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LA GUERRA RUSSO-UCRAINA:
Le prime lezioni strategiche
Amm. Sq. Ferdinando SANFELICE di MONTEFORTE
L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, iniziata il 24 febbraio 2022, invece di essere un blitz, come sperato dal governo di Mosca, è diventata sorprendentemente una guerra di attrito, in cui quello tra i due contendenti che sarà logorato maggiormente è destinato a crollare, anche se questo esito non appare ancora vicino. Dopo sette mesi di una guerra la cui violenza ricorda a tratti quella della Seconda Guerra Mondiale, è lecito fare alcune considerazioni di carattere strategico, indipendenti quindi dal sentire politico di chi legge.
Infatti, questo dramma, che oggi sembra senza fine, ha messo in luce, anzitutto, un insieme di manchevolezze tecniche e – fatto ancor più sorprendente – una inattesa povertà concettuale in campo russo, malgrado il fatto che la scuola di pensiero strategico russo fosse stata per un secolo e mezzo un riferimento per tutti gli studiosi di Strategia.
Ma mentre vedremo cosa è mancato nel campo degli invasori, esamineremo anche gli errori commessi dal campo opposto. “Se Messenia piange, Sparta non ride”, scriveva Vincenzo Monti nel suo Aristodemo, e quindi non si può negare che anche la controparte ucraina abbia commesso o stia commettendo, a sua volta, errori, anche gravi, il cui esame sarà altrettanto proficuo.
Prima di continuare, però, è necessario precisare cosa si intenda quando si parla di analizzare un conflitto sotto il profilo strategico, anziché politico. La Strategia, metà arte e metà scienza empirica, serve per vedere quale approccio si riveli efficace, e in quali situazioni. Non vi è quindi una valutazione di ciò che sia giusto, sbagliato o addirittura criminale, ma semplicemente di cosa è stato un fattore di successo, di cosa andato storto e perché.
Innanzi tutto, parlando degli Ucraini va considerata un’affermazione di Clausewitz, il quale sosteneva che, “poiché è più facile conservare che guadagnare, ne consegue che, a parità di mezzi, la difensiva è più facile dell’attacco, cioè la difesa è la più forte delle due forme di guerra”[1]. Anche i difensori, però, sbagliano, e i loro errori vanno esaminati a fondo, pur essendo questi ultimi meno appariscenti di quelli commessi da colui che attacca.
In definitiva, se è vero che in guerra vince chi commette meno errori, è altrettanto vero che proprio dall’esame di questi errori strategici si possono ricavare lezioni valide come ammaestramento per il futuro. E questa analisi, per i terzi che soffrono molto meno, perché non direttamente coinvolti nella guerra, è un’attività che produce benefici a costo zero, almeno in termini di vite umane.
Lo studio degli errori è sempre stato raccomandato dagli studiosi di Strategia. Diceva, ad esempio, Mahan, che “la sconfitta grida ad alta voce perché pretende spiegazioni; mentre il successo, come la carità, copre un gran numero di peccati”[2]. Così facendo, infatti, si evita di ripetere sempre gli stessi sbagli, compromettendo, per mancanza di cultura strategica, le iniziative che si intende perseguire.
Al momento, com’è inevitabile, non si sa tutto su questo conflitto all’ultimo sangue, anzi! Quello che è emerso finora, comunque, consente di ricavare alcune lezioni da ritenere, quanto meno a livello preliminare.
Anche se questa analisi è basata soprattutto sulle cosiddette “fonti aperte”, come i giornali, la televisione e i social media, la loro pervasività ci consente la raccolta con pazienza di informazioni e il loro confronto, permettendoci così di costruirci un quadro abbastanza esauriente della situazione.
La giustificazione ufficiale dell’invasione
Diceva Jomini, nel 1855, che “la guerra d’invasione, senza motivi plausibili, è un attentato contro l’umanità, è [roba da] Gengis Khan, ma quando essa può essere giustificata da un grande interesse e da una motivazione lodevole, essa è suscettibile di essere scusata, se non addirittura approvata”[3]. Mai come oggi questa affermazione si è rivelata profetica, data la reazione negativa di gran parte delle opinioni pubbliche mondiali all’invasione dell’Ucraina. Ma cerchiamo di capire meglio cosa Jomini intendesse, quando ha scritto questa frase.
Per “approvazione”, innanzi tutto, ci si riferisce a due aspetti: il primo tocca le opinioni pubbliche dei Paesi terzi, la cui eventuale contrarietà può spingere i rispettivi governi a sostenere la Nazione invasa, fino al punto – in alcuni casi della Storia – di scendere in guerra; il secondo, invece, riguarda la popolazione del Paese invasore, senza il cui sostegno questo tipo di impresa è destinato a fallire miseramente.
Va detto che quest’ultimo tipo di approvazione è tendenzialmente legato all’andamento delle operazioni di invasione. Quindi, se questa sarà coronata da un rapido successo, la maggior parte della popolazione del Paese invasore mostrerà appieno il proprio favore mentre, in mancanza di risultati, questo sentimento collettivo è destinato a evaporare come neve al sole: quanto accaduto negli Stati Uniti, la cui popolazione, dopo anni di stallo, si oppose fortemente alla prosecuzione della guerra del Vietnam, ne è un esempio illuminante.
Tornando al primo aspetto, quello dell’eventuale approvazione dei Paesi terzi, al di là della propaganda a favore, di quella contraria o infine di quella propria di coloro che desiderano un accomodamento, qualsiasi esso sia, le opinioni pubbliche di questi Paesi la concedono solo in determinate circostanze, sulla base non solo dei loro principi e valori etici, ma anche di dati di fatto oggettivi e incontrovertibili.
Un gradino al di sotto dell’approvazione c’è la sopportazione. Alcune azioni altrui ci possono dare fastidio, in quanto vanno contro i valori in cui crediamo, oppure ledono i nostri interessi. Ma, se il danno non è grave, tendiamo a chiudere gli occhi e far finta di niente, a parte qualche mugugno.
Quando però le azioni dello stesso tipo si susseguono, sommandosi le une alle altre, a un certo punto viene superata la “soglia di tolleranza” e la reazione diventa ancora più viva.
Per fare un esempio recente, l’invasione delle regioni georgiane separatiste dell’Abkazia e dell’Ossezia meridionale del 2008, da parte dell’Esercito russo, pur con alcune eccezioni, è stata più o meno accettata dall’opinione pubblica mondiale, trattandosi di una regione abitata quasi esclusivamente da Russi, malgrado questo atto fosse una patente violazione della Carta dell’ONU, che all’Articolo 2, 4° comma, stabilisce che “tutti i [Paesi] membri dovranno astenersi, nei rapporti internazionali, dalla minaccia o dall’uso della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di ogni Stato, o in ogni altro modo in contrasto con i fini delle Nazioni Unite”[4].
L’Unione Europea, dopo un momento di comprensibile disagio, specie quando i carri armati russi erano arrivati alla periferia della capitale Tbilisi, mise di mezzo i propri buoni uffici, fornendo le forze necessarie per monitorare l’armistizio, inquadrandole nella European Union Monitoring Mission – Georgia (EUMM), che collabora con le altre Organizzazioni Internazionali per prevenire il riaccendersi del conflitto, con buona pace delle migliaia di rifugiati di quelle due regioni, costretti a vivere per anni, precariamente, in una ex-base aerea sovietica (Vasiani Camp), grazie all’assistenza dell’ONU, prima di integrarsi, poco a poco, nella società georgiana.
Con il passare del tempo, i Paesi occidentali hanno, però, iniziato a sospettare che la loro acquiescenza, in quel caso, fosse stata interpretata dal governo di Mosca come un incoraggiamento a proseguire nel ripristino degli antichi confini dell’ex Unione Sovietica, invadendo i Paesi limitrofi, a dispetto delle loro sovranità nazionali.
Questo sospetto fu avvalorato quando, nel 2014, le Forze Armate russe invasero la Crimea e sostennero la rivolta indipendentista delle regioni orientali ucraine, in prevalenza russofone, in risposta alla cosiddetta “rivoluzione di Maidan” del precedente febbraio. Questa sommossa, infatti, era stata la causa della caduta del governo filorusso e del rifiuto di concessioni alle componenti russofone della popolazione, che volevano godere di maggiore autonomia.
Anche questa volta, gli Europei, tramite l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) si fecero parte dirigente per un accordo di pace, firmato dalle parti in causa a Minsk l’anno successivo, pur non riuscendo a convincere le parti ad accettare una propria missione di monitoraggio.
In generale, però, l’Occidente aveva disapprovato a gran voce l’invasione, tanto che l’Unione Europea, d’accordo con gli Stati Uniti, stabilì una serie di sanzioni economiche per scoraggiare quello che fu definito l’avventurismo russo. Si trattava, ancora, di sanzioni blande, segno che l’Occidente, pur contrario all’azione della Russia, ne giustificava, in parte, il diritto a riprendersi quella regione. La Crimea, infatti, le era appartenuta fino al 1956.
L’invasione dell’Ucraina ha, infine, sollevato l’indignazione più profonda nei Paesi occidentali, che vi si stanno opponendo con ogni mezzo, pur cercando di rimanere al di sotto del coinvolgimento diretto nella guerra in atto.
Tra i loro governi, infatti, è vivo il ricordo della strategia revanscista perseguita dalla Germania dopo il 1933, quando il governo di Berlino iniziò una serie di invasioni, tese a riportare le popolazioni tedesche sotto la sovranità nazionale.
Le dure clausole del Trattato di Versailles, nel 1919, avevano privato la Germania di una serie di territori abitati da Tedeschi. Dopo la Renania, infatti, ci fu l’annessione dell’Austria nel marzo 1938 e quindi l’occupazione prima dei Sudeti, in ottobre, e poi dell’intera Cecoslovacchia, l’anno successivo.
L’atteggiamento passivo delle Potenze occidentali di fronte a queste azioni è oggi generalmente ritenuto essere stata una delle cause della Seconda Guerra Mondiale: si considerò, infatti, che gli Occidentali, con la loro acquiescenza (il c.d. appeasement), avevano indirettamente incoraggiato la successiva invasione tedesca della Polonia, un Paese che aveva finalmente riconquistato, dopo secoli, la propria indipendenza solamente da un ventennio, più o meno come l’Ucraina.
Tornando ai nostri tempi, le motivazioni addotte dal Cremlino, in definitiva, non sono bastate per fugare il sospetto che Mosca volesse imitare la Germania post-Prima Guerra Mondiale, e sono state rigettate dalle opinioni pubbliche occidentali. I loro governi si sono quindi prodigati per sostenere il Paese aggredito, l’Ucraina, in nome dei principi di non aggressione delle Nazioni Unite.
Il prevalere dei fattori immateriali
Cosa appare dietro alle ragioni ufficiali, che hanno spinto il Cremlino a invadere l’Ucraina? Ascoltando le numerose interviste rilasciate da cittadini russi, in questi mesi, si può notare come vi sia un sentimento diffuso secondo il quale l’Ucraina viene considerata parte inseparabile della Russia, oltre ad essere ritenuta una componente essenziale per l’economia del Paese. Come se ciò non bastasse, il presidente Putin aveva dichiarato che gli Ucraini erano fratelli dei Russi, e che l’Ucraina non esisteva come Nazione, in quanto semplicemente una regione della Russia.
Queste dichiarazioni, però, evidenziavano una contraddizione di fondo: non si invade né si bombarda un popolo che viene ritenuto tanto vicino da essere assimilato a un fratello, e comunque va ammesso che l’amicizia è necessariamente bilaterale, a differenza dell’ostilità. Non a caso i fatti hanno presto dimostrato cosa gli Ucraini pensassero dei Russi.
Infatti, quello che era sfuggito al governo di Mosca, fino allo scoppio delle ostilità, era la determinazione della popolazione ucraina a separare la propria sorte da quella del potente vicino. Dietro a questa determinazione vi è una lunga sequenza di invasioni e di oppressioni, che il popolo ucraino ha subito, nel corso dei secoli, per mano russa, fin dai tempi del Ducato moscovita.
Non si può, in particolare, capire l’odio degli Ucraini se non si ricordano i milioni di morti per la carestia, all’inizio degli anni 1930, provocata dalla confisca della produzione cerealicola da parte del regime sovietico. In definitiva, non vi è quasi nessun cittadino dell’Ucraina un cui antenato non sia morto per fame, a causa del governo di Mosca in quegli anni.
Alla luce di questi fatti, anche se gli archivi russi non sono aperti agli studiosi, persino il “regalo della Crimea” fatto da Kruscev all’Ucraina nel 1956 appare un atto teso ad appianare una grave tensione tra Mosca e Kiev che esisteva, evidentemente, già allora.
Aver sottovalutato l’odio, un “sentimento forte” tra i più profondi e duraturi, nutrito dagli Ucraini verso coloro che considerano i loro oppressori secolari, è stato il primo grave errore commesso dagli strateghi russi.
Va ricordato, sia pure di sfuggita, che gli Ucraini non siano gli unici a nutrire odio verso Mosca: questo sentimento collettivo è diffuso in tutti gli Stati vicini alla Russia, sia in quelli che sono stati soggetti al dominio sovietico, sia in quelli che hanno fatto parte dell’ormai disciolto Patto di Varsavia. Che la Russia sia ormai circondata da una vera e propria “cortina d’odio” è un fatto troppo spesso sottovalutato dal Cremlino.
I crimini di guerra
La Storia insegna che ogni Esercito invasore, quando capisce di trovarsi in un ambiente fortemente ostile, in cui ogni abitante può operare, di nascosto o palesemente, contro di lui, è portato a commettere crimini, specie se le gerarchie non si adoperano energicamente per tenere a freno i soldati, sconvolti dall’atmosfera che sentono intorno a loro.
Le violenze, i saccheggi, gli stupri e le stragi sono, in particolare, diffusi quando le forze occupanti si trovano in una situazione di difficoltà, e constatano come ogni loro movimento sia noto al nemico, mentre loro combattono alla cieca, come Polifemo.
Questa violenza estrema, che di solito consideriamo propria delle guerre civili, si è verificata, purtroppo, anche negli ultimi due secoli, non solo negli altri continenti, ma persino nella nostra civilissima Europa. Conosciamo, per il momento, solo i crimini commessi dall’Esercito russo, ma possiamo ipotizzare anche che la controparte ucraina si sia macchiata, sia pure in misura meno evidente, di atrocità nei territori orientali, dove la popolazione è (o era) in maggioranza favorevole al governo di Mosca.
Nel recente passato, ogni strage ha portato le Nazioni Unite, sia pure a guerra finita, a istituire tribunali internazionali per punire duramente i responsabili, tanto che alcuni governi, specie quando le loro forze sono state sconfitte, sono stati ben felici di consegnare alla giustizia internazionale i leader che avevano permesso, o addirittura autorizzato, queste atrocità, in modo da far passare in secondo piano le colpe che gravano, spesso, su gran parte del loro popolo.
Si può ipotizzare che altrettanto accadrà, alla fine di questa tragedia, al governo che subentrerà nel Paese sconfitto.
Gli errori nell’approccio
Passando agli aspetti di strategia militare, il primo grave errore commesso da Mosca nell’invadere l’Ucraina è stato la decisione di perseguire un approccio già utilizzato per decenni, nei confronti dei propri vicini, in nome di quella “sovranità limitata” che era una convinzione ben radicata, fin dall’epoca degli Zar.
Se si considerano la repressione dei moti di Berlino nel 1953, l’invasione dell’Ungheria nel 1956, quella della Cecoslovacchia del 1968, della Georgia nel 2008, per non parlare della presa di Kabul del 1979, finita come sappiamo, si nota come l’Unione Sovietica piegò le rivolte di quei Paesi, perseguendo i propri fini mediante una rapida incursione di forze corazzate nel territorio del Paese da punire.
L’attacco principale era diretto all’occupazione delle capitali delle Nazioni ribelli, in modo da imprigionare i leader dei governi antisovietici e imporre regimi favorevoli all’occupante.
Apparentemente, visto che la capitale ucraina, Kiev, dista dal confine russo poco più di 200 Km, un colpo a sorpresa dello stesso tipo è sembrato al governo di Mosca un’azione facile e indolore da compiere. Ma, in strategia, la prevedibilità di un’azione la rende poco efficace, e le forze ucraine, consapevoli di tale pericolo, si erano concentrate in modo di contrastare questo tipo di aggressione, tanto che l’improvvisa invasione russa è stata fermata, sia pure a soli 20 Km. dalla capitale, anche a costo di perdere parti importanti del proprio territorio.
In questo, gli Ucraini sono stati favoriti dal fatto che, oltre a occupare Kiev, l’Esercito russo, nel sud dell’Ucraina, voleva profittare della sorpresa per occupare sufficiente terreno, in modo da creare un collegamento sicuro, via terra, tra la Crimea e le repubbliche secessioniste. Questo sovrapporsi di obiettivi divergenti – una patente violazione del principio strategico della “Concentrazione degli sforzi” – ha indebolito le forze destinate a svolgere le singole operazioni.
Oltretutto, l’aver deciso di impiegare meno di 200.000 soldati per invadere un territorio come quello ucraino, più vasto della Francia, e popolato da oltre 44 milioni di persone, era un’impresa impossibile, se non nel caso di un’acquiescenza generale da parte della popolazione invasa.
La resistenza degli Ucraini, quindi ha fatto fallire il blitz, e si è passati a una guerra d’attrito, ancor più difficile da sostenere per i Russi, che – altro errore significativo – impiegavano truppe in maggioranza di leva, storicamente ottime per difendere il territorio della Patria, ma poco adatte a invadere un’altra Nazione.
Il tentativo di integrare i soldati di leva con forze professionali, o a truppe di etnie note per la loro violenza, non ha migliorato le cose. Infatti, i professionisti combattono per guadagnarsi da vivere, non per morire in nome di un ideale, e nessuno dei capi di etnie minoritarie, come i Ceceni, può permettersi di tornare a casa con un numero eccessivo di morti in combattimento.
Le perdite umane
Se le cifre che circolano sulle perdite subite finora sono vere, sia pure solo in parte, l’Esercito russo si sta logorando in modo preoccupante. La fuga dei possibili richiamati, quando il governo di Mosca ha disposto il richiamo di 300.000 riservisti, è un segno indicativo di quanto la cosiddetta “operazione speciale” stia perdendo il favore della propria opinione pubblica, che avverte quanto alto sia il suo costo in vite umane.
Inutilmente il governo di Mosca ha cercato di occultare le perdite, non restituendo alle famiglie i corpi dei caduti e sequestrando i telefoni cellulari ai soldati. Questi ultimi, nelle loro razzie, si sono presto impadroniti dei cellulari di civili ucraini, e telefonando alle loro famiglie hanno diffuso notizie preoccupanti sull’andamento della guerra.
Il risultato è che le dimostrazioni contro la guerra, nelle regioni che hanno fornito il maggior numero di militari di leva, sono aumentate in modo significativo, anche se la repressione è stata dura. Bisogna ricordare che, anche quando un popolo viene sottomesso con la forza, e teme la repressione, può sempre ricorrere alle armi del debole, come il terrorismo e, più spesso, alla disobbedienza civile.
Lo stesso pericolo di logoramento, negli ultimi mesi, lo stanno correndo gli Ucraini, malgrado la motivazione del popolo sia maggiore: la controffensiva, come avviene sempre in questi casi, costa perdite elevate e, anche se non si sa quanto tempo servirà, il rischio che subentri anche tra gli Ucraini la c.d. “stanchezza della guerra” non è da sottovalutare.
Le opposte strategie
In questa situazione, una volta esaurito il tentativo di blitz da parte russa, cominciano a intravedersi le strategie che i due campi stanno perseguendo. Da una parte, infatti, gli Ucraini si sono concentrati nel causare perdite umane e nel distruggere i mezzi avversari, ingenerando nel nemico un senso di insicurezza, reso sempre più evidente dalla periodica rimozione dei capi militari russi, e dal notevole numero di morti tra i loro generali.
In questo, la superiorità tecnologica delle forze ucraine, ottenuta grazie agli armamenti forniti dall’Occidente, ha avuto un ruolo non secondario. Per i soldati russi, sapere di essere vulnerabili, a fronte di un avversario inizialmente sottovalutato, incide sul morale e ingenera incertezza nell’azione e addirittura paura tra le truppe.
La paura, infatti, sta diventando un fattore di debolezza in campo russo, e il pericolo di un collasso generalizzato, in conseguenza dei rovesci subiti, non è secondario. Diceva, infatti, uno studioso del XX secolo: “le masse di uomini, che sono sensibilissime alle impressioni collettive specie se di cattiva natura, sono facilmente prese dal timore di oscuri pericoli e ben presto l’inquietudine, foriera del panico finale, s’impadronisce di loro”[5]. Non ci si deve meravigliare, quindi, che per sventare un tale pericolo i generali russi hanno prima convinto il governo di Mosca a rinunciare all’offensiva principale in direzione di Kiev e ora stanno costruendo trincee e ostacoli, per potersi difendere meglio.
Questo cambio di strategia espone gli Ucraini a rischi elevati, dopo la loro decisione di passare alla controffensiva per la riconquista dei territori perduti, prima, e di quelli contesi, poi. L’ingresso delle forze ucraine nelle autoproclamate repubbliche del Donbass e di Luhansk le espone agli stessi pericoli cui le forze russe sono state esposte finora, oltre che a perdite elevate.
Il sentimento d’inferiorità in campo russo non è stato alleviato dalla strategia decisa dal governo di Mosca, che ha puntato fin troppo sul cosiddetto “bombardamento terroristico”, preconizzato da Douhet oltre un secolo fa. Questi, infatti, sosteneva che “una forte offensiva sul fronte interno [del Paese avversario], atta a paralizzare la vita dei centri produttori di una Nazione, porta con sé la caduta della fronte di combattimento”[6].
Inoltre, Douhet sosteneva che, per effetto del bombardamento alle popolazioni civili: “non può mancare di giungere rapidamente il momento in cui, per sfuggire all’angoscia, le popolazioni, sospinte unicamente dall’istinto della conservazione, richiederanno, a qualunque condizione, la cessazione della lotta”[7].
La Storia, però, non ha convalidato, se non in pochi casi, questa previsione del nostro pioniere della Strategia Aerea. Anche nel caso attuale, abbiamo visto missili costosissimi e droni kamikaze impiegati dai Russi per distruggere infrastrutture civili e addirittura semplici condomini, nella speranza che le popolazioni ucraine, duramente colpite, premessero sul governo di Kiev affinché si arrendesse.
Questo, però, non è ancora avvenuto. Infatti, il governo di Mosca ha trascurato un fatto, evidenziato da uno stratega britannico, il quale, citando una discussione in ambito Società delle Nazioni, su come punire gli Stati che ne violavano i principi, affermava che “si vuole organizzare un sistema [il bombardamento aereo] i cui effetti dipendono unicamente dalla potenza distruttiva di una nuova arma che distruggerà ricchezze che non potranno mai più essere ripristinate, e lascerà dietro di sé tombe e rovine, ostacolo insuperabile per il ritorno alle relazioni amichevoli e alla pace”[8].
In effetti, il “bombardamento terroristico”, ampiamente utilizzato durante la Seconda Guerra Mondiale, ebbe risultati controversi, e solo l’uso della bomba atomica ottenne i risultati anticipati dallo studioso.
Nel nostro caso, la popolazione ucraina sta sopportando sofferenze indicibili, la cui conseguenza è l’aumento dell’odio nei confronti del suo secolare oppressore. Ma gli Ucraini non possono dimenticare le sofferenze inflitte loro dal governo di Mosca, e – come notava Richmond – il loro odio verso il secolare oppressore renderà oltremodo improbabile una pacificazione e una collaborazione duratura con quest’ultimo.
La dimensione marittima del conflitto
La Russia, poco prima dell’inizio dell’invasione, aveva effettuato una pur parziale concentrazione di forze navali, per rafforzare la Flotta del Mar Nero, spostando unità da altri scacchieri, anche lontani, una concentrazione di navi che non si vedeva, in Russia, dal 1905. In totale, le forze navali nell’area ammontavano a tre incrociatori, due cacciatorpediniere, due fregate e ben 13 unità da sbarco, oltre a unità sottili e ausiliarie.
Questa forza, anche se non comprendeva le unità principali della flotta di Mosca, come le portaerei e gli incrociatori pesanti dotati di armamento nucleare, rimaste nelle loro dislocazioni del Mar Bianco, nell’Artico, per ragioni di carattere strategico, appariva nondimeno più che adeguata a compiere le missioni tradizionali in caso di guerra, come il blocco navale, il bombardamento costiero, la conquista delle isolette davanti alla costa avversaria, la difesa degli accessi al Mare di Azov (incluso il “ponte di Putin”, di nuova costruzione, che collega la Crimea con la Russia) e, soprattutto, gli sbarchi di forze anfibie dietro le linee avversarie.
In effetti, queste missioni sono state svolte, anche se con successi limitati e con perdite elevate. L’errore russo, infatti, è stato l’adozione di formazioni navali troppo statiche, tanto che gli Ucraini, malgrado disponessero di pochi mezzi, sono riusciti a infliggere perdite che, pur non essendo decisive, hanno avuto una notevole risonanza nella stampa internazionale.
Il problema che il Comandante della Flotta del Mar Nero aveva cercato di risolvere, con queste formazioni, era la necessità di supplire all’inadeguatezza qualitativa delle navi, in maggior parte costruite durante la Guerra Fredda per svolgere compiti diversi.
In particolare, gli incrociatori inviati nel Mar Nero erano stati progettati per compiere il cosiddetto “first strike” (il primo colpo) contro i gruppi portaerei della US Navy, ben sapendo che poi la reazione americana li avrebbe distrutti. Non era, quindi, mai stata curata la loro protezione da offese avversarie.
Malgrado sia passato oltre un ventennio, questi incrociatori navigavano con potenti missili antinave, bene in mostra ai lati delle loro plance, il che – nel caso dell’incrociatore Moskva – si è rivelato causa di incendi indomabili.
L’uso, poi, delle navi da sbarco, dopo la rinuncia russa a compiere operazioni anfibie, è stato quello di impiegarle per rifornire le truppe in prima linea, cosa santa e giusta, ma che ha esposto alcune di queste unità a colpi che, per quanto di limitata letalità, hanno causato esplosioni rovinose delle munizioni trasportate, con il loro conseguente affondamento, unito alla perdita di munizioni che, come si è saputo dopo, iniziavano già a scarseggiare.
La guerra di mine, poi, scatenata dalle due parti, ha reso l’intero Mar Nero una zona di mare pericolosa: infatti, ognuna delle violente tempeste che caratterizzano questo mare ha causato la rottura degli ormeggi degli ordigni che erano stati posati, per cui alcuni di questi sono andati alla deriva fino ad arrivare sulle spiagge rumene e bulgare.
Che il blocco navale, invece, funzionasse, lo si è saputo quando l’ONU è intervenuto per far giungere il grano ucraino ai Paesi del Medio Oriente e dell’Africa Settentrionale, che lo avevano ordinato e, non avendolo ricevuto, rischiavano una devastante carestia. L’unica azione che stava rivelandosi efficace, il blocco navale, quindi, è stata interrotta per effetto della pressione internazionale.
In definitiva, la Flotta Russa sta svolgendo diligentemente i propri compiti, che rispecchiano la tradizione strategica della Nazione, tradizionalmente portata a impiegare lo strumento navale in un ruolo ausiliario rispetto alle esigenze del teatro di terra, anche se l’obsolescenza della maggioranza delle sue unità è la causa principale delle perdite subite.
La dimensione tecnologica
Mentre la Marina russa, come si è visto, ha dovuto far ricorso a navi in maggioranza obsolete, altrettanto non si può dire dell’Aviazione e – soprattutto – dell’Esercito, il cui armamento era stato aggiornato, in questi ultimi decenni, con enormi spese da parte del governo di Mosca.
Purtroppo per i Russi, le nuove armi hanno evidenziato una serie di gravi problemi di affidabilità, tanto che alcuni tra i mezzi più moderni sono stati sostituiti da altri che, da tempo, erano stati dismessi per obsolescenza, ma che per la loro robustezza fornivano maggiori garanzie.
In questo caso, addirittura, gli Ucraini hanno constatato l’abbandono di mezzi moderni, anche talvolta intatti, da parte dei soldati che preferivano combattere a piedi, piuttosto che tentare, sotto il fuoco avversario, di ripararli.
Solo i missili e i droni, in definitiva, sono state le armi tecnologicamente avanzate sulle quali fare affidamento, ma il loro numero, inevitabilmente, era limitato, rispetto alla volontà di ridurre l’Ucraina a un deserto di rovine, cosa impossibile da realizzare in toto, data la sua estensione geografica. Il sospetto, poi, che la Russia sia stata costretta ad acquistare all’estero questi droni, secondo alcuni forniti dall’Iran, in violazione dell’embargo internazionale delle armi, la dice lunga sull’ inadeguatezza delle Forze Armate sovietiche.
Siamo quindi arrivati a un punto critico della guerra nel quale, come osservava uno studioso del passato, la Russia corre il rischio di una ennesima rivoluzione. Come infatti osservava questo studioso, “quando le armi sono spuntate, l’ardore spento, lo sforzo esaurito, le finanze esauste, è facile che pretendenti al potere appaiano per trarre vantaggio dalla difficile situazione”[9].
L’Ucraina, invece, gode degli armamenti occidentali, forniti in numero elevato, e il suo Esercito ha potuto cogliere successi notevoli, distruggendo gran parte dei numerosi mezzi impiegati dagli avversari. Bisogna vedere fino a quando questo invio di armamenti continuerà, anche se la resistenza della popolazione non appare dipendere unicamente dai mezzi sofisticati messi a disposizione dell’Occidente: se si è determinati a resistere, anche i coltelli e le “bombe Molotov” sono utili, e alle brutte dalla guerra si può sempre passare alla guerriglia, un altro approccio che logora l’avversario, sia pure in tempi lunghi.
La dimensione intelligence
I media hanno messo in risalto la notevole quantità di assetti e informazioni intelligence, fornite agli Ucraini da alcune Nazioni occidentali. Sul piano strategico, in effetti, i grandi movimenti di forze russe non sono sfuggite all’occhio dei satelliti, con conseguente vantaggio per gli Ucraini.
Ma queste notizie non tengono conto del dettaglio che anche i movimenti minori delle forze russe appaiono ben noti alla controparte. Questo è un segno che anche la popolazione dei territori occupati si prodiga nel fornire informazioni all’Esercito di Kiev in misura decisamente non trascurabile, altro indizio del diffuso appoggio alla causa dei difensori, da parte dei civili della regione.
È ben vero che anche i Russi dispongono in abbondanza sia di satelliti, sia di capacità in campo cyber. Ciò che riduce, però, l’efficacia di queste capacità è l’accortezza, da parte delle forze ucraine, che operano in piccoli reparti, ben mimetizzati e separati tra loro quanto basta per non essere localizzati, pur rimanendo in grado di appoggiarsi a vicenda, e compiere azioni sincronizzate tra loro.
In definitiva, vale quanto osservato da uno studioso americano il quale, nel considerare la difficoltà di azione in territori occupati, notava che “la ribellione [delle popolazioni invase] deve avere una base intoccabile. Deve avere un nemico sofisticato e straniero, nella forma di un esercito di occupazione disciplinato; troppo poco numeroso per accordare i numeri con lo spazio. Esso deve avere una popolazione amica, non attivamente, ma simpatizzante al punto di non tradire i movimenti dei ribelli al nemico”[10].
Questo è ciò che accade in Ucraina, e l’inferiorità russa nel campo dell’intelligence ne è una conferma.
Le omissioni occidentali
La Storia insegna che esiste una tempistica ben precisa per prevenire un conflitto. Infatti, come osservava uno studioso, Mahan, “Un’oncia di prevenzione vale quanto una libbra di cura”[11].
Bisogna dire che, fin dall’invasione della Georgia del 2008, l’Occidente si era mosso in ritardo, malgrado i segnali di una tensione crescente. Per lo meno, a cose fatte, l’Unione Europea si era mossa, avviando la missione EUMM. In questo caso, i governi hanno assistito inerti al deterioramento della situazione, senza agire. Solo la Cina, infatti, aveva convinto Mosca a rinviare di un mese l’invasione dell’Ucraina, consentendole di prepararsi adeguatamente alla tempesta perfetta che si stava scatenando. Questa tregua, sia pure di durata limitata, avrebbe potuto consentire un’azione preventiva, tesa a scongiurare la tragedia. Ma nulla è stato fatto, anche se è lecito dubitare che tali sforzi avrebbero avuto successo. La mancata attuazione, dalle due parti, degli accordi di pace, il c.d. “Protocollo di Minsk”, era, infatti, già da anni un forte segnale di allarme sul rischio che l’odio secolare tra le due parti stesse portando al conflitto aperto.
Le sanzioni occidentali contro il governo di Mosca, infatti, oltre a essersi rivelate “un’arma a doppio taglio”[12], come osservava uno studioso russo, il generale Svechin, stanno avendo l’effetto di far crollare, mediante l’interruzione dei commerci con la Russia, quel meraviglioso castello costituito dall’interdipendenza, costruito nei decenni scorsi proprio per calmare l’avventurismo russo, con conseguenze disastrose per i Paesi, come l’Italia, che si erano prodigate in questo senso.
Che la Russia non abbia ancora capito come, oltre alla forza, esistono molti modi per evitare un conflitto, il c.d. “soft power”, perseguendo quindi un riavvicinamento con la controparte, sia pur graduale, è purtroppo un dato di fatto.
A parziale giustificazione dell’Occidente vi è il sospetto che, a fronte di un approccio russo basato solo sulla forza, non vi fosse alcuna possibilità di prevenzione. Per questo il conflitto è destinato a creare una situazione tesa, che durerà a lungo, nei rapporti tra l’Occidente e il governo di Mosca.
Conclusioni
Dopo questa lunga analisi, sono necessarie poche considerazioni conclusive. La guerra russo-ucraina unisce la violenza tipica delle guerre civili a quella delle guerre senza limite tra Stati, una situazione che speravamo appartenesse ormai al passato.
Malgrado l’avvento dell’ONU sembrasse, infatti, aver posto fine alle guerre di aggressione, la Russia – animata com’è da un forte sentimento revanscista – ne ha violato le norme, in nome non solo della volontà di far rientrare i territori abitati in prevalenza da connazionali, ma anche dell’aspirazione a ricostituire l’unità della disciolta Unione Sovietica, quale era uscita dalla Seconda Guerra Mondiale.
Quest’impresa, anomala per un Paese ancora vastissimo, malgrado le decurtazioni verificatesi con l’implosione dell’Unione Sovietica del 1991, fortemente sottopopolato e in pieno declino demografico, è stata costellata da errori gravissimi che l’anno trasformata da un blitz in stile sovietico in una guerra d’attrito vecchio stile, con tanto di trincee, campi minati e filo spinato.
Come avviene spesso nelle guerre all’ultimo sangue, la capacità da parte dei terzi di sedare il conflitto e raggiungere un accomodamento si è confermata essere oltremodo limitata.
L’Occidente sembra ritenere che l’unica possibilità di influire sugli eventi è quella di appoggiare una delle due parti in guerra, diventando terze parti nel conflitto, in modo da accelerare il tracollo dell’invasore. In effetti, non appare facile convincere l’Ucraina a cedere ancora una volta alle pretese di Mosca, dopo secoli di angherie subite.
La probabilità, quindi, che questa guerra finisca in un’immane tragedia, con il collasso di un intero Stato, è purtroppo elevata, e resta il pericolo per l’invasore di finire peggio dell’aggredito, malgrado le distruzioni e le perdite inflitte a quest’ultimo.
Si è visto che una delle vittime di questo conflitto, e non la meno importante, è l’interdipendenza economica e commerciale tra gli Europei e la Russia, una serie di rapporti economici che i primi avevano pazientemente costruito in decenni, per riportare Mosca nel novero delle Nazioni amiche, e che è stata rapidamente smontata, mediante il sistema delle sanzioni.
[1][1] C. von CLAUSEWITZ, Della Guerra. Ed. Mondadori, 1972, Vol. II pag. 446.
[2] A. T. MAHAN, Strategia Navale. Ed. Forum Relazioni Internazionali, 1997, Vol. II pagg. 179-180.
[3] A.H. JOMINI, Précis de l’Art de la Guerre, Ed. Ivrea, 1994 (riedizione della prima edizione 1855), pag. 32.
[4] UN Charter, Article 2, comma 4.
[5] G. FIORAVANZO, La Guerra sul Mare e la Guerra integrale, Ed. Schioppo, 1930. Vol. I, pag. 72.
[6] G. DOUHET, La Guerra Integrale, Ed. Campitelli, 1936, pag. 102.
[7] G. DOUHET, Il Dominio dell’aria, Ed. Rivista Aeronautica, 1955, pag. 66.
[8] H. RICHMOND, Il potere marittimo nell’Epoca Moderna, Ed. Forum di Relazioni Internazionali, 1998, pag. 176.
[9] SUN TSU, L’Arte della Guerra, Ed. Guida, 1996, pag. 91.
[10] H. BALDWIN, Strategy for Tomorrow, Ed. Harper & Row, 1970, pag. 28.
[11] A. T. MAHAN, Some neglected aspects of war, Ed. Sampson Low, Marston &Co, 1907, pag. 92.
[12] A.A. SVECHIN, Strategy, East View Publications, 1992, pag. 109.