella disputa tra costruttori di velivoli da trasporto, si è trovata a essere colpita, oltretutto in modo inaspettato. Va detto che i rapporti commerciali tra l’Italia e gli USA sono fiorenti, da molto tempo, sia nel campo agroalimentare, sia in quello a più alta tecnologia, soprattutto quella militare: la US Navy, ad esempio, ha da tempo adottato il cannone OTO Melara da 76/62, le pistole Beretta sono sempre più popolari tra le Forze Armate e la Polizia USA, mentre la nostra cantieristica si sta espandendo oltre Atlantico in modo notevole.
I dazi applicati da Washington, però, presentano aspetti nuovi, in quanto colpiscono beni molto popolari, sia nei Paesi europei in cui questi sono prodotti, sia negli USA, dove le comunità di origine europea sono rimaste comprensibilmente affezionate al modo di vivere – e di mangiare – dei loro avi.
Il parmigiano, ad esempio, è considerato da noi quasi come una bandiera nazionale: i nostri governi, sotto l’onda dell’emozione popolare, hanno a suo tempo difeso l’appartenenza all’Italia della sua denominazione, anche a costo di rinunciare, a favore dell’Ungheria, all’esclusiva nell’utilizzo del nome “Tokai” per il vino che oggi si chiama “Friulano”.
Gli effetti indesiderati
Come osservava, anni fa, un profondo studioso di Strategia, “le spade economiche sono a doppio taglio, e, spesso, infliggono le stesse ferite a coloro che le impugnano, come le causano al nemico”[7]. Questa frase si applica a pennello nel caso dei dazi decisi dal governo americano.
I dazi americani, infatti, non colpiscono solo l’economia europea in modo localizzato, ma hanno un impatto mediatico notevole, ben superiore a quello economico, sulle opinioni pubbliche dei Paesi UE. Quando larghi strati della popolazione sono coinvolti, gli effetti sono di solito a valanga, specie perché questi atti unilaterali sono visti come un atto di guerra economica, non come la conseguenza di una disputa tra amici. Lo stesso rischio esiste per quanto riguarda le comunità USA di origine europea, composte dai residenti e cittadini americani, discendenti di seconda e terza generazione dei nostri immigrati.
In effetti, anche l’uomo della strada sa che tra amici si discute, magari si litiga, ma poi si trova un accordo; gli atti unilaterali sono invece una manifestazione d’inimicizia, a prescindere dal loro impatto pratico, e la probabilità che si crei un effetto di “botta e risposta” è notevole. Lo confermano le stesse espressioni particolarmente calorose del presidente Trump, in occasione della recente visita a Washington del presidente Mattarella, un indice del fatto che gli USA si siano accorti che i dazi da loro imposti hanno avuto un effetto inatteso, creando risentimenti popolari decisamente superiori alle loro aspettative.
Vi è però un altro pericolo, oltre a quello della spirale di rappresaglie. Infatti, in una situazione di tensione tra Nazioni, anche alcuni provvedimenti interni, presi da governi delle due parti per motivi di politica interna, sono visti come atti di rappresaglia, a causa delle loro implicazioni internazionali, non necessariamente deliberate: mi riferisco, in particolare, al progetto di legge, ancora in discussione al Parlamento italiano, sul carcere per i “grandi evasori”.
Si sa che i possibili obiettivi di questo provvedimento, in pratica i possessori di risorse finanziarie notevoli, sono ormai solo tre: i divi dello spettacolo e dello sport (ormai pochissimi evadono), le grandi organizzazioni criminali (tutte) e le società multinazionali (in gran parte aventi la “casa madre” negli USA).
Le manette, poniamo, a un Amministratore Delegato della filiale italiana di una multinazionale americana, per un contenzioso di tipo fiscale con il nostro governo, sarebbero sicuramente viste oltre oceano come un atto di guerra economica, ben oltre le multe che questa e altre multinazionali hanno dovuto pagare di recente, per alcune irregolarità fiscali.
Ora, il rischio è che da un lato le opinioni pubbliche, in Europa, perdano il loro affetto pluridecennale per gli Stati Uniti e per il loro stile di vita, dall’altro che l’opinione pubblica USA si indigni per le manette ai responsabili delle loro imprese più prestigiose; in tal modo, verrebbe erosa la stessa base che ha permesso alla NATO di sopravvivere al crollo del Muro di Berlino e alle crisi successive, cioè l’affetto pluridecennale degli Europei, e degli Italiani in particolare, per gli Stati Uniti e per il loro stile di vita.
Vi è un precedente da non trascurare, nel campo della Difesa. Bisogna, infatti, ricordare che la PESD (ora CSDP) è nata durante la crisi dell’ex Jugoslavia, quando l’Europa si trovò da sola a fronteggiare l’implosione del Paese, dopo la morte di Tito. È ben vero che gli Stati Uniti erano all’epoca impegnati nella Guerra del Golfo, e non potevano assistere gli Europei nel loro tentativo di pacificazione dell’area.
L’insuccesso dell’Unione dell’Europa Occidentale (UEO), in quell’occasione, cui fece contrasto l’esito positivo delle successive operazioni dirette dalla NATO, ha però scavato una prima crepa nei rapporti transatlantici, convincendo anche i Paesi più riluttanti a sviluppare maggiormente il Pilastro di Sicurezza europeo, per rendere l’Europa sempre più indipendente dal potere militare USA.
L’Europa è cresciuta, anche al costo di indebitarsi fino al collo, per sostenere lo sviluppo e il benessere dei propri cittadini, e non ha più bisogno degli Stati Uniti come nel passato. Ma è altrettanto vero che, nel mondo attuale sempre più piagato dai conflitti (e i 68 milioni di rifugiati, dichiarati quest’anno dall’ONU, ne sono la prova), solo un’azione concertata tra Europa e Stati Uniti potrà, sia pure lentamente, ridurre le tensioni che rischiano di portare a un conflitto generalizzato.
Su ambedue le sponde dell’Atlantico ci si deve quindi convincere che nessuna alleanza può sopravvivere a una guerra intestina a carattere economico: nel campo degli scambi commerciali tra Paesi diversi, è facile guardare la metà vuota della bottiglia, e sostenere di essere danneggiati dalla controparte. Di conseguenza, nascono sentimenti di ostilità, sono decise rivalse che creno una reazione a catena, con il conseguente peggioramento dei rapporti bilaterali.
L’ultimo colpo, di solito, si ha quando sono colpiti dai dazi beni-simbolo, molto cari alla maggioranza della popolazione: allora la disputa sugli scambi commerciali esce dai corridoi delle Cancellerie e coinvolge le opinioni pubbliche, ben oltre gli effetti finanziari di tali misure.
Se poi una spirale perversa di questo genere si verifica tra Paesi alleati, il rischio è ben maggiore: si corre infatti il pericolo di distruggere quel collante fondamentale, costituito dalla condivisione di valori, dall’amicizia e dall’affetto tra le popolazioni delle parti in causa. Come aveva capito Kennedy, il ponte transatlantico ne sarebbe seriamente compromesso. Il ridicolo dell’attuale situazione è che tutto ciò è stato scatenato da una “guerra del parmigiano” i cui effetti potrebbero essere ben superiori a quanto ipotizzato nei corridoi delle cancellerie di Washington!
[1]P. KENENDY. Ascesa e Declino delle Grandi Potenze. Ed. Garzanti, 1989, pag. 495.
[2]THE NORTH ATLANTIC TREATY, 4 April 1949, Art.2.
[3]P. KENNEDY. American Grand Strategy, in “Grand Strategies in War and Peace”. Yale University Press, 1991, pag. 173.
[4]JFK LIBRARY.President Kennedy’s Speeches , https://www.jfklibrary.org/learn/about-jfk/historic-speeches/address-at-independence-hall , July 4, 1962: “That spirit is today most clearly seen across the Atlantic Ocean. The nations of Western Europe, long divided by feuds far more bitter than any which existed among the 13 colonies, are today joining together, seeking, as our forefathers sought, to find freedom in diversity and in unity, strength.
The United States looks on this vast new enterprise with hope and admiration. We do not regard a strong and united Europe as a rival but as a partner. To aid its progress has been the basic object of our foreign policy for 17 years. We believe that a united Europe will be capable of playing a greater role in the common defense, of responding more generously to the needs of poorer nations, of joining with the United States and others in lowering trade barriers, resolving problems of commerce, commodities, and currency, and developing coordinated policies in all economic, political, and diplomatic areas. We see in such a Europe a partner with whom we can deal on a basis of full equality in all the great and burdensome tasks of building and defending a community of free nations.
It would be premature at this time to do more than indicate the high regard with which we view the formation of this partnership. The first order of business is for our European friends to go forward in forming the more perfect union which will someday make this partnership possible.
A great new edifice is not built overnight. It was 11 years from the Declaration of Independence to the writing of the Constitution. The construction of workable federal institutions required still another generation. The greatest works of our Nation’s founders lay not in documents and in declarations, but in creative, determined action. The building of the new house of Europe has followed the same practical, purposeful course. Building the Atlantic partnership now will not be easily or cheaply finished.
But I will say here and now, on this Day of Independence, that the United States will be ready for a Declaration of Interdependence, that we will be prepared to discuss with a united Europe the ways and means of forming a concrete Atlantic partnership, a mutually beneficial partnership between the new union now emerging in Europe and the old American Union founded here 175 years ago.”.
[5]Vds. REPUBBLICA.IT del 28 agosto 2016.
[6]Vds REPUBBLICA.IT, 18 ottobre 2019.
[7] A.A. SVECHIN. Strategy. East View Publications, 1992, pag. 109.