Scarica il file in PDF – tesi liuzza APPROFONDIMENTI SUL TERRORISMO
IL TERRORISMO INTERNAZIONALE E LE STRATEGIE DI CONTRASTO AL FENOMENO ADOTTATE NELL’UNIONE EUROPEA
Gaspare Liuzza
(tesi Master in “Geopolitica della Sicurezza”, Università degli Studi Niccolò Cusano UNICUSANO – a.a. 2018-2019 – relatore Prof. Laura Quadarella Sanfelice di Monteforte)
INTRODUZIONE
CAPITOLO I
- Il terrorismo: un fenomeno ancora privo di definizione univoca
- L’evoluzione del fenomeno dalle origini fino al terrorismo islamico
- Le “Primavere Arabe” e la minaccia del terrorismo “jihadista”
CAPITOLO II
- Terrorismo e sicurezza
- La definizione europea di reato terroristico
- Le strategie di contrasto al terrorismo adottate nell’Unione Europea
- Il mandato di arresto europeo, Europol ed Eurojust
CONCLUSIONI
BIBLIOGRAFIA
INTRODUZIONE
In questo lavoro ho trattato l’argomento relativo alle strategie di contrasto al fenomeno del terrorismo adottate nell’ambito dell’Unione Europea: dopo l’attentato alle “Torri Gemelle” la parola “terrorismo” è entrata nella nostra quotidianità, ma si tratta di un fenomeno (se lo si intende come forma di violenza organizzata finalizzata a raggiungere determinati obiettivi) che esiste da sempre, anche se nel corso della storia si è evoluto arrivando ad assumere forme diverse. Un fenomeno che presenta varie sfaccettature, riconducibile alla volontà di produrre “terrore” attraverso azioni criminali violente e premeditate poste in essere allo scopo di provocare paura e clamore (come gli attentati, gli omicidi, le stragi, i sequestri, i sabotaggi, i dirottamenti compiuti a danno di collettività o di enti o istituzioni statali o pubbliche, governi, esponenti politici o pubblici, gruppi politici, etnici o religiosi) e con l’obiettivo di indurre le popolazioni a sottomettersi al terrore.
Solo dopo l’attacco terroristico alle “Twin Towers” tuttavia ci siamo resi conto che nessuno al mondo può ritenersi al sicuro e che siamo tutti potenziali obiettivi del terrorismo, indipendentemente dalle nostre idee o dalle nostre posizioni politiche: tutto il mondo si scoprì “sotto attacco”. Il terrorismo è un fenomeno sociale che può essere studiato sia attraverso le lenti della sociologia che della psicologia (o della psicoanalisi) tanto che, proprio all’indomani dell’attacco alle “Torri Gemelle”, si è cominciato a dibattere sull’esistenza o meno di uno scontro tra civiltà e culture profondamente eterogenee.
La minaccia terroristica oggi è rappresentata soprattutto dal terrorismo di matrice islamica che è stato talvolta da alcuni considerato come espressione di uno scontro tra culture e visioni diverse del mondo: uno scontro tra due modi di vivere, riconducibili a diverse religioni, che appaiono tra di loro incompatibili.
Secondo l’opinione prevalente il fatto storico che ha scatenato il terrorismo islamista contro l’Occidente è da individuarsi nella “occidentalizzazione” di molti Paesi islamici (come l’Iran, l’Egitto, i Paesi del Maghreb e la Siria) che, dopo essersi liberati dal colonialismo, hanno copiato i sistemi politici, le leggi, la cultura e i costumi dell’Occidente “infedele” e “corrotto”. Per opporsi a questa deriva sarebbe nato il “fondamentalismo islamico” che, comportando una frattura interna al mondo musulmano, ha determinato il ritorno all’integralismo fondato sulle interpretazioni ideologiche della religione islamica. Mantenendo sullo sfondo il confronto-scontro con l’Occidente che nasce dal rifiuto della cultura, dei modelli, dei costumi e delle ideologie occidentali (che hanno determinato, alimentato e strutturato nel corso del tempo lo sviluppo del movimento islamista), si comprendono le origini e le radici storiche del fenomeno e delle sue scuole di pensiero a cui oggi si riconducono i gruppi ed i movimenti islamisti estremisti.
Non vi è nessuna relazione sostanziale fra la religione islamica ed il terrorismo islamista, ma tuttavia appare evidente che l’uso dell’Islam è strumentale al raggiungimento di una frattura fra le due diverse realtà: il “mondo occidentale” (considerato dagli integralisti islamici come infedele e corrotto) da una parte e quello musulmano dall’altra.
Il terrorismo di matrice islamica si è evoluto sfruttando la tecnologia al fine di perseguire le proprie finalità fino ad utilizzare Internet per scopi di propaganda, proselitismo ed arruolamento oltre che per dare, in taluni casi, agli attentatori delle indicazioni sugli obiettivi da colpire.
I terroristi oggi sanno benissimo come sfruttare le più moderne tecnologie in loro favore per diffondere le loro idee e fare proseliti: utilizzano i social network, i quotidiani “on line” e le applicazioni come “Whatsapp” e “Telegram” per oltrepassare i confini del Medio Oriente e promuovere in tutto il mondo le loro idee, con la speranza di trovare terreno fertile per la radicalizzazione alla causa “jihadista” di giovani soggetti.
In un’epoca in cui l’innovazione tecnologica può essere utilizzata come un’arma altamente distruttiva, è nata l’esigenza di difendere la tecnologia: le reti informatiche e il “cyber spazio” sono così diventati alcuni fra i più recenti ambiti di applicazione degli studi sulla sicurezza.
Il terrorismo è tuttavia un fenomeno in continua evoluzione¨ anche con riguardo alle modalità operative: i recenti attentati di matrice “jihadista” (si pensi per esempio alla strage dei mercatini di Natale a Berlino del 19 dicembre 2016) dimostrano per esempio come le organizzazioni terroristiche abbiano fatto spesso leva anche sull’azione di attentatori “fai da te” radicalizzati che, agendo come “lupi solitari”, hanno posto in essere senza alcuna pianificazione azioni criminose talvolta improvvisate che si sono rivelate difficili da prevedere.
Il presente elaborato nasce dalla volontà di effettuare un’analisi, nell’ambito delle politiche di contrasto al terrorismo, degli strumenti previsti nell’Unione Europea per la prevenzione e la repressione di un fenomeno che ha assunto negli ultimi venti anni un carattere transnazionale ed universale.
La natura dei conflitti contemporanei è profondamente mutata in quanto ai tradizionali scontri tra Stati si sono affiancati i “conflitti asimmetrici”, caratterizzati da una profonda disparità di mezzi, capacità tecnologiche e militari tra i contendenti. Spesso questi conflitti vedono contrapposti da un lato gli Stati e, dall’altro, gli attori non statuali in un contesto in cui i primi, nonostante la loro superiorità militare ed economica, sono in forte difficoltà giacché devono difendersi da attacchi condotti in maniera inusuale dai secondi.
È con l’attacco terroristico alle “Torri Gemelle” che l’espressione “guerra asimmetrica” ha assunto il suo significato attuale: il conflitto viene condotto, con metodi di guerra ed obiettivi diversi da quelli tradizionali, con risorse limitate da soggetti difficilmente individuabili.
Dopo l’attentato al “World Trade Center” molti Stati furono costretti a porre la propria attenzione sul fenomeno del terrorismo allo scopo di rafforzare, anche a livello internazionale, gli strumenti di prevenzione e contrasto: gli Stati hanno cercato di arginare la minaccia terroristica attraverso l’introduzione nei propri ordinamenti giuridici di specifiche fattispecie penali, di adeguate misure sanzionatorie e di efficaci strumenti procedimentali.
In molti Paesi europei tuttavia prima dei tragici fatti dell’11 Settembre 2001 non vi era una adeguata normativa, tanto che in alcuni Stati il terrorismo transnazionale non era nemmeno preso in considerazione come reato: fino ad allora erano soltanto sei gli Stati aderenti all’Unione Europea (l’Italia, la Germania, la Francia, il Portogallo, la Spagna ed il Regno Unito) che avevano una legislazione penale specifica in materia di reati terroristici, mentre negli altri Stati membri le condotte ad essi assimilabili venivano sanzionate come reati comuni.
Gli Stati furono chiamati a fronteggiare la minaccia terroristica proveniente dai gruppi “jihadisti”, ma il diffuso senso di insicurezza che ha accompagnato ogni cittadino del “mondo occidentale” dopo l’attentato alle “Torri Gemelle” ha determinato la nascita di un istintivo favore verso il rafforzamento di talune misure preventive: questo senso di insicurezza è stato alimentato successivamente dagli attentati che hanno colpito l’Europa che, a loro volta, hanno costretto il legislatore europeo ad intervenire per predisporre un quadro normativo unitario che consenta di prevenire e reprimere efficacemente un fenomeno che oggi ha nella transnazionalità ed universalità le più importanti peculiarità. In questo contesto l’aspetto più delicato è rappresentato dall’individuazione dei limiti entro cui possono ritenersi legittime misure che, introdotte a tutela del bene della sicurezza, inevitabilmente finiscono con l’incidere sulle libertà individuali.
È importante cercare un equilibrio tra la tolleranza e la sorveglianza, in modo che gli strumenti e le misure adottate per la prevenzione e la repressione del fenomeno del terrorismo consentano di tutelare quei principi fondamentali di libertà e democrazia su cui si fondano le “società occidentali”: l’Unione Europea ha infatti cercato di tutelare la sicurezza degli Stati membri, dei suoi cittadini e dei trasporti attraverso l’adozione di strategie fondate sempre sul rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo.
In un mondo globalizzato e interconnesso come quello attuale, il tema della sicurezza è centrale. La sicurezza è oggi un concetto con molti significati, in quanto non coinvolge più solo la dimensione “esterna” degli Stati con la sua tradizionale valenza politico-militare, ma è ormai diventato un fenomeno tipicamente “trasversale”, in grado di interessare su diversi piani e con diverse combinazioni sia la politica internazionale che la dimensione politica, economica e sociale interna degli Stati e degli altri attori internazionali: il concetto di sicurezza è mutato profondamente, alla luce delle nuove “minacce” e dei nuovi “rischi” legati al terrorismo internazionale. Negli ultimi anni si è diffuso un trasversale sentimento di insicurezza che si manifesta principalmente attraverso l’individuazione di pericoli, presunti o reali, che condizionano in maniera più o meno profonda l’esistenza quotidiana di una società.
L’espressione “allarme sicurezza”, ad esempio, sembra essere entrata a far parte ormai del vocabolario quotidiano, veicolata soprattutto dai “media” (che la utilizzano spesso in riferimento a un pericolo non sempre ben precisato) oltre che da esponenti politici che a volte sottolineano le esigenze di sicurezza e la necessità di contrastare determinate presunte minacce in maniera più vigorosa, spesso con il solo scopo di aumentare il proprio consenso tra gli elettori.
Il concetto di sicurezza è ampio e articolato ed il suo significato si è evoluto nel tempo, seguendo le trasformazioni che hanno attraversato le società anche sul piano dell’innovazione tecnologica: al concetto di sicurezza oggi sono assegnati numerosi significati, non più legati esclusivamente alla dimensione statuale; si tratta di un ambito trasversale e globale che riguarda tanto le relazioni internazionali quanto gli aspetti politici, economici e sociali degli Stati e degli altri principali attori internazionali.
Terrorismo e antiterrorismo sono quindi entrati prepotentemente nella vita degli Stati, delle società e degli individui, modificando il concetto di sicurezza e di sovranità: il terrorismo internazionale di matrice religiosa, adesso nella sua forma più evoluta ed aggressiva, ha lanciato una sfida alla sicurezza globale, ponendosi come una nuova minaccia per i Paesi del “mondo occidentale” che credono nelle libertà e nella democrazia.
Gli attacchi dell’11 settembre 2001 contro le “Twin Towers” e contro il “Pentagono” (sede del Dipartimento della Difesa del Governo degli Stati Uniti) hanno svelato la capacità distruttiva del terrorismo moderno: questi attentati possono essere presi come esempio del carattere poliedrico che ha assunto nell’era attuale questo fenomeno. Una azione condotta contro alcuni luoghi ed edifici altamente simbolici in varie città degli Stati Uniti, ma pianificata a migliaia di chilometri di distanza, messa in atto utilizzando come armi quattro aerei di linea dirottati da un gruppo di persone (provenienti da diversi Paesi dell’area mediorientale) legate ad Al Qaeda: un attore non statuale fondato tra il 1988 ed il 1989 (nel periodo successivo all’invasione sovietica dell’Afghanistan) dal saudita Osama Bin Laden e dall’egiziano Ayman al-Ẓawāhirīi, con base tra l’Afghanistan ed il Pakistan, che ha assunto le caratteristiche di una vera e propria organizzazione criminale internazionale capace di elaborare un progetto politico unitario di cui ogni affiliato ha la piena consapevolezza. L’obiettivo dichiarato da tale organizzazione è la difesa dell’Islam originario dalla minaccia sionista/occidentale e dai governi moderati musulmani (come per esempio quello dell’Arabia Saudita che è visto come insufficientemente islamico e troppo legato al governo degli U.S.A.). Anche se la Comunità internazionale percepì la reale portata della minaccia solamente con l’attentato alle “Torri Gemelle”, già negli anni precedenti erano stati commessi in diversi Stati del mondo attentati terroristici riconducibili a questo movimento terroristico: i suoi atti terroristici si basano su attacchi suicidi e omicidi facendo spesso ricorso all’uso simultaneo di esplosivi contro differenti obiettivi. Altra caratteristica fondamentale di questa organizzazione è la creazione di vere e proprie basi di addestramento situate in diversi Paesi musulmani (ma soprattutto nel Pakistan settentrionale, nello Yemen e in Afghanistan) con l’obiettivo di formare giovani reclute terroriste. Dopo la morte Osama Bin Laden l’organizzazione ha continuato nella sua attività terroristica trasformandosi in un “network” del radicalismo islamico: Al Qaeda oggi è una struttura ramificata che non si esaurisce esclusivamente nelle aree dell’Afghanistan e del Pakistan, in quanto al suo nucleo originario si sono affiliati molti gruppi “jihadisti” che operano in altre aree come per esempio “Al Qaeda nella Penisola Arabica” (nota anche come A.Q.A.P.), “Al Qaeda nel Maghreb Islamico” (conosciuta anche con l’acronimo di A.Q.I.M.), prevalentemente attiva in Algeria, Mauritania, Niger e Mali. Ci sono altri gruppi della c.d. galassia “jihadista” che si sono ispirati alla ideologia ed ai metodi di Al Qaeda: in Mali per esempio opera il “Movimento per l’Unicità ed il Jihad nell’Africa Occidentale” (M.U.J.A.O.), nato da una costola di A.Q.I.M. con lo scopo di espandere l’azione “jihadista” nell’Africa Occidentale; nel Corno d’Africa operano invece i miliziani di “Al Shabaab”, mentre in Afghanistan ha operato il movimento fondamentalista dei Talebani che nel 1996 istituì l’Emirato Islamico dell’Afghanistan (riconosciuto a livello internazionale solamente dal Pakistan, dagli Emirati Arabi Uniti e dall’Arabia Saudita) divenendo la base logistica di Al Qaeda: i Talebani, dopo la distruzione dell’Emirato Islamico, si sono organizzati allo scopo di combattere l’esercito americano e rovesciare il nuovo governo afgano guidato dal presidente Hamid Karzai, operando sia in Afghanistan che nelle regioni settentrionali del Pakistan.
La “galassia jihadista islamica” oggi è polarizzata intorno ad Al Qaeda ed allo Stato Islamico. Queste due organizzazioni sono in aperto contrasto per la “leadership” dei gruppi “jihadisti” estremisti: lo Stato Islamico inizialmente fu alleato di Al Qaeda, rappresentata in Siria dal “Fronte al-nusra”, ma se ne staccò definitivamente nel febbraio 2014 diventandone il principale concorrente per il primato nel “jihad” globale. A partire dall’ottobre 2014 c’è stata una notevole crescita del numero dei gruppi terroristici islamici (anche esterni all’Iraq ed alla Siria) che hanno dichiarato la loro affiliazione allo Stato Islamico che così ha esteso la sua influenza su territori sempre più vasti fino alla proclamazione del Califfato nel giugno 2014.
Oggi la minaccia alla sicurezza globale è portata avanti proprio dall’I.S.I.S. (acronimo dell’autoproclamato Stato Islamico di Iraq e Siria ovvero in arabo al-Dawla al-Islāmiyya): una organizzazione caratterizzata da grandi ambizioni dotata di strutture, soldi e uomini pronti a combattere, che intende porsi come una vera e propria soggettività statuale.
Un’organizzazione che agisce in modo spietato, infliggendo torture e realizzando crimini brutali e contrari ad ogni principio di umanità: l’I.S.I.S. trae le proprie origini da “Jamā’at al-Tawḥīd wa l-jihād”, “al-Qāʿida” in Iraq e dal gruppo islamista denominato “Mujāhidīn del Consiglio della Shura” (attivo dal 1999 al 2006). La peculiarità dell’autoproclamato Stato Islamico è quella di riunire in una sola entità le caratteristiche dell’esercito, delle modalità terroristiche, della fisicità del territorio in cui risiede e della struttura statale: lo Stato viene visto come uno strumento per perseguire gli obiettivi dell’organizzazione terroristica originaria.
Lo Stato Islamico è diventato una fonte di attrazione per migliaia di combattenti provenienti da altri Paesi che, ideologicamente radicalizzati, si sono recati in Medio Oriente per combattere tra le milizie del Califfato: è nato così il fenomeno dei “foreign fighters”, soggetti di diversa estrazione (e con diversi livelli di istruzione) che si radicalizzano al punto da accettare senza riserve di allontanarsi dalla propria famiglia, di essere sottoposti a severi addestramenti e conseguentemente di combattere al fianco dello Stato Islamico nell’area siro-irachena.
Si tratta di soggetti estremamente pericolosi che, dopo aver acquisito nel periodo in cui sono rimasti nelle zone di guerra elevate conoscenze in ordine alle tecniche di esecuzione degli atti terroristici, possono a loro volta utilizzarle (dopo essere tornati in Occidente) per preparare ed eseguire attentati contro obiettivi civili o militari. Lo Stato Islamico (che dalla proclamazione del Califfato, dopo una iniziale occupazione di alcuni territori appartenenti all’Iraq ed alla Siria, ha tuttavia perso successivamente la sua delimitazione territoriale) rappresenta per questi soggetti radicalizzati solamente una tappa di una conflittualità globale in un contesto in cui si vorrebbe imporre con la forza una visione integralista della religione islamica.
Nel primo capitolo si è proceduto ad una analisi storica sulle origini e sull’evoluzione del concetto di “terrorismo”, ripercorrendo le tappe dei principali attacchi terroristici che hanno colpito la “Società Occidentale” a partire proprio dall’attacco alle “Twin Towers” fino ai recenti attentati che hanno colpito l’Europa e che hanno fatto emergere sempre più prepotentemente un clima di incertezza e timore.
La sicurezza delle istituzioni muove dal presupposto che l’ordine mondiale seguito alla Pace di Westfalia, fondato sull’equilibrio tra le potenze e sul potere esclusivo dello Stato all’interno dei propri confini, sia ormai venuto meno generando un nuovo scenario complesso in cui i nuovi attori internazionali e sovranazionali faticano a garantire pace e sicurezza effettive.
È il caso questo dell’Unione Europea e di quegli organi (come l’Alto Rappresentate UE per gli Affari Esteri e la Politica, il Servizio Europeo per l’Azione Esterna o il Consiglio Europeo), che si occupano in particolare di politica estera comune e della tutela dello spazio europeo.
La pericolosità della minaccia terroristica (tipicamente “asimmetrica”) riconducibile ad Al Qaeda ed allo Stato Islamico risiede nella capacità dimostrata da parte di queste organizzazioni di operare su un livello mondiale e di rappresentare quindi, nello stesso tempo, una minaccia alla sicurezza locale e a quella globale.
Il terrorismo di matrice islamica rappresenta attualmente una sfida globale all’interno della Comunità internazionale: il terrorismo è sovversione sistematica di valori assoluti, di tradizioni religiose, di appartenenze culturali, di diritti e di libertà.
Questa sfida alla sicurezza globale necessita di una efficace risposta globale, essendo richiesto l’impegno congiunto di tutti gli Stati membri della Comunità internazionale.
Nel secondo capitolo sono state esaminate le politiche di lotta al terrorismo predisposte dall’Unione Europea in un contesto in cui la priorità assoluta è rappresentata dalla sicurezza collettiva, quale parte essenziale del patrimonio di diritti e di libertà di cui è titolare ogni cittadino. Per rispondere efficacemente alla minaccia terroristica occorre adottare un approccio globale caratterizzato da un impegno a lungo termine, ma soprattutto serve un’Europa più forte che sappia far valere la propria identità e sappia dare risposte fondate sul diritto: un principio fondamentale per l’Unione Europea è che la lotta al terrorismo deve svilupparsi nel rispetto del Diritto Internazionale, dei diritti umani nonché dello Stato di diritto. Tuttavia sembra altrettanto importante l’adozione di un approccio integrato, in cui ogni componente (indagini investigative, attività di “intelligence”, dialogo interculturale e interreligioso, lotta al finanziamento, sicurezza dei trasporti, strategia di contrasto al reclutamento e alla radicalizzazione) deve avere un ruolo essenziale e sinergico ai fini di un efficace contrasto al fenomeno.
L’Unione Europea ha adottato un approccio globale per affrontare le questioni dei combattenti stranieri e del terrorismo transazionale di matrice islamica, caratterizzato da un piano d’azione e da una politica di contrasto al fenomeno che sono nettamente diverse rispetto alle azioni intraprese dalla N.A.T.O. che, invece, appaiono caratterizzate da concetti strategici diversi e da modalità di azione di tipo militare. L’Unione Europea si è occupata della tutela della sicurezza interna degli Stati membri (dei suoi cittadini e dei trasporti) adottando una politica di contrasto al terrorismo sempre fondata sul rispetto dei diritti dell’uomo, puntando sulla cooperazione e sul coordinamento fra gli Stati membri: l’Unione Europea, nell’ambito del citato approccio globale, ha cercato di adottare una strategia capace di contrastare la radicalizzazione e l’estremismo violento intensificando, anche attraverso il rafforzamento della cooperazione con i Paesi terzi, l’azione esterna di lotta al terrorismo in particolare nelle regioni del Mediterraneo, del Medio Oriente, del Nord Africa, del Golfo Persico e del Sahel.
CAPITOLO I
1.Il terrorismo: un fenomeno privo di definizione univoca.
Il terrorismo oggi rappresenta una delle principali minacce all’attuale sicurezza globale.
Questo tema oggi è al centro del dibattito politico e mediatico in gran parte del “mondo occidentale”, in quanto i governi e le istituzioni si interrogano sempre più su quali misure e quali strumenti devono essere adottati per contrastare efficacemente un fenomeno che si è evoluto nel tempo di pari passo con l’evoluzione e l’innovazione tecnologica.
Un dibattito che spesso sfocia nello scontro tra visioni diverse su come operare per garantire la sicurezza e l’incolumità dei cittadini e che si riflette anche nella società civile (sempre più attraversata dalla paura delle persone di essere vittime di possibili nuovi attacchi terroristici).
Le finalità dei gruppi terroristici possono essere molteplici, in quanto gli atti terroristici possono essere compiuti allo scopo di sovvertire l’ordine politico, indebolire o rafforzare i gruppi al potere, incutere terrore e paura in determinate comunità o gruppi di persone, ottenere l’indipendenza o la secessione di un territorio.
Il termine “terrorismo”, nonostante l’uso quotidiano e generalizzato, è tuttavia privo di un significato univoco in quanto non è accompagnato da una definizione universalmente recepita. Sulla base degli obiettivi che le organizzazioni terroristiche si prefiggono è possibile distinguere diverse tipologie di terrorismo: indipendentista, di ispirazione religiosa, di stampo ideologico o politico, narcoterrorismo.
Le organizzazioni dedite a tale pratica vengono definite “organizzazioni terroristiche”, mentre l’individuo che compie l’atto è definito come “terrorista”: il terrorista è generalmente un soggetto privato, appartenente ad una organizzazione terroristica, che agisce con violenza indiscriminata contro i civili per terrorizzarli. Il termine “terrorismo”, dal latino “terrere” (“far tremare”), ha contraddistinto nel corso del XIX e del XX secolo fenomeni differenti riconducibili sia all’azione degli Stati, sia a gruppi socio-politici organizzati interessati ad operare cambiamenti politici all’interno di un Paese o di una Regione anche attraverso il compimento di atti (talvolta “simbolici”) realizzati al solo scopo di provocare “terrore” in una comunità (in proposito si parla di terrorismo simbolico). Il primo di tali fenomeni, noto come “terrorismo di Stato”, identifica l’uso del “terrore” da parte del governo al potere nei confronti della propria popolazione o di una parte di questa ovvero le azioni destinate a terrorizzare la popolazione di un Paese avversario in tempo di pace (terrorismo interstatale) ovvero nel corso di un conflitto armato (si parla in proposito di terrorismo bellico)[1].
Il fenomeno del terrorismo è alimentato da numerosi fattori: il protrarsi di conflitti politici, sociali, religiosi o etnici; il profondo disagio economico; il diffondersi di un senso di ingiustizia e disuguaglianza sono elementi che producono talvolta negli individui un meccanismo di radicalizzazione violenta che in molti casi può sfociare nell’azione terrorista.
Occorre comunque ricordare che il terrorismo, inteso come forma di violenza illegittima organizzata per raggiungere determinati obiettivi, non è un fenomeno tipico del mondo moderno: in passato, in vari periodi storici e sotto diversi regimi politici, si sono sempre verificati atti di stampo terroristico.
Rispetto al passato sono tuttavia cresciuti gli episodi di violenza compiuti da individui o gruppi finalizzati a destabilizzare l’ordine politico e sociale o a colpire determinati zone o comunità.
Ancora oggi tuttavia come abbiamo detto non esiste una definizione chiara ed universalmente condivisa del termine “terrorismo”: si tratta di un fenomeno estremamente complesso, da anni oggetto di analisi e dibattiti dottrinali, ma del quale non è stata ancora elaborata una definizione soddisfacente e universalmente accettabile. Potrebbe essere essere definito come un fatto “…metagiuridico, poiché comprende in sé fattori politici, ideologici, storici e culturali che influenzano in misura sostanziale la configurazione concettuale…” [2].
Il terrorismo è un metodo che può essere utilizzato da chiunque, giuridicamente inquadrabile come “fattispecie criminosa a forma libera, attraverso la quale si mira, nell’immediato, a raggiungere l’obiettivo di spargere il terrore in una determinata comunità, per il conseguimento, in un secondo momento, di uno scopo ulteriore che si concretizza normalmente in un cambiamento politico, sociale o religioso” [3]. Il fenomeno del terrorismo, in aggiunta a questioni politiche, etiche e di strategia militare, solleva numerose questioni di diritto, che spesso trovano il loro presupposto nella questione della definizione: uno dei principali ostacoli che impediscono il raggiungimento di un generale consenso circa una definizione compiuta di “terrorismo” è rappresentato dalla posizione di alcuni Paesi del Medioriente per i quali, differentemente dalla linea di pensiero “occidentale”, il terrorismo non è un qualsiasi atto di violenza, commesso da chiunque, ai danni della popolazione civile o civili innocenti.[4]
Individuare una nozione precisa ed esaustiva del concetto è dunque impresa ardua, soprattutto in una materia caratterizzata da molte sfaccettature ed in continua evoluzione: si tratta di un fenomeno sfuggente, ambiguo, difficilmente definibile in quanto si manifesta in forme diversificate sia per le modalità strutturali che per le modalità operative [5].
Spesso questo termine è stato impiegato per delineare fenomeni tra di loro molto eterogenei, modificandosi nel tempo ed adattandosi ad alcune caratteristiche derivanti dalle diverse ondate di violenza che si sono storicamente susseguite: le diverse forme di terrorismo che si sono registrate nella storia non consentono di pervenire ad una definizione chiara ed univoca dal momento che «ogni guerra non convenzionale, civile, rivoluzionaria, di liberazione nazionale o di resistenza contro forze occupanti straniere, o rivolta contadina, azione di brigantaggio, guerriglia, è stata in qualche modo e misura contraddistinta dall’applicazione del terrore e da motivazioni tra le più variegate: religiose, politiche, sociali, culturali»[6].
Molti accademici e professionisti si sono cimentati nella ricerca di una definizione del fenomeno e, allo stesso tempo, rifiutano quelle già esistenti: tra questi Walter Laqueur, che è forse il più illustre della categoria, è giunto alla conclusione che una definizione di terrorismo univoca “non esiste e non la si troverà in un prossimo futuro” [7].
Storicamente i problemi incontrati dalla dottrina di diritto internazionale sono stati da un lato riconducibili al rischio di fornire una definizione meramente tautologica o rappresentativa di una sola determinata modalità operativa del terrorismo (e non del terrorismo in sé), dall’altro legati alla difficoltà del distinguere tra i due diversi fenomeni del terrorismo come mezzo di coercizione politica adoperata dallo Stato nei confronti dei propri cittadini e del terrorismo come uso della violenza illegittima finalizzata ad incutere terrore nei membri di una collettività, a destabilizzarne o restaurarne l’ordine[8].
La mancanza di una definizione di terrorismo giuridicamente riconosciuta a livello internazionale dipende dal fatto che la Comunità internazionale non ha raggiunto il necessario consenso intorno ad una definizione: ciò anche a causa del fatto che la “questione palestinese” ha suscitato simpatia in larghi settori dell’opinione pubblica sebbene i movimenti di liberazione nazionale che lottavano per la “causa palestinese” (con l’obiettivo di ottenere l’indipendenza e l’autodeterminazione) utilizzavano gli attentati terroristici come strumento per il perseguimento dei propri scopi[9]. Secondo la definizione data nel 1937 nella Convenzione di Ginevra per la prevenzione e la repressione del terrorismo sono terroristici i “fatti criminali diretti contro lo Stato e i cui fini o la cui natura è atta a provocare il terrore presso determinate personalità, gruppi di persone o il pubblico” [10].
Non sì è pervenuti ad una definizione univoca di terrorismo condivisa nella Comunità internazionale nemmeno attraverso le numerose convenzioni internazionali adottate contro il terrorismo dagli anni Settanta del secolo scorso fino ad oggi allo scopo di rispondere alle nuove modalità operative (dirottamenti aerei, attentati contro la sicurezza dell’aviazione civile, sequestri di persona, atti terroristici contro gli agenti diplomatici e le altre persone dotate di protezione speciale, attentati contro la sicurezza marittima, della navigazione e delle piattaforme marine fisse, attentati dinamitardi) utilizzate dai terroristi islamici negli attentati commessi a sostegno della “causa palestinese”[11]. Tali accordi a carattere universale sono finalizzati ad istituire una collaborazione fra gli Stati allo scopo di vincere la piaga della strumentalizzazione del terrore: tuttavia non si è giunti a definire in maniera univoca il fenomeno del terrorismo, tanto che le iniziative adottate negli anni successivi hanno rinunciato ad una definizione generale del fenomeno, ponendo invece l’attenzione esclusivamente sulla repressione delle specifiche modalità operative e di attuazione della violenza politica[12]. Sebbene non definiscano in maniera univoca il fenomeno del terrorismo, le convenzioni settoriali adottate per la prevenzione e la repressione delle singole attività terroristiche hanno avuto il merito di introdurre uno “standard” normativo comune per quanto concerne le modalità operative adottate nei singoli Stati sul piano della prevenzione e della repressione dei reati di terrorismo internazionale[13]: le Convenzioni obbligano gli Stati a qualificare come reati nei rispettivi ordinamenti giuridici le fattispecie in esse contemplate e prevedono espressamente che siano previste sul piano sanzionatorio pene severe adeguate alla gravità del fatto commesso[14]. Le Convenzioni settoriali inoltre obbligano gli Stati contraenti ad applicare il principio “aut dedere aut judicare”, in forza del quale hanno l’obbligo di estradare il presunto autore del reato o di sottoporlo a giudizio: la prima possibilità prevista, (ossia l’estradizione) rimanda alle legislazioni interne ed ai trattati bilaterali di estradizione (che debbono necessariamente considerare come estradabili i presunti autori dei reati terroristici contemplati nelle Convenzioni), per quanto concerne la disciplina specifica e le modalità dell’estradizione stessa (mentre spesso sono previste da norme delle Convenzioni i criteri di collegamento utilizzabili al fine di risolvere i conflitti di competenze tra le giurisdizioni nazionali) [15].
L’obbligo di giudicare scatta automaticamente in caso di rifiuto dell’estradizione e comporta l’adeguamento delle legislazioni nazionali al fine di immettervi la competenza ad esercitare l’azione penale su persone che si trovano sul proprio territorio e che siano accusate di uno dei reati previsti dalle convenzioni (anche qualora gli autori siano cittadini stranieri o si tratti di fatti commessi in uno Stato terzo)[16].
Nell’ambito delle Nazioni Unite la lotta al terrorismo è stata condotta tramite le risoluzioni dell’Assemblea Generale e del Consiglio di Sicurezza: in seno all’O.N.U. nel 1999 venne elaborata una definizione di terrorismo secondo cui “ogni atto costituisce terrorismo nel caso lo stesso sia finalizzato alla morte oppure a seri danni verso civili o non combattenti, con l’obiettivo di intimidire una popolazione oppure costringere un governo o un’organizzazione internazionale a compiere oppure ad astenersi dal compiere determinate azioni” [17].
Nell’ambito dell’Unione Europea solamente dopo l’attentato terroristico alle “Torri Gemelle”, in un contesto in cui nella maggior parte degli Stati membri mancava una definizione di reato terroristico, è stata elaborata una disciplina sul terrorismo con la quale, attraverso la Decisione Quadro sulla lotta al terrorismo, è stata introdotta la definizione “comune” di reato terroristico. Il terrorismo viene qui definito come “gravi atti criminali contro le persone i quali, data la loro natura o contesto, possono colpire seriamente uno Stato oppure un’organizzazione internazionale che a seconda dei casi risultano finalizzati: ad intimidire fortemente una popolazione; a costringere ingiustamente un governo o un’organizzazione internazionale a compiere oppure ad astenersi dall’eseguire una determinata azione; alla destabilizzazione o alla distruzione delle fondamenta politiche, costituzionali, economiche o delle strutture sociali di uno stato o di un’organizzazione internazionale” [18].
Il “Terrorism Research Center” statunitense ha invece definito il fenomeno del terrorismo come “l’uso o la minaccia dell’uso della forza allo scopo di portare cambiamenti politici”: tale definizione, ponendo l’attenzione sull’aspetto strumentale del terrorismo (considerato nello stesso tempo sia come mezzo che come metodo per modificare lo “status quo”), non ha tuttavia preso in considerazione le altre manifestazioni di questo fenomeno (prima fra queste quella finalizzata alla conservazione o al rafforzamento del potere statuale, dal quale il termine stesso ha tratto origine con riferimento al “terrore” francese)[19].
In ambito sociologico si è tentato di definire il fenomeno del terrorismo prendendo in considerazione il legame che intercorre con l’aspetto lessicale del termine “terrore”: proprio il terrore e la paura nei confronti di civili costituiscono l’obiettivo strategico delle azioni poste in essere dalle organizzazioni terroristiche[20]. Così per esempio lo Stato Islamico, anche utilizzando Internet come strumento di diffusione della paura, ha cercato di infondere e spargere il terrore attraverso la diffusione di immagini crudeli[21]: i terroristi si prefiggono quale obiettivo primario proprio la diffusione del terrore, in quanto con le proprie azioni cercano di “colpire” un gran numero di gente che guarda (procurando un vero e proprio “shock” nello spettatore) oltre che un gran numero di gente che muore (a causa degli attentati)[22].
Il terrorismo ha la caratteristica di utilizzare e di alimentare le paure del “nemico”, utilizzandone i mezzi (come per esempio la tecnologia, l’informazione ed i “media”), allo scopo di destabilizzare il sistema, così alimentando il senso di insicurezza.
Gli atti di terrorismo coinvolgono infatti, oltre alle vittime, tutta la popolazione civile: il terrorista a livello psicologico ottiene, con la uccisione di civili innocenti, il condizionamento e la diffusione di un panico illogico che inevitabilmente alimenta in intere comunità la sensazione di insicurezza.
Il coinvolgimento a livello emozionale della popolazione civile provoca la sollecitazione di ogni forma di paura: gli attentati terroristici infatti non solo alimentano nelle persone il timore della morte, ma amplificano anche la sensazione di debolezza secondo dinamiche incontrollate, giacché aumenta la diffidenza e l’ostilità verso tutto ciò che è “diverso” e sconosciuto in quanto estraneo alla propria quotidianità[23].
Tutti questi effetti psicologici e comportamentali rappresentano il pieno raggiungimento dell’obiettivo strategico perseguito dai terroristi attraverso le loro azioni, in quanto la “paura di attentati terroristici” finisce con l’incidere negativamente sulle abitudini e sui comportamenti quotidiani di intere comunità di persone.
Uno degli elementi che aiutano a distinguere il fenomeno del terrorismo dalle altre forme di violenza può essere quindi individuato nel fatto che l’effetto principale di un atto terroristico è quello di provocare ed infondere timore nelle persone: è proprio la volontà di incutere questo terrore che permette di distinguere il terrorismo da un comune omicidio o da un’aggressione.
Un secondo elemento può essere individuato nel fatto che il terrorismo colpisce i civili.
Una caratteristica ulteriore ai fini di una possibile distinzione tra terrorismo e una qualsiasi forma di violenza contro una persona è indiscutibilmente la dimensione politica, in quanto l’elemento dello scopo politico “…è di indubbia finalità, perché consente di distinguere l’atto di terrorismo da analoghi reati comuni …” [24]: in questo senso si può affermare che il terrorismo, inteso come l’uso del terrore, è strumentale al perseguimento di uno scopo politico che i terroristi si prefiggono di raggiungere.
Secondo alcuni autori il terrorismo non è un atto di violenza di per sé, ma per essere ritenuto tale necessita di una pianificazione e di un’organizzazione nonché dell’intenzione di forzare un popolo, un governo, un gruppo o anche un solo individuo[25].
Si tratterebbe pertanto di un atto organizzato caratterizzato essenzialmente da una violenza smisurata posta in essere al fine di perseguire con la forza scopi politici, sociali o molto spesso economici: sul punto tuttavia è doveroso evidenziare come il terrorismo di matrice islamica negli ultimi anni si sia evoluto al punto che talvolta sono venuti meno proprio i caratteri della pianificazione e dell’organizzazione; si pensi per esempio agli attentati che hanno colpito Nizza, Berlino, Barcellona, Londra (a giugno 2017 e a novembre 2019), frutto dell’azione di attentatori radicalizzati che, agendo come schegge impazzite, hanno posto in essere degli atti terroristici (da alcuni definiti “a prevedibilità zero”) senza alcuna pianificazione[26].
Oggi il fenomeno si è infatti evoluto al punto che ci si deve confrontare con una nuova generazione di attentatori disposti anche al suicidio[27] che, con un livello di istruzione e formazione superiore rispetto al passato, sono animati dalla volontà di colpire la cultura e la società occidentale: terroristi che pongono in essere (anche senza una vera e propria pianificazione e talvolta senza far parte di una vera e propria organizzazione intesa nell’accezione tradizionale del termine) atti terroristici “fai da te” [28].
Alla luce di quanto esposto si può quindi giungere alla conclusione che il termine “terrorismo”, nonostante l’uso quotidiano e generalizzato, è privo di un significato univoco in quanto non accompagnato da una definizione universalmente recepita.
- L’evoluzione del fenomeno dalle origini al terrorismo islamico.
Il terrorismo è un fenomeno che ha origini molto antiche: una forma di violenza politica nata insieme alle prime civiltà e comunità umane, giacché sono sempre gli individui (o i gruppi di individui) che cercano di intimidire la società attraverso l’uso della forza violenta, allo scopo di perseguire obiettivi politici, ideologici, religiosi o spesso propri.
Possiamo pertanto affermare che il fenomeno, in quanto forma di violenza illegittima organizzata per raggiungere determinati obiettivi, è sempre esistito: un esempio di terrorismo a sfondo politico fu quello riconducibile alle attività poste in essere tra l’VIII ed il XIV secolo nel Vicino Oriente dai “nizariti”, la principale setta degli Ismailiti (corrente dell’Islam sciita), conosciuti in passato anche come “Setta degli Assassini” oppure semplicemente “Assassini”. Si pensi ancora ai regimi terroristici greci del VI-VII secolo A.C. o a quelli dell’Antica Roma o agli attentati commessi in Giudea dagli Zeloti contro i Romani.
Si inizia a parlare di terrorismo, in un’accezione più o meno vicina a quella contemporanea, a partire dall’esperienza del “regime del terrore”, instauratosi verso la fine del XVIII secolo sotto la guida di Robespierre nella Francia rivoluzionaria.
Il termine “terrorismo” etimologicamente deriva dalla parola “terrore” e venne inizialmente utilizzato per indicare quel periodo caratterizzato da barbarie e violenze operate dal gruppo rivoluzionario dei Giacobini nei confronti degli oppositori politici: il termine “terrorista” originariamente indicava infatti un membro del governo in Francia durante il Regime del Terrore (1793-1794)[29]. Tale regime, caratterizzato principalmente dalla eliminazione fisica degli avversari tramite processi sommari ed esecuzioni capitali, raggiunse il suo apice nel 1793 continuando ininterrottamente per altri sedici mesi, al termine dei quali Robespierre fu giustiziato insieme ai suoi fedelissimi sostenitori attraverso l’uso della ghigliottina[30].
Il “terrore” quindi è il fondamento del fenomeno sia sul piano etimologico che su quello sostanziale.
Agli inizi del XIX secolo il termine “terrorismo” cominciò ad essere utilizzato esclusivamente per definire uno Stato violento: solo successivamente nel Vecchio Continente (sopratutto in Italia, in Polonia e nei Balcani) si comincò a parlare di “strategia del terrore” con riferimento ai movimenti e gruppi politici rivoluzionari (più o meno organizzati a matrice politica, razziale, religiosa, indipendentista, separatista o secessionista) ed alle azioni violente poste in essere da questi soggetti (per colpire personaggi politici di rilievo o bersagli militari) allo scopo di combattere i regimi autoritari ed oppressivi[31].
In origine il terrorismo era un fenomeno a rilevanza interna, solamente nella seconda metà del XIX secolo, in seguito ad un attentato commesso nel 1854 ai danni di Napoleone III, la Comunità internazionale si interessò alla repressione del terrorismo: gli autori dell’attentato si rifugiarono in Belgio ove all’epoca il terrorismo era annoverato tra i reati politici.
La Francia chiese l’estradizione dei due terroristi, ma il Belgio, applicando la legge che escludeva l’applicabilità dell’istituto dell’estradizione per i reati politici, rispose negativamente all’istanza francese: nella prima metà dell’Ottocento infatti si era consolidata la prassi di non estradare i responsabili dei delitti politici ed il Belgio aveva recepito tale consuetudine nella propria Carta Costituzionale.
Per evitare altri “incidenti diplomatici” nacque la c.d. “clausola belga” (nota anche come “clausola di attentato”) che, introdotta dalla legge belga del 22 marzo 1856 e recepita ben presto in una serie di trattati bilaterali di estradizione, prevedeva la restrizione della nozione dei delitti politici escludendo da essi (e quindi dal divieto di estradizione per gli autori di tali crimini) gli attentati contro i Capi di Stato o i membri delle loro famiglie: si trattò del primo passo compiuto nel diritto internazionale (che comportò anche una limitazione di un diritto) nella lotta al fenomeno del terrorismo [32]. Dalla seconda metà del XIX secolo fino al secondo conflitto mondiale gli atti terroristici furono indirizzati quasi esclusivamente nei confronti della leadership (come il Capo dello Stato, i suoi familiari o i suoi rappresentanti, al punto che l’azione terroristica in questo periodo finì per identificarsi con l’omicidio politico): si pensi per esempio all’attentato attuato dal Mazziniano Orsini contro Napoleone III, all’attentato allo Zar Alessandro II compiuto il primo marzo 1881 dal movimento populista “Narodnaja volija” [33], all’assassinio del presidente Francese Sadì Carnot per mano di un anarchico italiano (il 24 giugno 1894) e a quello di Umberto I di Savoia (compiuto il 29 luglio 1900) nonché all’omicidio del Re della Serbia Alessandro Obrenovic e della moglie Draga Masin (ad opera di ufficiali affiliati all’organizzazione nazionalista “La mano nera”) fino all’attentato di Sarajevo (città della Bosnia-Erzegovina all’epoca annessa all’Austria) del 28 giugno 1914 contro l’Arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo e la moglie che provocò (attraverso la dichiarazione di guerra dell’Impero Austriaco al Regno di Serbia) l’innesco di una reazione a catena che di fatto portò allo scoppio del primo conflitto mondiale[34].
La strategia del terrore animò diversi gruppi rivoltosi in Europa (si pensi ai Mazziniani in Italia o ai gruppi repubblicani turchi), ma la stampa nazionale ed internazionale dell’epoca difficilmente utilizzò il termine terrorismo nel riferirsi alle azioni di questi gruppi per non attribuire loro dignità politica: per questo motivo i più grandi omicidi politici degli inizi del XX secolo (come per esempio l’omicidio dell’Arciduca Francesco Ferdinando d’Austria) vennero definiti “atti di follia criminale” o di “fanatismo anarchico”. Dopo il primo conflitto mondiale il concetto di terrorismo si espande e si ufficializza grazie soprattutto alla politica dei regimi totalitari del Novecento affermatisi in Italia, in Germania e nell’Unione Sovietica: in queste nazioni nel secondo decennio del XIX secolo si imposero dei regimi caratterizzati da un agire votato e devoto al terrore; regimi totalitari che intimidivano e reprimevano gli avversari politici mediante l’uso di una indiscriminata violenza armata. Nel caso dell’Unione Sovietica, il concetto di terrorismo si può associare all’operato di Lev Trockij (e successivamente a quello del dittatore Iosif Stalin) che in una sua opera spiegò l’importanza strategica del terrore rivoluzionario che, nella sua progressiva affermazione, si riallaccia al “terrore giacobino” contrapponendosi al “terrorismo controrivoluzionario” del regime zarista[35].
Nel secondo dopoguerra il ricorso alla violenza terroristica tornò alla ribalta a seguito del processo di decolonizzazione: la nascita dello Stato di Israele fu per esempio caratterizzata dalle azioni terroristiche di due gruppi sionisti (“Irgun Zwali Leumi” ed “Organizzazione Stern” )[36].
Negli anni Cinquanta del secolo scorso l’uso del terrore caratterizzò in Algeria lo scontro fra il “Fronte di Liberazione Nazionale” (FLN) e la Francia: il conflitto algerino, iniziato nel 1956 con 78 morti, subì in pochi anni un’incredibile “escalation” a causa dell’ingresso dell’organizzazione paramilitare clandestina francese OAS (“Organisation de l’armée secréte”) del Generale Salan[37]: questa organizzazione esportò la violenza terroristica sul suolo francese (arrivando ad attentare allo stesso Presidente De Gaulle) attuando, nel tentativo di impedire il conseguimento dell’indipendenza dell’Algeria e la sua liberazione dal dominio francese, numerosi attacchi terroristici che causarono tra il maggio 1961 ed il settembre 1962 la morte di 2700 persone (di cui 2400 algerini) [38].
Il fenomeno del terrorismo assunse dimensioni notevoli sia in America Latina che in Europa tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento durante i quali gruppi organizzati con sistemi militaristici commisero attentati terroristici, per motivazioni ideologiche o indipendentiste, al fine di destabilizzare l’ordine pubblico all’interno dello Stato: il fenomeno in Europa fu in alcuni Paesi collegato a movimenti nazionalisti e separatisti (si pensi per esempio agli attentati posti in essere da gruppi criminali come l’I.R.A. in Gran Bretagna, l’E.T.A. in Spagna), mentre in altri fu collegato a movimenti “rivoluzionari” ideologicamente schierati (tra cui movimenti anarchici ed estremistici di destra e di sinistra): si pensi per esempio al gruppo terroristico di estrema sinistra noto come “Banda Baader Meinhoff “ o “Roten Armee Fraktion” attivo in Germania tra gli anni Settanta e Novanta del secolo scorso.
In Italia, dopo la fine del terrorismo altoatesino, ebbe inizio una nuova stagione dominata da gruppi rivoluzionari marxisti-leninisti destinati a godere dell’appoggio di analoghi gruppi francesi, tedeschi e spagnoli: sono gli anni delle “Brigate Rosse”, della “Roten Armee Fraktion” (R.A.F.), di “Action directe”, ma anche dei gruppi di estrema destra come “Ordine Nuovo” e “Rosa dei Venti” [39].
Nel mondo attuale esistono diverse forme di attività terroristica, ma solo quella di matrice islamica sembra scuotere maggiori preoccupazioni: non è facile darne una definizione esaustiva in quanto lo stesso fenomeno ha assunto aspetti e caratteristiche spesso variegate[40].
Il terrorismo islamista o, meno correttamente, islamico è una forma di terrorismo religioso praticato da ristretti gruppi di fondamentalisti musulmani per raggiungere obiettivi di diversa natura (soprattutto di tipo politico e ideologico): nasce dopo la seconda guerra mondiale nei territori del Medio Oriente ove la religione dettava lo stile di vita da seguire ed assume dimensioni notevoli negli anni Settanta del secolo scorso in concomitanza al verificarsi di tre importanti avvenimenti verificatisi nel 1979 (la rivoluzione sciita in Iran, l’invasione sovietica in Afghanistan che attirò in quel territorio combattenti islamici provenienti da tutto il mondo e la rivolta presso la Grande Moschea de La Mecca da parte di un gruppo di fanatici religiosi armati soffocata in un bagno di sangue). Questi avvenimenti, unitamente allo scoppio della guerra civile in Libano tra i cristiani al potere ed i musulmani (aumentati di numero dopo l’arrivo di profughi palestinesi successivamente alla guerra arabo-israeliana del 1967) che favorì la nascita in questo territorio (con l’appoggio dell’Iran) di campi di addestramento dei terroristi palestinesi (spingendo poi Israele ad invadere il Libano nel 1982), trasformarono la questione palestinese da lotta per l’indipendenza da Israele del popolo palestinese a lotta del mondo arabo contro lo Stato d’Israele e l’Occidente. Con la rivoluzione khomeinista l’Iran divenne la culla del fondamentalismo islamico: un fondamentalismo che si è presentato come una dichiarazione di guerra contro la civiltà ed i costumi della società occidentale, di cui rifiuta ogni istituzione e ogni valore: dalla democrazia rappresentativa al mercato, dalla libertà individuale alla laicità dello Stato. Khomeyni, dopo aver proclamato la “Sharia” come legge di Stato, tuttavia non si limitò ad elevare una granitica barriera per impedire l’inquinamento spirituale della “Umma” (la comunità dei veri credenti), ma elaborò l’ambizioso disegno di porre l’Islam alla testa di tutti i popoli diseredati della Terra, sostituendo in tale ruolo rivoluzionario il comunismo marxleninista con l’obiettivo di liberare i popoli che si trovavano nella “prigione dell’Occidente e del Grande Satana”: tale programma (che in pratica rappresentava la riproposizione di quello che era il programma dei Fratelli Musulmani – l’associazione fondata nel 1928 dall’egiziano Hasan al-Banna, madre di tutti i fondamentalismi del mondo islamico) rappresentò una vera e propria “reazione zelota del Sacro contro il processo di secolarizzazione” e fu fondata sul rifiuto dei valori e delle istituzioni del mondo Occidentale in quanto il laicismo ed il materialismo venivano ritenuti la causa della crisi morale in cui versa l’umanità[41].
Il “terrorismo palestinese” fu caratterizzato dalla cooperazione tra gruppi accomunati non solo dall’ideologia, ma anche da interessi tattici o strategici: è questo il caso di “al-Fatah”, del “Fronte Popolare per la liberazione della Palestina” (FPLP) di George Abbash e del “Fronte Democratico per la liberazione della Palestina” (FDLP), poi confluiti nell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina di Yasser Arafat.
Da queste organizzazioni “laiche” nacquero successivamente per scissione gruppi terroristici come “al-Fatah – Comando Generale” di Abu Musa ed “al-Fatah – Consiglio Rivoluzionario” (guidato per quasi trenta anni da Abu Nidal “Sabri al Banna”, ucciso in Iraq nell’agosto 2002 in circostanze mai del tutto chiarite).
Il terrorismo palestinese trovò in quegli anni anche il sostegno economico ed il supporto logistico, in funzione anti-israeliana, da parte degli Stati della Lega Araba: il fenomeno assunse dimensioni da tali da portare alla stipula di accordi internazionali finalizzati a contrastare le diverse modalità di attuazione degli attentati terroristici[42].
Pochi anni dopo comparirono sulla scena mediorientale gruppi terroristici di matrice religiosa (come “Hezbollah”, “Hamas” [43], la “Jihad islamica egiziana” e la “Jihad islamica palestinese”) figli del regime khomeinista, del wahhabismo [44] e dell’organizzazione integralista dei Fratelli Musulmani fondata dal predicatore salafista Hasan al-Banna con lo scopo di ripristinare il Califfato e combattere i governi non islamici in Medio Oriente[45].
Negli anni Ottanta del secolo scorso comparve, accanto al fondamentalismo integralista, anche il fenomeno del terrorismo suicida: si pensi all’attentato commesso nell’aprile 1983 in Libano dal gruppo “Hezbollah” contro l’ambasciata americana a Beirut e a quello commesso nell’ottobre dello stesso anno contro il contingente americano ed i reparti francesi della forza multinazionale di pace[46]. Il ricorso sempre più frequente all’azione di soggetti disposti al suicidio rappresenta l’aspetto che distingue il terrorismo islamista dalle altre forme di terrorismo: in Occidente viene denominato impropriamente “kamikaze”, ma il suicida si considera uno “shaid” (termine coranico che significa martire nel significato originale del termine greco).
Questi attentati venivano posti in essere con lo scopo di ricattare uno o più Stati o con l’obiettivo di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica su una determinata causa (la questione palestinese in questo caso).
Il fenomeno ebbe successivamente una evoluzione che portò all’inizio degli anni Novanta alla comparsa sullo scenario internazionale di nuove forme di terrorismo “non convenzionale” come l’eco-terrorismo, il terrorismo animalista ed il “cyber-terrorismo” (gruppi di hackers capaci di introdurre nei computers “avversari” virus, bombe logiche o “hight energy radio frequencyb “-HERF- sono in grado di distruggere o danneggiare le banche dati dei mercati finanziari, le reti ed i trasformatori elettrici ed il controllo del traffico aereo o ferroviario): si pensava ad una evoluzione del fenomeno che portasse all’attuazione di attentati attraverso l’uso di armi chimiche, nucleari o batteriologiche, ma l’attacco alle “Twin Towers” dimostrò che i terroristi potevano compiere gravi attentati anche senza utilizzare le armi di distruzioni di massa[47].
Gli attentati del settembre 2001 (la distruzione delle “Twin Towers”, l’attacco al Pentagono, le lettere all’antrace) hanno segnato il passaggio dal terrorismo internazionale al terrorismo universale: un terrorismo nuovo, nato attraverso gli anni dalla globalizzazione dei movimenti terroristici di matrice islamica, alimentato dal fondamentalismo islamico (frutto di una interpretazione particolare e radicalizzata del Corano, contestata anche dal mondo musulmano non integralista).
Un terrorismo globale che non ha l’obiettivo di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica su una determinata causa, ma mira a colpire il maggior numero di persone (diffondendo il terrore nella collettività) nonché a creare ingenti danni economici: l’obiettivo dei terroristi fondamentalisti è la re-islamizzazione delle società e degli Stati del “Dar al-Islam” [48]; costoro vogliono scatenare una vera e propria guerra di religione per conquistare il mondo intero ed instaurare il dominio della “Sharia” (la Legge Sacra, eterna e immutabile) su tutta quanta l’umanità attraverso l’annientamento dell’Occidente corrotto, pagano e secolarizzato (considerato la fonte dell’inquinamento della Umma)[49].
Il terrorismo internazionale manifestatosi l’11 settembre 2001 è il frutto dell’evoluzione che il fenomeno ha subito nella seconda metà dello scorso secolo e del suo adattamento alla società globalizzata: è un terrorismo diverso, nato con l’obiettivo di colpire gli Stati Uniti d’America e la Comunità internazionale con i valori che questi rappresentano e con lo scopo di sovvertire quei principi di democrazia, pace e rispetto dei diritti umani che sono alla base della Comunità internazionale sviluppatasi dalla fine della seconda guerra mondiale.
Un terrorismo che sin dall’inizio aveva un disegno politico unitario (seguito dagli autori degli attentati che non agiscono in modo autonomo) che si poneva come fine ultimo la ricostituzione del Califfato attraverso un “jihad” globale da combattere contro un nemico da annientare (attraverso il compimento di quelli che da alcuni autori sono stati definiti crimini contro l’umanità): l’Occidente infedele, vissuto dai fondamentalisti islamici come una presenza al tempo stesso oppressiva e invadente (oppressiva, per la sua schiacciante superiorità materiale; invadente, perché la “modernità” costituisce una permanente minaccia per le tradizionali forme di vita del “Dar al-Islam”) [50].
Il terrorismo islamico colpisce ovunque con l’intenzione di provocare il maggior numero di vittime, con una violenza indiscriminata che colpisce bambini, donne e uomini che in comune hanno una sola cosa: far parte di una società occidentale.
La minaccia terroristica è caratterizzata soprattutto dall’azione di vari gruppi terroristici di matrice islamica attivi a livello mondiale, tra cui un ruolo centrale è stato rivestito da Al Qaeda (la base): un attore non statuale (che ha elaborato un progetto politico unitario di cui ogni attentatore ha piena consapevolezza) fondato tra il 1988 ed il 1989 (nel periodo successivo all’invasione sovietica dell’Afghanistan) dal saudita Osama Bin Laden e dall’egiziano Ayman al-Ẓawāhirīi che ha assunto le caratteristiche di una organizzazione criminale internazionale.
Nel 1991 la presenza americana sulla “terra del Profeta”, in occasione della Guerra del Golfo, segnò l’inizio del conflitto tra l’organizzazione “jihadista” di Osama Bin Laden ed il “Grande Satana” americano.
L’obiettivo dichiarato da tale organizzazione è la difesa dell’Islam originario dalla minaccia sionista/occidentale e dai governi moderati musulmani (come per esempio quello dell’Arabia Saudita che è visto come insufficientemente islamico e troppo legato al governo degli U.S.A.). Anche se la Comunità internazionale percepì la reale portata della minaccia solamente con l’attentato alle “Torri Gemelle”, già negli anni precedenti erano stati commessi in diversi Stati del mondo attentati terroristici riconducibili a questo movimento terroristico[51]. I suoi atti terroristici si basano su attacchi suicidi e omicidi e sono spesso caratterizzati dal ricorso all’uso simultaneo di esplosivi contro differenti obiettivi: un’altra caratteristica fondamentale di questa organizzazione è la creazione di vere e proprie basi di addestramento, situate in diversi Paesi musulmani (ma soprattutto nel Pakistan settentrionale, nello Yemen e in Afghanistan), con l’obiettivo di formare giovani reclute terroriste[52]. Dopo la morte del suo leader, ucciso nel maggio 2011 da un commando americano, l’organizzazione ha continuato nella sua attività terroristica trasformandosi in un vero e proprio “network” del radicalismo islamico: una struttura ramificata che non si esaurisce esclusivamente nelle aree dell’Afghanistan e del Pakistan.
Il nucleo originario di Al Qaeda ha subito nel corso della c.d. “guerra al terrore” delle perdite rilevanti, ma all’organizzazione con sede in Afghanistan e Pakistan si sono affiliati gruppi che operano in altre aree come per esempio “Al Qaeda nella Penisola Arabica” (nota anche come A.Q.A.P.), costituitasi nel gennaio del 2009 e responsabile di numerosi attacchi nello Yemen e del fallito attentato (contro il nemico americano) del 25 dicembre 2009 sul volo 253 della Northwest Airlines da Amsterdam a Detroit, ed “Al Qaeda nel Maghreb Islamico” (conosciuta anche con l’acronimo di A.Q.I.M.), le cui origini sarebbero riconducibili alla guerra civile algerina degli anni Novanta del secolo scorso: questa organizzazione (che assunse tale denominazione nel 2007 per sancire ufficialmente la sua affiliazione ad Al Qaeda) è prevalentemente attiva in Algeria, Mauritania, Niger e Mali[53].
Ci sono altri gruppi della c.d. galassia “jihadista” che si sono ispirati alla ideologia ed ai metodi di Al Qaeda: in Mali per esempio opera il “Movimento per l’Unicità ed il Jihad nell’Africa Occidentale” (M.U.J.A.O.), nato da una costola di A.Q.I.M. con lo scopo di espandere l’azione “jihadista” nell’Africa Occidentale; nel Corno d’Africa operano invece i miliziani di “Al Shabaab”, autori di attentati terroristici (mirati a rovesciare le fragili istituzioni locali ed a cacciare le forze di pace internazionali) in Somalia, Kenya ed Uganda: si tratta di una milizia somala di estremisti islamici che ha annunciato la sua affiliazione ad Al Qaeda nel 2012 che si pone come obiettivo primario l’applicazione della “Sharia” su tutto il territorio somalo. Un altro gruppo estremista islamico che ha avuto contatti con A.Q.I.M., Al Shabaab ed A.Q.A.P. è “Boko Haram” (che in lingua hausa significa “l’educazione occidentale è peccaminosa”) attivo in Nigeria, Camerun, Ciad e Niger con lo scopo di rovesciare le istituzioni politiche dei citati Paesi, la cultura secolarizzata e l’influenza del cristianesimo. Questa organizzazione non è stata mai accettata da Al Qaeda ed ha giurato fedeltà allo Stato Islamico nel marzo 2015: si è resa responsabile di numerose azioni criminali (attuate soprattutto contro i cristiani) che consistono nell’assassinio indiscriminato di cittadini di fede cristiana e nell’attacco e distruzione di chiese e altri simboli religiosi[54].
Un altro soggetto legato ad Al Qaeda degno di considerazione è il movimento fondamentalista dei Talebani: nel 1996 questo movimento politico istituì l’Emirato Islamico dell’Afghanistan(riconosciuto a livello internazionale solamente dal Pakistan, dagli Emirati Arabi Uniti e dall’Arabia Saudita)[55]. Il governo talebano, dopo essere diventato la base logistica di Al Qaeda, è stato abbattuto nel 2001 con la guerra guidata dagli U.S.A. e sostenuta dalla comunità internazionale: i Talebani, dopo la distruzione dell’Emirato Islamico, hanno mantenuto una stretta alleanza con Al Qaeda e si sono organizzati allo scopo di combattere l’esercito americano e rovesciare il nuovo governo afgano guidato dal presidente Hamid Karzai, operando sia in Afghanistan che nelle regioni settentrionali del Pakistan[56].
Un altro gruppo terroristico che ha collaborato con Al Qaeda per la “causa jihadista” in Russia è l’Emirato del Caucaso, mentre in Siria nella complessa costellazione delle forze attive contro il regime di Bashar Al Assad si è distinto il gruppo terroristico affiliato ad Al Qaeda “Jabhat al Nusra”. Nell’aprile 2013 giunse l’annuncio da parte di Abu Bakr Al Baghdadi della sua fusione con il gruppo iracheno dell’autoproclamato Stato Islamico di Siria ed Iraq (I.S.I.S. in arabo al-Dawla al-Islāmiyya) stabilitosi nel 2006 in Iraq come successore di Al Qaeda e poi allargatosi alla Siria con la guerra civile: “Jabhat al Nusra”, pur confermando l’esistenza dei rapporti tra le due forze, ribadì tuttavia la sua fedeltà ad Al Qaeda ed alla causa siriana[57].
La “galassia jihadista islamica” oggi è polarizzata intorno ad Al Qaeda ed allo Stato Islamico che appaiono attualmente in aperto contrasto per la “leadership” dei gruppi terroristici islamici: sul punto si osserva una notevole crescita del numero dei gruppi “jihadisti” che hanno dichiarato fedeltà all’I.S. che, in un certo momento storico, ha esteso la sua influenza su territori sempre più vasti fino alla proclamazione nel giugno 2014 del Califfato in un’area compresa tra la Siria nord-occidentale e l’Iraq occidentale[58]. Lo Stato Islamico inizialmente fu alleato di Al Qaeda, rappresentata in Siria dal “Fronte al-nusra”, ma se ne staccò definitivamente nel febbraio 2014 diventandone il principale concorrente per il primato nel “jihad” globale.
Oggi la minaccia terroristica alla sicurezza locale e a quella globale è portata avanti soprattutto da questa organizzazione “jihadista” salafita che è caratterizzata da grandi ambizioni: un’organizzazione che agisce in modo spietato, infliggendo torture e realizzando crimini brutali e contrari ad ogni principio di umanità[59]. Dotato di strutture, soldi e uomini pronti a combattere, questo gruppo intende porsi come una vera e propria soggettività statuale[60].
L’I.S. trae le proprie origini da “Jamā’at al-Tawḥīd wa l-jihād”, “al-Qāʿida” in Iraq e dal gruppo islamista denominato “Mujāhidīn del Consiglio della Shura” (attivo dal 1999 al 2006): la sua storia si è incrociata con quella del gruppo armato siriano salafita noto come Fronte “al-nusra” (o anche come “Jabhat al-nuṣra li-ahl al-Shām” ossia “Fronte del soccorso al popolo di Siria”) che in breve tempo crebbe come forza combattente sostenuta dall’opposizione siriana. La peculiarità dell’autoproclamato Stato Islamico è stata quella di riunire in una sola entità le caratteristiche dell’esercito, delle modalità terroristiche, della fisicità del territorio in cui risiede e della struttura statale: lo Stato è diventato uno strumento per perseguire gli obiettivi dell’organizzazione terroristica originaria, anche se il gruppo (che fino al 2017 controllava militarmente un ampio territorio) dopo qualche anno dall’autoproclamazione del Califfato ha perso la sua delimitazione territoriale nell’area siro-irachena.
Lo Stato Islamico è diventato, grazie alla propaganda su Internet ed all’utilizzo dei nuovi mezzi di comunicazione, una fonte di attrazione per migliaia di combattenti provenienti da altri Paesi che si sono recati in Medio Oriente per combattere al fianco del Califfato: è nato così il fenomeno dei “foreign fighters”, soggetti di diversa estrazione (e con diversi livelli di istruzione) ideologicamente radicalizzati fino al punto di accettare di allontanarsi dalla propria famiglia per sottoporsi a severi addestramenti ed arruolarsi nelle milizie dello Stato Islamico allo scopo di combattere per la “causa del Daesh”[61]. Altri giovani radicalizzati invece restano nei Paesi Occidentali in cui vivono per passare all’azione terroristica, con il supporto dei “foreign fighters” ritornati dal fronte mediorientale o dei manuali scaricabili dalla rete Internet, nell’ambito di quello che è stato definito “terrorismo fai da te” [62]. Lo Stato Islamico si distingue dalle altre organizzazioni terroristiche in quanto accompagna ai proclami del “Jihad” un progetto politico più definito rispetto al passato mirante ad incidere sul tessuto dello “status quo” geopolitico della regione: la costituzione di un Califfato che dovrebbe comprendere la maggioranza dei territori del c.d. mondo sunnita nonché le aree che un tempo erano sotto il dominio degli Arabi (compreso Creta e Cipro), diventando un polo di riferimento di giorno in giorno più importante per le formazioni terroristiche che gravitano intorno alla c.d. “galassia jihadista” [63].
In ogni caso la “galassia jihadista” ed i paradigmi del “jihadismo”, soprattutto dopo la perdita del controllo da parte dell’I.S. di alcuni dei territori occupati in Siria ed in Iraq e la morte di Abu Bakr Al Baghdadi e del suo braccio destro Abu Hassan Al Muhajir (avvenute entrambe il 27 ottobre 2019 in seguito a due distinte operazioni militari statunitensi), sembrano in via di rimodulazione e ridefinizione, adattandosi alle contingenze geopolitiche e modificandole allo stesso tempo[64].
- Le “Primavere Arabe” e la minaccia del terrorismo “jihadista”.
Il fenomeno del terrorismo islamista nel corso dell’ultimo decennio si è evoluto, trovando terreno fertile soprattutto in alcuni Paesi del Nordafrica in cui lo scenario geopolitico è stato profondamente modificato da quell’ondata rivoluzionaria che i “media” ed il mondo accademico hanno genericamente definito come “Primavera Araba”. In alcuni di questi Stati infatti si è verificata una situazione di instabilità tale da favorire l’avanzata di gruppi estremisti islamici in generale (e dello Stato Islamico in particolare), così creando le condizioni che possono agevolare la riacutizzazione della minaccia terroristica.
Il 2011 sarà ricordato come l’anno delle “rivolte arabe” in quanto il fuoco della ribellione ha infiammato il Mediterraneo ed il Vicino Oriente: il 2011 per la maggior parte dei Paesi nel Medio Oriente e del Nord Africa ha infatti rappresentato l’inizio di un processo caratterizzato da cambiamenti politici, sociali ed economici.
L’ondata rivoluzionaria iniziata in Tunisia nel 2010 (in seguito alla protesta estrema del tunisino Mohamed Bouazizi, che si diede fuoco in seguito a maltrattamenti subiti da parte della polizia, il cui gesto innescò il moto di rivolta tramutatosi nella c.d. “Rivoluzione dei Gelsomini”) ha attraversato da Ovest a Est l’intera regione nordafricana portando alla caduta dei regimi autoritari di Ben Ali in Tunisia (caduto, dopo 24 anni al potere, il 14 gennaio 2011), di Hosni Mubarak in Egitto (caduto l’11 febbraio 2011) e di Muammar Gheddafi (che, dopo una lunga fuga da Tripoli a Sirte fu catturato ed ucciso dai ribelli il 20 ottobre 2011) in Libia.
L’ondata rivoluzionaria ha poi raggiunto la Siria, il Marocco, l’Algeria, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, il Regno Hashemita di Giordania, i Territori palestinesi, il Bahrain, l’Iraq, il Kuwait, il Libano, lo Yemen (ove cadde il regime dittatoriale di Ali Abdullah Saleh) e l’Oman: per evitare lo scenario tunisino in alcuni Stati furono adottate certe riforme richieste dai cittadini (come per esempio è accaduto in Marocco e Giordania), mentre in altri Paesi (come lo Yemen, la Siria ed il Bahrein) i leader hanno deciso di reprimere violentemente le rivolte[65].
Il processo rivoluzionario, caratterizzato dall’utilizzo dei “social network” come Facebook e Twitter (usati per organizzare, comunicare e divulgare determinati eventi) e dall’uso di tecniche di resistenza civile (come scioperi, manifestazioni, cortei, marce fino ad arrivare al compimento di atti estremi come gli atti di autolesionismo ed i suicidi), in ogni Paese si è verificato a causa di ragioni interne[66]: i fattori scatenanti furono la corruzione, l’assenza di libertà individuali, la violazione dei diritti umani e la mancanza di interesse per le condizioni di vita della maggioranza della popolazione civile che in molti casi rasentavano la povertà.
Un ruolo importante nello scoppio delle rivolte lo ebbe anche lo squilibrio demografico (soprattutto in Egitto ed in Tunisia) [67] determinato dalla presenza di molti giovani che, vistisi senza sbocchi (sul piano lavorativo, umano e sociale), si sono ribellati: nei Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa ove infatti è presente il rigonfiamento delle fasce giovanili della popolazione (si parla in proposito di “Youth Bulge”[68], espressione coniata negli anni Novanta del secolo scorso per identificare una condizione riconducibile ad un “surplus” di giovani maschi disoccupati che il sistema economico non riesce ad assorbire) si determina uno squilibrio demografico che (abbinato a particolari condizioni economiche, sociali ed istituzionali), ove accompagnato al malessere economico della grande quantità di giovani, può contribuire a creare situazioni di instabilità geopolitica e di conflittualità: giovani di diversa radice etnica e territoriale che, non trovando lavoro e gratificazione sociale, potrebbero sfogare la propria rabbia ed insoddisfazione alimentando i disordini sociali fino ad abbracciare, attraverso un processo di radicalizzazione alla “causa jihadista”, il modello terroristico con la speranza di ottenere una sorta di riscatto[69]. I governi di Tunisia, Egitto, Libia e Siria erano corrotti, repressivi e ricchi: si erano trasformati in una specie di azienda di famiglia tanto che in Egitto Hosni Mubarak stava preparando il figlio Gamal ad assumere la potere, in Libia il potere era concentrato nelle mani del Rais Gheddafi che prima o poi lo avrebbe ceduto al figlio Saif Al Islam, in Siria Bashar aveva ereditato lo Stato dal padre Hafez Al Assad[70], mentre in Tunisia Ben Alì aveva instaurato uno Stato di Polizia nel quale non veniva concesso alle opposizioni di entrare nella scena politica (creando un sistema clientelare e familiaristico in forza del quale molte attività economiche erano controllate o detenute da familiari del Capo dello Stato).
In questi Paesi il resto della popolazione viveva in condizioni di povertà: la fame e la crescita del prezzo dei generi alimentari furono tra le principali ragioni del malcontento popolare e crearono, insieme all’altissimo livello di corruzione, alla crisi economica ed occupazionale ed alla marginalizzazione di molti giovani (a livello economico e sociale), le condizioni che favorirono lo scoppio delle rivolte popolari impropriamente definite come “Primavere Arabe”[71].
Le “Primavere Arabe” avevano fatto nascere l’illusione che in Libia, Siria, Egitto e Tunisia potessero sorgere dei governi di ispirazione democratica: si tratta di un fenomeno complesso che tuttavia non ha raggiunto quegli obiettivi di maggiore democrazia e giustizia sociale che sembravano esserne i motivi ispiratori. L’instabilità politica portata dalle proteste nella regione mediorientale e nordafricana e le loro profonde implicazioni geopolitiche destarono grande attenzione e preoccupazione in tutto il mondo: la rimozione delle dittature nella regione nord africana non ha favorito l’affermazione piena della democrazia, ma ha creato in alcuni Paesi (come la Tunisia e l’Egitto) le condizioni favorevoli per la riscossa sulla scena politica dei partiti e gruppi islamisti.
Delle rivolte hanno poi cercato di approfittare i movimenti estremisti e terroristici di matrice islamica (come per esempio i Fratelli Musulmani in Egitto) con l’intento di prendere il potere e riportare in vigore leggi opprimenti ed antiquate.
Ogni Paese che ha sperimentato la Primavera Araba ha avuto però la propria evoluzione: così si è verificata una transizione verso la democrazia in Tunisia (con una alternanza nelle varie tornate elettorali tra partiti laici e partiti islamisti), mentre in Egitto (Paese che era stato guidato da ufficiali dell’esercito per sei decenni fino alla deposizione di Mubarak) le prime libere elezioni favorirono l’instaurazione di un regime islamista (riconducibile al movimento dei Fratelli Musulmani) guidato da Mohamed Morsi (leader del partito Libertà e Giustizia) salito al potere dopo le prime elezioni libere tenutesi nel 2012: tuttavia nel 2013 un militare (il generale Al Sisi) con un colpo di Stato ha assunto il ruolo di Presidente della Repubblica egiziana “per proteggere il popolo” contro un regime che, senza affrontare i gravi problemi economici e sociali del Paese, aveva avviato un processo di islamizzazione forzata non voluto dalla popolazione. L’Algeria vive tuttora una incerta fase di transizione politica, mentre in altri Paesi (Siria, Yemen e soprattutto Libia) si è verificata una situazione di precarietà a livello istituzionale che ha causato l’insorgere di una situazione di instabilità a livello geopolitico suscettibile di riflessi anche su altri Paesi [72].
Il vuoto di potere ha innescano in alcuni Paesi delle lotte intestine per la supremazia: lotte che coinvolgono le popolazioni locali, lotte che coinvolgono diversi gruppi terroristici e lotte tra gli sciiti (condotti da una unica guida religiosa) ed i sunniti (a cui si aggiungono i conflitti all’interno del mondo sunnita che invece è privo, dopo la scomparsa del Califfo dell’Islam conseguente alla caduta dell’Impero Ottomano, di una guida politica e religiosa unitaria: vi sono quindi vari Islam in lotta tra di loro sul piano politico e teologico). Il vuoto di potere determinatosi dopo la caduta dei regimi in alcuni di questi Stati come abbiamo visto ha favorito in alcuni Paesi (come l’Egitto per esempio) l’avvento di formazioni religiose radicali, mentre in altri (come la Libia) ha determinato l’insorgere di una situazione caratterizzata da una notevole instabilità politica che ha determinato la nascita di conflitti di natura asimmetrica[73] nonché il verificarsi di condizioni favorevoli all’avvento dello “Jihadismo” (e quindi, come accaduto in una parte della Libia, di gruppi legati all’I.S.) che possono agevolare la riacutizzazione del terrorismo “jihadista”. L’Islamic State si è inserito tra il 2013 ed il 2014 nella destabilizzazione libica: molte milizie già presenti in Libia si sono affiliate all’I.S. o si sono unite ai combattenti libici legati all’I.S. di ritorno dall’area siro-irachena, operando soprattutto in piccole enclavi nelle zone centrali del Paese, nelle città di Sirte e Derna ed in Cirenaica (ove sono state individuate diverse basi e campi di addestramento).
La frammentazione del Paese e la mancanza di un Governo nazionale unitario nel 2015 ha favorito (grazie al maggiore afflusso di militanti e di armi in ingresso ed in uscita dal Paese) il radicamento, in una parte della Libia, dello Stato Islamico con capitale Sirte: lo Stato Islamico libico divenne un nucleo centrale della rete di alleanze con altri gruppi dell’area come “Boko Haram” o “Morabituon” (ala dissidente di A.Q.I.M. confluita nello Stato Islamico) che in Libia avrebbero trovato una base di coordinamento per le proprie azioni nell’area[74].
Lo Stato Islamico è stato poi espunto dalle milizie di Misurata: i combattenti “jihadisti” sono tornati nei propri Paesi di provenienza o sono andati nel regione libica del Fezzan o sono andati a combattere tra le fila di “Al Qaeda nel Maghreb Islamico”, organizzazione terroristica formatasi in Cirenaica durante le sollevazioni del 2011 (Al Qaeda inviò in quella occasione circa 200 uomini per addestrare i combattenti islamici in questa regione libica) derivante dal “Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento” (nato negli anni Novanta del secolo scorso nell’ambito della guerra civile algerina con lo scopo di rovesciare il governo dell’Algeria per istituirvi uno stato islamico) e che oggi opera soprattutto nell’area saheliana e sahariana (inclusa la vasta regione libica del Fezzan).
La Libia per la frammentarietà e la mancanza di uno Stato centrale stabile continua comunque a rappresentare oggi una delle maggiori incognite del sistema internazionale: la presenza, grazie a condizioni favorevoli a livello interno e d’area, delle milizie “jihadiste” in territorio libico e la conseguente instabilità (da molti considerata la prima causa degli ingenti flussi migratori verso l’Europa) continuano a destare l’attenzione del Mondo Occidentale in quanto potrebbero agevolare l’avanzata dei gruppi estremisti islamici in generale (e dello Stato Islamico in particolare) e, conseguentemente, la riacutizzazione del terrorismo “jihadista”.
L’Islamic State, in particolare, appare destinato a sfruttare varie contingenze a sé favorevoli per provare a ricostituirsi in territorio libico: le reti internazionali del “Jihadismo” stanno spostando progressivamente il centro del terrorismo dall’area siro-irachena alle dune del Sahara nel Fezzan (territorio in cui sono presenti numerosi giacimenti petroliferi dell’ENI). Nel Sud della Libia il contesto generale è infatti caratterizzato da una notevole instabilità che, ovviamente, può agevolare l’operato dei gruppi “jihadisti” e la ripresa del terrorismo islamista: alcune parti del Fezzan (regione in parte conquistata da Haftar agli inizi del 2019) infatti sono fuori da ogni controllo, mentre nelle stesse città controllate dall’uomo forte della Cirenaica stanno emergendo coalizioni di terroristi in grado di continuare a destabilizzare la situazione in questa area con possibili riflessi in altri Paesi.
CAPITOLO II
- Terrorismo e sicurezza.
Il terrorismo è un fenomeno poliedrico in quanto presenta varie sfaccettature ideologiche, tecniche e funzionali: essenzialmente è riconducibile alla volontà di generare “terrore” attraverso azioni criminali violente premeditate e dirette ad infondere paura nella popolazione civile.
Oggi la minaccia terroristica è rappresentata soprattutto dal terrorismo islamista che si è evoluto fino ad utilizzare la tecnologia per perseguire i propri obiettivi: così il terrorista moderno sfrutta la rete Internet per perseguire scopi di propaganda, di arruolamento e di proselitismo oltre che per dare, in taluni casi, agli attentatori delle indicazioni sugli obiettivi da colpire con gli attentati: un fenomeno talvolta imprevedibile che negli ultimi anni è stato caratterizzato anche dall’azione di soggetti radicalizzati alla “causa jihadista” che, agendo come veri e propri “lupi solitari”, hanno posto in essere senza alcuna pianificazione azioni criminose “a prevedibilità zero”.
La natura dei conflitti contemporanei è profondamente mutata in quanto ai tradizionali scontri tra Stati si sono affiancati i “conflitti asimmetrici”, caratterizzati da una profonda disparità di mezzi, capacità tecnologiche e militari tra i contendenti: questi conflitti spesso vedono contrapposti da un lato gli Stati e dall’altro attori non statuali in un contesto in cui i primi, nonostante la superiorità militare ed economica, sono in forte difficoltà dovendosi difendere da attacchi condotti in maniera inusuale ed estemporanea.
È con l’attacco terroristico alle “Torri Gemelle” che l’espressione “guerra asimmetrica” ha assunto il suo significato attuale, ovvero una nuova natura del conflitto condotto con metodi di guerra e obiettivi diversi da quelli tradizionali, da soggetti difficilmente individuabili e con risorse limitate. Dopo l’attentato al “World Trade Center” molti Stati furono costretti a porre la propria attenzione sul fenomeno del terrorismo allo scopo di rafforzare gli strumenti di prevenzione e contrasto soprattutto a livello internazionale per fronteggiare il diffuso senso di insicurezza della popolazione civile: l’11 settembre rappresenta una data che dal 2001 ha assunto un significato profondo e tale da cambiare per sempre il corso della storia, facendoci entrare in una nuova era in cui la pace e la sicurezza non sono più così scontate. Mentre le Torri Gemelle del “World Trade Center” crollavano, insieme a loro crollavano anche tutte quelle che fino ad allora erano state le nostre certezze: il mondo, come lo avevamo sempre conosciuto, all’improvviso non esisteva più.
Il terrorismo, che fino a quel giorno veniva percepito come qualcosa di lontano e confinato nei Paesi in guerra era arrivato con la sua forza distruttiva in una grande città occidentale come New York: da quel momento la nostra percezione della sicurezza è cambiata in quanto è arrivata nel profondo del nostro animo la paura che ovunque e in qualsiasi momento uno o più terroristi possono colpire all’improvviso. Viaggiare è diventato meno spensierato, i controlli negli aeroporti si sono fatti più “stringenti” e sono aumentati il senso di insicurezza e la percezione del pericolo: abbiamo tutti iniziato ad essere sospettosi, a guardarci attorno ed a non fidarci più delle altre persone che ci circondano.
Il mondo dopo l’attentato alle “Torri Gemelle” ha conosciuto una nuova epoca turbolenta: l’epoca della guerra asimmetrica in cui non c’è più la tradizionale contrapposizione tra gli eserciti nazionali: le azioni terroristiche hanno inciso profondamente sul nostro stile di vita quotidiano, portando via per sempre la spensieratezza e la sensazione di sicurezza.
Da quel momento è arrivata la consapevolezza che tutti noi siamo degli obiettivi per i terroristi che disprezzano il nostro stile di vita: ci possono colpire ovunque, quando meno ce lo aspettiamo cagionando con gli attentati un grande numero di vittime[75]. Gli Stati hanno cercato di arginare la minaccia terroristica attraverso l’introduzione di specifiche fattispecie penali, di adeguate misure sanzionatorie, di efficaci strumenti procedimentali nonché di misure preventive che, pur legittimate dall’esigenza di garantire la sicurezza, inevitabilmente finiscono con l’incidere sulle libertà individuali.
Il concetto di sicurezza può essere definito come un “bisogno” (nella prospettiva psicologica-sociale) o come un “diritto” (se si ricorre alla prospettiva giuridico-politica finalizzata a proporre risposte pratiche operative). Abraham Maslow considera la sicurezza come il più immediato dei bisogni umani e la colloca al primo posto, in un’ipotetica scala di priorità: in detta scala, conosciuta come la “piramide di Maslow”, immediatamente dopo i bisogni fisiologici, che attengono alla sfera della sopravvivenza (aria, cibo, sesso, sonno ecc.), vi sono quelli relativi alla protezione fisica da eventuali possibili aggressioni.
La sicurezza rappresenta quindi il bisogno fondamentale dell’uomo, in quanto “sicurezza” significa libertà da preoccupazioni derivanti da situazioni di ogni genere che possono attentare (su base accidentale o a causa di altrui intenzionalità lesive) contro l’esistenza e la sopravvivenza di ogni individuo[76]. Questo principio viene fermamente rimarcato dall’articolo 3 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (“Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona”) approvata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ripresa quasi integralmente dall’articolo 6 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Anche la Costituzione italiana riconosce e tutela i diritti inviolabili dell’Uomo: l’art. 2 infatti stabilisce che “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.
Il diritto alla sicurezza riecheggia inoltre nell’art. 32 della Costituzione italiana che tutela il diritto alla salute giacché preservare la salute implica perseguire indirettamente sicurezza (laddove la salute è considerato uno stato di benessere psico-socio-fisico dell’individuo e non solo “assenza di malattia”): la sicurezza ha quindi importanti correlati sanitari[77].
D’altra parte se si analizza il concetto di sicurezza e lo si scompone ci si rende conto che esso è in realtà un contenitore che ospita fattispecie non omogenee.
Il termine sicurezza nella lingua italiana è però piuttosto generico, in quanto in esso confluiscono due concetti ben distinti in altri idiomi: in particolare la lingua inglese distingue “security” (intesa come insieme di attività finalizzate alla protezione da atti intenzionali lesivi) da “safety” (inteso come il complesso di azioni miranti a rimanere sicuri e protetti da danni o esiti sfavorevoli indesiderati) [78].
In un mondo globalizzato come quello attuale il tema della sicurezza è centrale: la sicurezza è oggi un concetto con molti significati, in quanto non coinvolge più solo la dimensione “esterna” degli Stati con la sua tradizionale valenza politico-militare, ma è ormai diventato un fenomeno tipicamente “trasversale” in grado di interessare su diversi piani e con diverse combinazioni sia la politica internazionale che la dimensione politica, economica e sociale interna degli Stati e degli altri attori internazionali: il concetto di sicurezza è mutato profondamente negli ultimi venti anni a causa delle nuove “minacce” e dei nuovi “rischi” legati al terrorismo internazionale di matrice islamica.
Negli ultimi anni si è diffuso un trasversale sentimento di insicurezza che si manifesta principalmente attraverso l’individuazione di pericoli (presunti o reali) che finiscono con il condizionare in maniera più o meno profonda l’esistenza quotidiana di una società: così l’espressione “allarme sicurezza”, ad esempio, sembra essere entrata a far parte ormai del vocabolario quotidiano, veicolata soprattutto dai “media” (che la utilizzano spesso in riferimento ad un pericolo non sempre ben precisato) oltre che da esponenti politici che a volte sottolineano le esigenze di sicurezza e la necessità di contrastare determinate presunte minacce in maniera più vigorosa, spesso con il solo scopo di aumentare il proprio consenso tra gli elettori.
Il concetto di sicurezza è ampio ed articolato ed il suo significato si è evoluto nel tempo, seguendo le trasformazioni che hanno attraversato le società anche sul piano dell’innovazione tecnologica: al concetto di sicurezza oggi sono assegnati numerosi significati, non più legati esclusivamente alla dimensione statuale; si tratta di un ambito trasversale e globale che riguarda tanto le relazioni internazionali quanto gli aspetti politici, economici e sociali degli Stati e degli altri principali attori internazionali.
È importante cercare un equilibrio tra la tolleranza e la sorveglianza, in modo che gli strumenti e le misure adottate per la prevenzione e la repressione del fenomeno del terrorismo consentano di tutelare quei principi fondamentali di libertà e democrazia su cui si fondano le “società occidentali”.
Gli attacchi dell’11 settembre 2001 contro le “Twin Towers” e contro il “Pentagono” (sede del Dipartimento della Difesa del Governo degli Stati Uniti) hanno svelato la capacità distruttiva del terrorismo moderno: questi attentati possono essere presi come esempio del carattere poliedrico che ha assunto nell’era attuale questo fenomeno. Una azione condotta contro alcuni luoghi ed edifici altamente simbolici in varie città degli Stati Uniti, ma pianificata a migliaia di chilometri di distanza, messa in atto utilizzando come armi quattro aerei di linea dirottati da un gruppo di persone (provenienti da diversi Paesi dell’area mediorientale) legate ad Al Qaeda: un attore non statuale fondato tra il 1988 ed il 1989 (nel periodo successivo all’invasione sovietica dell’Afghanistan) dal saudita Osama Bin Laden e dall’egiziano Ayman al-Ẓawāhirīi, con base tra l’Afghanistan ed il Pakistan, che ha assunto le caratteristiche di una vera e propria organizzazione criminale internazionale capace di elaborare un progetto politico unitario di cui ogni affiliato ha la piena consapevolezza.
La pericolosità della minaccia terroristica (tipicamente “asimmetrica”) riconducibile ad Al Qaeda ed allo Stato Islamico risiede nella capacità dimostrata da parte di queste organizzazioni di operare su un livello mondiale e di rappresentare quindi, nello stesso tempo, una minaccia alla sicurezza locale e a quella globale.
Gli accadimenti del settembre 2001 (la distruzione delle “Twin Towers”, l’attacco al Pentagono, le lettere all’antrace) hanno costituito il punto di non-ritorno in quanto la scia di eventi terroristici riconducibili al terrorismo di matrice islamica apertasi nel 2001 è divenuta lunga e sanguinosa: Mosca nel 2002, Madrid e Beslan nel 2004, Londra nel 2005, il museo del Bardo e la spiaggia di Sousse in Tunisia nel 2015, gli attacchi a Charlie Hebdo e al Bataclan di Parigi nel 2015, le bombe in varie città della Turchia nel 2015 e 2016, gli attentati a Nizza e Berlino nel 2016 fino agli attentati di Barcellona (del 17 agosto 2017), di Londra (del 3 giugno 2017 e del 29 novembre 2019) e di Strasburgo del dicembre 2018.
I concetti di terrorismo e di antiterrorismo sono quindi entrati prepotentemente nella vita degli Stati, delle società e degli individui, modificando il concetto di sicurezza e di sovranità: il terrorismo internazionale di matrice religiosa, nella sua forma più aggressiva, ha lanciato una sfida senza precedenti alla sicurezza globale, ponendosi come una nuova minaccia per i Paesi del “mondo occidentale” che credono nelle libertà e nella democrazia.
Gli attentati che hanno colpito l’Europa negli ultimi anni hanno alimentato nella popolazione civile il senso di insicurezza, inducendo il legislatore europeo ad adottare delle severe politiche di contrasto ad un fenomeno che ha nella transnazionalità una delle sue peculiarità: la qualificazione di “internazionale” viene data ove l’evento presenti un qualche elemento di internazionalità, anche se dovuto solamente alla cittadinanza degli autori o delle vittime. Nel caso del terrorismo islamico si è passati dall’internazionalizzazione all’universalizzazione del fenomeno in quanto l’azione terroristica, avendo come fine ultimo la costituzione di un Califfato, ha lo scopo di colpire qualsiasi persona che per l’appartenenza ad un credo religioso o politico diverso si opponga al cambiamento politico, sociale e religioso perseguito dai terroristi.
Il terrorismo rappresenta attualmente una sfida globale all’interno della Comunità internazionale: il terrorismo è sovversione sistematica di valori assoluti, di tradizioni religiose, di appartenenze culturali, di diritti e di libertà.
Questa sfida alla sicurezza globale necessita di una efficace risposta globale, essendo richiesto l’impegno congiunto di tutti gli Stati membri della Comunità internazionale che, direttamente attaccata dal terrorismo ha risposto sia a livello universale che regionale, mentre alcuni Stati (capeggiati dagli U.S.A.) hanno reagito attraverso quella che venne definita “guerra al terrore” o “guerra globale al terrorismo” [79]: ad un mese dall’attentato alle “Torri Gemelle” gli U.S.A. con l’operazione “Enduring Freedom” invasero, con il largo sostegno dell’opinione pubblica ed il contributo militare e la collaborazione di diversi Stati (tra cui la Giordania, il Bahrein ed il Pakistan), l’Afghanistan con lo scopo di stanare e punire Osama Bin Laden, Al Qaeda ed i loro presunti complici (anche se, giorno dopo giorno, la “caccia” che doveva concludersi in pochi mesi si complicò fino a protrarsi per anni)[80].
Oggi si è di fronte ad una minaccia portata avanti soprattutto dallo Stato Islamico: una organizzazione caratterizzata da grandi ambizioni che (dotata di strutture, soldi e uomini pronti a combattere) intende porsi come una vera e propria soggettività statuale: appare pertanto necessario adottare un nuovo approccio allo scopo di intraprendere le più coerenti azioni preventive, programmatiche o correttive che, in un mondo tecnologico ed “iperconnesso”, per essere efficaci ed efficienti sono sempre più vincolate alla disponibilità di capacità di risposta adeguate e coerenti nonché alla tempestività degli interventi. Per affrontare questa nuova sfida occorrono strumenti che, oltre od operare sul piano della repressione, consentano nei limiti dell’umana possibilità di prevenire le azioni terroristiche prefigurandone la loro realizzazione o, quanto meno, le loro conseguenze.
- La definizione europea di reato terroristico.
In ambito europeo, di fronte all’imprevedibilità della minaccia terroristica alla sicurezza locale e a quella globale, è apparso necessario sia rivedere le strategie di prevenzione e di lotta al terrorismo che “ripensare” in termini comuni alla sicurezza interna nella sua logica correlazione con gli strumenti di politica estera, di polizia e di difesa militare.
Per rispondere efficacemente alla minaccia terroristica occorre adottare una politica globale di contrasto al fenomeno fondata su un impegno a lungo termine sia dell’Unione Europea che dei suoi Stati membri, ma soprattutto è necessaria un’Europa più forte che sappia far valere la propria identità e sappia dare risposte fondate sul diritto: un principio fondamentale per l’Unione Europea è che la lotta al terrorismo deve svilupparsi nel rispetto del Diritto Internazionale, dei diritti umani nonché dello Stato di diritto.
Al fine di contrastare in modo efficace il fenomeno del terrorismo occorre adottare un approccio integrato in cui tutte le componenti (indagini investigative, attività di “intelligence”, dialogo interculturale e interreligioso, lotta al finanziamento, sicurezza dei trasporti, strategia di contrasto al reclutamento e alla radicalizzazione) devono avere un ruolo essenziale e sinergico: per questo l’Unione Europea ed i suoi Stati membri hanno puntato sulla cooperazione e sul coordinamento interstatuale al fine di creare una strategia globale capace di contrastare potenziali minacce alla sicurezza.
Prima di approfondire la tematica relativa alle strategie di contrasto al fenomeno del terrorismo adottate in ambito europeo, occorre soffermarsi sulla definizione europea di reato terroristico: all’uopo occorre evidenziare che in seno all’Unione Europea solamente dopo l’attentato terroristico alle “Torri Gemelle” è stata elaborata una disciplina sul terrorismo con la quale, attraverso la Decisione Quadro 2002/475/GAI (Consiglio Giustizia e Affari Interni), venne introdotta la definizione “comune” di reato terroristico [81]. Il terrorismo viene qui definito come un fenomeno caratterizzato da “gravi atti criminali contro le persone i quali, data la loro natura o contesto, possono colpire seriamente uno Stato oppure un’organizzazione internazionale che a seconda dei casi risultano finalizzati: ad intimidire fortemente una popolazione; a costringere ingiustamente un governo o un’organizzazione internazionale a compiere oppure ad astenersi dall’eseguire una determinata azione; alla destabilizzazione o alla distruzione delle fondamenta politiche, costituzionali, economiche o delle strutture sociali di uno Stato o di un’organizzazione internazionale” [82]. La decisione di intervenire in questa direzione è da attribuire principalmente alla carenza, nella maggior parte degli Stati membri dell’Unione Europea, di una definizione di “reato terroristico”[83], in quanto fino ad allora erano soltanto sei gli Stati membri (ossia l’Italia, la Germania, la Francia, il Portogallo, la Spagna ed il Regno Unito) che possedevano una legislazione penale ad hoc in materia di reati terroristici, mentre negli altri Stati le condotte ad essi assimilabili venivano sanzionate come reati comuni.
Si tratta di una decisione che è stata adottata nell’ambito del c.d. “Terzo Pilastro” della normativa europea sulla base degli artt. 29, 31 lettera e) e 34 paragrafo 2, lettera b), suscettibile di vincolare gli Stati membri circa il risultato da raggiungere, lasciando però alle autorità nazionali la scelta in merito alla forma ed agli strumenti da adottare per il raggiungimento degli obiettivi prefissati. Tale decisione riflette l’impegno messo in campo da parte dell’Unione Europea nella lotta contro il terrorismo a livello mondiale (e non soltanto in ambito europeo): con questo provvedimento furono affrontati ed “in buona parte risolti i non secondari problemi di definizione dell’atto di terrorismo” [84]. Questo atto assunse particolare rilievo in quanto l’introduzione di una definizione “comune” di reato terroristico fu prodromica all’attuazione di una comune strategia di contrasto al terrorismo: successivamente, nel quadro della più ampia azione europea di prevenzione e contrasto al fenomeno terroristico, la normativa dell’Unione Europea è stata adeguata al nuovo volto del terrorismo con la Direttiva UE 2017/541 del Parlamento europeo e del Consiglio adottata il 15 marzo 2017 (che ha sostituito la Decisione 2002/475/GAI e modificato la Decisione 2005/671 GAI del Consiglio del 20 settembre 2005, concernente lo scambio di informazioni e la cooperazione in materia di reati terroristici). Questo intervento normativo è concettualmente legato alla Risoluzione 2178 del 2014 con cui il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha manifestato notevole preoccupazione per la minaccia crescente dei “foreign fighters”, chiedendo agli Stati membri di garantire la punibilità dei reati terroristici nei rispettivi ordinamenti giuridici nazionali punendo in particolare il reclutamento di soggetti a fini terroristici, l’addestramento a fini terroristici (prestato e ricevuto), il finanziamento del terrorismo (punendo le condotte che configurano le ipotesi di concorso, istigazione e tentativo) ed i viaggi (all’interno ed all’esterno o verso gli Stati membri dell’Unione Europea) per fini terroristici.
Il “reato di terrorismo” viene inquadrato dall’art. 3 della Direttiva UE 2017/541 e si configura quando gli atti intenzionali (definiti reati in base al diritto nazionale ed elencati nel paragrafo 1) [85] che, per la loro natura o per il contesto in cui si situano, possono arrecare grave danno a un Paese o a un’organizzazione internazionale vengono commessi per scopi terroristici (ossia per rendere lo stato d’animo della popolazione in allerta costante e gravemente intimidito; coartare in maniera indebita i poteri pubblici e/o un’organizzazione internazionale nella condizione di espletare un atto o astenersi dal farlo; creare scompiglio istituzionale destabilizzando le strutture politiche, costituzionali, economiche o sociali basilari di una Nazione o di una organizzazione internazionale)[86]. La nozione di “reato di terrorismo” pertanto risulta costruita sulla base di due elementi: il primo, oggettivo, consiste nella commissione di uno dei reati tassativamente elencati nel citato articolo; il secondo (soggettivo ed integrativo del precedente) consiste nell’aver commesso il reato con scopi terroristici.
La Direttiva UE 2017/541 è importante in quanto impegna tutti gli Stati membri ad adottare, all’interno di ciascuna legislazione nazionale, tutte le misure che si ritengono necessarie al fine di assicurare l’irrogazione di sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive: rappresenta la base della politica antiterrorismo dell’Unione Europea, in quanto l’elaborazione di un quadro giuridico comune a tutti gli Stati membri con una definizione armonizzata dei reati di terrorismo ha consentito la definizione e lo sviluppo della politica antiterrorismo dell’Unione Europea nel rispetto dei diritti fondamentali e dello stato di diritto[87].
- Le strategie di contrasto al terrorismo adottate nell’Unione Europea.
Negli ultimi anni il terrorismo si è riproposto in modo drammatico sulla scena mondiale con una lunga serie di violenti e sanguinosi attentati che hanno tragicamente riportato alla mente la minaccia che questo fenomeno rappresenta per la nostra società e per la democrazia: le dimensioni dei fenomeni legati al terrorismo sono tuttavia molto più ampi rispetto alle definizioni di carattere giuridico o sociologico[88].
Come abbiamo visto in precedenza la strategia elaborata a livello internazionale per prevenire e reprimere gli episodi criminosi di matrice terroristica si è sempre orientata nella prospettiva di dare centralità agli strumenti di cooperazione interstatuale, tramite la sottoscrizione di convenzioni di portata settoriale dirette ad introdurre misure idonee a fronteggiare le singole fattispecie criminose riconducibili al terrorismo[89].
Tuttavia i recenti attentati terroristici che hanno colpito l’Europa hanno posto in evidenza la necessità di rafforzare lo strumento della cooperazione internazionale attraverso la predisposizione di strumenti condivisi di contrasto ad un fenomeno che ha assunto una connotazione “universale”: l’approccio adottato dall’Unione Europea sul fronte della lotta al terrorismo è stato tuttavia diverso da quello degli Stati Uniti (e più in generale della N.A.T.O.) la cui strategia di contrasto al fenomeno, soprattutto all’inizio, è stata fondata solamente sull’azione militare[90]. Nell’ambito dell’Unione Europea invece inizialmente non venne adottata una strategia unitaria, tanto che furono eterogenee le reazioni degli Stati membri rispetto alle misure americane adottate dopo l’attentato dell’11 settembre 2001.
Nel periodo immediatamente successivo all’attentato alle “Twin Towers” furono adottate, negli ordinamenti interni dei singoli Stati membri dell’Unione Europea, delle misure finalizzate al rafforzamento delle competenze degli apparati di polizia e degli apparati di “intelligence”[91]. Successivamente venne adottato in ambito europeo un approccio fondato sulla predisposizione di strumenti di cooperazione condivisi: il terrorismo rappresenta infatti una minaccia globale che deve essere contrastata incrementando la cooperazione internazionale e definendo principi fondanti, criteri e strumenti operativi comuni.
In questa prospettiva le Nazioni Unite hanno assunto un ruolo fondamentale: il Consiglio di Sicurezza dell’O.N.U. con la risoluzione 1373 (2001) del 28 settembre 2001 ha stabilito una serie di misure finalizzate a creare fra gli Stati membri una rete di cooperazione allo scopo di combattere efficacemente il terrorismo: tale risoluzione ha stabilito che tutti gli Stati devono impegnarsi ad impedire e sanzionare il finanziamento di atti terroristici, anche tramite il congelamento dei beni di persone facenti parte di gruppi riconducibili al terrorismo.
Gli Stati devono attivarsi per impedire il compimento di atti terroristici, negando qualsiasi forma di asilo e sostegno ai soggetti coinvolti in attività terroristiche, e devono adottare provvedimenti interni volti a vietare il reclutamento di terroristi e la fornitura di armi la risoluzione inoltre stabilisce che gli Stati devono intensificare l’attività investigativa ed i controlli alle frontiere in un contesto che favorisca la cooperazione e lo scambio di informazioni: in particolare il Consiglio di Sicurezza dell’O.N.U. sollecita l’istituzione di meccanismi per lo scambio di informazioni e l’assistenza con gli altri Stati[92].
La lotta al terrorismo richiede comunque un’azione comune che a livello internazionale deve fondarsi sull’attuazione delle risoluzioni delle Nazioni Unite, sulla lotta al finanziamento del terrorismo, sul consolidamento della protezione delle infrastrutture e della sicurezza delle frontiere e sul rafforzamento della cooperazione giudiziaria e di polizia. Un ulteriore passo sul fronte della lotta al terrorismo transnazionale è stato rappresentato dalla sottoscrizione tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea, nel giugno 2003, dei trattati sulla mutua assistenza legale e sull’estradizione[93]. L’Unione Europea pochi giorni dopo l’attentato alle “Torri Gemelle”, il 21 settembre 2001, approvò un primo “Piano d’Azione”, mentre solo nel 2004 (dopo che Madrid e Londra furono colpite da attentati terroristici di matrice islamica) emanò la “Dichiarazione sulla lotta al terrorismo” (adottata dal Consiglio Europeo del 25-26 marzo 2004): nel 2005 invece fu adottato il documento “The European Union Counter-Terrorism Strategy” con lo scopo dichiarato di “ridurre la minaccia del terrorismo” e la vulnerabilità degli Stati membri agli attacchi. La lotta al terrorismo “jihadista” rappresenta senza dubbio una priorità assoluta per l’Unione Europea ed i suoi gli Stati membri[94].
Sono quattro i principali settori di azione in cui la strategia antiterrorismo dell’Unione Europea si articola: la prevenzione dei rischi, la protezione dei cittadini e dei possibili obiettivi degli attentati, il perseguimento dei reati e dei loro autori e le possibili risposte agli attacchi terroristici (sotto il profilo della preparazione a gestirne ed attenuarne le conseguenze). In ambito comunitario nel corso degli anni sono state adottate sul piano normativo diverse misure finalizzate a contrastare le attività terroristiche: alcune di esse sono state adottate su iniziativa autonoma, mentre altre sono state adottate per dare attuazione alle risoluzioni delle Nazioni Unite. I principali interventi dell’Unione Europea sul fronte del contrasto al fenomeno del terrorismo rientrano nell’ambito del c.d. “Terzo Pilastro”, riservato alla cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale (GAI) [95]. La politica europea di contrasto al fenomeno terroristico rinviene il proprio fondamento convenzionale nell’art. 29 del Trattato sull’Unione Europea, il quale dispone che “…l’obiettivo che l’Unione si prefigge è fornire ai cittadini un livello elevato di sicurezza in uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, sviluppando tra gli Stati membri un’azione in comune nel settore della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale e prevenendo e reprimendo il razzismo e la xenofobia. Tale obiettivo è perseguito prevenendo e reprimendo la criminalità, organizzata o di altro tipo, in particolare il terrorismo…”.
Come abbiamo visto solo con la Decisione Quadro 2002/475/GAI del 13 giugno 2002, è stata adottata in seno all’Unione Europea una definizione comune di terrorismo[96], laddove per organizzazione terroristica si intende “l’associazione strutturata di più di due persone, stabilita nel tempo, che agisce in modo concertato allo scopo di commettere atti terroristici”.
Al fine di contrastare il terrorismo transnazionale è stata prevista, nell’ambito dell’Unione Europea, la predisposizione di un elenco di persone, gruppi ed entità coinvolti in atti terroristici e soggetti a misure restrittive[97]: misure che prevedono il congelamento dei capitali e delle attività finanziarie e misure dirette a rafforzare la cooperazione di polizia e giudiziaria.
Al fine di contrastare in modo efficace il fenomeno del terrorismo anche in seno all’Unione Europea (al pari di quanto avviene negli U.S.A.) si è fatto ricorso allo strumento del contrasto ai canali di finanziamento delle organizzazioni terroristiche.
In passato le organizzazioni terroristiche avevano bisogno quasi sempre del sostegno economico di Stati sovrani che li proteggessero e finanziassero: oggi invece le risorse per finanziare le attività terroristiche possono essere reperite attraverso forme di criminalità organizzata (traffico di droga, traffico di armi, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, tratta delle schiave e prostituzione ecc. ecc.). In questo modo le organizzazioni terroristiche (si pensi per esempio ad Al Qaeda) sono diventate soggetti autonomi rispetto agli Stati così affrancandosi da forme di controllo statutarie.
Per contrastare il fenomeno sul piano del finanziamento sono state create delle “black list” (che costantemente vengono aggiornate) ove vengono inseriti tutti quei soggetti che hanno rapporti economici e commerciali (o erogano prestazioni di servizi) con i gruppi terroristici.
Nei confronti di tali soggetti vengono applicate le sanzioni economiche e finanziarie internazionali (che in genere consistono nel congelamento degli “asset economici e finanziari” o nella proibizione di rapporti economico-finanziari[98]).
L’Unione Europea preferisce ricorrere a questo strumento (perdendo una percentuale di export/P.I.L. ed inibendo alcuni flussi di investimento) in quanto non è disposta ad investire risorse economiche nella creazione di uno strumento militare tradizionale: le sanzioni applicate dall’Unione Europea tuttavia non hanno lo stesso uso strategico di quelle predisposte dagli U.S.A. (che invece hanno carattere ritorsivo), giacchè vengono applicate al fine di perseguire un obiettivo specifico, essendo vincolate al raggiungimento di un comportamento che viene esplicitamente dichiarato[99].
Il contrasto ai canali di finanziamento deve tendere a bloccare le disponibilità finanziarie dei gruppi terroristici che spesso sono ramificati in più Stati: gli accordi governativi di collaborazione tra i servizi di sicurezza ed informazione devono cercare, nell’ottica di una efficace strategia di contrasto, di predisporre un sistema sanzionatorio il più possibile omogeneo ed uniforme ssia sul piano sostanziale che su quello procedurale. Così, con il Regolamento del Consiglio dell’Unione Europea (CE) n. 881/2002 del 27 maggio 2002, sono state previste specifiche misure restrittive nei confronti di determinate persone ed entità associate a Osama Bin Laden, all’organizzazione terroristica Al Qaeda ed al movimento dei Talebani[100].
In materia di criminalità finanziaria, al fine di contrastare il finanziamento del terrorismo, si è cercato di prevenire la manipolazione dei mercati finanziari da parte delle organizzazioni terroristiche: con la direttiva comunitaria in materia di antiriciclaggio è stato fatto inoltre un ulteriore passo avanti sul fronte del contraato al fenomeno del terrorismo transnazionale in quanto è stato previsto l’obbligo di segnalazione delle operazioni sospette in capo a varie categorie di soggetti (inclusi gli avvocati) e sono state potenziate le competenze del Gruppo di Azione Finanziaria Internazionale (GAFI) a cui è affidato il compito di controllare il rispetto della normativa antiriciclaggio da parte dei singoli Stati[101].
Al fine di contrastare in maniera efficace la criminalità organizzata (inclusa quella internazionale e terroristica) il 13 giugno 2002 è stata adottata la Decisione Quadro 2002/465/JHA che ha previsto la costituzione delle Squadre Investigative comuni: grazie a questo provvedimento le indagini condotte dalle polizie europee, anche sul fronte del contrasto al terrorismo transnazionale, sono aumentate in maniera considerevole negli ultimi anni.
Nell’ambito della strategia europea di contrato al terrorismo un importante passo nella lotta comunitaria al fenomeno è certamente rappresentato dalla Decisione Quadro sulla lotta al terrorismo che, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, oltre ad aver introdotto la definizione “comune” di reato terroristico (in un contesto in cui a livello mondiale non vi era una definizione condivisa ed unanime dell’atto o della finalità di terrorismo, nonché di associazione terroristica[102]) conteneva al suo interno alcune regole volte ad uniformare le attività dirette alla prevenzione e repressione dei reati terroristici al fine di incrementare la cooperazione tra Stati membri dell’Unione Europea. La Decisione Quadro 2002/475/JHA ha individuato come terroristiche le condotte di danno grave o anche solo di pericolo grave per un Paese o una organizzazione internazionale (art.1): tale provvedimento inoltre ha tipizzato una serie di condotte e di relativi scopi, utili anche per la individuazione del significato da attribuire al concetto di “finalità di terrorismo”. La Decisione Quadro del 2002, adottata nell’ambito del c.d “Terzo Pilastro” della normativa europea, ha rappresentato un importante passo nella lotta al terrorismo nell’ambito dell’Unione Europea in quanto ha dettato delle norme vincolanti per gli Stati membri (pur lasciando alle autorità nazionali la libertà di scelta in ordine alle forme ed ai mezzi con cui pervenire ai risultati che si prefigge di ottenere), così consentendo di realizzare un quadro normativo unitario. Tuttavia la tensione generata dall’imprevedibilità della minaccia terroristica e dalle nuove sfide alla sicurezza globale derivanti dal terrorismo islamista ha indotto il legislatore europeo ad intervenire nuovamente allo scopo di migliorare il quadro giuridico penale comunitario sul fronte della lotta al terrorismo: è stata così adottata la Direttiva UE 2017/541 del Parlamento europeo e del Consiglio del 15 marzo 2017 che all’art. 3, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, definisce nuovamente il “reato di terrorismo”.
L’art. 4, relativamente ai “reati riconducibili ad un gruppo terroristico”, invece impone agli Stati membri di condannare penalmente sia la direzione di un gruppo terroristico che il consapevole contributo (e partecipazione) alle sue attività.
La prima parte della Direttiva riguarda la definizione delle fattispecie e gli obblighi di incriminazione posti in capo agli Stati membri: vi era infatti la necessità di dare attuazione agli obblighi internazionali in materia, in particolare a quelli derivanti dalla Risoluzione 2178 (2014) adottata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sulle minacce alla pace e alla sicurezza internazionali causate da atti terroristici[103]. La Direttiva UE 2017/541 infatti obbliga gli Stati a qualificare come reati una serie di atti connessi alle attività terroristiche in quanto possono “portare alla commissione di reati terroristici” o possono permettere ai terroristi ed ai gruppi terroristici “di proseguire o continuare a sviluppare tali attività”: in particolare il provvedimento impone agli Stati membri di rendere punibili le condotte “di pubblica provocazione per commettere reati di terrorismo” (art. 5), “reclutamento” (art. 6) e “fornitura di addestramento a fini terroristici” (art. 7) [104]. Gli articoli successivi invece introducono, in attuazione della normativa internazionale, quattro nuovi obblighi di incriminazione relativi alle condotte di “ricezione di un addestramento a fini terroristici” (art. 8) [105], “viaggi a fini terroristici” (art. 9), “organizzazione o agevolazione di viaggi a fini terroristici” (art. 10) [106] e “finanziamento del terrorismo” (art. 11) [107]. L’art. 12 infine punisce una serie di specifici reati connessi al fenomeno del terrorismo tra cui, in particolare, il furto aggravato e l’estorsione compiuti con l’obiettivo di commettere uno dei reati di terrorismo e la produzione o l’utilizzo di falsi documenti amministrativi allo scopo di commettere un reato terroristico, di partecipare alle attività di un gruppo terroristico o di commettere il reato di viaggio a fini terroristici.
La Direttiva stabilisce inoltre che gli Stati membri adottino le misure necessarie affinché siano punibili anche forme di concorso, istigazione e tentativo in relazione a molti dei reati sopra esaminati: di particolare rilevanza risulta la circostanza per cui, in aggiunta a quanto già previsto dalla Decisione Quadro, dovrà ora essere perseguito penalmente anche il concorso in relazione all’atto di ricevere un addestramento a fini terroristici.
La Direttiva prevede anche la punibilità del tentativo di reclutare o addestrare a fini terroristici nonché del tentativo di compiere il reato di viaggio all’estero con la stessa finalità di finanziamento del terrorismo o uno dei reati connessi ad attività terroristiche.
Per quanto concerne l’apparato sanzionatorio relativo alle persone fisiche l’art. 15, nell’affermare che le sanzioni possono comportare la consegna o l’estradizione, richiama i criteri di effettività, proporzionalità e dissuasività, dettando poi alcune disposizioni specifiche e fissando termini minimi di pena[108], mentre l’art. 16 prevede una serie di circostanze attenuanti che consentono agli Stati di tenere conto di fattori che possono comportare una riduzione della sanzione, quali la rinuncia all’attività terroristica o la collaborazione con le autorità competenti.
L’importanza che questo provvedimento riveste sul fronte del contrasto al terrorismo internazionale è notevole in quanto, tra le altre cose, impone agli Stati membri l’adozione delle misure necessarie affinché le autorità competenti congelino o confischino, in conformità della Direttiva 2014/42/UE26, i proventi derivati dall’atto di commettere o di contribuire alla commissione di uno dei reati di cui sopra e i beni strumentali utilizzati o destinati a essere utilizzati a tal fine.
La Direttiva UE 2017/541 inoltre, sul fronte del contrasto alla propaganda terroristica “on line”, ha imposto agli Stati membri l’adozione dei provvedimenti necessari per assicurare la tempestiva rimozione dei contenuti “on line” (ospitati nel loro territorio) che costituiscono una pubblica incitazione a commettere un reato di terrorismo, imponendo contestualmente l’obbligo di adoperarsi per ottenere la rimozione di tali contenuti ospitati al di fuori del loro territorio[109].
Una peculiarità ulteriore di questo provvedimento concerne l’aspetto relativo alla tutela delle vittime del terrorismo: la Direttiva infatti caldeggia l’adozione di misure di protezione (prestando particolare attenzione “al rischio di intimidazione e di ritorsioni, nonché alla necessità di proteggere la dignità e l’integrità fisica delle vittime del terrorismo, anche durante gli interrogatori e quando esse rendono testimonianza”), di sostegno e di assistenza rivolte a coloro che hanno subito violenze derivanti dagli atti terroristici[110].
Al riguardo meritano di essere citate le disposizioni con cui la Direttiva: stabilisce che le indagini e l’esercizio dell’azione penale non devono essere subordinate ad una denuncia o accusa presentata da una vittima del terrorismo o da un’altra vittima del reato in questione (almeno nei casi in cui i reati siano commessi nel territorio dello Stato membro in cui si procede); impone di provvedere all’istituzione (in aggiunta o come parte integrante dei servizi generali di supporto alle vittime) di servizi di sostegno che affrontino (dal punto di vista emotivo e psicologico, fornendo anche consulenza e informazioni relativamente alle questioni giuridiche e finanziarie ed assistenza in merito ad eventuali richieste di indennizzo) le esigenze specifiche delle vittime del terrorismo in conformità alla Direttiva 2012/29/UE e che gli stessi siano messi a disposizione di tali vittime immediatamente dopo un attentato terroristico e per tutto il tempo necessario; stabilisce che le autorità ed i servizi di sostegno degli Stati membri devono mettere le vittime nella condizione di poter accedere ad ogni tipo di informazione, indipendentemente dallo Stato membro in cui si trovano ed anche se il reato di terrorismo è stato commesso in un altro Stato membro[111]. Alla luce di quanto esposto possiamo quindi asserire che la Direttiva UE 2017/541 (adottata in forza dell’art. 83 del T.F.U.E. e dell’art. 82, paragrafo 2, lettera c, del T.F.U.E) [112] è un provvedimento fondamentale nel quadro della strategia di contrasto al terrorismo elaborata nell’ambito dell’Unione Europea: il legislatore europeo con questo atto da un lato ha cercato, attraverso l’inserimento per gli Stati membri di nuovi obblighi di incriminazione, di riempire i vuoti di tutela riscontrabili nella Decisione 2002/475/GAI sulla lotta al terrorismo, mentre dall’altro ha tentato di armonizzare la normativa penale degli Stati membri al fine di formulare un quadro giuridico unico e comune finalizzato ad agevolare lo scambio di informazioni e la cooperazione tra le autorità nazionali degli Stati membri[113].
Negli ultimi quindici anni l’impegno dell’Unione Europea sul fronte della lotta al terrorismo transnazionale si è comunque intensificato in maniera esponenziale.
è stata così istituita la figura del coordinatore antiterrorismo dell’Unione Europea (prevista dalla dichiarazione sulla lotta al terrorismo adottata dai leader dell’Unione Europea dopo gli attentati terroristici dell’11 marzo 2004 a Madrid) che è incaricato di coordinare i lavori del Consiglio dell’U.E. nella lotta al terrorismo, di monitorare l’attuazione della strategia antiterrorismo dell’U.E., di assicurare che l’U.E. svolga un ruolo attivo nella lotta al terrorismo e di migliorare la comunicazione tra l’U.E. ed i Paesi terzi[114].
Il coordinatore antiterrorismo riferisce a scadenza regolare al Consiglio sull’attuazione degli strumenti antiterrorismo a livello dell’Unione Europea e lavora a stretto contatto con le istituzioni comunitarie per portare avanti gli sforzi dell’U.E. in materia di lotta al terrorismo.
Questa figura ha assunto negli anni un ruolo chiave per il contributo fornito nella progressione del dibattito sulla lotta al terrorismo all’interno dell’Unione Europea, in quanto lavora all’elaborazione delle risposte per contrastare il fenomeno dei combattenti stranieri e dei combattenti di ritorno nei Paesi di origine (anche incontrando le autorità di Paesi terzi e le istituzioni internazionali), incontra regolarmente i funzionari governativi e le altre parti interessate al di fuori dell’U.E. per uno scambio di opinioni sulla cooperazione internazionale in materia di lotta al terrorismo, partecipa alle discussioni ed alle conferenze internazionali sul potenziamento della risposta antiterrorismo dell’Unione Europea. Il coordinatore antiterrorismo si è distinto anche per il contributo dato sul fronte della lotta contro l’estremismo “on line”, in quanto partecipa alle attività del Forum dell’U.E. su Internet (organismo che riunisce gli Stati membri, la Commissione, esperti ed operatori del settore) e segue da vicino i lavori del “Global Internet Forum to Counter Terrorism” (Forum Internet mondiale per la lotta contro il terrorismo) avviato nel 2017[115]. Nel 2010 è stato adottato il documento denominato “Politica UE di contro-terrorismo” in cui da una parte sono state elencate le azioni intraprese per un efficace contrasto del terrorismo internazionale e dall’altra sono state delineate, in un vero e proprio decalogo, le “sfide future” da affrontare[116]. Le azioni recenti in questo settore comprendono: l’introduzione di norme rafforzate per prevenire nuove forme di terrorismo[117], il potenziamento dei controlli alle frontiere esterne[118]; migliori controlli sulle armi da fuoco[119] e l’istituzione di un organo dedicato per frenare la propaganda terroristica “on line”: la prevenzione della diffusione di contenuti terroristici “on line” è importante in quanto è necessario impedire ai terroristi di utilizzare Internet per radicalizzare, reclutare e incitare alla violenza.
A tale scopo nel luglio 2015 è stata istituita in seno all’Europol un’unità specifica per contrastare la propaganda terroristica su Internet che, tra le altre cose, è incaricata di individuare i contenuti “on line” di carattere terroristico (e di estremismo violento) e di fornire consulenza agli Stati membri su questo tema[120].
Dall’inizio del 2013 le questioni della radicalizzazione e dei combattenti terroristi stranieri figurano regolarmente tra i punti all’ordine del giorno del Consiglio dell’Unione Europea e del Consiglio Europeo, i quali hanno sviluppato una risposta globale comprendente linee di azione a livello sia interno che esterno: l’Unione Europea, dopo gli attentati terroristici di Parigi del gennaio 2015, ha deciso di rafforzare la sua risposta e di accelerare l’attuazione di misure specifiche dirette a garantire la sicurezza dei cittadini, a prevenire la radicalizzazione e ad agevolare la cooperazione con i partner internazionali.
Così nel gennaio 2016 è stato istituito, a seguito di una decisione del Consiglio “Giustizia e affari interni” del 20 novembre 2015, il Centro europeo antiterrorismo (ECTC): si tratta di una piattaforma attraverso la quale gli Stati membri dell’Unione Europea possono rafforzare la condivisione delle informazioni e la cooperazione operativa riguardo all’attività di monitoraggio e di indagine relativa ai combattenti terroristi stranieri, al traffico di armi da fuoco illegali e al finanziamento del terrorismo[121].
Nell’ambito dell’Unione Europea ha assunto un ruolo importante anche la figura del Commissario Europeo per gli Affari Interni che, in seno alla Commissione Europea, ha il compito di sostenere l’attuazione dell’Agenda europea sulla sicurezza che prevede, al fine di difendere i cittadini dell’Unione Europea contro le minacce terroristiche, l’introduzione di misure operative e pratiche che consentono di meglio proteggere gli spazi pubblici di incontro dei cittadini, impedendo l’accesso dei terroristi alle fonti di finanziamento ed alle sostanze pericolose utilizzabili per la fabbricazione di ordigni esplosivi artigianali.
L’Agenda europea sulla sicurezza orienta le attività della Commissione nel settore del contrasto al fenomeno del terrorismo transnazionale, definendo le principali azioni (dirette a garantire una risposta efficace dell’Unione Europea al terrorismo ed alle minacce alla sicurezza globale) sul fronte della lotta alla radicalizzazione, del rafforzamento della sicurezza informatica, del blocco dei finanziamenti al terrorismo e del miglioramento dello scambio di informazioni[122].
- Il mandato di arresto europeo, Europol ed Eurojust.
In ambito ciomunitario uno degli strumenti più utilizzati nella lotta al terrorismo è il mandato di arresto europeo, introdotto gradualmente da tutti gli Stati membri dell’Unione Europea: tale istituto ha sostituito il vigente sistema di estradizione basato sulla Convenzione europea del 1957[123]: trova il suo fondamento normativo nella Decisione Quadro 2002/584/GAI del Consiglio Europeo (adottata il 13 giugno 2002, ma entrata in vigore solamente dall’1 gennaio 2004) che invitava gli Stati membri a fare del principio del riconoscimento reciproco il fondamento di un vero e proprio spazio giudiziario europeo[124].
Il mandato di arresto europeo è stato considerato come uno strumento utile per la creazione nell’ambito dell’Unione Europea di uno spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia: l’istituto mira infatti a valorizzare l’indipendenza delle Autorità Giudiziarie rispetto a possibili ingerenze degli Stati membri, ai quali non viene riconosciuta alcuna discrezionalità in tema di esecuzione e consegna dell’arrestato all’Autorità Giudiziaria richiedente.
Il mandato di arresto europeo infatti è eseguibile negli Stati europei a prescindere dalla volontà politica dei Governi interessati, sebbene l’ambito di operatività sia limitato ai reati previsti all’interno della decisione (tra i quali spiccano quelli di matrice terroristica): per tali reati nei Paesi aderenti all’Unione Europea non si applica più la classica procedura di estradizione, in quanto viene utilizzato questo strumento che prevede un meccanismo di funzionamento (fondato sul coinvolgimento delle Autorità Giudiziarie competenti dei vari Stati membri) che si sostanzia nella richiesta da parte di un’Autorità Giudiziaria di uno Stato membro dell’Unione Europea (c.d. Stato di emissione) affinché si proceda all’arresto di una persona in un altro Stato membro e la si consegni al primo Stato membro (c.d. Stato membro di esecuzione) “ai fini dell’esercizio dell’azione penale o dell’esecuzione di una pena o una misura di sicurezza privative della libertà” [125]. La procedura di consegna può essere attiva o passiva: è attiva quando è lo Stato Italiano a richiedere ad un altro Stato membro dell’Unione Europea la consegna di un imputato o condannato presente nel relativo territorio. Diversamente si parla di procedura passiva quando è un altro Stato dell’Unione Europea a richiedere allo Stato Italiano la consegna di un imputato o di un condannato presente sul territorio (in questo caso la competenza a dare esecuzione al mandato viene attribuita alla Corte d’Appello, nel cui distretto risiede la persona oggetto del provvedimento).
Il presupposto, finalizzato all’accoglimento della richiesta, è che il fatto, costituente il motivo di emissione del provvedimento restrittivo, costituisca reato anche per l’ordinamento italiano, alla luce del principio della “doppia incriminazione” [126]. La consegna tuttavia è obbligatoria, a prescindere dal requisito della “doppia incriminazione”, per i fatti particolarmente gravi previsti dall’art. 8 della legge nr. 69/2005 (che riprende il contenuto dell’art.2 della decisione quadro 2002/584/GAI): si tratta di 32 reati particolarmente gravi, tra i quali vi è anche quello di “terrorismo”, per i quali si procede alla consegna senza l’esercizio del controllo della doppia incriminazione, a condizione però che la pena sia stata comminata con sentenza dello Stato membro e non sia superiore ad un massimo di tre anni di reclusione.
Un mandato di arresto emesso dalle Autorità Giudiziarie di uno Stato membro è valido in tutto il territorio comunitario, in quanto lo scopo perseguito attraverso l’utilizzazione di questo strumento è garantire agli Stati aderenti all’U.E. una rapida ed agevole procedura di consegna dei ricercati sottoposti a condanna o a misura cautelare all’interno dell’Unione Europea. L’importanza di questo istituto è da ravvisarsi proprio nell’adozione di un modello di cooperazione innovativo che, attraverso un meccanismo semplificato di arresto e consegna delle persone ricercate, supera il sistema di estradizione convenzionale: un nuovo modello di cooperazione fondato non più sulla collaborazione dei Governi degli Stati in senso stretto, ma basato essenzialmente sul collegamento diretto tra le Autorità Giudiziarie degli Stati membri dell’Unione Europea. Uno degli aspetti più importanti del mandato di arresto europeo è rappresentato proprio dall’eliminazione del filtro del potere politico in quanto il Ministro della Giustizia diventa un mero organo di assistenza amministrativa[127], mentre la decisione di consegnare o meno una persona sulla base di un mandato di arresto rientra in un procedimento esclusivamente giudiziario. Con il mandato di arresto europeo viene eliminata la fase politico amministrativa che caratterizza la disciplina dell’estradizione (che vede coinvolta l’autorità politica che avanza la richiesta e l’autorità giudiziaria a cui è rimessa la decisione sull’estradizione), giacché l’esecuzione avviene attraverso contatti diretti tra le Autorità Giudiziarie nazionali, individuate in base agli ordinamenti dei singoli Stati[128].
La consegna di un sospettato o di un accusato sulla base del mandato di arresto europeo avviene così non a seguito di una insindacabile decisione politica, ma a seguito di una decisione giudiziaria, in quanto tale sottoposta ai vagli interni e all’eventuale vaglio della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la quale può essere investita dall’individuo con riferimento a questioni relative al rispetto delle garanzie previste dall’art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma nel 1950 (CEDU) [129].
Il meccanismo molto più snello e di natura essenzialmente procedurale “dovrebbe rappresentare un ulteriore passo avanti nella lotta comune al terrorismo” [130].
I requisiti del mandato di arresto europeo sono: la sottoscrizione da parte di un giudice; la presenza di una motivazione del provvedimento, la natura irrevocabile se si tratta di sentenza, la non contrarietà ai principi sanciti dalla nostra Costituzione.
Il mandato di arresto europeo rappresenta certamente uno strumento che consente un contrasto efficace al fenomeno del terrorismo in quanto permette di annullare le perdite di tempo dovute ai ritardi burocratici nelle procedure di estradizione riguardanti soggetti sospettati di appartenere ad organizzazioni terroristiche[131].
Nell’ambito della strategia di contrasto al terrorismo adottato nell’Unione Europea assumono un ruolo importante anche le agenzie Eurojust ed Europol. L’Europol (Ufficio europeo di polizia) è l’agenzia che si occupa della lotta al crimine nell’ambito dell’Unione Europea: entrata in funzione nell’ottobre 1998 sulla base della Convenzione Europol adottata dal Consiglio nel 1995, è la sede centrale di coordinamento delle polizie dei Paesi membri e lavora su più fronti per il contrasto al crimine organizzato. L’Europol mira a realizzare una Europa più sicura, attraverso il miglioramento della cooperazione tra le autorità di polizia nazionali dei Paesi dell’Unione Europea: questo Ufficio, composto da agenti appartenenti alle varie forze di Polizia degli Stati membri dell’Unione Europea, ha il compito essenziale di appoggiare gli Stati membri nel prevenire ed affrontare il traffico illecito di stupefacenti, il traffico di esseri umani (che negli ultimi anni, con l’intenso flusso migratorio, si è intensificato, alimentando le “reti dell’immigrazione clandestina”), il traffico illecito di autoveicoli, i crimini legati al terrorismo (come per esempio il traffico illecito di materie radioattive e nucleari), il riciclaggio dei proventi di attività criminali internazionali e le altre forme di criminalità organizzata in cui sono coinvolti due o più Stati membri. Il contrasto a queste attività criminali rappresenta una sfida che richiede uno scambio di informazioni e di “intelligence” efficace e tempestivo: in questa ottica si può affermare che la sua istituzione “ha rappresentato una vera innovazione in termini di cooperazione internazionale di polizia” [132], in quanto questa agenzia è stata istituita con lo scopo di agevolare lo scambio di informazioni fra gli Stati membri, di raccogliere ed analizzare le informazioni e le segnalazioni nonché di comunicare ai servizi competenti degli Stati membri le informazioni che li riguardano (informandoli immediatamente dei collegamenti constatati fra i fatti delittuosi). Europol ha inoltre la funzione di facilitare le indagini negli Stati membri nonché di gestire raccolte informatizzate delle informazioni[133]: questa agenzia, infatti, per svolgere le sue funzioni gestisce un sistema computerizzato di raccolta di informazioni alimentato direttamente dagli Stati membri, accessibile alla consultazione da parte delle unità nazionali, degli ufficiali di collegamento, del direttore, dei vicedirettori e degli agenti di Europol appositamente autorizzati[134].
Dal punto di vista organizzativo gli organi di Europol sono: a) il consiglio di amministrazione, composto da un rappresentante di ciascuno Stato membro, il quale fornisce un orientamento strategico e sorveglia l’attuazione dei compiti di Europol: la presidenza del consiglio di amministrazione è assunta dal rappresentante dello Stato membro che esercita la presidenza del Consiglio; b) il direttore, nominato dal consiglio per un periodo di quattro anni rinnovabile una volta. La nomina del direttore e dei vicedirettori può essere revocata previo parere del consiglio di amministrazione; c) il controllore finanziario, nominato dal consiglio di amministrazione e responsabile dinanzi ad esso; d) il comitato finanziario, composto da un rappresentante per ciascuno Stato membro[135].
In seguito agli attacchi terroristici di matrice “jihadista”che hanno colpito Parigi nel 2015, in presenza di una minaccia terroristica considerata come la più significativa dell’ultimo decennio, l’Europol è stato supportato dall’istituzione del Centro europeo antiterrorismo (ECTC) che, oltre a rinforzare la capacità antiterrorismo di Europol, si pone l’obiettivo di offrire agli Stati membri una piattaforma per potenziare la condivisione di informazioni ed il coordinamento operativo, in particolare nella lotta contro i combattenti stranieri, il traffico di armi da fuoco illegali e il finanziamento del terrorismo. Nonostante la creazione del Centro europeo antiterrorismo la minaccia di ulteriori attacchi terroristici in Europa rimane alta così da richiedere uno sforzo maggiore di cooperazione e di coordinamento a livello europeo ed internazionale.
Europol, nonostante qualche importante risultato già conseguito, stenta tuttavia ancora a decollare: Eurojust, invece, in questi anni sta assumendo un ruolo sempre pù centrale sul fronte del contrasto al terrorismo internazionale di matrice islamica.
Una serie di situazioni (quali l’attentato alle “Twin Towers” nel settembre 2001, l’inadeguatezza della reazione isolata per il contrasto al crimine transnazionale e l’insufficienza dei tradizionali meccanismi di cooperazione giudiziaria) determinarono un’accelerazione dei negoziati tra i vari Stati membri dell’Unione Europea portando alla successiva adozione di importanti strumenti, tra cui la Decisione Quadro sul mandato di arresto europeo e la Decisione Quadro che ha istituito Eurojust[136]. Erojust è un’agenzia dell’Unione Europea costituita da un procuratore o un ufficiale di polizia per ogni Stato membro (che durano in carica per un periodo massimo di 6 anni) che insieme formano il “Collegio” dell’organizzazione (che elegge un presidente tra i suoi membri): è il più importante organismo giudiziario per la lotta alla criminalità transnazionale.
L’ambito di competenza generale di questa agenzia comprende le forme di criminalità ed i reati per i quali l’Europol è competente ad agire[137], nonchè la criminalità informatica, la frode, la corruzione e qualsiasi altro reato che colpisca gli interessi finanziari della Comunità Europea, il riciclaggio dei proventi di reato, la criminalità ambientale e la partecipazione ad un’organizzazione criminale negli Stati membri dell’Unione Europea.
Per realizzare i suoi obiettivi l’Eurojust svolge le sue funzioni per il tramite di uno o più membri nazionali interessati e, in casi determinati, per tramite del Collegio[138]: l’istituzione di Eurojust, quale organo dell’Unione Europea operante nel settore della cooperazione giudiziaria in materia penale, costituisce un importante tassello in vista del perseguimento dell’obiettivo della creazione di quello spazio di libertà, sicurezza e giustizia previsto nei Trattati. Sul fronte del contrasto al fenomeno del terrorismo di matrice islamica Eurojust sta assumendo un ruolo sempre più incisivo in quanto sta diventando il luogo ove prendono corpo la cooperazione e il coordinamento a livello internazionale: questa agenzia è stata istituita infatti per cercare di implementare e migliorare concretamente il coordinamento delle indagini e delle azioni penali tra le varie Autorità Giudiziarie competenti degli Stati membri dell’Unione Europea nella lotta alle forme gravi di criminalità organizzata e transfrontaliera. La sua missione si esplica fondamentalmente nel supportare e rafforzare il coordinamento investigativo e la cooperazione tra le Autorità Giudiziarie nazionali al fine di “portare” i criminali davanti alla giustizia nel modo più rapido ed effettivo possibile: nel contempo Eurojust fornisce alle Autorità Giudiziarie nazionali assistenza per un proficuo e costante dialogo tra i diversi sistemi processuali[139].
In seno a questa agenzia avvengono scambi di informazioni all’indomani di ogni fatto o di indagine eclatante: è inoltre possibile richiederne l’intervento per organizzare in breve tempo incontri di coordinamento bilaterali o multilaterali tra le autorità giudiziarie dei Paesi interessati ad una determinata indagine, previa loro specifica individuazione (non sempre facile in passato).
Eurojust favorisce l’inoltro e l’espletamento delle richieste di assistenza giudiziaria per i reati di sua competenza ed ha contribuito a migliorare, sul piano quantitativo e qualitativo, l’esecuzione delle Decisioni Quadro in tema di mandato di arresto europeo e squadre investigative comuni [140].
Ad Eurojust compete inoltre la capacità di svolgere una serie di funzioni che le sono state attribuite nel contesto della cooperazione giudiziaria europea: questa agenzia deve fornire un parere in caso di concorso di richieste nei confronti della stessa persona (se la questione le viene sottoposta) e deve essere informata dei motivi del ritardo nell’esecuzione di un mandato di arresto in uno Stato membro.
Si tratta di un centro specializzato a livello giudiziario che si pone come interlocutore principale nell’adozione di misure efficaci contro la criminalità organizzata transnazionale all’interno dell’Unione europea: Eurojust, nel fornire la propria assistenza, opera nel rispetto delle normative già esistenti nel settore della cooperazione (e alle quali sono vincolate le autorità nazionali) e, inoltre, può stabilire contatti con Stati e organizzazioni terze, nel caso anche stipulando appositi accordi di collaborazione con Paesi non facenti parte dell’Unione Europea (come per esempio quello con gli Stati Uniti che, tra le altre cose, ha previsto che un magistrato di collegamento possa partecipare alle sue attività)[141].
La creazione di Euojust ha rappresentato una novità di assoluto rilievo nell’ambito della cooperazione giudiziaria in materia penale, orientata ad una logica di vera e propria integrazione tra gli Stati membri: Eurojust rappresenta uno strumento molto importante in quanto favorisce la cooperazione tra gli uffici interessati alle indagini antiterrorismo (e non solo), secondo un modello che la magistratura italiana ha già conosciuto ed applicato tra uffici giudiziari nazionali nell’ambito delle attività di contrasto del terrorismo interno e della criminalità organizzata di stampo mafioso.
In questo contesto un ruolo importante lo ha assunto la Decisione Quadro sul rafforzamento di Eurojust che, oltre a potenziare il ruolo dei membri nazionali nel richiedere agli Stati coinvolti la costituzione di un JIT (Joint Investigations Teams), prevede che gli stessi possano parteciparvi direttamente[142].
Tuttavia è senza dubbio indispensabile rafforzare questa collaborazione tra gli Stati membri in modo che questi mettano a disposizione degli altri Stati, in maniera celere (o istantanea) e spontanea, le notizie di cui dispongono[143].
La lotta al fenomeno del terrorismo transnazionale di matrice islamica può essere condotta efficacemente da un lato mediante l’adozione di misure preventive e restrittive e, dall’altro, attraverso l’adozione di un sistema di collaborazione interstatuale: questa collaborazione tra gli Stati oggi appare quanto mai opportuna e necessaria, sopratutto in considerazione del fatto che negli ultimi anni è proliferata l’attività di reti organizzate e ramificate su scala internazionale che hanno finanziato il terrorismo globale.
La delicata materia della collaborazione tra gli Stati aderenti all’Unione Europea è stata trattata con la Decisione 2005/671 GAI del Consiglio del 20 settembre 2005 sullo scambio di informazioni e sulla cooperazione in materia di reati terroristici, poi modificata dalla Direttiva UE 2017/541 sulla lotta al terrorismo adottata il 15 marzo 2017 (che ha sostituito la Decisione 2002/475/GAI e modificato la Decisione 2005/671 GAI del Consiglio del 20 settembre 2005, concernente lo scambio di informazioni e la cooperazione in materia di reati terroristici.
Dopo l’adozione del Trattato di Lisbona, che ha previsto l’istituzione di una futura Procura europea (a partire proprio da Eurojust), il Consiglio dell’Unione Europea ha adottato la decisione 2009/426/GAI, modificativa della precedente, intesa a rafforzare e migliorare le attività investigative, il coordinamento investigativo e le richieste di assistenza giudiziaria, mediante l’attribuzione di maggiori poteri al membro nazionale ed al Collegio di Eurojust: è stato istituto in seno all’Eurojust un sistema di coordinamento permanente (On-Call Coordination) composto da un rappresentante per Stato membro, in grado di garantire un supporto continuo (24 ore su 24 e in qualunque giorno dell’anno) ed assistenza in casi urgenti alle autorità nazionali[144]. Il miglioramento dello scambio di informazioni rappresenta senza dubbio alcuno una delle tappe fondamentali per garantire la sicurezza dell’Unione Europea e dei suoi cittadini: il Consiglio Europeo (Giustizia e affari interni) il 10 giugno 2016 ha approvato una tabella di marcia per rafforzare lo scambio e la gestione di informazioni, comprese soluzioni di interoperabilità, mentre nel dicembre 2017 la Commissione ha presentato due proposte legislative volte a migliorare l’interoperabilità delle banche dati dell’Unione Europea: nel contempo il Consiglio ha adottato nuove norme per rafforzare il sistema d’informazione Schengen (SIS), banca dati operativa dal 1995 che consente alle autorità dello Spazio Schengen (area comprendente 26 Stati europei-di cui 22 fanno parte dell’Unione Europea- che, in base al c.d. “aquis di Schengen”[145], hanno abolito i controlli sulle persone alle frontiere comuni, che sono state sostituite da un’unica frontiera esterna così funzionando, dal punto di vista dei viaggi internazionali, come un unico Paese) di scambiarsi i dati relativi all’identità di determinate categorie di persone e di beni[146].
L’ambito di cooperazione internazionale più importante e più problematico è rappresentato proprio dallo scambio di informazioni: in tale settore, infatti, attesa la particolare natura delle attività e la delicatezza dei contenuti, risulta più difficile contemperare le varie attività comuni specie alla luce della necessità di garantire il rispetto della privacy.
La Direttiva UE 2017/541 del Parlamento europeo e del Consiglio sulla lotta al terrorismo ha cercato di armonizzare la normativa penale degli Stati membri dell’Unione Europea con il chiaro obiettivo di delineare un quadro giuridico unico e comune finalizzato ad agevolare lo scambio di informazioni e la cooperazione tra le autorità nazionali degli Stati membri.
Questo provvedimento in particolare ha previsto l’obbligo di adottare tutte le misure necessarie per garantire che le informazioni pertinenti raccolte nel quadro di procedimenti penali collegati a reati di terrorismo siano accessibili in modo efficace e tempestivo alle Autorità competenti di un altro Stato membro quando dette informazioni potrebbero essere utilizzate a fini di prevenzione, accertamento, indagine o azione penale in relazione ai reati di terrorismo in tale Stato membro: è doveroso tuttavia precisare che tale disciplina non è applicabile quando tale scambio di informazioni comprometta le indagini o la sicurezza di una persona o laddove sia in contrasto con gli interessi essenziali della sicurezza dello Stato membro interessato.
La Direttiva del 2017 inoltre impone agli Stati membri, in caso di ricezione delle suddette informazioni, l’adozione di misure tempestive conformemente al proprio diritto nazionale[147].
Nel settore dello scambio di informazioni tra gli Stati membri il nodo cruciale è senza dubbio alcuno rappresentato dalla necessità di trovare una soluzione che garantisca la compatibilità giuridica e tecnologica dei sistemi di condivisione di informazioni e di protezione della riservatezza: alcuni hanno addirittura auspicato, con lo scopo di contrastare la minaccia terroristica, la costituzione nell’ambito dell’Unione Europea di un apparato sovranazionale di Intelligence.
Tuttavia l’eventuale istituzione di una struttura europea di Intelligence non consentirebbe da sola di raccogliere i frutti auspicati sul fronte del contrasto al terrorismo transnazionale, in quanto sarebbe comunque necessario stringere dei legami di collaborazione con gli apparati di sicurezza dei Paesi che non fanno parte dell’Unione Europea.
Il rafforzamento dello scambio di informazioni tra i Servizi di Intelligence dei vari Stati e la loro coordinazione consentirebbe di compiere una seria attività investigativa che permetterebbe di prevenire possibili attacchi terroristici[148].
Ci sono tuttavia diverse problematiche che sarebbe necessario risolvere per attuare un simile progetto: per esempio sul fronte del coordinamento delle attività sarebbe indispensabile riconoscere la supremazia ad uno degli Stati rispetto agli altri che invece dovrebbero svolgere solamente azioni di supporto; sarebbe inoltre necessario uniformare le (diverse) modalità di lavoro, figlie di esperienze storiche e culturali talvolta profondamente eterogenee. Per tali motivi il progetto di costituzione di un apparato di Intelligence europeo sembra di difficile attuazione: tuttavia i recenti attacchi terroristici che hanno colpito il cuore dell’Europa (spesso compiuti attentatori “fai da te” capaci di improvvisare un attacco “a prevedibilità zero”, tale da limitarne la monitorabilità ed i possibili interventi di prevenzione) dimostrano come il fenomeno del terrorismo si sia evoluto al punto di avere una accresciuta recrudescenza[149]. Per questo motivo, a prescindere dalla costituzione nell’ambito dell’Unione Europea di un apparato di sicurezza sovranazionale unitario, appare comunque opportuno sia incrementare il flusso di informazioni che migliorare la collaborazione tra gli apparati di sicurezza nazionali degli Stati membri: ai fini di un efficace contrasto al fenomeno del terrorismo di matrice islamica sarebbe inoltre auspicabile l’instaurazione di forme di dialogo e di collaborazione con l’Islam moderato, mentre sarebbe certamente utile l’intensificazione del monitoraggio degli sbarchi degli immigrati da realizzare in modo condiviso sul piano internazionale.
Alla luce di quanto esposto, possiamo quindi asserire che in seno all’Unione Europea è stato adottato un approccio globale per affrontare le questioni dei combattenti stranieri e del terrorismo transazionale di matrice islamica, caratterizzato da un piano di azione e da una politica di contrasto al fenomeno che sono nettamente diverse rispetto alle azioni intraprese dalla N.A.T.O. (che invece appaiono caratterizzate da concetti strategici diversi e da modalità di azione di tipo militare). L’Unione Europea si è occupata della sicurezza interna degli Stati membri (dei suoi cittadini e dei trasporti) sempre nel rispetto dei diritti dell’uomo (espressamente citati) e, nell’ambito del citato approccio globale, ha cercato di intensificare l’azione esterna di lotta al terrorismo con i Paesi terzi (in particolare nelle regioni del Mediterraneo, del Medio Oriente, del Nord Africa, del Golfo Persico e del Sahel): a tal fine il Consiglio ha deciso di rafforzare la cooperazione con i partners chiave ed i Paesi terzi (anche al fine di individuare le reti di reclutamento dei c.d. “foreign fighters” ed i combattenti stranieri), di avviare nuovi progetti per sostenere lo sviluppo di capacità e di intensificare le azioni volte a contrastare la radicalizzazione e l’estremismo violento[150]. Tuttavia c’è ancora molto da fare sul fronte delle politiche di contrasto ad un fenomeno che appare in continua evoluzione: una evoluzione che costringerà il legislatore europeo ad intervenire continuamente per adeguare sul piano normativo gli strumenti di prevenzione e di repressione al fine di garantire, nel rispetto dei diritti umani e delle norme del Diritto Internazionale, la sicurezza dei cittadini e degli Stati membri.
CONCLUSIONI
Con questo lavoro ho inteso esaminare il fenomeno del terrorismo internazionale di matrice islamica focalizzando l’attenzione sugli strumenti previsti nell’ambito dell’Unione Europea in materia di prevenzione e di repressione di un fenomeno poliedrico.
Il terrorismo si è evoluto nel tempo adeguandosi anche alle innovazioni tecnologiche, costringendo il legislatore a rincorrere sia in ambito nazionale che comunitario il fenomeno al fine di predisporre delle misure idonee a contrastarlo, tenendo conto di tutte le sue caratteristiche: dal 1937 ad oggi sono stati messi a punto e conseguentemente accolti diversi strumenti giuridici sia a livello nazionale che comunitario volti a prevenire e contrastare o le azioni terroristiche, la cui frammentarietà ha reso necessaria la creazione di convenzioni di tipo settoriale che hanno affrontato il fenomeno contrastando le singole attività terroristiche: convenzioni che hanno avuto il merito di introdurre uno “standard” normativo comune per quanto concerne le modalità operative adottate nei singoli Stati sul piano della prevenzione e della repressione dei reati di terrorismo internazionale
Tutte le misure adottate a livello comunitario per la prevenzione ed il contrasto di tale fenomeno hanno evidenziato l’opportunità di rafforzare la cooperazione fra gli Stati: questa stretta collaborazione risulta imprescindibile soprattutto nell’ambito del terrorismo di tipo “cyber”, dal momento che ci si trova ad avere a che fare con un problema che spesso esula dalle barriere geografiche. Per questa ragione sarebbe necessaria la creazione di una convenzione che agisca a livello globale, in modo tale da aumentare le possibilità di reperire e successivamente bloccare i fautori o i promotori delle azioni terroristiche: il terrorismo e le sue attività rappresentano un pericolo sempre più vicino e costante soprattutto quando viene utilizzata la Rete Internet, essendo questa capace di abbattere attraverso i terminali i limiti geografici: per questo motivo è stato istituito in seno all’Europol, con l’obiettivo di frenare la propaganda terroristica “on line”, un organo dedicato a cui è stato affidato il compito di impedire ai terroristi di utilizzare Internet per radicalizzare, reclutare e incitare alla violenza.
La minaccia rappresentata dai cittadini europei radicalizzati, molti dei quali viaggiano anche all’estero per combattere, è destinata a persistere nei prossimi anni: per rispondere efficacemente a tale problematica occorrono un approccio globale ed un impegno a lungo termine in ambito comunitario. La responsabilità di combattere il terrorismo spetta principalmente agli Stati membri, ma l’Unione Europea può e deve svolgere un ruolo di sostegno che contribuisca ad affrontare la natura transfrontaliera della minaccia. Le strategie di contrasto alla minaccia terroristica adottate nell’ambito dell’Unione Europea sono state caratterizzate da un piano di azione e da modalità nettamente diverse rispetto a quelle adottate dalla N.A.T.O. (che ha fatto ricorso alle modalità di azione di tipo militare). Abbiamo visto che l’Unione Europea si occupa della tutela della sicurezza degli Stati membri (dei suoi cittadini e dei trasporti) dalla minaccia terroristica globale operando sempre nel rispetto del Diritto Internazionale, dei diritti umani nonché dello Stato di diritto, attraverso un approccio integrato in cui ogni componente (indagini investigative, attività di “intelligence”, dialogo interculturale e interreligioso, lotta al finanziamento, sicurezza dei trasporti, strategia di contrasto al reclutamento e alla radicalizzazione) assume un ruolo essenziale e sinergico ai fini di un efficace contrasto ad un fenomeno che, soprattutto negli ultimi venti anni, ha assunto un carattere transnazionale ed universale. L’Unione Europea ed i suoi Stati membri per combattere efficacemente il terrorismo (in tutte le sue forme) hanno puntato sulla cooperazione e sul coordinamento al fine di creare una strategia globale capace di contrastare potenziali minacce alla sicurezza: in questo contesto abbiamo visto come nella strategia antiterrorismo dell’Unione Europea abbiano assunto un ruolo importante il mandato di arresto europeo, Europol ed Eurojust.
L’ambito di cooperazione internazionale più importante e più problematico è rappresentato senza dubbio dallo scambio di informazioni: in tale settore, infatti, attesa la particolare natura delle attività e la delicatezza dei contenuti, risulta più difficile contemperare le varie attività comuni specie alla luce della necessità di garantire il rispetto della riservatezza e la tutela delle libertà fondamentali.
La lotta al fenomeno del terrorismo internazionale di matrice islamica tuttavia può essere realizzata in modo efficace solo mediante l’adozione di un sistema di collaborazione tra gli organismi internazionali, oltre che attraverso l’adozione di misure preventive e restrittive sul piano investigativo e giudiziario: questa delicata materia è stata trattata con la Decisione 2005/671 GAI del 20 settembre 2005 (relativa allo scambio di informazioni ed alla cooperazione in materia di reati terroristici) poi modificata dalla Direttiva UE 2017/541 del Parlamento europeo e del Consiglio sulla lotta al terrorismo adottata il 15 marzo 2017 (che ha sostituito la Decisione 2002/475/GAI), con cui il legislatore europeo ha cercato di migliorare il quadro giuridico penale dell’Unione Europea sul fronte della lotta al terrorismo (definendo, tra le altre cose, il “reato di terrorismo” ed imponendo, relativamente ai “reati riconducibili ad un gruppo terroristico”, agli Stati membri di condannare penalmente sia la direzione di un gruppo terroristico che il consapevole contributo alle sue attività).
Le attività di “intelligence” unitamente a quelle di investigazione hanno un ruolo centrale sul fronte del contrasto del fenomeno in un contesto in cui negli ultimi anni sono stati frequenti gli atti terroristici “fai da te” posti in essere da soggetti pronti a tutto (anche al suicidio), capaci di improvvisare un attacco senza alcun tipo di pianificazione: attentatori che, operando talvolta come “Lupi solitari”, rendono il fenomeno terroristico sempre meno prevedibile e monitorabile.
Sarebbe opportuno realizzare una rete internazionale di Intelligence coordinata ed in costante comunicazione che sul piano della prevenzione applichi azioni di controllo e di monitoraggio efficaci: alcuni hanno addirittura auspicato la costituzione (tuttavia di difficile attuazione) di un apparato europeo sovranazionale di Intelligence allo scopo di fronteggiare la minaccia terroristica. Certamente un’efficace opera di prevenzione deve fondarsi su un sistema di cooperazione e di coordinamento tra gli apparati di sicurezza nazionali dei singoli Stati aderenti all’Unione Europea: un sistema che dovrebbe garantire uno scambio di notizie puntuale, tempestivo o addirittura istantaneo.
In ambito comunitario manca una struttura in grado di svolgere le delicate funzioni di raccordo investigativo e di celere circolazione delle informazioni: la soluzione potrebbe essere rappresentata dall’istituzione della Procura Europea di cui si discute da diversi anni ( prevista dal Trattato di Lisbona), anche se l’attuazione di tale progetto appare difficile in quanto più di uno Stato teme di perdere parte della propria sovranità in seguito alla costituzione di una tale struttura.
Per un efficace contrasto al fenomeno del terrorismo transnazionale appare indispensabile adottare un approccio globale e multidisciplinare fondato anche sul contrasto al traffico di armi, sull’intensificazione del monitoraggio dei flussi migratori (che negli ultimi decenni hanno alimentato l’immigrazione clandestina) e sul contrasto alle organizzazioni criminali che favoriscono l’immigrazione irregolare fondato. L’ingresso incontrollato di migranti nel territorio degli Stati aderenti all’Unione Europea potrebbe infatti agevolare anche l’enttrata di potenziali terroristi. Tuttavia, se si considera che gli autori degli attacchi terroristici compiuti recentemente in Europa sono nella maggioranza dei casi cittadini europei nati e cresciuti nel vecchio continente, sarebbe opportuno (in modo da contrastare efficacemente il fenomeno dei “foreign fighters”) potenziare i controlli alle frontiere anche per i flussi in uscita al fine di individuare quei cittadini europei che vogliono entrare in contatto con i gruppi estremisti in Africa, Asia e Medio Oriente. Sarebbe opportuno migliorare la cooperazione a livello interstatuale al fine di contrastare la minaccia terroristica in modo più efficace: il miglioramento dei canali di scambio di informazioni tra i vari Stati ed il rafforzamento della cooperazione giudiziaria ed investigativa sono oggi strumenti indispensabili per contrastare il fenomeno del terrorismo sul piano della prevenzione.
Per combattere efficacemente il terrorismo di matrice islamica si dovrebbe prima però cercare anche di sconfiggere il radicalismo, mettendo in atto una politica estera e di cooperazione internazionale (fondata anche sul dialogo con l’Islam moderato) tale da contribuire alla stabilizzazione di quelle aree del Nordafrica e del Medio Oriente dove il terrorismo trova le condizioni favorevoli per attecchire.
Se da un lato è necessario contrastare il fenomeno del terrorismo di matrice islamica anche sul piano del finanziamento delle organizzazioni terroristiche, dall’altro lato (nell’ambito del citato approccio globale e multidisciplinare) appare indispensabile contrastare la radicalizzazione di quei soggetti che si attivano da soli fino ad arrivare ad autoaddestrarsi (anche grazie all’utilizzazione della Rete Internet) ed a commettere atti terroristici “fai da te” attraverso azioni estemporanee talvolta imprevedibili e, in quanto tali, difficili da contrastare.
Nell’ambito dell’approccio multidisciplinare di contrasto al terrorismo l’integrazione potrebbe idealmente rappresentare l’asse su cui fondare una nuova strategia comune in ambito europeo: una strategia fondata su un approccio che, nel rispetto delle reciproche differenze, sia fondato sulla tutela dei diritti umani fondamentali.
Una strategia che potrebbe consentire da un lato di contrastare quel meccanismo di ghettizzazione e di vessazione sociale che costituisce anche negli Stati europei (anche presso gli immigrati di terza generazione) terreno fertile per la radicalizzazione ed il reclutamento terrorista e dall’altro, attraverso il dialogo con l’Islam moderato, di individuare sin dall’origine i focolai del terrorismo integralista.
La ghettizzazione e la vessazione sociale infatti potrebbero spingere alcuni soggetti a radicalizzarsi e ad abbracciare ideologie religiose fondamentaliste con la prospettiva di ottenere un riscatto: peggiori sono le condizioni di vita dei giovani musulmani nelle nostre società occidentali e maggiori sono infatti le possibilità di un potenziale reclutamento di questi soggetti tra le fila di organizzazioni terroristiche di matrice “jihadista”.
Abbiamo visto come in seno all’Unione Europea sia stato adottato un approccio globale per affrontare le questioni dei combattenti stranieri e del terrorismo transazionale di matrice islamica, caratterizzato da un piano di azione e da una politica di contrasto al fenomeno che sono nettamente diverse rispetto alle azioni intraprese dalla N.A.T.O. (che invece appaiono caratterizzate da concetti strategici diversi e da modalità di azione di tipo militare).
L’Unione Europea tutela e garantisce la sicurezza interna degli Stati membri (dei suoi cittadini e dei trasporti) sempre nel rispetto dei diritti dell’uomo: nell’ambito di questo approccio globale ha cercato di intensificare l’azione esterna di lotta al terrorismo con i Paesi terzi (in particolare nelle regioni del Mediterraneo, del Medio Oriente, del Nord Africa, del Golfo Persico e del Sahel), rafforzando la cooperazione con questi ultimi e con i partners chiave (anche con lo scopo di individuare le reti di reclutamento dei c.d. “foreign fighters” e dei combattenti stranieri) ed intensificando le azioni volte a contrastare la radicalizzazione e l’estremismo violento. Tuttavia in ambito europeo c’è ancora molto da fare sul fronte delle politiche di contrasto ad un fenomeno che appare in continua evoluzione: una evoluzione che costringerà il legislatore europeo ad intervenire continuamente per adeguare gli strumenti di prevenzione e repressione al fine di garantire, nel rispetto dei diritti umani e delle norme del Diritto Internazionale, la sicurezza dei cittadini e degli Stati membri.
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[1] Per approfondimenti vedasi Polidori Claudio Maria in “Terrorismo e neoterrorismo. Aspetti giuridici e geopolitica”, articolo tratto da una conferenza tenuta presso l’Istituto di Studi Militari Marittimi, l’Accademia Militare di Modena e la Scuola di Guerra dell’Esercito in Civitavecchia, consultabile “on line” in https://www.difesa.it/InformazioniDellaDifesa/periodico/IlPeriodico_AnniPrecedenti/Documents/Terrorismo_e_neoterrorismo_A_408geopolitica.pdf.
[2] Bassu Carla, Terrorismo e costituzionalismo, Giappichelli, Torino 2010, p. 31.
[3] Vedasi Quadarella Sanfelice di Monteforte Laura, Il terrorismo internazionale come crimine contro l’umanità- da crimine a rilevanza internazionale a crimine internazionale dell’individuo, Editoriale Scientifica, Napoli, 2006, Cap. 1, § 1.
[4] Bradanini Alberto, Aspetti politici e legali della lotta al terrorismo, in Francesco Cappè-Francesco Marelli-Angelo Zappalà (a cura di), La minaccia del terrorismo e le risposte dell’antiterrorismo, FrancoAngeli, Milano, 2006, p. 130.
[5] Fotia Diana, Terrorismo… per non addetti ai lavori, Nuova Cultura, Roma, 2012, p. 72.
[6] Così Iacovelli Paolo nell’articolo Terrorismo nella storia, origini ed evoluzione, consultabile in http//www.cercasiunfine.it/meditando/articoli-cuf/terrorismo-nella-storia-origini-ed-evoluzione-di-paolo iacovelli.
[7] Così Laqueur Walter, Il nuovo terrorismo, Edizioni Corbaccio s.r.l., Milano, 2002. Nella sua premessa, scritta subito dopo i tragici eventi dell’11 settembre 2001, Laqueur ricorda come già nel 1999, a conclusione dell’analisi condotta sul terrorismo, avesse tratto la convinzione che il genere umano stesse per entrare in una fase nuova e molto pericolosa della sua storia, caratterizzata da una trasformazione radicale del fenomeno e delle sue potenzialità distruttive, a causa dell’emergere di nuovi tipi di violenza terroristica, alcuni basati su motivazioni ecologiche e semireligiose, altri fondamentalmente criminali nel carattere ed altri ancora mescolanza di queste ed altre influenze. La maggiore pericolosità di impatto scaturirebbe poi, nell’analisi di Laqueur, dall’agevole accesso alle armi di distruzione di massa e dalla saldatura con il fanatismo religioso. Secondo Laqueur le 150 e più definizioni elaborate nel corso degli anni sono diventate sempre più inadeguate e sono state superate dalle nuove tipologie “inventate” dalla realtà che costringono lo studioso a ricercare nuove parole per meglio descrivere un fenomeno composito ed in continua evoluzione. L’Autore ne coglie l’essenza nell’uso della violenza da parte di un gruppo per scopi politici, di solito diretta contro un governo, ma a volte diretta anche contro un altro gruppo etnico, una classe, una razza, una religione o un movimento politico. Secondo Laqueur qualunque tentativo di maggiore specificazione è destinato a fallire, per il semplice motivo che non c’è un solo terrorismo, ma tanti diversi terrorismi, così come vari sono gli aspetti in cui il terrorismo si è manifestato nella storia: in combinazione con una guerra civile o una guerriglia, ovvero nel quadro di una campagna politica; è stato condotto da gruppi religiosi e secolari, da movimenti di sinistra e di destra, dai movimenti nazionalisti ed internazionalisti e dai governi impegnati a sostenere il “terrorismo di Stato”. In certe occasioni le azioni del terrorismo hanno portato ad un mutamento politico, nel senso che hanno contribuito ad abbattere governi democratici e in certe altre hanno contribuito a scatenare guerre. La difficoltà di estrapolare dalle diverse manifestazioni del fenomeno terroristico gli aspetti ricorrenti ed uniformi induce l’autore ad affermare che le molteplici motivazioni ed i diversi orientamenti ideologici dei terroristi non consentono di tracciare un identikit del terrorista tipo, proprio perché non esiste un terrorista in sé e per sé, ma esistono solo diversi terroristi. Per approfondimenti vedasi http://www.internationalsecurityinterest.com/index.php/newspaper/opinion/488-il-nuovo-terrorismo.
[8] Per approfondimenti vedasi Quadarella Sanfelice di Monteforte Laura, Il terrorismo internazionale come crimine contro l’umanità- da crimine a rilevanza internazionale a crimine internazionale dell’individuo, Editoriale Scientifica, Napoli, 2006, Cap. 1 e 2.
[9] Si pensi al fatto che l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la Risoluzione 3034 (adottata con l’opposizione degli Stati Occidentali) nel 1972 ribadì la legittimità dei movimenti di liberazione nazionale, condannando gli atti di terrorismo statale compiuti da regimi stranieri razzisti o coloniali per privare i popoli del loro diritto di autodeterminazione e della loro indipendenza. La Risoluzione individuava le cause del terrorismo “nella miseria, nelle frustrazioni e nella disperazione, che inducono certi individui o gruppi di essi a sacrificare vite umane per tentare di apportare mutamenti radicali”.
[10] Per approfondimenti vedasi Polidori Claudio Maria in “Terrorismo e neoterrorismo. Aspetti giuridici e geopolitica”, articolo tratto da una conferenza tenuta presso l’Istituto di Studi Militari Marittimi, l’Accademia Militare di Modena e la Scuola di Guerra dell’Esercito in Civitavecchia, consultabile “on line” in https://www.difesa.it/InformazioniDellaDifesa/periodico/IlPeriodico_AnniPrecedenti/Documents/Terrorismo_e_neoterrorismo_A_408geopolitica.pdf.
[11] Le due convenzioni internazionali di Ginevra del 1937 per la prevenzione e la repressione del terrorismo e per la costituzione di una corte penale internazionale, adottate sull’onda dell’attentato di Marsiglia commesso nel 1934 ai danni di Alessandro di Jugoslavia e del Ministro degli Affari Esteri francese Barthou (il rigetto della domanda di estradizione, formulata dalla Francia nei confronti di due complici dell’autore dell’attentato tratti in arresto in Italia, richiamò l’attenzione della Comunità internazionale sulla mancanza di strumenti giuridici idonei a contrastare un fenomeno criminale divenuto ormai privo di confini), rimasero lettera morta in quanto, benché fossero necessarie solamente tre ratifiche, non entrarono mai in vigore (furono ratificate infatti solamente dall’India). La mancata ratifica delle due Convenzioni di Ginevra fu dovuta a diversi fattori, tra cui certamente lo scoppio del secondo conflitto mondiale, i gravi incidenti che si verificarono prima dello scoppio della guerra, l’eccessiva ampiezza della definizione di terrorismo e la sussistenza in alcuni Stati di problemi di ordine costituzionale relativi alla repressione di reati commessi all’estero o alla creazione di giurisdizioni eccezionali. Fino ad oggi sono state adottate 13 Convenzioni settoriali contro il terrorismo:
- Convention on Offences and Certain Other Acts Committed on Board Aircraft, Tokyo, 14 September 1963 – Entrata in vigore il 4 dicembre 1969 -UN Doc. A/C.6/418/Corr.1, Annex II – United Nations Treaty Series, vol. 704, 219ss.;
- Convention for the Suppression of Unlawful Seizure of Aircraft, The Hague, 16 December 1970 – Entrata in vigore il 14 ottobre 1971 – UN Doc. A/C.6/418/Corr.1, Annex II – United Nations Treaty Series, vol. 860, 105ss.
- Convention for the Suppression of Unlawful Acts against the Safety of Civil Aviation, Montreal, 23 September 1971 – Entrata in vigore il 26 gennaio 1973 – UN Doc. A/C.6/418/Corr.2, Annex III – United Nations Treaty Series, vol. 974, 177ss.;
- Convention on the Prevention and Punishment of Crimes against Internationally Protected Persons, including Diplomatic Agents, New York, 14 December 1973 – Entrata in vigore il 20 febbraio 1977 – UN Doc. A/Res/28/3166 – United Nations Treaty Series, vol. 1035, 167ss.;
- International Convention against the Taking of Hostages, New York, 17 December 1979 – Entrata in vigore il 3 giugno 1983 – UN Doc. A/Res/34/146; United Nations Treaty Series, vol. 1316, 205ss.;
- Convention on the Physical Protection of Nuclear Material, Vienna, 3 March 1980 – Entrata in vigore l’8 febbraio 1987 – IAEA Doc. C/225 – United Nations Treaty Series, vol. 1456, 101ss.;
- Protocol on the Suppression of Unlawful Acts of Violence at Airports Serving International Civil Aviation, supplementary to the Convention for the Suppression of Unlawful Acts against the Safety of Civil Aviation, Montreal, 24 February 1988 – Entrato in vigore il 6 agosto 1989 – ICAO Doc. 9518; International Legal Materials, vol. 27, 627ss.;
- Convention for the Suppression of Unlawful Acts against the Safety of Maritime Navigation, Rome, 10 March 1988 – Entrata in vigore il 1 marzo 1992 – IMO Doc. Sua/Con/15 – International Legal Materials, vol. 27, 668ss.; Protocol for the Suppression of Unlawful Acts against the Safety of Fixed Platforms located on the Continental Shelf, Rome, 10 March 1988 – Entrata in vigore il 1 marzo 1992 – IMO Doc. Sua/Con/16/Rev.1 – International Legal Materials, vol. 27, 685ss.;
- Convention on the Marking of Plastic Explosive for the Purpose of Detection, Montreal, 1 March 1991 – Entrata in vigore il 21 giugno 1998 – UN Doc. S/22393/Corr.1 – International Legal Materials, vol. 30, 721ss.;
- International Convention for the Suppression of Terrorist Bombings, New York, 15 December 1997 – Entrata in vigore il 23 maggio 2001 – UN Doc. A/Res/52/164;
- International Convention for the Suppression of the Financing of Terrorism, New York, 9 December 1999 – Entrata in vigore il 10 aprile 2002 – UN Doc. A/Res/54/109;
- International Convention for the Suppression of Acts of Nuclear Terrorism, New York, 13 April 2005 – Non entrata ancora in vigore – UN Doc. A/Res/59/290
- Amendment to the Convention on the Physical Protection of Nuclear Material, Vienna, 8 July 2005 – Non entrata ancora in vigore – IAEA Doc. GOV/INF/2005/10-GC(49)/INF/6;
- Protocol of 2005 to the Convention for the Suppression of Unlawful Acts against the safety of the maritime navigation, London, 14 October 2005 – Non entrata ancora in vigore – IMO Doc. Leg/Conf./15/21;
- Protocol of 2005 to the Protocol for the Suppression of Unlawful Acts against the safety of fixed platforms located on the continental shelf, London, 14 October 2005 – Non entrata ancora in vigore – IMO Doc. Leg/Conf./15/22.
[12] Si auspica l’adozione di una convenzione globale contro il terrorismo internazionale, ma il relativo progetto si è arenato a causa di due importanti questioni da risolvere: la definizione di terrorismo internazionale e lo status delle lotte per l’autodeterminazione (in merito alle quali ci si chiede se debbano essere considerate come atti di terrorismo o di legittima belligeranza): Millar e Rosand in un rapporto sponsorizzato dalla Century Foundation hanno prospettato la costituzione, quale strumento per combattere in maniera efficace il terrorismo internazionale, di una organizzazione internazionale contro il terrorismo intesa come ente fondato su un trattato internazionale che annovera gli Stati tra i propri membri, con una sua struttura istituzionale ed un bilancio. Tale soluzione appare attualmente di difficile realizzazione in quanto il trattato dovrebbe dettare anche disposizioni di natura sostanziale (risolvendo l’annosa questione della definizione di terrorismo internazionale) e, inoltre, l’organizzazione in questione dovrebbe avere poteri (anche ispettivi da esercitare nei territori degli Stati membri, con conseguenti inevitabili limitazioni delle relative sovranità nazionali) e funzioni incisive come l’individuazione dei terroristi, la compilazione di liste nere (attualmente di competenza del “Counter Terrorism Committee”) e la predisposizione di misure che incidono sulle libertà individuali. Per approfondimenti su questo argomento vedasi Millar Alistair, Rosand Eric, Allied against Terrorism. What’s Needed to Strenghten Worlwide Commitment, A Century Foundation Report, The Century Foundation Press, New York, 2006.
[13] Le Convenzioni internazionali spesso nella formulazione delle fattispecie di reato non contengono alcun espresso riferimento ai fini terroristici, ma sono finalizzate a reprimere determinati comportamenti lesivi di interessi fondamentali per la Comunità internazionale (come per esempio nel caso della sicurezza della navigazione aerea e marittima o della sicurezza dei materiali nucleari) prescindendo dalle finalità perseguite dagli autori dei crimini. Per approfondimenti vedasi Gioia Andrea, Terrorismo internazionale, crimini di guerra e crimini contro l’umanità, in Rivista di Diritto Internazionale, Volume LXXXVII, n.1, 2004, pag. 16 e ss.
[14] Le Convenzioni settoriali tuttavia prevedono in capo agli Stati solamente degli obblighi di cooperazione, ma non hanno dato una definizione di terrorismo: non contrastano realmente il terrorismo, ma contrastano le singole modalità operative adottate dai terroristi per compiere gli attentati. Le Convenzioni settoriali contro il terrorismo disegnano uno “standard” normativo comune, che oggi caratterizza tutte le convenzioni di diritto penale internazionale, costituito da obblighi di prevenzione (in quanto demandano ai legislatori nazionali dei singoli Stati aderenti l’adozione di misure finalizzate alla prevenzione dei reati commessi per perseguire finalità terroristiche nonché, al fine di migliorare la cooperazione internazionale, l’obbligo di predisporre delle misure statali finalizzate a favorire il coordinamento delle attività amministrative nonché lo scambio di informazioni e di dati e le notificazioni e le comunicazioni degli Stati contraenti tra di loro e con le organizzazioni internazionali interessate), da obblighi di repressione (giacché prevedono l’obbligo per gli Stati aderenti di introdurre nella legislazione nazionale le fattispecie di reato previste nelle convenzioni nonché l’obbligo di estradare il presunto autore del reato o di sottoporlo a giudizio in ossequio al principio “aut dedere aut judicare”) e da obblighi accessori (come per esempio l’obbligo di adottare le misure necessarie ad assicurare la presenza del presunto autore del crimine fino al processo o all’estradizione e l’obbligo di avviare una inchiesta preliminare finalizzata alla raccolta delle prove ed all’assunzione di prove testimoniali).
[15] L’applicazione del principio “aut dedere aut judicare”, riconducibile all’espressione di Hugo Grotius “aut dedere aut punire”, fu previsto per la prima volta dalla Convenzione sulla repressione della falsificazione del denaro del 1929, ma in origine veniva applicato dalle Convenzioni di diritto penale internazionale solo ai cittadini, mentre per i non cittadini l’obbligo di giudizio in caso di rifiuto di estradizione vigeva esclusivamente quando la legislazione interna prevedeva la possibilità di giudizio per i reati commessi all’estero. Solamente dalla Convenzione settoriale del 1970 (diretta al contrasto dei dirottamenti aerei) in poi fu prevista l’applicazione del principio “aut dedere aut judicare” senza distinzioni basate sulla cittadinanza: le convenzioni internazionali in materia penale individuano tale principio come perno fondamentale del meccanismo repressivo dei crimini internazionali e transnazionali. Per approfondimenti su questo argomento vedasi Caligiuri Andrea, L’obbligo aut dedere aut judicare nel diritto internazionale, Giuffrè Editore, Milano, 2012.
[16] Per approfondimenti vedasi Caracciolo Ida, Dal diritto penale internazionale al diritto internazionale penale. Il rafforzamento delle garanzie giurisdizionali, Editoriale Scientifica, Napoli, 2000, pag. 180 e ss.
[17] Articolo 2.1 lettera b) della Convenzione Internazionale per la soppressione del finanziamento del terrorismo delle Nazioni Unite, New York, 1999.
[18] Così la Decisione 2002/475/GAI (Consiglio Giustizia e Affari Interni) la quale, oltre ad aver introdotto la definizione “comune” di reato terroristico, contiene al suo interno alcune regole volte ad uniformare le attività dirette alla prevenzione e repressione dei reati terroristici ai fini di incrementare la cooperazione tra Stati membri dell’Unione Europea. Tale provvedimento è stata attuato dall’Italia e successivamente modificato ad opera della Decisione-Quadro 2009/299/GAI.
[19] Per approfondimenti vedasi Polidori Claudio Maria in “Terrorismo e neoterrorismo. Aspetti giuridici e geopolitica”, articolo tratto da una conferenza tenuta presso l’Istituto di Studi Militari Marittimi, l’Accademia Militare di Modena e la Scuola di Guerra dell’Esercito in Civitavecchia, consultabile “on line” in https://www.difesa.it/InformazioniDellaDifesa/periodico/IlPeriodico_AnniPrecedenti/Documents/Terrorismo_e_neoterrorismo_A_408geopolitica.pdf.
[20] Per approfondimenti vedasi Palma Alessandra, Terrorismo internazionale: Risposta dello Stato italiano, 2002, consultabile in http://files.studiperlapace.it/spp_zfiles/docs/terrorismo.pdf.
[21]Per approfondimenti vedasi http://www.internationalsecurityinterest.com/index.php/newspaper/opinion/501-terrorismo-psicologia-e-media.
[22] Per approfondimenti su questo argomento vedasi Battistelli Fabrizio, La sicurezza e la sua ombra, Edizioni Donzelli, Roma, 2016.
[23] Così D’Amore Marino in https://www.infocilento.it/2017/03/25/terrorismo-psicologico-psicologia-del-terrore-parla-criminologo-marino-damore/.
[24] Barberini Roberta, La definizione di terrorismo internazionale e gli strumenti giuridici per contrastarlo, in Rivista Italiana di Intelligence, N.28 Gen.-Apr.2004.
[25] Così Barnard Paolo, Perché ci odiano, Rizzoli, Milano, 2012.
[26] Gli attentati degli ultimi anni ci insegnano che il moderno terrorista di solito non è un soggetto “anormale”, anzi sembra un individuo comune che conduce una vita ordinata, ma che è sempre pronto ad agire di sorpresa, anche sacrificando la propria vita, in ogni luogo e momento con atti e gesti che talvolta sono così improvvisi da poter essere definiti “a prevedibilità zero”. La minaccia contemporanea è rappresentata da “giovani cellule” radicalizzate ai precetti islamici: soggetti che vivono le abitudini delle “società occidentali all’ombra di un possibile risveglio. Ne sono un esempio gli attentati commessi a Londra il 3 giugno 2017 (da tre uomini – due dei quali apparentemente integrati nella società britannica – radicalizzati alla “causa del Daesh” che, a bordo di un furgoncino Renault noleggiato ad Harold Hill, hanno dapprima investito alcune persone che passeggiavano sul London Bridge per poi schiantarsi contro il Barrowboy and Banker Pub: i tre terroristi, usciti dal veicolo, hanno poi accoltellato i passanti ed aggredito i civili uccidendo complessivamente otto persone) ed il 29 novembre 2019.
[27] La figura del terrorista suicida, affermatasi in particolare in Palestina, sarebbe l’espressione emblematica dell’irrazionalità e del fanatismo terrorista. Il carattere razionale del ricorso al terrorismo suicida viene motivato argomentando che i costi umani che esso richiede sono più limitati rispetto alla guerriglia convenzionale, mentre la sua efficacia è notevolmente superiore: si tratta spesso dell’ultima risorsa a disposizione di attori deboli che operano in condizioni di totale asimmetria delle forze in campo. Per approfondimenti sul tema vedasi Sidoti Francesco (a cura di), L’investigazione come scienza, Edizioni Libreria Colacchi, L’Aquila, 2004, p. 257-262.
[28] Il terrorismo “fai da te” è un metodo, fortemente voluto da Al Awlaki da “Al Qaeda nella Penisola Arabica” che a quest’ultimo faceva capo) ed abbracciato anche da Al Zawahiri, utilizzato dai terroristi “jihadisti” per mantenere alta la tensione in Occidente: si tratta di una strategia basata sull’utilizzo di soggetti radicalizzati che vivono in Occidente da anni (o addirittura dalla nascita) che, utilizzando manuali ed istruzioni “on line”, si istruiscono, così trasformandosi in terroristi (“homegrown”) che vanno alla ricerca del martirio per colpire le società del “mondo occidentale” (infedele e corrotto) presso le quali non si sentono integrati. Per approfondimenti vedasi https://www.ilcaffegeopolitico.org/25532/lhomegrown-terrorism-e-leuropa e, ancora, Quadarella Sanfelice di Monteforte Laura, Terrorismo “fai da te”- Inspire e la propaganda online di AQAP per i giovani musulmani in Occidente, Aracne Editrice, Roma, 2013.
[29] Terrorista, in Treccani.it – Vocabolario Treccani on line, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 15 marzo 2011. http://www.treccani.it/enciclopedia/terrorismo/
[30] Il “modus operandi” adottato da Robespierre dopo la Rivoluzione Francese è l’emblema di quello che è stato definito “terrorismo di Stato”, in cui l’uso della violenza è strumentale all’esercizio del potere da parte delle autorità costituite. L’Inghilterra così definì la nemica Francia “terrorista” in quanto adottava un sistema basato sul “terrore”: dopo la caduta del regime rivoluzionario e l’esecuzione di Robespierre e dei suoi sostenitori, i termini “terrorismo” e “terrorista” furono inseriti nel supplemento del 1798 del “Dictionnaire del’Académie Française” che attribuiva al termine “terrorismo” il significato di “sistema o regime del terrore”. Per approfondimenti vedasi Mathiez Albert, Lefebvre Georges, La Rivoluzione francese, vol. II, Einaudi, Torino 1970.
[31] Per approfondimenti vedasi Laqueur Walter, Storia del Terrorismo, Rizzoli, Milano 1977.
[32] Per approfondimenti vedasi Polidori Claudio Maria, Il terrorismo internazionale negli ordinamenti giuridici dei Paesi Occidentali, Centro Militare di Studi Strategici, Roma, 2006.
[33] Il termine “terrorismo” fu usato tra il 1878 e il 1881 proprio dal gruppo denominato “Narodnaya volya” (“volontà del popolo”) attivo nella Russia zarista: questo gruppo organizzato fu il primo a definirsi “terrorista”.
[34] Per approfondimenti vedasi Polidori Claudio Maria in “Terrorismo e neoterrorismo. Aspetti giuridici e geopolitica”, articolo tratto da una conferenza tenuta presso l’Istituto di Studi Militari Marittimi, l’Accademia Militare di Modena e la Scuola di Guerra dell’Esercito in Civitavecchia, consultabile “on line” in https://www.difesa.it/InformazioniDellaDifesa/periodico/IlPeriodico_AnniPrecedenti/Documents/Terrorismo_e_neoterrorismo_A_408geopolitica.pdf.
[35] Trockij Lev, Terrorismo e comunismo, Sugar, Milano, 1964.
[36] Il primo gruppo il 22 luglio 1946 massacrò 200 persone in un attentato esplosivo contro la sede del quartier generale britannico situata nel King David Hotel di Gerusalemme; il secondo gruppo invece, due anni dopo, uccise il conte Folke Bernadotte rappresentante delle Nazioni Unite in Palestina.
[37] Così Polidori Claudio Maria nell’articolo “Terrorismo e neoterrorismo. Aspetti giuridici e geopolitica”, in https://www.difesa.it/InformazioniDellaDifesa/periodico/IlPeriodico_AnniPrecedenti/Documents/Terrorismo_e_neoterrorismo_A_408geopolitica.pdf.
[38] Così in https://it.wikipedia.org/wiki/Organisation_arm%C3%A9e_secr%C3%A8te.
[39] Per approfondimenti vedasi https://it.m.wikipedia.org/wiki/Terrorismo_in_Europa.
[40] Vedasi per approfondimenti Pisano Vittorfranco, Introduzione al Terrorismo Contemporaneo, Sallustiana, 2a edizione aggiornata, Roma, 1998.
[41] Per approfondimenti vedasi Pellicani Luciano, “L’Occidente e i suoi nemici”, Rubettino Editore, Soveria Mannelli, 2006.
[42] L’elevato numero di attentati terroristici realizzati dalle organizzazioni palestinesi contro gli aerei di linea e gli aeroporti indussero l’International Civil Aviation Organization (ICAO) a promuovere due convenzioni per la repressione degli atti illeciti contro l’aviazione civile (la prima fu approvata all’Aja il 16 dicembre 1970, la seconda a Montreal il 23 settembre 1971), successivamente integrate dal Protocollo addizionale del 24 febbraio 1988 relativo alla repressione degli atti di violenza negli aeroporti destinati all’aviazione civile internazionale. La portata del fenomeno indusse inoltre il Comitato dei Ministri della Comunità Europea ad adottare la risoluzione (74) 3 del 24 gennaio 1974 in materia di estradizione dei responsabili di atti terroristici, mentre il Consiglio d’Europa diede vita a Strasburgo, il 27 gennaio 1977, alla Convenzione europea per la repressione del terrorismo (poi resa operativa dall’Accordo di Dublino del 4 dicembre 1979). Per una maggiore sicurezza delle armi nucleari nell’ambito dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIAE) venne elaborata la Convenzione sulla protezione fisica del materiale nucleare, adottata a New York e Vienna il 3 marzo 1980 (nel 2005 ad essa si è aggiunta la Convenzione per il terrorismo nucleare, non ancora in vigore). Dopo il sequestro della nave “Achille Lauro” da parte di “Settembre Nero”, già responsabile dell’assassinio del primo ministro giordano Wasfi Fall e della strage di Monaco del 28 dicembre 1972, su impulso dell’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO) furono sottoscritti il 10 marzo 1988 una Convenzione sulla repressione degli atti illeciti contro la sicurezza della navigazione marittima ed un Protocollo relativo alle installazioni fisse sulla piattaforma continentale. Per il contrasto degli attentati attuati attraverso l’uso di esplosivi venne invece adottata, a Montreal il 1 marzo 1991, su iniziativa dell’ICAO la Convenzione sulla marcatura degli esplosivi al plastico ai fini del rilevamento; per la repressione degli atti terroristici dinamitardi è stata l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la risoluzione 52/164 del 15 dicembre 1997 ad adottare un’apposita convenzione internazionale. Finora sono state adottate 13 Convenzioni a livello settoriale su iniziativa delle Nazioni Unite o di altre organizzazioni internazionali: le ultime due convenzioni, concluse nel 2005, hanno per oggetto il terrorismo nucleare ed un protocollo di emendamento alla Convenzione sul terrorismo marittimo del 1988. Tra queste l’unica convenzione che non contrasta una specifica modalità operativa è quella di New York del 1999, entrata in vigore il 10 aprile 2002, che è stata adottata al fine di contrastare (operando ad ampio raggio) il finanziamento del terrorismo in tutte le sue forme. Altre convenzioni sono state adottate invece a livello regionale, ad esempio nel quadro del Consiglio di Europa (che – dopo l’attacco terroristico palestinese compiuto nel 1972 alle Olimpiadi di Monaco – adottò nel 1977 la Convenzione europea per la repressione del terrorismo che, pur utilizzando il termine “terrorismo” solamente nel titolo e nel preambolo senza dare alcuna definizione del fenomeno, stabilì che i reati terroristici non devono essere considerati, ai fini dell’estradizione, come reati politici) e della Lega degli Stati Arabi (che ha adottato una convenzione per la soppressione del terrorismo nel 1998 poi entrata in vigore nel 1999). Anche l’Organizzazione della Conferenza Islamica ha adottato nel luglio del 1999 una convenzione (entrata in vigore nel novembre del 2002) per il contrasto del terrorismo internazionale: l’Unione Africana sempre nel 1999 ha adottato una convenzione per la prevenzione e la lotta del terrorismo poi entrata in vigore nel 2002 (mentre non è ancora entrato in vigore il Protocollo firmato ad Addis Abbeba nel 2004).
[43] “Hamas” è uno dei più noti gruppi islamisti palestinesi, nato durante la prima intifada nel 1987, e strutturato anche come partito e organo di governo nella striscia di Gaza. Lo statuto di “Hamas” del 1988, in particolare, prevede la completa distruzione dello Stato di Israele e la creazione, al suo posto, di uno stato islamico palestinese. Il gruppo è stato classificato come “terroristico” dall’ Unione Europea, dal Canada, dagli Stati Uniti e da Israele. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea con la Sentenza T-400/10 del 17 dicembre 2014 ha decretato la cancellazione di Hamas dalla lista delle organizzazioni terroristiche sostenendo che ci fossero dei vizi di carattere procedurale, anche se ne mantiene temporaneamente in vigore gli effetti per garantire il congelamento dei beni. Ad avviso del Tribunale dell’Unione Europea, l’inserimento di “Hamas” nella lista nera delle organizzazioni terroristiche, «non avvenne infatti sulla base di giudizi giuridicamente rilevanti, ma sulla base di accuse fattuali tratte dalla stampa e da internet». Per approfondimenti vedasi Balducci Roberto, “La bomba Hamas. Storia del radicalismo islamico in Palestina”, Datanews, Roma, 2006.
[44] Si tratta di un movimento ultraconservatore di riforma religiosa sviluppatosi in seno alla comunità islamica sunnita hanbalita caratterizzato da una forma estremamente rigida di Islam basata su una interpretazione letterale del Corano. Forte rimane l’influenza del “Wahhabismo” sui movimenti militanti contemporanei arabi e islamici che si propongono di disegnare nuovi equilibri geo-strategici planetari in funzione dell’eccellenza del modello islamico, ma problematico rimane un giudizio non di parte sulla sua positività o negatività, anche se il pensiero hanbalita sembra possedere (almeno in teoria) alcuni validi strumenti metodologici per affrontare positivamente, con l’arma dialettica dell’ijtihād (ossia l’interpretazione dei testi sacri del Corano e della Sunna al fine di proporre norme giuridiche), lo spinoso e finora non compiutamente risolto problema del rapporto fra modernità e Islam. Per approfondimenti vedasi Lo Jacono Claudio, “I cosiddetti fondamentalismi islamici”, in Parolechiave, Roma, Fondazione Lelio e Lisli Basso, n. 3 (dedicato ai «Fondamentalismi») 1993, pp. 33-51.
[45] Per tale motivo la “Jihad islamica egiziana”, guidata da Salam al-Faraj, il 6 ottobre 1981 uccise il presidente Anwar el Sadat. Per approfondimenti vedasi https://it.wikipedia.org/wiki/Jihad_islamica_egiziana.
[46] La tecnica degli attentati suicidi fu utilizzata soprattutto negli anni Ottanta del secolo scorso da “Hamas” per colpire gli obiettivi israeliani e dagli “Hezbollah” contro gli occidentali durante la guerra libanese, mentre divenne una tecnica propria del terrorismo internazionale di matrice islamica (utilizzata per colpire i diversi obiettivi “occidentali”) solamente dalla seconda metà degli anni Novanta. Tuttavia tale tecnica fu utilizzata la prima volta dai terroristi palestinesi nell’attentato commesso il 30 maggio 1972 all’aeroporto di Tel Aviv, allorquando gli attentatori spararono sulla folla imbottiti di esplosivo (pronti ad esplodere nel caso in cui fossero stati colpiti dalla polizia israeliana). La tecnica degli attentati suicidi è stata utilizzata dai gruppi militanti palestinesi contro i civili e le forze dell’Ordine in Israele anche negli anni Novanta e nel corso della Seconda Intifada (Settembre 2000-Agosto 2005) provocando complessivamente dal 1989 fino al 2008 la morte di 804 persone. Vedasi sul tema https://it.m.wikipedia.org/wiki/Attentati_suicidi_palestinesi.
[47] Nel caso di specie furono utilizzate contemporaneamente due modalità operative già usate dai terroristi nei decenni precedenti: il dirottamento aereo e la tecnica dell’attacco suicidario. Per approfondimenti vedasi Wright Lawrence, “Le altissime torri. Come Al Qaeda giunse all’11 settembre”, Adelphi, Milano, 2007.
[48] Con l’espressione “Dar al-Islam” la cultura islamica identifica i territori che sono stati sottoposti all’impero politico e giuridico dell’Islam. Partendo dall’assunto che l’obiettivo dell’Islam sia l’intero pianeta, la giurisprudenza islamica suddivide il mondo in “Dar al-Islam” (casa dell’Islam) e “Dar al-harb” (dimora della guerra). Vedasi su questo argomento https://it.m.wikipedia.org/wiki/Dar_al_Islam.
[49] Di qui il doppio fronte nel quale oggi sono impegnati i fondamentalisti: contro i governi “apostati” che, pur proclamandosi musulmani, di fatto sono “corrotti e corruttori” in quanto “non osservano la Legge divina”; e contro quello che Osama bin Laden ha bollato come il Grande Miscredente: gli Stati Uniti di America, massima potenza del sistema di dominio imperialistico che i fondamentalisti vogliono radere al suolo. Quindi, la loro guerra santa – il “Jihad” – è al contempo una guerra intestina (ossia una guerra fra musulmani “che ha per posta la definizione dell’Islam”; più precisamente, una guerra scatenata dai religiosi per strappare il potere ai militari) ed una guerra internazionale condotta con l’unica arma di cui i “mujahiddin” (i combattenti della guerra santa, dominati dall’ardente desiderio di diventare “martiri della fede”) dispongono (il terrorismo globale) e con il dichiarato obiettivo di distruggere il perverso e materialista “mondo degli infedeli”. Vedasi Pellicani Luciano, “L’Occidente e i suoi nemici”, Rubettino Editore, Soveria Mannelli, 2006.
[50] Vedasi Quadarella Sanfelice di Monteforte Laura, Il terrorismo internazionale come crimine contro l’umanità- da crimine a rilevanza internazionale a crimine internazionale dell’individuo, Editoriale Scientifica, Napoli, 2006, Capp. 3 e 4.
[51] Si pensi all’attentato dinamitardo al “Word Trade Center” di Manhattan del 23 febbraio 1993 in cui rimasero uccise 5 persone con un migliaio di feriti; nell’ottobre dello stesso anno a Mogadiscio furono uccisi in un attentato 18 marines statunitensi; nel giugno del 1996 (dopo il proclama di Osama Bin Laden noto come “Dichiarazione di guerra contro gli americani” con cui venne ufficializzata la guerra contro gli Stati Uniti) un attentato esplosivo a Khobar, in Arabia Saudita, un attentato uccise 19 soldati americani; il 7 agosto 1998 l’organizzazione affiliata ad Al Qaeda nota come “Esercito di liberazione dei luoghi santi” compì un attentato contro le Ambasciate Statunitensi di Nairobi e Dar es Salam nel quale persero la vita 210 persone; nell’ottobre 2000, nello Yemen un commando suicida attaccò la USS Cole provocando la morte di 17 marinai statunitensi. Il 28 settembre 2001, pochi giorni dopo gli attacchi alle “Twin Towers” ed al Pentagono, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite adottò la Risoluzione n. 1373 con la quale fu istituito il “Counter Terrorism Committe”. Con tale risoluzione l’O.N.U., agendo in forza del capitolo VII della Carta di San Francisco relativo alle misure implicanti l’uso della forza, invitò gli Stati membri a reprimere ogni forma di finanziamento destinato al terrorismo ed a realizzare un’efficace cooperazione volta ad intensificare e velocizzare lo scambio di informazioni relative alle attività o agli spostamenti delle organizzazioni terroristiche e dei loro membri, alla falsificazione dei documenti, al traffico di armi, di esplosivi e di altre sostanze pericolose, al possesso di armi di distruzione di massa, nonché alle tecniche di comunicazione usate da tali organizzazioni. Per approfondimenti su questo argomento vedasi Polidori Claudio Maria, “Terrorismo e neoterrorismo. Aspetti giuridici e geopolitica”, articolo consultabile in https://www.difesa.it/InformazioniDellaDifesa/periodico/IlPeriodico_AnniPrecedenti/Documents/Terrorismo_e_neoterrorismo_A_408geopolitica.pdf.
[52] Bassu Carla, Terrorismo e Costituzionalismo, Giappichelli, Torino 2010, p. 24.
[53] In Mali questa organizzazione è stata, tra il 2012 ed il 2013, tra i protagonisti di un conflitto destabilizzante che ha allarmato l’Europa che, nella circostanza, ha temuto che in questo Paese potesse nascere un santuario “jihadista” con il mirino puntato verso il Vecchio Continente.
[54] I rapporti e le alleanze con altri movimenti “jihadisti” in Africa ed in Medio Oriente, e in particolare con lo Stato Islamico, rendono chiaro che questa organizzazione è parte di una minaccia assai più ampia e articolata con cui dovrà confrontarsi l’intera comunità internazionale. Per approfondimenti su questa organizzazione terroristica vedasi Smith Mike, “Boko Haram. Inside Nigeria’s unholy war”, I.B. Tauris & Co. Ltd, Londra, 2016.
[55] Vedasi per approfondimenti Pisano Vittorfranco, “Taleban Afghani: il Terrorismo ed il Radicalismo Religioso”, in esseccome (Bologna), N. 9, settembre 2001.
[56] Vedasi http://www.treccani.it/enciclopedia/talebani/
[57] Vedasi http://www.treccani.it/enciclopedia/jihadismo/
[58] Questi gruppi affiliati all’I.S. hanno assunto il nome di “province” dello Stato Islamico: tra queste, si sono particolarmente distinte per le loro attività la “provincia del Sinai”, attiva nella regione egiziana del Sinai, e le province libiche di Barqa e di Tripoli, attive nel contesto della seconda guerra civile libica
[59] Vedasi su questo argomento Napoleoni Loretta, “ISIS. Lo Stato del terrore”, Feltrinelli, Milano, 2014.
[60] Nonostante questo gruppo salafita dichiari di fondarsi sulla religione islamica sunnita, molti leader del mondo islamico hanno sostenuto l’illegittimità della proclamazione dello Stato Islamico ed il contrasto dell’ideologia di questo gruppo con la dottrina religiosa islamica. Vedasi https://it.wikipedia.org/wiki/Stato_Islamico_(organizzazione).
[61] Si tratta di un fenomeno in continua espansione anche negli Stati Uniti e nei Paesi Europei: si tratta di soggetti estremamente pericolosi (che in diversi casi sono risultati cittadini europei o statunitensi) che, dopo aver acquisito nel periodo in cui sono rimasti nelle zone teatro di guerra elevate conoscenze in ordine alle tecniche di esecuzione di atti terroristici, possono utilizzarle una volta tornati in Occidente con la finalità di preparare ed eseguire attentati, così esportando la conflittualità in forme di carattere terroristico. L’Islamic State rappresenta per questi soggetti radicalizzati solamente una tappa di una conflittualità globale in un contesto in cui si vorrebbe imporre con la forza una visione integralista dei dettami dell’Islam. Per approfondimenti vedasi http://www.treccani.it/vocabolario/foreign-fighters_(Neologismi)/.
[62] L’Islamic State, a differenza di Al Qaeda, accetta qualsiasi giovane voglia diventare un soldato del Califfato (anche se la sua condotta non ha risposto ai canoni del “puro Islam”) per andare a combattere nell’area di guerra siro-irachena o per diventare “terrorista fai da te” in nome del Califfato in cambio dell’offerta di una terra promessa (in cui si assicurano soldi, potere, casa, lavoro, armi, donne e la corretta applicazione della Legge Islamica). Per approfondimenti vedasi Quadarella Sanfelice di Monteforte Laura, Perché ci attaccano. Al Qaeda, l’Islamic State e il terrorismo «fai da te», Aracne Editrice, Roma, 2017.
[63] Il Progetto di Califfato, da realizzarsi in cinque anni, comprende oltre al Levante tutta l’Africa a nord dell’Equatore, il Caucaso, i Balcani, l’Asia Occidentale e la Spagna (mentre la Sicilia, a lungo sotto il controllo islamico, non è stata inclusa tra i territori islamici da riconquistare ed includere nel Califfato).
[64] Lo Stato Islamico, dopo la morte di Abu Bakr Al Baghdadi, ha annunciato la successione di Abu Hamzaal Al Quraishi come nuovo Califfo.
[65] Tra il 2009 ed il 2010 anche in Iran si verificò un moto di protesta noto come “Rivoluzione verde” (o “Twitter Revolution”, dal momento che le informazioni riguardanti la protesta hanno spesso raggiunto la stampa internazionale grazie alla comunicazione di singoli utenti – in gran parte giovani e giovanissimi – tramite Internet ed i “social network”, tra cui in particolare Twitter) con cui i giovani contestarono l’irregolare rielezione del presidente Mahmud Ahmadinejad: questo moto tuttavia non portò alla caduta del regime sciita in quanto venne represso dalle autorità iraniane che censurarono i siti internet, bloccarono le comunicazioni tramite telefoni cellulari e chiusero le università a Teheran. Per approfondimenti su questo argomento vedasi http://it.wikipedia.org/wiki/Proteste_post-elettorali_in_Iran_del_2009-2010.
[66] Altarozzi Giordano, “Analisi di due processi rivoluzionari: dalle rivoluzioni del 1989 alla rivoluzione dei gelsomini”, Focus, Rivista di Studi Politici – S. Pio V N: 2/2011 – Anno XXIII – Aprile/Giugno, Roma, 2011, p. 9.
[67] In Libia invece contro il regime non si sollevarono i giovani, ma le tribù con le loro milizie: si formarono infatti dei gruppi combattenti ribelli all’interno dei quali albergavano anche dei terroristi. Mentre in Tunisia ed in Egitto le rivolte nacquero da sollevazioni popolari promosse da civili (soprattutto giovani con meno di 30 anni) a cui in seguito si aggiunsero l’esercito ed i movimenti dell’Islam politico, in Libia la “Primavera Araba” fu caratterizzata da rivolte che avevano un forte “imprinting” tribale e localistico.
[68] L’espressione “youth bulge” è utilizzata per definire una situazione nella quale la quota di persone tra i quindici e i ventiquattro anni supera il venti per cento della popolazione totale, mentre quella tra zero e quattordici anni – spesso denominata “children bulge” – è superiore al trenta per cento. La teoria prevede che le società che allo stesso tempo sono caratterizzate da elevate quantità di giovani e da scarsità di risorse e, in particolare, dalla mancanza di posizioni sociali di rilievo per un surplus di giovani sono molto più predisposte a sperimentare disordini sociali e/o ad agire bellicosamente rispetto a quelle prive di questi fattori di stress demografico. Per approfondimenti sul tema vedasi Fuller Gary E., “The Demographic Backdrop to Ethnic Conflict: A Geographic Overview”, in CIA, The Challenge of Ethnic Conflict to National and International Order in the 1990s, Washington, 1995, pp. 151–154.
[69] Gli elevati tassi di disoccupazione giovanile alimentano quel malessere sociale che può trovare la propria valvola di sfogo nelle rivolte e negli atti di ribellione: in Europa (ove non c’è lo “Youth Bulge”) i tassi di disoccupazione giovanile sono simili a quelli presenti nei Paesi del Nord Africa, ma il malessere giovanile viene qui assorbito (a differenza di quanto avviene in Nord Africa) dalle famiglie che attenuano i relativi disagi (facendo fronte alle esigenze dei giovani), così creando una vera e propria rete di protezione (definita appunto familiare). Lo Youth Bulge può tuttavia, in presenza di condizioni favorevoli, anche rappresentare una opportunità: con i giusti investimenti e con il progredire della transizione demografica queste folte fasce giovanili possono diventare adulte, economicamente produttive ed assicurare il benessere della società (si tratta del fenomeno noto come «dividendo demografico» che deriva a sua volta dalla «finestra demografica d’opportunità»). Ad esempio, le economie in rapida crescita dell’Asia orientale sono state in gran parte sottoposte a momenti di “Youth Bulge” che solo successivamente hanno contribuito al buon risultato economico di quei Paesi. Per approfondimenti sul tema vedasi Weeks John Robert, Fugate Debbie, “The Youth Bulge: Challenge or Opportunity?”, International Debate Education Association, Londra, 2012 ed, ancora, Giordano Alfonso, “Nuovi centri e nuove periferie. Geografia umana e riconfigurazione del sistema mondo”, in De Vecchis Gino, Salvatori Franco (a cura di), “Geografia di un nuovo umanesimo”, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2016, pp. 89-115.
[70] In questi Stati c’era, quindi, quella che è stata definita da alcuni come “presidenza dinastica”.
[71] I Paesi arabi mediterranei presentano ancora oggi, sia pure con differenziazioni tra i singoli Stati, caratteristiche di una situazione potenzialmente esplosiva: la pressione demografica da parte di un’ampia classe giovanile mediamente istruita e ormai mediaticamente interconnessa, mercati del lavoro che non riescono ad assorbirla, sistemi politici corrotti, strutture economiche con tassi di crescita non certo brillanti, costo delle derrate alimentari scosso dalle turbolenze della globalizzazione, una generale mancanza di prospettive di cambiamento, classi demografiche più adulte che a loro volta mostrano forti segnali di sofferenza socio-economica. Tutte queste condizioni di base tra il 2010 ed il 2011 esacerbarono la questione demografica facendola divenire una delle principali motivazioni per lo scoppio delle “Primavere Arabe”. Per approfondimenti su questo argomento vedasi Longo Pietro, Scalea Daniele, “Capire le rivolte arabe. Alle origini del fenomeno rivoluzionario”, Avataréditions-IsAG, Dublino-Roma, 2011.
[72]La Libia in particolare può essere considerato uno Stato fallito: questo Paese si trova a tutt’oggi nel caos più assoluto, con una economia a pezzi, stretto nella morsa tra il premier Al Serraj ed il generale Haftar, in una situazione caratterizzata da divisioni localistiche, tribali e regionali in cui sono attivi movimenti secessionisti, gruppi islamici e milizie “filo Gheddafi”, mentre una parte del territorio è di fatto governata da forze legate allo Stato Islamico: una situazione che determina una instabilità che inevitabilmente ha dei riflessi anche su altri Paesi (come per esempio la Tunisia o, sul fronte dell’aumento dei flussi migratori, l’Italia). Mentre in Tunisia ed in Egitto c’erano dei regimi dittatoriali caratterizzati da elezioni connotate da brogli, in Libia durante il regime di Gheddafi non c’erano né elezioni né una Costituzione: non poteva nascere quindi, dopo la deposizione del Rais, un sistema democratico maturo e consolidato. Il vuoto istituzionale ha rinforzato le tribù, le milizie e le città Stato (come Misurata) che controllano varie porzioni del territorio e sono in guerra per il controllo delle risorse petrolifere.
[73] La guerra asimmetrica è un conflitto ad armi impari, non dichiarato, nel quale una delle parti è costretta a difendersi da un nemico non identificabile, trovandosi in situazione di palese svantaggio. Così in http://www.treccani.it/vocabolario/guerra-asimmetrica_%28Neologismi%29/.
[74] Per approfondimenti vedasi http:/nena-news.it/libia-lavanzata-dello-stato-islamico/
[75] L’obiettivo principale del terrorismo globale e delocalizzato esordito nel 2001 è la diffusione del terrore che ha, come effetto collaterale, la nascita nella popolazione civile di una forte percezione di quello che è stato definito “senso di pericolo incombente” di fronte a minacce ritenute imprevedibili. Vedasi sul punto http://www.reportdifesa.it/torri-gemelle-quell11-settembre-che-ha-cambiato-la-percezione-della-sicurezza/.
[76] Maslow Abraham Harold, “A Theory of Human Motivation”, Wilder Pubns Ltd, Uk, 2013.
[77] A livello individuale è la risposta a carattere neuro-ormonale, spesso chiamata “istinto”, che ci permette di fuggire da un’aggressione o di lottare per procacciare il sostentamento e tutelare la propria vita e la propria discendenza. A livello sociale è il fine ultimo di un insieme di organismi ed attività che, più o meno direttamente, sono orientate ad assicurarne uno o più dei numerosi aspetti comprendenti anche connotazioni squisitamente sanitarie.
[78] Nel campo sanitario ha storicamente prevalso il concetto di sicurezza come “safety”, associandosi ad essa i principi della prevenzione orientati a minimizzare il più possibile i rischi derivanti da ignoranza, imprudenza e negligenza umana. Per “safety” si intende l’insieme delle misure e dei dispositivi finalizzati a prevenire o ridurre gli infortuni in ambito lavorativo (si pensi per esempio ai sistemi di anticaduta dai ponteggi; protezione viso, occhi, mano, vie respiratorie; antincendio, ecc.ecc.), la “security” rappresenta invece la sicurezza come risposta al pericolo criminalità e terrorismo (si pensi ai sistemi di videosorveglianza, telecontrollo, antintrusione, antieffrazione, ecc.ecc.): in sintesi la “safety” è la sicurezza dei lavoratori, mentre la “security” è la sicurezza dei cittadini. Il campo della “security” associato ad intenzionalità lesiva è stato fino al recente passato considerato appannaggio delle attività investigative e dell’apparato “di sicurezza”. Questo approccio però non è più sufficiente nella complessa realtà attuale, dove i rischi per la salute e la sicurezza possono originare non solo da eventi accidentali scatenati dalle Forze della Natura o scaturiti da presappochismo e superficialità umani, ma anche dall’impiego intenzionale della Scienza per causare danni, anche rilevanti, a singoli o a collettività umane con finalità di terrorismo. I nuovi panorami geopolitici infatti delineano inedite e complesse minacce che riguardano la vita di tutti e di ogni giorno (inclusa la salute individuale) e che vanno tenute in conto nel nuovo processo di “risk assessment” e nel conseguente “risk management”. Per approfondimenti vedasi https://www.elettronicanews.it/safety-e-security-i-due-volti-della-sicurezza/.
[79] L’espressione “guerra al terrore” fu usata dall’amministrazione statunitense di George W. Bush per la prima volta il 20 settembre 2001: tale espressione (abbandonata solamente nel 2009 dall’amministrazione Obama) da allora fu utilizzata anche dai “media” occidentali per identificare la lotta globale di natura militare, politica, ideologica e legale sia contro le organizzazioni classificate come terroristiche (come per esempio Al Qaeda) che contro alcuni Stati accusati di sostenerle o percepiti come una minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti e dei loro alleati (come per esempio il governo talebano in Afghanistan ed il governo baathista di Saddam Hussein in Iraq). Per approfondimenti su questo argomento vedasi Jacobson Sid, Colon Ernie, 9/11 Il Dopo: La Guerra al Terrore. Tutto quello che è successo dopo l’11 Settembre, Alet Edizioni, Padova, 2008.
[80] Il 5 ottobre 2006 il controllo dell’Afghanistan passò ufficialmente da “Enduring Freedon” alla missione I.S.A.F. a guida N.A.T.O., mentre solamente dopo 13 anni (il 28 dicembre 2014) il presidente degli U.S.A. Barak Obama annunciò la fine dell’operazione. Per approfondimenti vedasi Oliva Maddalena, Fuori fuoco. L’arte della guerra e il suo racconto, Odoya, Bologna, 2008.
[81] Per approfondimenti vedasi Dambruoso Stefano, Le basi normative della lotta al terrorismo internazionale, in Francesco Cappè-Francesco Marelli-Angelo Zappalà (a cura di), La minaccia del terrorismo e le risposte dell’antiterrorismo, FrancoAngeli, Milano, 2006, p. 142-143.
[82] Così la Decisione 2002/475/GAI (Consiglio Giustizia e Affari Interni) la quale, oltre ad aver introdotto la definizione “comune” di reato terroristico, contiene al suo interno alcune regole volte ad uniformare le attività dirette alla prevenzione e repressione dei reati terroristici al fine di incrementare la cooperazione tra Stati membri dell’Unione Europea. Tale decisione si ispira alla Posizione comune (2001/931/PESC) del 27 Dicembre 2001, “Relativa all’Applicazione di Misure Specifiche per la Lotta al Terrorismo”: è stata attuata dall’Italia con la legge 69/2005. La nozione di reato terroristico adottata con questa Decisione Quadro è stata sostanzialmente recepita nel nostro ordinamento giuridico con la legge n. 155/2005 che ha inserito l’art. 270 sexies c.p. che, nel delineare le condotte con finalità di terrorismo, ripete in modo testuale i requisiti già visti all’art.1 della Decisione Quadro. L’art. 270 sexies c.p. non contiene alcuna fattispecie di reato, ma descrive le condotte che possono essere considerate con finalità di terrorismo: si tratta di una interpretazione autentica che il legislatore ha voluto fornire agli operatori del diritto in modo da ovviare anche alle oscillazioni giurisprudenziali che si erano manifestate sino a quel momento. Questa norma considera con finalità di terrorismo “le condotte che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno al Paese o ad un’organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale, nonché le altre condotte definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia”. L’ultima parte della norma contiene una c.d. “clausola di chiusura in bianco” allorquando viene fatto riferimento a convenzioni o ad altre norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia: ciò consente, senza che sia necessario alcun provvedimento legislativo, l’automatico adeguamento dell’ordinamento nazionale alle eventuali ulteriori definizioni di terrorismo che potranno essere introdotte in futuro da convenzioni internazionali vincolanti per il nostro Paese.
[83] Bonetti Paolo, Terrorismo, Emergenza e Costituzioni democratiche, Il Mulino, Bologna, 2006, pag.101.
[84] Spataro Armando, L’Unione Europea e le politiche di contrasto del terrorismo internazionale, 2011, consultabile in http://www.csm.it/, pag. 4.
[85] Il paragrafo 1 dell’art. 3 della Direttiva UE 2017/541 elenca i seguenti reati: a) attentati alla vita di una persona che possono causarne il decesso; b) attentati all’integrità fisica di una persona; c) sequestro di persona o cattura di ostaggi; d) distruzioni di vasta portata di strutture governative o pubbliche, sistemi di trasporto, infrastrutture, compresi i sistemi informatici, piattaforme fisse situate sulla piattaforma continentale ovvero di luoghi pubblici o di proprietà private che possono mettere in pericolo vite umane o causare perdite economiche considerevoli; e) sequestro di aeromobili o navi o di altri mezzi di trasporto collettivo di passeggeri o di trasporto di merci; f) fabbricazione, detenzione, acquisto, trasporto, fornitura o uso di esplosivi o armi da fuoco, comprese armi chimiche, biologiche, radiologiche o nucleari, nonché ricerca e sviluppo di armi chimiche, biologiche, radiologiche o nucleari; g) rilascio di sostanze pericolose o il cagionare incendi, inondazioni o esplosioni i cui effetti mettano in pericolo vite umane; h) manomissione o interruzione della fornitura di acqua, energia o altre risorse naturali fondamentali il cui effetto metta in pericolo vite umane; i) interferenza illecita relativamente ai sistemi, ai sensi dell’articolo 4 della Direttiva 2013/40/UE del Parlamento e del Consiglio nei casi in cui si applica l’articolo 9, paragrafo 3 o l’articolo 9, paragrafo 4, lettere b) o c), di tale direttiva e interferenza illecita relativamente ai dati, di cui all’articolo 5 di tale direttiva nei casi in cui si applica l’articolo 9, paragrafo 4, lettera c), di tale direttiva; j) minaccia di commettere uno degli atti elencati alle lettere da a) a i).
[86] Così http://www.lab-ip.net/definizione-europea-di-reato-terroristico-la-decisione-quadro- 2002475gai-e-la-nuova-direttiva-ue2017541/.
[87] Si pensi per esempio all’art. 23 della Direttiva UE 2017/541, rubricato «Diritti e libertà fondamentali», che precisa come la Direttiva non pregiudichi l’obbligo di rispettare i diritti fondamentali e i principi giuridici fondamentali sanciti dall’art. 6 del Trattato sull’Unione Europea (TUE).
[88] Mosca Carlo, La sicurezza come diritto di libertà. Teoria generale delle politiche della sicurezza, Cedam, Padova, 2012, p. 329.
[89] Si pensi per esempio alla Convenzione de L’Aja del 1970 e a quella di Montreal del 1971, promosse dall’Organizzazione internazionale per il traffico civile aereo; si pensi alla Convenzione di New York del 1973, che aveva ad oggetto il sequestro a scopo terroristico di ostaggi diplomatici e di coloro che svolgevano funzioni per conto di uno Stato, ed alla Convezione di New York del 1979 che si occupò del sequestro di ostaggi civili. La Convenzione di Roma del 1988, adottata in seguito alle tragiche vicende del dirottamento della nave Achille Lauro, ebbe ad oggetto la pirateria marittima; le Convenzioni di New York del 1997 e del 1999 ebbero ad oggetto invece, rispettivamente, gli attentati terroristici mediante l’uso di esplosivi e la repressione del finanziamento del terrorismo.
[90] In mancanza di una convenzione globale contro il terrorismo internazionale, dopo l’attacco sul suolo statunitense dell’11 settembre 2001, gli Stati Uniti reagirono militarmente attaccando l’Afghanistan e, dopo due anni, l’Iraq di Saddam Hussein nell’ambito della guerra globale al terrorismo attuata anche per “prevenire attacchi” terroristici: si parla in proposito di “Dottrina Bush”. Tuttavia se relativamente alla guerra contro l’Afghanistan (all’epoca governato dal movimento politico fondamentalista dei Talebani sostenitori di Al Qaeda) si potrebbe parlare (facendo ricorso al concetto di aggressione indiretta desumibile dalla Risoluzione 3314 dell’Assemblea Generale dell’O.N.U.) di legittima difesa connessa all’attacco armato (indiretto) sferrato da Al Qaeda (sostenuto dal governo talebano) con l’attentato alle “Torri Gemelle”, nel caso dell’attacco contro l’Iraq si è in presenza di un tipico caso di guerra preventiva e quindi di un uso della forza non ammesso dal diritto internazionale. Per approfondimenti su questo argomento vedasi Jacobson Sid, Colon Ernie, 9/11 Il Dopo: La Guerra al Terrore. Tutto quello che è successo dopo l’11 Settembre, Alet Edizioni, Padova, 2008.
[91] Si pensi per esempio al provvedimento che consentì il fermo dei sospetti terroristi per ben 28 giorni adottato in Gran Bretagna ed al provvedimento che in Francia consentì alla polizia di detenere ed interrogare, in assenza di intervento di magistrati e di avvocati, i fermati per terrorismo per 4 giorni.
[92] La risoluzione 1373 (2001) del 28 settembre 2001 costituisce il nucleo centrale del “corpus iuris” elaborato dalle Nazioni Unite, ma non contiene una definizione vera e propria di terrorismo, limitandosi nel preambolo ad affermare, con riferimento agli attacchi alle “Torri Gemelle”, che “tali atti, come ogni atto di terrorismo internazionale, costituiscono una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale”: tale omissione fu dettata proprio dalla difficoltà di concordare una definizione condivisa relativa al fenomeno del terrorismo internazionale. Con questa risoluzione è stato costituito il “Counter Terrorism Committee”(C.T.C.), composto da membri del Consiglio di Sicurezza e presieduto dal rappresentante permanente alle Nazioni Unite di uno di essi: il Comitato si avvale di un organismo tecnico di esperti denominato “Counter Terrorism Executive Directorate” (istituito con Risoluzione 1535 del 2004) che ha compiti di monitoraggio e di impulso dell’azione antiterrorismo nonché di promozione dell’assistenza istituzionale agli Stati membri che ne abbiano necessità. Da gennaio 2002 il Comitato ha iniziato l’esame dei rapporti periodici prodotti dai singoli Stati, con l’obiettivo di incentivare la ratifica delle convenzioni e l’adeguamento normativo: per favorire quest’ultimo aspetto il Comitato ha svolto un ruolo di forte supporto per gli Stati ed è stata anche istituita la “Directory of Counter –terrorism information and sources of assistance”, un “data base” consultabile “on line” nel quale sono raccolti modelli di legislazione interna e di provvedimenti di applicazione.
[93] Per approfondimenti vedasi Feola Annamaria, La lotta al terrorismo. Misure di contrasto in ambito nazionale ed internazionale, Centro Militare di Studi Strategici, Roma, 2013.
[94] Il Consiglio dell’Unione Europea con la Posizione comune 2001/93/PESC il 27 dicembre 2001 definì le organizzazioni terroristiche come “quei gruppi o quelle entità che sono state riconosciute dall’Unione Europea come controllate direttamente o indirettamente da persone che commettono, o tentano di commettere, atti terroristici, partecipano a questi o ne facilitano l’esecuzione” .
[95] Paolucci Chiara Maria, “Cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale”, Utet, Torino, 2011, p. 376.
[96] L’articolo 1 elenca infatti una serie di atti illeciti (tra i quali, attentati alla vita e all’incolumità delle persone, distruzioni di strutture pubbliche o governative, sequestri di mezzi di trasporto, ecc.), “che possono arrecare grave danno a un Paese o a un’organizzazione internazionale, quando sono commessi al fine di intimidire la popolazione, costringere i poteri pubblici a compiere o ad astenersi dal compiere un atto o destabilizzare gravemente o distruggere le strutture politico-economico-sociali di un Paese o organizzazione”.
[97] Tale elenco comprende persone e gruppi attivi sia all’interno che all’esterno dell’Unione Europea e viene riesaminato con cadenza almeno semestrale. L’elenco viene redatto sulla base di informazioni precise da cui risulti che un’Autorità Giudiziaria (o un’equivalente autorità competente) di uno degli Stati membri ha preso una decisione nei confronti della persona, gruppo o entità interessati. Questa decisione può riguardare l’apertura di indagini o di azioni penali per un atto terroristico, il tentativo di commetterlo o la sua agevolazione oppure può riguardare la condanna per uno di tali fatti. Possono essere inclusi nell’elenco anche persone, gruppi ed entità che il Consiglio di Sicurezza dell’O.N.U. ha individuato come collegati al terrorismo e contro i quali ha emesso sanzioni. Si tratta di un regime distinto dal regime U.E. di attuazione della risoluzione 1989 (2011) del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (relativa al congelamento dei capitali di persone ed entità associate a Osama Bin Laden, alla rete Al Qaeda e al movimento dei Talebani, compreso l’ISIL/Da’esh), adottato al fine di contrastare il finanziamento delle organizzazioni terroristiche. Per approfondimenti su questo argomento, con particolare riguardo alla procedura per l’inserimento nell’elenco e la cancellazione dall’elenco in questione, vedasi https://www.consilium.europa.eu/it/policies/fight–against–terrorism/terrorist–list/.
[98] Si parla in proposito di “guerra economica”. Le sanzioni economiche e finanziarie rappresentano uno strumento “asimmetrico” in quanto vengono adottate per cercare di ottenere un effetto coercitivo sulla volontà di un altro Stato o al fine di indebolirlo economicamente: non è uno strumento militare nè sono espressione di una politica commerciale, ma rappresentano uno strumento economico utilizzato per produrre vantaggi politici all’interno di un processo in cui si usa la forza per indebolire economicamente uno Stato o per modificarne un comportamento.
[99] Le sanzioni economiche e finanziarie più efficaci sono quelle adottate dalle Nazioni Unite in quanto vengono trasformate in un atto vincolante per gli Stati membri chiamati ad applicarle.
[100] Con tale provvedimento è stato inasprito il divieto dei voli ed è stato esteso nei confronti dei Talebani dell’Afghanistan il congelamento dei capitali e delle altre risorse finanziarie appartenenti a qualsiasi persona fisica o giuridica, entità od organismo segnalati dal Comitato per le sanzioni istituito dalla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite 1267/1999.
[101] Sidoti Francesco (a cura di), L’investigazione come scienza, Edizioni Libreria Colacchi, L’Aquila, 2004, p.269- 273.
[102] Cassese Antonio, Lineamenti di diritto internazionale penale, Il Mulino, 2005, p. 164.
[103] Per una analisi approfondita in merito alla Direttiva UE 2017/541 vedasi Ducoli Giulia “La lotta dell’Unione Europea al terrorismo. Un primo sguardo alla direttiva UE/2017/541”, consultabile “on line” in http://www.lalegislazionepenale.eu/wp- content/uploads/2017/07/informazioni_ducoli_2017.pdf, pag. 1 e ss..
[104] Per una approfondita analisi su queste fattispecie penali vedasi Santini Serena, “L’Unione Europea compie un nuovo passo nel cammino della lotta al terrorismo: una prima lettura della Direttiva 2017/541”, in www.penalecontemporaneo.it, 4 luglio 2017, pag. 6 e ss.
[105] Per quanto concerne la “ricezione di un addestramento”, la Direttiva obbliga gli Stati membri ad incriminare le condotte di coloro che, consapevolmente, si pongono nelle condizioni – ricevendo “informazioni per la fabbricazione o l’uso di esplosivi, armi da fuoco o altre armi o sostanze nocive o pericolose ovvero altre tecniche o metodi specifici” – di poter compiere reati di terrorismo o di contribuire alla loro commissione (compresi i “lupi solitari”). Per quanto concerne invece la giurisdizione e l’esercizio dell’azione penale relativamente al reato di addestramento, la Direttiva prevede che ciascuno Stato membro possa estendere la propria giurisdizione alla fornitura di addestramento a fini terroristici nel momento in cui lo stesso sia impartito ai suoi cittadini o residenti: ciò consente di garantire l’esercizio dell’azione penale nei confronti di chi impartisce un addestramento a fini terroristici, a prescindere dalla sua cittadinanza, proprio in considerazione dei possibili effetti di tali condotte nel territorio dell’Unione Europea e della stretta connessione materiale tra i reati di impartire e ricevere addestramento a fini terroristici.
[106] Gli artt. 9 e 10 invece hanno come evidente obiettivo quello di contrastare il fenomeno dei c.d. “foreign fighters”, prevedendo, da un lato, la punibilità dell’atto di recarsi in uno Stato membro o in un Paese terzo al fine di commettere o di contribuire alla commissione di un reato di terrorismo o di partecipare consapevolmente alle attività di un gruppo terroristico o di impartire o ricevere un addestramento a fini terroristici e, dall’altro, l’introduzione delle condotte di organizzazione o agevolazione di tali viaggi.
[107] L’art. 11 impone agli Stati membri di rendere punibili le condotte di coloro che finanziano il terrorismo e, nello specifico, prevede l’obbligo per gli Stati membri di rendere punibili come reato la fornitura o la raccolta di capitali con l’intenzione – o nella consapevolezza – che tali capitali saranno utilizzati per commettere o contribuire alla commissione di uno dei reati di cui agli articoli da 3 a 10 della Direttiva.
[108] La Direttiva prevede una particolare disciplina per le persone giuridiche, che possono essere ritenute responsabili della commissione di tutti i reati previsti da tale provvedimento (siano essi compiuti da un soggetto a titolo individuale o in quanto membro di un organo della persona giuridica stessa): la responsabilità della persona giuridica non può in nessun caso essere fatta valere in alternativa a quella delle persone fisiche. Sono inoltre previste una serie di sanzioni particolari per le persone giuridiche.
[109] Nel caso in cui non fosse possibile procedere alla rimozione, la Direttiva autorizza gli Stati ad adottare le misure per bloccare l’accesso a tali contenuti agli utenti di internet sul loro territorio: le misure relative alla rimozione ed al blocco devono essere stabilite secondo procedure trasparenti e devono essere attuate nel rispetto di idonee garanzie (al fine di assicurare che tali provvedimenti siano limitati allo stretto necessario e proporzionati e che gli utenti siano informati del motivo di tali misure) come per esempio la possibilità di ricorrere per via giudiziaria.
[110] Cosi Ducoli Giulia, “La lotta dell’Unione Europea al terrorismo. Un primo sguardo alla direttiva UE/2017/541”, in http://www.lalegislazionepenale.eu/wp-content/uploads/2017/07/informazioni_ducoli_2017, pag. 11-13.
[111] Gli Stati membri devono inoltre garantire alle vittime le cure mediche adeguate nell’ambito dei loro sistemi sanitari nazionali e, conformemente a quanto già previsto dalla Direttiva 2012/29/UE, l’accesso al gratuito patrocinio alle vittime che rivestono il ruolo di parte del procedimento penale.
[112] L’art. 83 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (T.F.U.E.) consente al Parlamento Europeo ed al Consiglio di dettare “…norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni in sfere di criminalità particolarmente gravi che presentano una dimensione transnazionale derivante dal carattere o dalle implicazioni di tali reati o da una particolare necessità di combatterli su basi comuni” (tra cui è compreso il terrorismo), mentre l’art. 82, paragrafo 2, lettera c) del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (T.F.U.E.) consente al Parlamento Europeo ed al Consiglio di prescrivere norme minime sui diritti da garantire alle vittime.
[113] Così http://www.lab-ip.net/definizione-europea-di-reato-terroristico-la-decisione-quadro- 2002475gai-e-la-nuova-direttiva-ue2017541/.
[114] Il 19 settembre 2007 Gilles de Kerchove è stato nominato coordinatore antiterrorismo da Javier Solana, che all’epoca svolgeva l’incarico di Alto rappresentante dell’Unione Europea per la politica estera e di sicurezza comune.
[115] Così https://www.consilium.europa.eu/it/policies/fight-against-terrorism/counter-terrorism-coordinator/.
[116] Le sfide elencate nel documento sono:
– La necessità di mettere a frutto l’esperienza nel contrastare la radicalizzazione e il reclutamento;
– La necessità di migliorare la sicurezza dei trasporti;
– Il bisogno di creare migliori collegamenti tra le Forze dell’Ordine, la ricerca e la tecnologia, e l’industria;
– La determinazione del modo più corretto per stabilire una politica europea per il registro dei nomi dei passeggeri;
– Una proposta di legge per un regime omnicomprensivo per raccogliere prove su atti criminali;
– Un miglioramento della gestione delle crisi e dei disastri;
– Accordi ampi di attuazione della clausola di solidarietà (Art. 222 del TFUE), con l’istituzione di un meccanismo obbligatorio;
– L’aderenza di ogni legislazione, sia quella UE sia quella degli Stati membri, alla Carta dei Diritti Fondamentali;
– Un partenariato migliore con altri attori, specie gli Stati Uniti;
– La costituzione di un Fondo Interno per la Sicurezza.
[117] Si pensi alla Direttiva UE 2017/541 del Parlamento europeo e del Consiglio sulla lotta al terrorismo adottata il 15 marzo 2017 che ha sostituito la Decisione 2002/475/GAI, rafforzando il quadro giuridico dell’Unione Europea per prevenire gli attentati terroristici e affrontare il fenomeno dei combattenti terroristi stranieri. La direttiva qualifica come reato azioni quali l’addestramento e i viaggi per scopi terroristici, l’organizzazione o l’agevolazione di tali viaggi e la fornitura o la raccolta di fondi connessi ad attività o gruppi terroristici.
[118] Nel 2017 il Consiglio ha adottato un regolamento che modifica il codice frontiere Schengen al fine di rafforzare le verifiche nelle banche dati pertinenti alle frontiere esterne. La modifica obbliga gli Stati membri a effettuare verifiche sistematiche nelle banche dati pertinenti per tutte le persone che attraversano le frontiere esterne.
[119] Il 25 aprile 2017 il Consiglio ha adottato una direttiva relativa al controllo dell’acquisizione e della detenzione di armi, che mira a migliorare la normativa vigente a seguito degli ultimi attentati terroristici avvenuti in Europa. La direttiva contiene misure volte a migliorare la tracciabilità delle armi da fuoco e prevenirne la riattivazione o la conversione. Sono inoltre state introdotte norme più severe riguardo all’acquisizione e alla detenzione delle armi da fuoco più pericolose.
[120] A settembre 2018 la Commissione Europea ha proposto nuove norme per impedire la diffusione di contenuti terroristici “on line” che prevedono anche la rimozione del contenuto entro un’ora dal ricevimento di un ordine di rimozione da parte delle autorità nazionali competenti. Il 6 dicembre 2018 il Consiglio ha approvato la sua posizione negoziale sulla proposta di regolamento relativo alla prevenzione della diffusione di contenuti terroristici “on line”. Le norme proposte si applicano ai prestatori di servizi di “hosting” che offrono servizi nell’Unione Europea, indipendentemente dal fatto che il loro stabilimento principale sia o meno negli Stati membri. I prestatori dovranno rimuovere i contenuti terroristici o disabilitarne l’accesso entro un’ora dal ricevimento di un ordine di rimozione da parte delle autorità: se un prestatore di servizi di “hosting” non si conforma agli ordini di rimozione può essere passibile di una sanzione pecuniaria fino al 4 % del suo fatturato mondiale del precedente esercizio finanziario. In base alle nuove norme le autorità competenti possono continuare ad inviare segnalazioni ai prestatori di servizi di “hosting”, che sono valutate in via prioritaria. In caso di segnalazioni spetta al prestatore di servizi valutare se il contenuto è contrario alle proprie condizioni contrattuali e debba essere rimosso. Inoltre i prestatori di servizi dovranno rispettare determinati obblighi di diligenza al fine di prevenire la diffusione di contenuti terroristici tramite i loro servizi, che possono variare in funzione dei rischi e del livello di esposizione del servizio a contenuti terroristici: dovranno anche adottare misure proattive per affrontare la ricomparsa di contenuti che erano stati rimossi in precedenza. La cooperazione tra le autorità di contrasto e i prestatori di servizi sarà migliorata tramite l’istituzione di punti di contatto per facilitare il trattamento degli ordini di rimozione e delle segnalazioni. Spetterà agli Stati membri stabilire le norme relative alle sanzioni in caso di inosservanza della normativa. Le norme proposte garantiscono anche il rispetto dei diritti degli utilizzatori comuni e delle imprese, incluse le libertà di espressione, di informazione e di impresa. Ciò include la necessità per i prestatori di servizi di “hosting” di predisporre meccanismi efficaci che consentano agli utilizzatori il cui contenuto è stato rimosso di presentare un reclamo.
[121] Vedasi https://www.consilium.europa.eu/it/policies/fight-against-terrorism/foreign-fighters/.
[122] Così https://ec.europa.eu/italy/news/20171018_unione_sicurezza_nuove_misure_di_protezione_it.
[123] Il mandato di arresto europeo è stato voluto fortemente subito dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001. Occorre tuttavia evidenziare che la situazione emergenziale successiva all’attacco al “World Trade Center” non fu la causa della emanazione della Decisione Quadro dell’Unione Europea sul mandato di arresto europeo, ma rappresentò l’occasione, il momento giusto per “tirar fuori” un testo che era già pronto ancora prima degli attentati alle “Torri Gemelle”: quindi le motivazioni addotte in quel momento (quali la lotta al terrorismo ed alla criminalità organizzata) furono motivazioni in un certo senso “pretestuose”. Così Bonetti Paolo, Terrorismo, Emergenza e Costituzioni democratiche, Il Mulino, Bologna, 2006, pag.108.
[124] La Decisione Quadro del 13 giugno 2002 è stata recepita in Italia con la legge 12 aprile 2005 n. 69, recante appunto “disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI relativa al mandato di arresto europeo e alle procedure di consegna fra gli Stati membri”.
[125] Per approfondimenti vedasi Masarone Valentina, Politica criminale e diritto penale nel contrasto al terrorismo internazionale. Tra normativa interna, europea ed internazionale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2013.
[126] Con tale principio si fa riferimento al fatto che il delitto per cui si intende procedere deve essere previsto come reato anche all’interno della legislazione penale dello Stato richiesto, poiché in caso contrario sarà considerato legittimo il rifiuto della consegna del ricercato.
[127] Così Tonini Paolo, Manuale di procedura penale, Giuffrè Editore, Milano, 2012, pag. 1009.
[128] Per ulteriori approfondimenti vedasi Della Monica Giuseppe, Il mandato di arresto europeo , Giappichelli Editore, Torino, 2012.
[129] Il mandato di arresto propone un buon equilibrio tra efficacia e garanzie rigorose quanto al rispetto dei diritti fondamentali della persona arrestata: gli Stati membri ed i giudici nazionali sono tenuti a rispettare i diritti processuali di indagati o imputati e le disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La persona arrestata sulla base di un mandato d’arresto ha il diritto di essere assistita da un avvocato e, se necessario, da un interprete, conformemente a quanto previsto dalla legislazione del paese in cui ha avuto luogo l’arresto.
[130] Così Bonetti Paolo, Terrorismo, Emergenza e Costituzioni democratiche, Il Mulino, Bologna, 2006, pag.110.
[131] Spataro Armando, L’Unione Europea e le politiche di contrasto del terrorismo internazionale, 2011, consultabile in http://www.csm.it/.
[132] Saccone Antonio, La raccolta e l’utilizzo delle informazioni nella lotta al terrorismo, Francesco Cappè-Francesco Marelli-Angelo Zappalà (a cura di), La minaccia del terrorismo e le risposte dell’antiterrorismo, FrancoAngeli, Milano, 2006, pag. 175.
[133] è stata anche istituita un’Autorità comune di controllo, indipendente, che ha il compito di vigilare sulle attività di Europol al fine di garantire che la memorizzazione, il trattamento e l’impiego dei dati in suo possesso non ledano i diritti delle persone interessate.
[134] Così Tonini Paolo, Manuale di procedura penale, Giuffrè Editore, Milano, 2012, pag. 1004.
[135] Per approfondimenti vedasi https:// it.m.wikipedia.org/wiki/Europol.
[136] Così Spiezia Filippo, I cambiamenti in corso nello spazio europeo di libertà sicurezza e giustizia: Quale futuro per Eurojust?, in http://www.penalecontemporaneo.it/, pag. 2.
[137] Si tratta di reati gravi come il terrorismo, il traffico illecito di stupefacenti, la tratta di esseri umani, le reti di immigrazione clandestina, il traffico illecito di materie radioattive e nucleari, il traffico illecito di autoveicoli, la falsificazione dell’euro, il riciclaggio dei proventi di attività criminali internazionali.
[138] Eurojust agisce tramite il Collegio nelle ipotesi in cui uno o più membri nazionali interessati a un caso trattato dall’Eurojust ne facciano richiesta; in quelle relative ad indagini ed azioni penali che abbiano un’incidenza sul piano dell’Unione o che possano interessare Stati membri diversi da quelli direttamente implicati; nelle ipotesi previste da altre disposizioni della decisione istitutiva di Eurojust; nei casi in cui si pone una questione generale riguardante la realizzazione dei suoi obiettivi.
[139] Per approfondimenti vedasi http://www.treccani.it/enciclopedia/eurojust_(Diritto-on-line)/.
[140] Nell’ambito di indagini e azioni penali concernenti almeno due Stati membri e relative ai comportamenti criminali, in ordine a forme gravi di criminalità, soprattutto se organizzata, gli obiettivi assegnati all’Eurojust sono i seguenti (artt. 6 e 7 della Decisione istitutiva):
- stimolare e migliorare il coordinamento, tra le autorità nazionali competenti degli Stati membri, delle indagini e delle azioni penali tra gli stessi, tenendo conto di qualsiasi richiesta formulata da un’autorità competente di uno Stato membro e di qualsiasi informazione fornita da un organo competente in virtù di disposizioni adottate nell’ambito dei trattati;
- migliorare la cooperazione tra le autorità competenti degli Stati membri, in particolare agevolando la prestazione dell’assistenza giudiziaria internazionale e l’esecuzione delle richieste di estradizione;
- assistere altrimenti le autorità competenti degli Stati membri per migliorare l’efficacia delle loro indagini e azioni penali.
Su richiesta dell’autorità competente di uno Stato membro, Eurojust può inoltre fornire sostegno anche qualora le indagini e le azioni penali interessino unicamente lo Stato membro in questione e un paese terzo, se con tale paese è stato concluso un accordo che instaura una cooperazione o se tale sostegno, in un caso particolare, rivesta un interesse essenziale. Su richiesta dell’autorità competente di uno Stato membro o della Commissione, l’Eurojust può fornire sostegno anche qualora le indagini e le azioni penali interessino unicamente lo Stato membro in questione e la Comunità. Per approfondimenti vedasi https://it.m.wikipedia.org/wiki/Eurojust.
[141] Così Parisi Nicoletta, La procura europea: un tassello per lo spazio europeo di giustizia penale, in Ennio Triggiani- Ugo Villani (a cura di), Studi sull‘integrazione europea, Cacucci Editore, Bari, 2013, pag. 65.
[142] Così Spataro Armando, L’Unione Europea e le politiche di contrasto del terrorismo internazionale, 2011, consultabile in http://www.csm.it/.
[143] Alcune convenzioni internazionali (come quella di Strasburgo dell’8 novembre1990 sul riciclaggio, quella di Bruxelles del 29 maggio 2000, tra gli Stati membri dell’Unione Europea, in tema di assistenza giudiziaria e quella di Palermo del dicembre del 2000 sul crimine organizzato transnazionale) prevedono espressamente che lo scambio di informazioni tra gli Stati aderenti debba essere istantaneo e spontaneo.
[144] Macrillò Armando, Eurojust e l’attuazione degli accordi Onu contro il crimine organizzato transnazionale, Leonardo Filippi-Piero Gualtieri-Paolo Moscarini-Adolfo Scalfati (a cura di), La circolazione investigativa nello spazio giuridico europeo: Strumenti, Soggetti, Risultati, Cedam, Padova, 2010, pag. 59.
[145] Per “aquis di Schengen” si intende ossia l’insieme di norme e disposzioni, integrate nel diritto dell’Unione Europea, volte a favorire la libera circolazione dei cittadini all’interno dello Spazio Schengen, regolando i rapporti tra gli Stati che hanno siglato la Convenzione di Schengen.
[146] Il sistema è stato ideato per migliorare la cooperazione ed il coordinamento fra i servizi di polizia e le autorità giudiziarie al fine di preservare la sicurezza interna degli Stati membri e nel contempo lottare in maniera efficace contro qualsiasi forma dei criminalità organizzata o organizzazione di matrice terroristica. Il sistema, oltre a fornire informazioni su persone e oggetti, fornisce anche istruzioni su cosa fare nel caso le forze di sciurezza trovino la persona o l’oggetto segnalato. Per approfondimenti vedasi Fucà Romina (a cura di), Schengen e il cross-border nell’Unione Europea. Sistemi territoriali e di sicurezza, Aracne Editrice, Roma, 2019.
[147] Cosi Ducoli Giulia, “La lotta dell’Unione Europea al terrorismo. Un primo sguardo alla direttiva UE/2017/541”, in http://www.lalegislazionepenale.eu/wp-content/uploads/2017/07/informazioni_ducoli_2017.
[148] http://www.servizisegreti.com/2015/01/servizi-segreti–una-intelligence-europea/7094
[149] Per approfondimenti vedasi Marino D’Amore in una intervista pubblicata il 27 luglio 2016 consultabile “on line” in https://www.agi.it/ cronaca/terrorismo_damore_ludes_university_intelligence_europea_utopia-969497/news/2016-07-27/.
[150] Così https://www.consilium.europa.eu/it/policies/fight-against-terrorism/foreign-fighters