Scarica il file in PDF – sahel – brando – gennaio 2022
La situazione securitaria nella regione del Sahel: i movimenti indipendentisti, i gruppi jihadisti e le organizzazioni criminali
Elio Brando
- Introduzione
Il Sahel è una regione dell’Africa sub-sahariana che si estende dall’Oceano Atlantico alle sponde del Mar Rosso. Essa consiste in un’area prettamente desertica e in balia dei cambiamenti climatici, causati dal prosciugamento delle falde acquifere e dalla desertificazione. La zona è afflitta da molteplici criticità di ordine politico, economico e securitario, esacerbando una condizione di povertà diffusa nella popolazione. Il deterioramento della sicurezza regionale ha portato la Francia, l’Unione Europea e le Nazioni Unite ad intervenire, con l’obiettivo di ristabilire il controllo nelle mani delle autorità governative. Un obiettivo che rischia di essere disatteso, soprattutto alla luce degli ultimi avvenimenti.
I paesi dove la regione saheliana si estende sono il Mali, la Mauritania, il Niger, il Burkina Faso e il Ciad. Essi vertono in una condizione di perdurante instabilità, affrontano un altissimo tasso di natalità e sono attraversati da profonde tensioni interne. Le frequenti crisi di cibo, i governi fragili e la bassa istituzionalizzazione, uniti al traffico illegale, le tensioni interetniche e gli estremismi violenti rendono questa regione una delle più a rischio per le crisi umanitarie e i disastri sociali e politici.
- L’intervento degli attori internazionali
Nell’ultimo decennio, le potenze europee hanno percepito il deterioramento della situazione nel Sahel come una minaccia. Nella visione dell’Europa, la regione saheliana è causa di una serie di timori dovuti principalmente a due ragioni: il rapido diffondersi di gruppi jihadisti nella regione che, oltre a tentare di destabilizzare i governi in Sahel, guardano ai paesi europei come loro nemici e bersagli; l’aumento della pressione sui confini per la migrazione, attraverso la regione saheliana e verso l’Europa.
L’Unione Europea, di concerto con i suoi Stati Membri, ha relazioni solide con i Paesi del Sahel, supportati con programmi di aiuto umanitario e di supporto in termini di sviluppo. Gli obiettivi individuati dalla strategia europea sono chiari: combattere le cause basilari della povertà estrema e creare le condizioni per opportunità economiche e sviluppo umanitario, contrastando il potere che i gruppi illegali detengono sul territorio. L’Unione Europea e gli Stati del Sahel, inoltre, agiscono di concerto per prevenire attacchi da parte delle milizie estremiste e da altre organizzazioni criminali, oltre a proteggere gli interessi sociali ed economici degli Stati in questione. I tre stati più importanti nel Sahel, focus di questa strategia, sono la Mauritania, il Mali e il Niger. La fragilità di questi governi, dovuta ad una frammentazione etnica sistemica e ad una generale mancanza di fiducia nelle autorità, impatta sulla stabilità della regione per ciò che riguarda l’abilità di contrastare la povertà e i rischi legati alla sicurezza.
Mentre il Mali e il Niger, tramite le loro autorità centrali, sembrano aver accolto favorevolmente le iniziative europee, l’impatto del contrasto alla criminalità non è stato così determinante come ipotizzato da molti in Europa. La maggior parte dei progetti sono incentrati sulla sicurezza dei confini, sull’addestramento della polizia, promuovendo la condivisione dell’intelligence. Tuttavia, le regioni di confine hanno un’autonomia che comporta una mancanza di controllo da parte del governo, con un vantaggio importante per le organizzazioni criminali e terroriste.
La proliferazione di organizzazioni estremiste violente nella regione saheliana ha portato gli attori internazionali, individualmente, a adottare strategie di sicurezza che tengono conto della natura transnazionale delle minacce nella regione. Il Paese il cui ruolo, fin dal primo momento, è stato fondamentale nella lotta contro l’estremismo jihadista in Sahel è la Francia. Forte dei maggiori interessi politico-economici nella regione rispetto ai suoi partner, la Nazione transalpina ha svolto diverse operazioni nell’area, focalizzate sul contrasto degli estremismi jihadisti e dei network criminali.
A seguito dei disordini nell’ottobre 2012, che portarono allo scioglimento del governo di Amadou Toumani Touré e al deterioramento della situazione securitaria, la Francia sviluppò due piani di emergenza a sostegno dei paesi saheliani: il primo avrebbe fornito supporto militare al Mali, mentre il secondo avrebbe portato ad un intervento militare subordinato alla richiesta di assistenza militare da parte del governo maliano, nel caso in cui i ribelli avessero continuato ad avanzare attraverso il Sud del Paese. L’esercito francese condusse inoltre numerosi voli di ricognizione, preparando il dispiegamento di forze speciali, con l’obiettivo primario di identificare i campi jihadisti, i nodi di comando, i depositi di carburante e i centri logistici.
Nel gennaio 2013, il governo maliano ad interim richiese assistenza militare alla Francia nel momento in cui i ribelli avevano preso la città di Konna, città strategica a meno di 640 km a Nordest di Bamako. I Francesi, l’11 gennaio 2013, lanciarono di conseguenza l’operazione Serval: scopo fondamentale della missione era restaurare l’integrità territoriale del Mali e stabilire le condizioni per un intervento delle Nazioni Unite.
Nonostante le importanti problematiche logistiche, l’operazione Serval fu un successo. Le risorse militari dei ribelli non potevano essere paragonate a un esercito moderno: la Francia fu in grado di lanciare un’offensiva decisiva e veloce contro gli insorti, grazie ad una serie di condizioni vincenti: l’impiego di Forze Speciali pre-posizionate nel 2012 in Burkina Faso; il potere aereo completamente in mano francese; il supporto delle truppe di terra, in particolare ciadiane, ben preparate per la guerriglia nel deserto. L’operazione Serval e l’operazione onusiana MINUSMA hanno posto freno al caos, costringendo i ribelli al tavolo dei negoziati, conclusi con gli accordi di Ouagadougou del giugno 2013.
Parte di questi accordi era la richiesta della comunità internazionale di una progressiva trasformazione della compagine governativa da militare a civile, passaggio di mani avvenuto nell’agosto 2013 con l’elezione a Capo di Stato del maggior oppositore di Touré, Ibahim Boubacar Keita
L’operazione Barkhane, che ha rilevato Serval in Mali e Épevier in Ciad nel luglio 2014, era stata annunciata dal Presidente francese François Hollande in occasione di una visita in Ciad, nella quale aveva elogiato la rinnovata cooperazione tra gli Stati africani, auspicando un risultato positivo e definitivo contro i gruppi armati jihadisti.[1] Agli inizi di agosto furono impiegati circa 3500 uomini su un territorio tra il Sud dell’Algeria e il Nord del Mali, con il quartier generale a N’Djamena, capitale del Ciad.
L’operazione aveva l’obiettivo di offrire un addestramento militare per le forze di sicurezza regionali e una maggiore coordinazione tra gli Stati nelle operazioni anti-terroristiche. Inoltre, uno degli obiettivi riguardava il supporto logistico, materiale e l’assistenza finanziaria. La strategia della missione si concentrava sul controllo dei centri urbani principali e dei fulcri fondamentali della regione, un pattugliamento dei confini nazionali e un tentativo di circoscrivere l’area di attività delle milizie estremiste. Nonostante un impegno sempre crescente in termini militari ed economici, i metodi di guerriglia usati dai mujaheddin e la difficoltà organizzativa del piano d’azione hanno reso l’operazione militare a guida francese sempre meno efficace, mettendo in discussione l’efficacia della missione. Dal 2016 al 2021, inoltre, gli attacchi nei confronti di contingenti nazionali ed internazionali, da parte delle milizie estremiste sono aumentati in modo esponenziale, principalmente nella regione del Liptako-Gourma, considerata l’epicentro delle organizzazioni terroristiche.
Nel giugno del 2021, a seguito di una serie di attacchi perpetrati dai jihadisti e ad un colpo di mano militare in Mali, il presidente francese Emmanuel Macron ha annunciato la fine dell’operazione Barkhane, apportando delle modifiche sostanziali nel supporto francese ai paesi saheliani. La notizia non è stata gradita da parte delle autorità maliane e, a seguito di questa dichiarazione, il governo maliano si sarebbe rivolto altrove. Infatti, sarebbero stati registrati numerosi spostamenti di mercenari russi del Gruppo Wagner dal sud della Libia a Bamako[2]. Infine, anche a seguito di alcune dichiarazioni francesi nei confronti della nuova giunta militare al potere in Mali, questa ha espulso l’ambasciatore francese dopo avergli dato 72 ore per lasciare il paese, evidenziando la mancanza di fiducia nei confronti della nazione transalpina. Una parte della popolazione saheliana, infatti, guarda ai francesi con diffidenza e odio, li vede ancora come i colonizzatori della loro regione e, a causa della loro presenza massiccia a livello militare, come invasori.
Nonostante l’intervento economico, militare e politico di attori internazionali quali l’Unione Europea, la Francia e le Nazioni Unite, ad oggi permane una situazione critica di instabilità nella regione saheliana. Trattare il jihadismo come una problematica di sicurezza europea rischia però di distorcere la realtà di quanto è accaduto e sta accadendo nel Sahel[3]. Numerosi studi hanno evidenziato come i jihadisti siano interessati a colpire in primis i rappresentanti degli Stati saheliani e di come siano attenti a mantenere le loro posizioni di dominio in aree particolarmente ricche di risorse naturali, per poterle sfruttare e per inibire il controllo governativo su di esse[4].
Nonostante ciò, l’Europa è diventata un nemico e un bersaglio sempre più importante per questi attori non statali, a causa soprattutto della propria politica di intervento militare e finanziario in Libia e in Mali. I rapimenti di cittadini europei sono un esempio di come operano queste milizie per contrastare da lontano gli Stati europei, con l’obiettivo di ottenere un cospicuo compenso dalla loro liberazione e per incutere timore all’opinione pubblica occidentale. Inoltre, gli attacchi nei confronti delle missioni onusiane di peacekeeping evidenziano il contrasto con le attività di stabilizzazione della società, portate avanti dalle Nazioni Unite nel tentativo di ottemperare alle sfide poste[5].
- Situazione morfologica ed economica del Sahel
La condizione perdurante della regione ha radici profonde nella morfologia di questi Paesi. La particolare connotazione geografica del Sahel ha fatto sì che in questo territorio si incrociassero popolazioni di etnia e religione differenti: l’area, di fatto, segna il confine tra il Maghreb a maggioranza musulmana e l’Africa centrale e occidentale, a prevalenza cristiana, anche se questa delimitazione non può essere considerata rigida e strutturata, bensì fluida, data l’eterogeneità culturale che include etnie professanti religioni animiste. Lungo le coste dell’Africa occidentale, portata dai paesi occidentali, si è maggiormente sviluppata la religione cristiana, mentre nel Maghreb, territorio dell’Impero Ottomano fino agli ultimi decenni del XIX secolo, si è sviluppata la religione musulmana.
Inoltre, il Sahel è un’area dove esistono dei confini invisibili che delimitano il territorio a seconda dell’etnia maggioritaria o della tribù. L’autonomia de facto è una delle caratteristiche di questa regione (si pensi al Nord del Mali) e il controllo statale è molto complesso in un’area desertica e soggetta ai cambiamenti climatici[6]. L’eterogeneità etno-culturale pone a contatto diverse etnie: dalle popolazioni arabe ai Tuareg, fino ad alcuni gruppi etnici sub-sahariani, come i Songhai, agricoltori stanziati in Mali, e i Fulani, pastori nomadi che vivono tra la Mauritania e il Camerun. Come evidenzia un articolo del National Geographic, pubblicato nel 2008, “La maggior parte del Sahel non è nemmeno mappata, è invisibile; eppure, è una frontiera. Ogni area è solcata da linee di demarcazione invisibili, che delimitano le rivendicazioni di tribù, clan, singoli individui. Queste linee si muovono avanti e indietro per effetto delle guerre e delle stagioni. I pozzi d’acqua sono gelosamente custoditi; alcune linee invisibili segnano le rotte migratorie dei nomadi. Non c’è spazio per l’azzardo qui: attraversare una di queste linee o allontanarsene troppo può causare dure rappresaglie e persino la morte. Quello tra la consapevolezza e l’ignoranza è il confine di gran lunga più importante nel Sahel”[7].
La situazione economica è forse uno degli aspetti più critici del Sahel. Alcuni Paesi, come Niger e Burkina Faso, occupano gli ultimi posti della classifica stilata da United Nations Development Programme (UNDP) in materia di sviluppo e crescita economica, nonostante siano ricchi di risorse naturali come oro, uranio e cobalto. Gli Stati considerati nella trattazione basano la loro economia prevalentemente sull’agricoltura e sull’allevamento, sono sostenuti da investimenti diretti esteri da parte degli Stati occidentali e contribuiscono a sviluppare il fenomeno della migrazione intra-africana tramite i lavoratori “stagionali”[8]. La Economic Community of West African States (ECOWAS), organizzazione internazionale creata nel 1975 con la firma del Trattato di Lagos, con l’obiettivo di stimolare la crescita del settore produttivo, è sicuramente utile nel sostenere la transizione di queste economie e attira gli investimenti degli Stati occidentali, ma non ha la legittimità per far adottare piani d’azione efficaci ai Paesi firmatari. Secondo alcuni autori, inoltre, la creazione dell’ECOWAS è considerata un’occasione importante per i gruppi criminali in fase embrionale, dato che durante gli anni ’70 erano facilitati nello spostamento tra territori, inizialmente pensato per favorire il commercio.
Il commercio è una delle attività più proficue della regione. Ad esempio, lo spostamento attraverso il Sahara è una pratica molto utilizzata da alcune etnie, in particolare dalle tribù Tuareg. Mentre l’Europa affrontava l’epoca medievale, Timbuktu era una delle città più fiorenti della regione sub-sahariana. Questo perché la sua posizione geografica di passaggio permetteva ai commercianti di fermarsi per rifocillare la carovana, vendendo i beni trasportati. Tutt’oggi questa attività è portata avanti da diversi gruppi nomadi, che però sono influenzati dai gruppi criminali sui beni da trasportare: spesso la richiesta di spostarsi da un’oasi all’altra serve per favorire i traffici illeciti e illegali, un profitto che i gruppi nomadi non disdegnano poiché, in fondo, per loro è l’unica attività possibile.
L’instabilità politica, sociale ed economica non permette così agli Stati saheliani di proporre riforme economico-sociali nei confronti della popolazione. Nonostante i piani assistenziali composti da una serie di sussidi per le categorie sociali più deboli, il mercato del lavoro è un sistema bloccato, non sviluppato in modo omogeneo: la maggior parte della forza lavoro è impiegata nel settore primario, ma data la poca diversificazione economica tanti giovani sono ad oggi disoccupati o arruolati in organizzazioni criminali. Guardando al passato, comprendere l’attuale situazione economica di questi paesi è relativamente più intuitivo: già nel 1970, con il debito crescente dei Paesi in via di sviluppo e l’aumento dei prezzi del petrolio, si è registrato un boom economico di alcuni Stati saheliani. Nonostante ciò, in un decennio, le criticità della struttura produttiva sono aumentate notevolmente, complici anche i Programmi di aggiustamento strutturale (SAPs): una serie di riforme del settore produttivo imposte dal Fondo Monetario Internazionale, con l’obiettivo di privatizzare e deregolamentare il mercato degli Stati della regione. Questo piano di cambiamento strutturale ha avuto un effetto controproducente, conservando solo parzialmente i progressi economico-sociali che i Paesi dell’Africa Occidentale avevano compiuto e legando ulteriormente la crescita di questi agli investimenti degli Stati occidentali. La potenziale crescita economica non si è verificata fino all’inizio del XX secolo, quando per un decennio la situazione si è stabilizzata. La crisi economica del 2009-2010 ha portato ad un rallentamento del mercato mondiale, riducendo le potenzialità di guadagno degli Stati saheliani. Le economie saheliane, ricche di risorse del sottosuolo, continuano tutt’oggi a dipendere dalle esportazioni di queste e, nonostante ci sia stato un miglioramento delle ragioni di scambio internazionale, ciò non ha portato ad una stabilizzazione completa, soprattutto in ambito politico e securitario[9].
- I movimenti indipendentisti
Le vulnerabilità economiche e sociali, unite alla mancanza di fiducia nei confronti della compagine governativa, ha portato alla creazione di diversi movimenti indipendentisti. Durante la colonizzazione da parte dei Paesi europei, le grandi città sviluppate nei Paesi saheliani si sono sempre trovate il più possibile vicino alle coste, per la vicinanza con il mare e per il contatto più efficace con il colonizzatore. L’entroterra, invece, è stato abbandonato a sé stesso, creando delle aree in cui la presenza del governo è praticamente inesistente ed esistono delle autonomie de facto. Questo fenomeno evidenzia come sia possibile, per i gruppi criminali e jihadisti, nascondersi dalla compagine governativa e dalle missioni estere, a causa della difficoltà di controllo di un territorio prevalentemente desertico. Nel nord del Mali, ad esempio, si concentrano diversi gruppi autonomisti, come i Tuareg, gli Arabi e i Fulani, creando delle condizioni facilitate per il reclutamento di questi nelle organizzazioni terroristiche. Secondo l’Osservatorio di Politica Internazionale, “i network terroristici si sono gradualmente inseriti nel frammentato scenario maliano settentrionale, presentandosi come alternativa credibile e legittima alle organizzazioni ribelli tradizionali”[10]. La penetrazione di queste compagini estremiste nella struttura sociale di questi paesi è diventata una delle difficoltà maggiori per i diretti interessati, gli Stati, e per le operazioni militari straniere nella zona. Nascondersi dietro la popolazione e avere una legittimità da parte di essa rende molto complesso eradicare le frange estremiste. Inoltre, data l’instabilità politica e sociale di questi Paesi, i golpe a carattere militare sono spesso avvenuti in seguito a sollevazioni popolari.
I principali motivi dietro le manifestazioni di dissenso da parte della popolazione sono comuni a tutti gli Stati: il mancato riconoscimento di una determinata minoranza e del suo territorio, la centralizzazione delle scelte in seno alla compagine governativa e l’assenza di opportunità occupazionali sono solo alcuni esempi delle criticità esistenti. D’altro canto, spesso le rivolte popolari sono sfociate in vera e propria guerriglia, considerata la presenza tra i rivoltosi di elementi indipendentisti ed estremisti. In Mali, per esempio, i ribelli e gli estremisti religiosi, che nel 2012 diedero vita al conflitto nel nord del Paese, si basavano su cause considerate legittime: l’indipendenza dallo Stato maliano per i ribelli, la shari’a (legge islamica) per i gruppi religiosi. I ribelli, durante il conflitto, ricevevano supporto esterno dai soldati Tuareg libici, mentre i jihadisti beneficiavano dei loro contatti nel Nord dell’Algeria, dove si trova la leadership di Al-Qaeda del Maghreb Islamico (AQIM). Entrambi utilizzarono lo strumento della propaganda e della guerriglia in modo efficace contro le forze governative, ma non furono in grado di contare sul pieno supporto della popolazione, fallendo la loro offensiva congiunta nella città di Konna.
Nonostante la vittoria dell’élite governativa, aiutata dalla Francia, le forze politiche non furono in grado di affrontare le radici del conflitto: lo sviluppo di organizzazioni estremiste nel Delta del Niger e nel Liptako-Gourma ha alimentato i problemi sociali, economici e di governance che il governo centrale non aveva ancora affrontato. La situazione di instabilità che continua ancora oggi è dovuta al fatto che né i ribelli, né le organizzazioni estremiste violente o il governo centrale sono forti abbastanza per minacciare seriamente gli avversari e portare avanti un accordo di pace comprensivo. Queste condizioni hanno lasciato molta della popolazione civile non protetta e ha contribuito ad un sentimento di tensione nei paesi vicini.
- La condizione occupazionale, la migrazione e i gruppi criminali
L’assenza di stabilità e della mancanza di lavoro ha portato una parte dei cittadini di questi Paesi ad emigrare verso il Maghreb e, nell’ultimo decennio, verso l’Europa. La difficoltà a trovare un’occupazione ha portato una porzione della popolazione saheliana a cercare fortune in altre zone, creando delle tratte migratorie intra-africane molto sviluppate. Fin dall’epoca pre-coloniale la migrazione transfrontaliera tra gli Stati saheliani, e tra il Sahel e il Maghreb, è stata un fenomeno perdurante. Nel tempo, le persone hanno attraversato il Sahara alla ricerca di opportunità economiche, sottolineando la natura radicata di migrazioni “stagionali”, sia all’interno del Sahel e tra questo e il Maghreb. Lo schema di migrazione tradizionale in Sahel è mirato principalmente verso i paesi dell’Africa settentrionale: circa due terzi di tutta la migrazione in Africa rimane nel continente.
La migrazione cominciò ad aumentare nel periodo post-coloniale, nel momento in cui nei deserti algerini e libici si svilupparono gli sfruttamenti di petrolio e gas, con una forza lavoro costituita principalmente da lavoratori originari del Sahel. Durante gli anni ’60 e ’70, i villaggi nel deserto con poche centinaia di abitanti crebbero in densità di popolazione, dato il flusso di migranti informali che andavano a comporre la forza lavoro. Lo stesso fenomeno accadde per le città saheliane, dove gli stati e le multinazionali stabilirono siti di sfruttamento, come Arlit in Niger, un villaggio che crebbe da circa 8000 abitanti a più di 100.000 in pochi anni. Quest’aumento repentino era dovuto alla scoperta di miniere di uranio nel sottosuolo, che attirò i migranti “stagionali” impiegati nei siti di produzione e stoccaggio del materiale.
La maggior parte della forza lavoro dei paesi saheliani rimarrebbe nella regione del Maghreb. Tuttavia, questo fenomeno comporta un numero sempre maggiore di immigrati stagionali, la cui permanenza pone in essere dei contrasti tra questi e le popolazioni dei paesi del Maghreb. Inoltre, a partire dall’inizio del XXI secolo, una piccola ma significativa parte di migranti è arrivata ai confini meridionali dell’Europa: le rotte più importanti, che attraversano il Maghreb per poi sfociare nel Mediterraneo, sono una fonte di preoccupazione per gli Stati membri dell’Unione Europea. Durante questo periodo, in ogni caso, la base della migrazione attraverso il Mediterraneo ha continuato a rappresentare una piccola minoranza del numero totale di migranti. In uno studio pubblicato dal Directorate-General for the External Relations (DG RELEX) è stato stimato che circa un milione e mezzo di migranti, proveniente dalla regione sub-sahariana, vivono in Libia, circa 300.000 in Mauritania e Algeria, mentre circa 100.000 altri passerebbero ad Agadez in Niger ogni anno, passaggio obbligato per lo schema stagionale di lavoro migrante[11].
Le ragioni dell’interesse riguardo la migrazione da parte dei Paesi occidentali sono sostanzialmente due. La prima è connessa alle proiezioni economiche e demografiche dell’area sub-sahariana. La crescita significativa della popolazione nella regione saheliana rappresenta una sfida importante non solo per le economie africane, ma anche, da una prospettiva migratoria, per l’Europa. L’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale (USAID) stima che la crescita della popolazione africana passerebbe dai circa 900 milioni di persone nel 2013 a circa 2.8 miliardi nel 2050[12]. Anche se il 70% dell’immigrazione africana rimane nel continente africano, questo sviluppo aumenterà la pressione migratoria verso economie più sviluppate. Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) si aspetta un aumento della migrazione dall’Africa ai paesi parte dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OECD), in primis quelli europei, di sei volte rispetto al primo decennio del XXI secolo[13]. La seconda ragione riguarda, invece, l’incapacità di controllare i confini tra la regione saheliana e il Maghreb dall’inizio del collasso libico nel 2011. La guerra civile e la caduta di Gheddafi ha portato al crollo dell’economia libica, privando i migranti di uno dei più prosperosi mercati occupazionali in Africa e permettendo ai trafficanti di esseri umani di espandere il loro trasporto di migranti verso l’Europa del sud, in particolare verso Spagna, Grecia e Italia.
Come precedentemente accennato, i gruppi nomadi della regione si occupano, per conto di associazioni criminali, del traffico di beni illeciti e illegali. In particolare, il traffico di quest’ultimi è molto redditizio per le organizzazioni criminali, che basano il loro potere sul denaro e sulle armi. Le tribù nomadi, secondo la dottrina occidentale si occupano di attività criminali, anche se gli appartenenti a questi gruppi sono convinti di fornire un servizio, seguendo in modo pedissequo le direttive dei capi tribù. Le attività definite criminali sono principalmente traffici di droga, armi ed esseri umani.
L’esempio più calzante della sovrapposizione di affiliati a gruppi criminali e alle organizzazioni jihadiste riguarda uno dei più influenti leader dell’AQIM: Mokhtar Belmokhtar. Anche conosciuto come Mister Marlboro, è diventato famoso per il suo doppio ruolo di leader jihadista e trafficante di merci illegali e illecite, in particolare di sigarette. La sua rete di contatti è immensa e gli permette di portare avanti entrambe le attività: basa i suoi traffici sulla fiducia che hanno in lui alcuni gruppi nomadi, mentre si occupa dell’organizzazione di attentati a carattere islamista. È necessario però fare una precisazione: non esistono, in Sahel, dei terroristi che facciano questa “professione” nella vita, a parte i leader riconosciuti. Si tratta principalmente di ragazzi, in difficoltà economica, che un giorno lavorano come criminali e il giorno dopo si occupano di attività terroristiche, seguendo le direttive dei propri capi tribù.
- La diffusione del jihadismo: le principali organizzazioni terroristiche
La diffusione del jihadismo nella regione saheliana è un fenomeno relativamente nuovo, risalente alla fine degli anni ’90, nonostante ci fosse già la presenza dell’Islam nell’area fin dall’VIII secolo dopo Cristo. La presenza jihadista nell’area si è sviluppata secondo diverse direttive, spesso confliggenti tra loro, ma accomunate da due caratteristiche principali: l’odio verso i governi attuali e gli interventi esterni; il legame molto stretto con le organizzazioni terroristiche centrali, Al-Qaeda e lo Stato Islamico. Nei territori dove l’autorità statale non è presente, inoltre, i gruppi criminali offrono protezione e supporto alle popolazioni locali, esacerbando i conflitti tra centro e periferia. Infine, grazie a matrimoni di convenienza o accordi commerciali, le milizie jihadiste hanno ottenuto un’influenza presso i movimenti indipendentisti e anti-coloniali.
L’iniziale evoluzione di questo fenomeno si sviluppò dall’Algeria settentrionale e mirò inizialmente al Mali. Dopo la repressione militare algerina e la cooptazione dei jihadisti e dei ribelli alla fine degli anni ’90, si venne a configurare un nuovo gruppo chiamato Groupe Salafiste de Prédication et de Combat (GSPC), con la base operativa sulle montagne Kabyle, nel nord e nel centro dello Stato algerino. L’obiettivo iniziale di questo gruppo estremista era creare un avamposto nel Mali settentrionale ed era posto dal mandante delle operazioni, l’emiro conosciuto come Adbelmalek Droukdel. Tollerato e lasciato libero dall’intelligence algerina finché non avesse attaccato i siti di estrazione del petrolio nel sud del Paese, Droukdel iniziò a sviluppare relazioni con un buon numero di gruppi locali islamici nel Sahel e con il comando centrale di Al-Qaeda in Afghanistan e Iraq. L’emiro acquisì, grazie ad un matrimonio di convenienza, protezione dalle tribù locali maliane, riuscendo ad avere accesso alle vie del traffico economico e ai sistemi di riciclaggio di denaro, una pratica che successivamente fu usata anche da altri gruppi estremisti. Il gruppo aumentò la propria presenza in Sahel quando, agli inizi del secolo, i gruppi jihadisti si unirono per formare Al-Qaeda del Maghreb Islamico (AQIM), a cui seguì l’invio di mujaheddin in Iraq e il riconoscimento da parte dell’organizzazione centrale, Al-Qaeda, nel 2006. Sotto la guida di Droukdel, AQIM non è rimasto un fenomeno prettamente algerino, ma si è sviluppato ed è diventato una minaccia regionale, operando in diversi Paesi saheliani.
Dopo una crescita spaventosa della presenza del gruppo jihadista nella regione, a partire dal 2011 la leadership dell’emiro iniziò a mancare a causa di due principali motivazioni: la risposta antiterroristica guidata dalle forze francesi, algerine e maliane che costrinse Droukdel a rifugiarsi nella clandestinità, mentre la frammentazione interna all’AQIM diede forza ad un nuovo centro di potere, formato da personaggi di diversi gruppi etnici. Tra questi spiccano i nomi di Mokhtar Belmokhtar, di cui abbiamo precedentemente parlato, algerino di nascita ma vicino alla comunità berbera in Mali; Amadou Kouffa, appartenente all’etnia Fulani; Iyadh ag Ghali, un Tuareg nato in Mali.
Complice l’impossibilità di comunicare tra i vari gruppi a causa dell’intelligence franco-algerina, Droukdel creò nel 2017 un’altra organizzazione, chiamata Gruppo per la Salvezza dell’Islam e dei Musulmani (JNIM)[14], affidandola a Iyadh ag Ghali e ad Amadou Kouffa. Sotto questo gruppo, con un volto locale ma sotto il comando di Droukdel, Al-Qaeda si è diffusa in tutta l’Africa occidentale e si è macchiata di diversi attentati, tra cui l’attacco all’hotel Radisson Blu a Bamako nel 2015, che ha portato all’uccisione di 20 persone oltre ai più di 150 ostaggi, e l’assassinio di 18 persone in un ristorante a Ouagadougou, nel 2016.
Nonostante la capacità di AQIM nella penetrazione sociale anche grazie a mezzi di propaganda efficaci, è di poco tempo fa la notizia della morte di Droukdel. La ministra della Difesa francese Florence Parly ha annunciato la sua morte il 5 giugno 2020, ucciso dalle forze speciali francesi al confine tra Mali e Algeria[15].
Non è chiaro il perché l’emiro dell’AQIM si sia esposto a tale rischio: alcune fonti, come sottolinea Camillo Casola, “parlano di un summit convocato da Iyad ag Ghali, emiro tuareg a capo del principale network affiliato ad al-Qaeda in Mali, a cui Droukdel avrebbe dovuto prendere parte. Altre ipotizzano che la presenza di Droukdel in Mali si spieghi guardando alle dinamiche di conflitto che, nel Sahel centrale, oppongono le forze legate ad al-Qa’ida alle organizzazioni affiliate al cosiddetto Stato islamico (IS)”[16]. L’ipotesi è che, data la presenza di scontri tra le milizie di AQIM con gruppi estremisti facenti capo allo Stato Islamico, Droukdel si sia mosso per negoziare il cessate il fuoco con i rappresentanti della “filiale” saheliana, l’Islamic State in the Greater Sahara (ISGS), e sia stato scoperto dalle forze speciali francesi. Alla fine di novembre del 2020, a seguito della notizia della morte di Droukdel, l’agenzia di stampa dell’AQIM ha nominato un nuovo capo. Il prescelto è Abu Obaida Yusuf al-Annabi, uno degli ultimi facenti parte dello “zoccolo duro” del gruppo estremista fin dagli anni ’90 e già capo del “Consiglio dei dignitari” di AQIM[17].
Vi è poi l’organizzazione terroristica facente capo allo Stato Islamico, l’Islamic State in the Greater Sahara (ISGS), nata nel 2015 dalla scissione di Al-Mourabitoun, un gruppo affiliato ad Al-Qaeda e alleato con l’AQIM. Dopo la morte di numerosi leader del gruppo, nel 2015 Adnan Abu Walid al Sahrawi è diventato l’emiro di Al-Mourabitoun: il nuovo capo non era benvisto dalla leadership di AQIM, in particolare da Droukdel e da Belmokhtar, per la sua poca esperienza e la mancanza di conoscenza di strategie jihadiste. La tensione tra i gruppi si è accentuata in modo particolare quando, nel maggio 2015, Sahrawi ha rilasciato una dichiarazione ufficiale in cui si legava all’IS e al suo emiro Abu Bakr al Baghdadi. Sahrawi è stato subito rimosso da capo di Al-Mourabitoun e considerato un traditore, mentre lui stesso ha lasciato il gruppo per formarne uno proprio, affiliato allo Stato Islamico: l’Islamic State in the Greater Sahara. Nel 2016 il gruppo è stato riconosciuto dallo Stato Islamico tramite la sua agenzia di stampa, dove compare un video in cui Sahrawi e l’ISGS giurano fedeltà ad al Baghdadi[18].
Da quel momento, sentitesi legittimate da questo riconoscimento, le milizie dell’ISGS hanno lanciato diversi attacchi con obiettivi militari, in Niger, Mali e Burkina Faso, contro le forze armate nazionali e occidentali. In particolare, nell’ottobre del 2017, 100 jihadisti attaccarono una pattuglia di statunitensi e nigerini, uccidendo dieci persone di cui quattro Berretti Verdi americani.
Da febbraio 2018, le missioni anti-terrorismo francesi si sono concentrate in modo particolare contro l’ISGS. Rispetto all’AQIM, che ha una penetrazione sociale maggiore e una legittimità riconosciuta da una parte della popolazione, l’ISGS ha delle difficoltà evidenti nell’affermarsi come presenza forte in Mali, Burkina Faso e Niger. Nonostante l’accordo tra questi ultimi e il gruppo affiliato ad Al-Qaeda Nusrat al-Islam (JNIM), le tensioni con l’AQIM non sono diminuite e ancora oggi le due formazioni combattono per mantenere un’influenza maggiore sul territorio. In particolare, gli ultimi scontri si sono concentrati nella regione del Liptako-Gourma, territorio di confine tra Mali, Burkina Faso e Niger, dove sono presenti le milizie di entrambe le fazioni e il deterioramento della sicurezza nell’area ha lasciato molto spazio ai jihadisti, per combattersi e combattere contro il nemico comune.
A completare il quadro delle milizie jihadiste presenti nella regione, dai primi anni del 2000 i sostenitori del movimento Boko Haram, emersi nello stato del Borno, a seguito di ripetuti attacchi da parte di forze di sicurezza nigeriane, trovò nelle miniere della città di Diffa la sua nuova collocazione. Organizzato a Diffa grazie al supporto finanziario di prosperosi mercanti Kanouri, il gruppo è stato in grado di mobilitare giovani nigerini e di creare una base che li ha assicurato un costante rifornimento di carburante, armi e cibo per i jihadisti stabilitisi in Nigeria. Nonostante la loro presenza in Sahel sia stata indebolita, l’attuale leader Abukar Shekau ha affrontato il dissenso interno per mantenere una connessione nella regione del Lago Chad, per avere il controllo sui traffici illegali e traportare carburante, armi e cibo alle milizie impiegate in Nigeria. Questa penetrazione sociale ha permesso al gruppo di ottenere il supporto di una parte della popolazione nigerina, che tutt’ora soffre della mancanza della compagine governativa su temi fondamentali.
- Conclusioni
L’attuale onda di mobilitazione jihadista si basa su una serie di debolezze strutturali degli Stati saheliani. Come membri di gruppi etnici, separatisti, nazionalisti e tribali, i jihadisti mobilitano insorti tramite la loro intimidazione e grazie a una serie di conflitti pre-esistenti. Questi manipolano attivamente le ingiustizie della corruzione nel settore pubblico per ottenere il consenso sul loro progetto di un’alternativa islamica al governo. Offrono alla popolazione protezione, controllo e accesso a risorse e servizi primari, benefici che gli Stati saheliani faticano ad ottenere. Utilizzano l’ostilità e i conflitti tra i vari gruppi etnici e tribali, strumentalizzando le tensioni dovute alla rapida crescita della popolazione, per ottenere il consenso necessario per il controllo della regione.
A differenza degli Stati nordafricani, che durante gli anni ’90 costruirono forti agenzie di sicurezza e intelligence preparate con l’obiettivo di reprimere i jihadisti, gli Stati nel Sahel accettarono i gruppi estremisti provenienti da Algeria e Nigeria[19]. Con l’eccezione di Mauritania e Chad, durante gli anni 2000 gli Stati chiave della regione, il Mali, il Niger e il Burkina Faso sottoscrissero un accordo di non aggressione con i jihadisti, per consentire loro di operare finché non avessero attaccato gli interessi centrali dello stato. Le successive operazioni di stabilizzazione da parte dell’Europa e della Francia hanno affievolito questa relazione tra compagine governativa e gruppi estremisti, ma il timore rimane nelle sedi dei policy-makers europei.
Infine, resta da capire quali saranno le prossime mosse dei paesi saheliani e delle potenze occidentali circa il contrasto ai gruppi jihadisti. La presenza sempre più influente del Gruppo Wagner indicherebbe un cambio di rotta dei paesi africani, che sembrano preferire rivolgersi alla Russia piuttosto che trattare con i francesi o con le organizzazioni internazionali. La mancanza di fiducia verso i partner occidentali, unita agli interessi confliggenti di gruppi ribelli e movimenti indipendentisti, determinano una frammentazione di complessa sanabilità. A riprova di ciò, nel gennaio 2022 due colpi di stato militari hanno sovvertito i governi democratici di Mali e Burkina Faso, soprattutto a causa dell’evidente mancanza di preparazione nel contrastare le milizie estremiste. La sensazione è che nulla potrà essere risolto se non vi è una solida cooperazione tra i paesi del Sahel, la loro popolazione e gli attori internazionali. Il rischio è che le istanze dei popoli non siano le stesse della compagine governativa, determinando una frattura incolmabile che si aggiungerebbe alla già frammentata condizione socio-economica.
[1]https://www.elysee.fr/francois-hollande/2014/07/19/declaration-de-m-francois-hollande-president-de-la-republique-sur-les-interventions-militaires-francaises-en-afrique-a-ndjamena-le-19-juillet-2014. “Et bien, c’est cela l’opération << Barkhane >>, c’est de pourvoir mettre en commun tous nos moyens et d’être organisé au mieux et aussi de faire que nous ayons la meilleure coopération avec les armées africaines“.
[2] Orizio P., I contractors del Gruppo Wagner contro i jihadisti in Mali: l’Europa risponde con le sanzioni, in Analisi Difesa, 5 gennaio 2022, https://www.analisidifesa.it/2022/01/i-contractors-del-gruppo-wagner-in-mali-a-combattere-i-jihadisti-leuropa-risponde-con-le-sanzioni/
[3] Boserup R. & Martinez L., Europe and the Sahel-Maghreb Crisis, Danish Institute for International Studies, 2018
[4] Si rimanda a West African Papers, Contemporary Civil-Military relations in the Sahel, 2019
[5] Si rimanda a Delsol G., UN Peacekeeping Operations and Pastoralism-Related Insecurity: Adopting a coordinated approach for the Sahel, International Peace Institute, 2020
[6] Si veda il report de International Crisis Group, The Central Sahel: Scene of New Climate Wars, 2020
[7] Salopek P., « Lost in the Sahel », National Geographic, 4/2008
[8] Eizenga D., Long term trends across security and development in the Sahel, West African Paper, 2019
[9] Si veda al riguardo l’approfondimento dell’Osservatorio di Politica Internazionale, Dal Sahel al Corno d’Africa: l’arco di instabilità e le aree di crisi in Africa subsahariana, 2016
[10] Di Liddo M., La perdurante instabilità della regione saheliana, Osservatorio di Politica Internazionale, 2018
[11] https://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/STUD/2020/603514/EXPO_STU(2020)603514_EN.pdf
[12]https://pardee.du.edu/sites/default/files/USAIDSouthernAfricaDevelopmentTrends_0.pdf
[13] https://www.imf.org/external/pubs/ft/fandd/2018/12/global-migration-in-infographics-feng.htm
[14] Jamaat Nusrat al Islam wal Muslimin, trad.
[15] https://twitter.com/florence_parly/status/1268997756665966593
[16] https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/dopo-droukdel-quale-futuro-al-qaeda-nel-sahel-26472
[17] https://sicurezzainternazionale.luiss.it/2020/11/23/al-qaeda-nel-maghreb-islamico-un-leader/
[18] Si rimanda a International Crisis Group, Sidening the Islamic State in Niger’s Tillabery, 2020
[19] Si rimanda a Danish Demining Group, Border security needs assessment, 2014