Oggigiorno, quando si parla di Stato Islamico non si può che pensare al crescente problema dei foreign fighters, combattenti con passaporti occidentali che dopo essersi uniti al gruppo terrorista ed aver combattuto tra le sue fila, ritornano in patria per portare avanti il loro messaggio radicale e violento. Tuttavia, il problema va ben oltre queste figure e riguarda anche i cosiddetti homegrown terrorists, ovvero i terroristi che si radicalizzano direttamente all’interno dei paesi occidentali d’origine, senza aver necessariamente preso parte alla battaglia in Siria.
Nel suo libro Jihad and Death, Olivier Roy si domanda quale sia il vero appeal dello Stato Islamico e come faccia esso ad attrarre un numero crescente di volontari, supporters, e convertiti. In particolar modo, l’autore si sofferma sugli sviluppi degli attacchi terroristici degli ultimi vent’anni cercando di capire cosa dicano questi cambiamenti del radicalismo islamico.
Sebbene vi sia una vera e propria tentazione di vedere nell’Islam un’ideologia radicale che mobilita i Musulmani, la verità, secondo Roy, va ben oltre una simile semplificazione. Attraverso il suo studio dei principali attacchi avvenuti in Francia ed in Belgio (ma anche in Olanda e Germania) negli ultimi vent’anni, Roy sostiene in modo estremamente convincente che abbiamo davanti una seconda generazione della jihad, la quale coinvolge prevalentemente giovani Musulmani occidentalizzati, i quali non hanno nessun contatto o legame con il paese di origine e la cultura religiosa dei propri genitori. Al contrario, essi rigettano l’autorità e l’Islam dei propri genitori in quanto, secondo loro, rappresentano delle umilianti concessioni alla società che loro tanto disprezzano.
Le caratteristiche di questa “gioventù radicale” sono molto simili e difficilmente variano da un paese occidentale all’altro nel periodo analizzato. In particolar modo, sebbene Roy sottolinei come non vi sia un profilo standard del terrorista, vi sono le seguenti caratteristiche comuni: si tratta prevalentemente di immigrati di seconda generazione, inizialmente molto ben integrati all’interno del paese. Essi conducono una vita secolare, spesso prendono parte a piccoli crimini e si macchiano di reati minori, vengono radicalizzati durante la loro permanenza in prigione, escogitano e portano a termine un attacco terrorista in cui è prevista anche la loro morte. Anche i target sono sempre gli stessi: aree e trasporti pubblici.
Difficilmente si riesce a trovare qualsivoglia correlazione o indicatore socioeconomico o psicologico che ci permettano di capire le motivazioni di questi giovani. Infatti, dai casi analizzati traspare come non vi sia alcun profilo sociale ed economico tipici, nemmeno una comune psicopatologia. Tuttavia, secondo Roy, la radicalizzazione negli ultimi vent’anni è la chiave che permette di comprendere meglio un vero e proprio cambiamento generazionale.
Il fulcro della tesi di Roy risiede nella scelta consapevole nonché nel desiderio di questi giovani di morire. In particolar modo, la deliberata ricerca e aspirazione alla morte è un nuovo tipo di violenza radicale che attecchisce soprattutto tra i più giovani, i quali sono soggetti ad un vero e proprio fenomeno di deculturazione e ricostruzione religiosa che non ha nulla a che vedere con la storia del pensiero islamico, in quanto inneggia ad un Islam fatto di combattenti, sangue e resistenza. Secondo Roy, non siamo di fronte alla radicalizzazione dell’Islam, bensì all’islamizzazione del radicalismo. Infatti, la narrativa propinata dallo Stato Islamico si basa sul mito della ricostituzione del Califfato all’interno di una moderna cornice di eroismo e nichilismo, dove ciò che conquista le menti ed i cuori dei giovani è la pura idea di rivolta, di essere degli eroi all’interno di uno scenario apocalittico in cui sacrificare la propria vita per assicurare a se stessi la gloria eterna e la salvezza ai propri familiari. La loro conoscenza dei sacri testi è pressoché nulla, ed essi si interessano all’Islam globale, non a specifici conflitti. Inoltre, essi non cercano di integrarsi all’interno del paese in cui combattono, ma preferiscono un mondo ideale a quello reale.
In conclusione, i jihadisti radicali di oggi non sono giovani che hanno frainteso le sacre scritture, ma ribelli con scarse conoscenze teologiche che scelgono il radicalismo e lo plasmano attraverso un paradigma islamico, per renderlo moralmente giusto ed affascinante. Per rendere, cioè, se stessi degli eroi in un mondo – a loro parare – ormai giunto alla fine. Mentre, dietro le quinte, i vertici che manipolano tali narrative rimangono vivi ed operativi