scarica il file in pdf – L’apertura del Canale di Suez e l’Italia -dicembre 2019 – sanfelice
L’APERTURA DEL CANALE DI SUEZ E L’ITALIA
Amm. Sq. Ferdinando SANFELICE di MONTEFORTE
Introduzione
Sono passati 150 anni da quel 17 novembre 1869, quando il Canale di Suez fu attraversato per la prima volta da un convoglio di navi, a bordo delle quali si trovavano alcuni tra i più potenti sovrani d’Europa. Quest’anniversario, più di tanti altri, è l’occasione per riflettere su cosa è cambiato per l’Italia da quel giorno, quali vantaggi ne abbiamo ricavato e a quale prezzo, e cosa significa oggi il Canale di Suez per il nostro Paese.
L’importanza di Suez prima dell’apertura del Canale
Già ai tempi dei Faraoni, la possibilità di aprire una via di comunicazione tra mare Mediterraneo e mar Rosso, tramite un sistema di canali e laghi, sia per agevolare i commerci tra i due bacini, sia per dislocare la flotta rapidamente laddove necessario, era stata presa in considerazione. Fu, infatti, il Faraone “NECO II (609-595 a.C) a intraprendere uno scavo fra il Mar Rosso, i bacini lacustri e il Mediterraneo ma, a causa di vaticini sfavorevoli, tutto s’interruppe”[1].
In effetti, la preoccupazione per il crescente stato di debolezza dello Stato aveva spinto – stando ad alcune fonti – gli Aruspici a bocciare l’impresa, nel timore di compiere un’opera a beneficio di futuri invasori. Il timore degli Aruspici non era infondato: pochi decenni dopo, la Persia conquistò l’Egitto, e il re persiano Dario completò l’opera. La via di comunicazione fu tenuta aperta sia durante il periodo di dominio persiano sull’Egitto (525-404 a.C.), sia in epoche successive, fino ai re della dinastia Tolemaica.
Si trattava, in effetti, di un sottile corso d’acqua, utile solo alle navi di ridotte dimensioni, spesso interrotto dagli insabbiamenti provocati dai venti del deserto; mantenerlo operante imponeva lavori continui e spese elevate che, alla fine, divennero intollerabili per l’Egitto, in piena decadenza politica ed economica. Così l’opera fu infine lasciata decadere.
Il collegamento tra i due mari fu ripristinato, qualche secolo dopo, all’incirca nel 106 d.C., dall’imperatore Traiano, che ne comprese l’importanza per la politica commerciale e militare di Roma. Egli ne impose la riapertura, finanziando i lavori, e il nuovo canale prese così il nome di “Traianos Potamos” (il Fiume di Traiano). Con la decadenza dell’Impero Romano, l’importanza del collegamento decadde, ancora una volta, e la sabbia ne ridiventò di nuovo padrona. Qualche secolo dopo, il conquistatore arabo dell’Egitto, Amr bin al As lo fece riaprire, ma, successivamente, il califfo al Mansur nel 767 ne decretò l’interramento.
Di un “canale di Suez”, cioè di un taglio dell’istmo, si ricominciò a parlare agli inizi del ‘500, quando la Repubblica di Venezia dovette prendere atto che, grazie alla nuova via delle Indie che circumnavigava l’Africa, aperta da Vasco de Gama, i Portoghesi stavano soppiantandola nel commercio delle preziosissime spezie.
Fu in quelle circostanze, che un’ambasceria veneziana, capeggiata da Benedetto SANUDO, fu inviata al sultano d’Egitto, nel 1502, per suggerire il taglio dell’istmo di Suez, ma la missione tornò a mani vuote. Non era quella, però, la vera ragione del rifiuto ai Veneziani. Le preoccupazioni del sultano d’Egitto erano, infatti, ben altre: da un lato la guerra in atto nell’oceano Indiano, contro i Portoghesi, andava di male in peggio, e dall’altro la Sublime Porta, a Istanbul, era sempre più decisa a soggiogare i Mamelucchi, ritenuti poco leali. Quindici anni dopo, infatti, il sultano SELIM I “si impossessò della Siria e poi, nel gennaio 1517, del Cairo, dopo essere venuto a capo degli ultimi Mamelucchi”[2]. Il risultato fu che l’Impero Ottomano dovette contrastare direttamente, con le proprie forze, il potere marittimo portoghese.
Per sostenere la flotta, sempre più impegnata contro il nemico lusitano, il successore di SELIM I, SOLIMANO il Magnifico, inviò al Cairo, come governatore, suo cognato IBRAHIM Pascià, il quale, oltre a riordinare le finanze e calmare il dissenso, rinnovò l’arsenale di Suez, “per permettere alla presenza navale ottomana di affermarsi nel mar Rosso”[3]
Naturalmente, questo potenziamento di una così importante infrastruttura militare non poteva prescindere dalla logistica, e quindi da comunicazioni sicure con il mar Mediterraneo, per il transito di materiali per la costruzione di navi, rifornimenti e personale. Ovviamente, queste comunicazioni – secondo alcuni realizzate grazie a un progetto dell’Ammiraglio ottomano ULUĈ ALI, alias Gian Dionigi GALENI – rispondevano a esigenze di carattere puramente militare, e quindi confliggevano con le necessità commerciali, tanto che la Sublime Porta non aprì mai il passaggio al traffico mercantile.
In quel periodo, circolava inoltre la diceria che tra il Mediterraneo e il mar Rosso vi fosse un dislivello di tre metri, il che contribuiva a scoraggiare i progetti per l’apertura di una linea di comunicazione diretta tra i due mari. Bisognò attendere i progressi della strumentazione topografica, nel periodo napoleonico, per sfatare questa leggenda.
Di conseguenza, fino al XIX secolo le navi, da guerra e mercantili, occidentali erano costrette a circumnavigare l’Africa per raggiungere l’oceano Indiano, utilizzando la cosiddetta “Rotta del Capo” (di Buona Speranza). Date le basse velocità delle navi a vapore dell’epoca, e al loro bisogno di frequenti soste per il carbonamento, erano usate per il trasporto merci soprattutto navi a vela. Tra queste si distinguevano i Clipper, velieri particolarmente veloci (capaci di raggiungere ben 22 nodi!), in grado di collegare la Cina con la Gran Bretagna in meno di 100 giorni, per il trasporto delle derrate più pregiate, come il thè.
Per quanto riguarda il trasporto del personale, invece, la Gran Bretagna aveva adottato un sistema abbastanza complicato, ma molto efficace, per ridurre i tempi di transito verso l’India delle persone, fossero truppe o funzionari statali. Il sistema, che prevedeva l’utilizzo dell’istmo di Suez, e quindi la collaborazione dell’Egitto con la Gran Bretagna, nel tenere aperta questa linea di comunicazione affidabile e relativamente breve, si era rivelato essenziale per inviare truppe di rinforzo in India, per soffocare la rivolta dei Sepoys (1857-58), ed è ben descritto da un ufficiale di Marina britannico, poi diventato Ammiraglio e studioso di Strategia Navale, Philip Howard COLOMB.
COLOMB, nel 1868, era stato designato a comandare una nave, la HMS Dryad, che operava nell’oceano Indiano per la repressione della tratta degli schiavi, e per questo egli dovette prendere a Southampton un passaggio su di una delle navi passeggeri che facevano servizio di collegamento con Alessandria, con soste a Gibilterra e Malta.
Una volta giunto nel porto, egli salì su un treno diretto al Cairo; il viaggio fu agevole, malgrado alcuni assalti al treno da parte di folle numerose, che occuparono tutti i corridoi. Dal Cairo, dopo una breve sosta per riposarsi del viaggio, COLOMB utilizzò un’altra linea ferroviaria, lunga “novantacinque miglia (terrestri) attraverso il deserto fino (alla città di) Suez”[4], che fu percorsa in ben sei ore, fino ad arrivare a destinazione, dove un’altra nave passeggeri, questa volta della compagnia britannica P & O, lo attendeva per trasportarlo a destinazione.
Come si evince dalla descrizione di COLOMB, il sistema aveva degli inconvenienti notevoli: i treni, in particolare, erano gestiti da personale locale, dipendente dalla “Egyptian Transit Authority”, ed erano in pessime condizioni di manutenzione e di gestione. Basti pensare che, a detta dello stesso COLOMB, la pressione del “vapore (dei treni) calava nell’orario di preghiera dei macchinisti”[5], ai quali, inoltre, “non si riusciva a impedire di vendere il grasso (per gli ingranaggi) e sostituirlo con sabbia”[6], danneggiando così i treni.
Nel complesso, però, il sistema consentiva di accorciare di molto il tragitto per le truppe britanniche verso l’Asia, e questo spiega perché Napoleone, a suo tempo, aveva tanto insistito nei confronti del Direttorio, per invadere l’Egitto, da lui ritenuto la “porta dell’India”: se, infatti, l’occupazione francese fosse stata duratura, il governo di Londra avrebbe dovuto inviare anche le truppe circumnavigando l’Africa, con conseguenti ritardi disastrosi.
La Gran Bretagna, quindi, si doveva affidare, per il proprio trasporto strategico, all’Egitto, una Nazione con la quale, peraltro, i rapporti non erano sempre stati amichevoli, negli anni precedenti. Infatti, nell’autunno 1840, una spedizione anglo-austriaca, inviata in soccorso al Sultano di Istanbul, aveva sconfitto le forze egiziane, che tentavano di conquistare l’Impero Ottomano, e aveva occupato Beirut e Acri, da poco conquistate dagli Egiziani.
Malgrado ciò, l’Egitto non troncò i rapporti con la Gran Bretagna, anche se la concessione di transiti a quest’ultima attraverso l’Istmo di Suez era vista malvolentieri dal governo del Cairo. In una tale situazione, la dipendenza britannica da altre Nazioni, per il proprio trasporto strategico, era aggravata dal fatto che il Mar Rosso era un condominio turco-egiziano, con la Sublime Porta ottomana che governava le sue coste orientali (Heggiaz e Yemen), e l’Egitto che dominava, sia pure poco più che nominalmente, il litorale africano, dal Sudan a tutto il Corno d’Africa.
Per compensare questa dipendenza da altri, i Britannici si erano assicurati, fin dal 1839, una posizione dominante, dalla quale le loro forze navali erano in grado di garantire una sufficiente sicurezza dei transiti: la città di Aden. Questa posizione non era solo una stazione di rifornimento di carbone e viveri per le navi dirette in India, ma era diventata, nella seconda metà del XIX secolo, la base operativa per le azioni di controllo del Corno d’Africa e, soprattutto, del Mar Rosso: la sua vicinanza allo Stretto di Bab-el-Mandeb le permetteva, infatti, di dominare l’accesso delle navi a quel mare.
La situazione di competizione tra Francia e Gran Bretagna, molto viva in quegli anni, aveva spinto il capitale francese a penetrare economicamente l’Egitto, e a finanziare lo scavo del Canale, sul progetto dell’ingegnere austriaco Luigi NEGRELLI, un trentino diventato Sovraintendente delle Ferrovie Imperiali del Lombardo-Veneto, incoraggiato dal Ministro dei Lavori Pubblici dello Stato di Sardegna, Pietro PALEOCAPA. Purtroppo per il Piemonte, il progetto di NEGRELLI fu fatto proprio dall’ideatore, diplomatico e imprenditore francese DE LESSEPS, il quale ebbe cura di tagliar fuori il governo di Torino dalla partecipazione e al finanziamento dell’iniziativa.
La Gran Bretagna, all’inizio, tentò di boicottare l’impresa in vari modi, inclusa una campagna di stampa in cui si accusava DE LESSEPS di usare schiavi. Le morti di lavoratori egiziani addetti allo scavo erano, infatti, elevatissime (secondo alcuni perirono 120.000 uomini) e in Europa vi era un notevole scontento per come procedevano i lavori.
Ma, una volta completato lo scavo, il governo di Londra acquisì limitate quote di partecipazione della “Compagnie Universelle du Canal Maritime de Suez”. Già allora, come dimostrato da questo voltafaccia, il governo di Londra seguiva la politica, molto realista, di partecipare a ciò che non si poteva impedire, un approccio praticato anche oggi. Oltretutto, alcuni anni dopo, prima nel 1875, la Gran Bretagna comprò tutte le quote societarie del Canale di Suez in possesso del Khedivè di Egitto, che aveva portato al dissesto le finanze del Paese, e infine occupò il Paese nel 1882.
In questo modo la Gran Bretagna prima salvò l’Egitto dal fallimento economico, diventando proprietaria del passaggio, per lei vitale come accesso alle ricchezze dell’India e dell’Asia in generale, e poi arrivò a dominare l’intero Egitto, che all’epoca – come abbiamo visto – era il padrone, sia pure nominale, della sponda occidentale del Mar Rosso, fino al Corno d’Africa.
L’interesse italiano allo scavo del Canale
Fin dal periodo preunitario, come abbiamo visto, si era manifestato un forte interesse italiano verso l’Africa tanto che, nel 1857, il governo piemontese aveva incaricato Cristoforo NEGRI, il futuro fondatore della Società Geografica Italiana, di allacciare rapporti di amicizia e di commercio con l’Etiopia. Purtroppo, questa iniziativa, come pure quella di entrare nella società del costruendo Canale di Suez, non ebbe seguito.
Gli eventi del 1859, seguiti due anni dopo dall’unità d’Italia, e dalla successiva guerra del 1866, avevano, infatti, imposto una sosta ai tentativi di espansione verso l’Africa. Bisognò quindi attendere il 1868, per vedere tale interesse manifestarsi di nuovo. In quell’anno, nell’imminenza dell’apertura del Canale, un ufficiale di Marina, il comandante Luigi BERTELLI, fu incaricato “di esplorare le varie isole prospicienti la costa africana del Mar Rosso, e raggiunse Massaua il 15 marzo, dove iniziò trattative con alcuni italiani cointeressati nella colonia dello Sciotel e visitò le isole Dahlak”[7].
Nel frattempo, la Compagnia di Navigazione fondata da Raffaele RUBATTINO seguiva i lavori di scavo del Canale con interesse, vedendo le prospettive economiche che il commercio con l’Estremo Oriente offriva, e nel 1868 inaugurava la linea Genova-Livorno-Alessandria-Porto Said, prima ancora che il nostro governo assegnasse le sovvenzioni statali su tale linea.
Da Firenze (allora la capitale italiana), si seguiva con attenzione lo sviluppo dei lavori a Suez, tanto che il governo decise una partecipazione di rilievo alla cerimonia d’inaugurazione. Di conseguenza, l’anno successivo, in previsione della cerimonia, la Squadra Navale italiana si dislocò quindi ad Alessandria, con il suo Comandante il Capo, il duca Amedeo di Savoia Aosta, il quale avrebbe dovuto attraversare il canale a bordo della corazzata Roma, subito dopo lo yacht francese L’Aigle, che era alla testa del convoglio, e aveva a bordo l’imperatrice Eugenia, moglie di NAPOLEONE III.
Purtroppo, una malattia che aveva colpito in quei giorni il re Vittorio Emanuele II, costrinse il duca a rientrare con urgenza in Italia, a bordo della corazzata Castelfidardo, “lasciando indietro le altre”[8]. Dietro questa improvvisa partenza vi era anche la necessità, per il governo italiano, di mantenere la flotta in acque metropolitane, in previsione della conquista dello Stato Pontificio, un’impresa che fu compiuta l’anno successivo, sfruttando la sconfitta francese contro la Prussia.
Mentre tutta l’Europa aveva inviato navi da guerra, sulle quali avevano preso imbarco Imperatori e Principi regnanti, la rappresentanza italiana fu quindi limitata al Segretario della Società Geografica, Orazio ANTINORI, e a sei navi mercantili della Rubattino.
Dopo l’apertura del Canale, in Italia la crescente attenzione commerciale e militare per la nuova via di transito verso l’Oriente portò a una serie di iniziative. La Compagnia Rubattino, in particolare, progettò la creazione di una base di rifornimento nel Mar Rosso, e su suggerimento di un missionario lazzarista, che svolgeva da molti anni la sua opera in Dancalia ed Eritrea, padre Giuseppe Sapeto, acquistò, l’11 marzo 1870, la Baia di Assab dai capi locali. Le trattative furono appoggiate da una nostra nave da guerra, il Vedetta, che svolse i primi rilievi idrografici in zona.
Altre navi, il Vettor Pisani, al comando di Giuseppe LOVERA DI MARIA, e lo Scilla, al comando di Cesare SANFELICE, svolsero missioni in Mar Rosso, in quegli anni, sia per progredire con i rilievi idrografici, sia per sostenere la Rubattino, il cui possesso di Assab aveva sollevato le proteste egiziane, sostenute dalla Gran Bretagna. Il governo di Londra era, infatti, contrario a vedere altre potenze europee prendere piede nell’area. Solo dopo lunghe trattative, fu possibile consolidare il possesso della Baia, nel 1882, con la sua cessione al governo italiano.
La navigazione nel Mar Rosso non era, in quei tempi, cosa semplice: già nel 1870 il Vedetta si era incagliato “sui banchi di Shab Marass, a sud di Gedda nella mattina del 9 marzo, e solo dopo due giorni di faticoso lavoro riusciva a scagliarsi (sic)”[9], perdendo purtroppo un ufficiale e due marinai per incidenti occorsi durante il disincaglio. A tal proposito, è anche indicativo il resoconto del Duca di Genova, comandante del Vettor Pisani nel 1879, il quale, nell’attraversamento del Mar Rosso, dovette far uso di due piloti arabi, su consiglio dei locali rappresentanti della Rubattino, ma questi “bevevano alcolici come spugne, e si dovette metterli a razione”[10].
Dato che la loro presenza si era rivelata inutile e possibile causa di rischi, il Vettor Pisani dovette fare assegnazione sul proprio ufficiale di rotta. Questi, meritoriamente, notò il 6 maggio che “dalle osservazioni astronomiche, la nave risultava troppo vicina ad alcuni banchi troppo pericolosi. Con parecchi scandagli e qualche supposizione esatta ci riunimmo presto in mezzo al canale”[11]. L’incidente del Vedetta, quindi non fu ripetuto, e la navigazione in acque sicure continuò.
Dopo l’acquisizione di Assab, si verificò un cambio di atteggiamento nel governo di Londra verso una presenza di colonie italiane nel Corno d’Africa: la presa di possesso di Gibuti da parte dei Francesi nel 1862, seguita trent’anni dopo dall’emergente appetito tedesco verso possedimenti africani, infatti, aveva portato i Britannici a preferire il male minore, cioè la convivenza in Mar Rosso con l’Italia.
I motivi di tale scelta erano due: anzitutto vi era la posizione geografica del nostro Paese, in mezzo al Mediterraneo che, infatti, “rendeva quanto mai preziosa l’amicizia e pericolosa l’opposizione italiana”[12]. Oltretutto, un’ulteriore, forte garanzia per il governo di Londra era data dai rapporti estremamente cordiali, consolidati da secoli, tra la dinastia dei Savoia e la Corte di San Giacomo. Proprio per salvaguardare questo rapporto privilegiato, il nostro governo impose, nel 1882, una clausola speciale, all’atto della firma della Triplice Alleanza con Germania e Austria, secondo cui “le stipulazioni del Trattato non avrebbero potuto mai esser considerate rivolte contro l’Inghilterra”[13].
La benevolenza britannica verso di noi ci aprì, quindi, la strada prima verso la colonizzazione dell’Eritrea nel 1885-90 e poi verso la conquista della Somalia nel 1889-1905. Tutto ciò, malgrado noi avessimo tentato pochi anni prima, nel 1896, di conquistare l’Etiopia, contro il volere di Londra e di Parigi, che inviarono armamenti al Negus, consentendogli di resistere alla nostra invasione, ma non ci preclusero l’utilizzo del Canale, durante la crisi.
La sconfitta di Adua, il 1° marzo di quell’anno fu, infatti, la conseguenza del nostro scarso rispetto per i “paletti” posti nei nostri confronti dalle altre potenze europee, impegnate in una competizione per le risorse africane, e poco favorevoli a condividere con i nuovi arrivati, come all’epoca era considerata l’Italia, i territori e le ricchezze cospicue del continente africano.
I governi italiani, quindi, furono costretti a rimanere entro i limiti fissati da altri Paesi più grandi di loro, e quindi poterono proseguire, senza opposizioni, nella conquista della parte costiera del Corno d’Africa, conclusa solo nel 1927 con l’assoggettamento dei pirati migiurtini, gli abitanti dell’attuale Puntland.
Va detto che, durante questo periodo, le nostre navi si rifornivano regolarmente ad Aden e usavano i bacini di carenaggio di Colombo, nell’isola di Ceylon, l’attuale Sri Lanka (allora un possedimento britannico). La nostra penetrazione nel Corno d’Africa, quindi, si svolse con il costante appoggio britannico, specie dopo la nostra rinuncia alle mire sull’Etiopia.
Nel frattempo, dal 1911 e il 1912, si era svolta la guerra per la Libia tra l’Italia e l’Impero Ottomano, che ebbe risvolti notevoli, anche se poco noti, nel Mar Rosso.
In una situazione in cui tutta la costa orientale del bacino (ora appartenente all’attuale Arabia Saudita e allo Yemen) era sotto il dominio del nemico ottomano, il ruolo delle nostre forze era sia quello di “impedire un eventuale contrabbando di armi e di armati dalle coste dell’Arabia all’Egitto e di lì in Libia, sia di evitare possibili diversioni di truppe turche dalla costa dello Yemen nella nostra colonia eritrea”[14].
Le nostre forze navali erano inizialmente agli ordini del Capitano di Vascello Ugo ROMBO, che fu sostituito poco dopo dal parigrado Giovanni CERRINA FERONI. Quest’ultimo, malgrado comprendessero all’inizio, oltre ad alcune unità minori, solo due incrociatori coloniali, il Puglia e il Calabria, iniziò una sistematica offensiva contro le posizioni ottomane, proprio per privare il nemico dell’iniziativa.
Il 5 novembre 1911 ci fu il primo scontro a fuoco tra il Puglia e una cannoniera ottomana, che fu affondata, nel golfo di Aqaba; quindici giorni dopo, i due incrociatori bombardarono i forti e alcuni accampamenti militari nelle vicinanze, a Lobeja. Seguirono i bombardamenti dei forti di Punta Warner, nello Stretto di Bab-el-Mandeb, e di quelli – anch’essi vicini allo Stretto – di Sheik Said.
Nel dicembre dello stesso anno, le forze navali italiane in Mar Rosso ricevettero rinforzi, consistenti nell’incrociatore Piemonte e nei cacciatorpediniere Artigliere e Garibaldino, sempre attraverso il Canale di Suez: le autorità britanniche, infatti, lo avevano lasciato aperto, ancora una volta, alle nostre navi.
Questa forza, ormai soverchiante rispetto a quella nemica, fu quindi mandata alla ricerca della flottiglia ottomana, composta da 7 cannoniere, che fu sorpresa il 6 maggio 1912 nella Baia di Kunfidah[15] e distrutta; lo yacht Fauvette, sul quale il Commodoro ottomano era imbarcato e due sambuchi furono catturati e portati a Massaua, come prede di guerra. Lo yacht fu poi inviato in Italia e iscritto nei quadri del Regio Naviglio come R.N. Cunfida, in ricordo della battaglia.
Da quel momento, la nostra Marina divenne padrona del Mar Rosso, bloccando i mercantili che trasportavano armamenti a favore degli Ottomani, e favorendo la guerriglia araba, già allora vivissima. Questa fase del nostro dominio del mar Rosso durò fino al 15 ottobre successivo, quando furono firmati a Ouchy, in Svizzera, i preliminari di pace e le operazioni terminarono.
Il dopoguerra vide l’Italia impegnata a consolidare le conquiste dell’Eritrea e della Somalia. Le operazioni durarono, come già detto, fino al 1927, sempre con l’appoggio indiretto britannico. Ma nel 1936, quando il regime fascista di Mussolini decise di conquistare l’Etiopia, questa tacita alleanza venne meno: ancora una volta, le altre potenze europee, ora riunite nella Società delle Nazioni, cercarono di ostacolare l’invasione, questa volta senza successo. Da notare che la Gran Bretagna, durante la crisi, non bloccò il transito delle nostre navi, cariche di truppe e materiali di guerra, attraverso Suez, limitandosi a fornire armi all’Esercito Etiope, oltre ad applicare le sanzioni nei nostri confronti, decise collettivamente dalla Società delle Nazioni.
Sembrava un successo senza precedenti, ma vi furono conseguenze notevoli. Infatti, il prezzo pagato dall’Italia fu la fine del rapporto privilegiato con la Gran Bretagna, che non impiegò molto, una volta scoppiata la Seconda Guerra Mondiale, a sconfiggere le nostre forze del Corno d’Africa, ormai isolate per la chiusura del Canale di Suez. Nel novembre 1941, infatti, anche l’ultima roccaforte italiana, a Gondar, dovette arrendersi. Solo 4 sommergibili e una nave coloniale, l’Eritrea, riuscirono a sfuggire alla cattura e a raggiungere, dopo incredibili peripezie, i porti dei nostri alleati, rispettivamente Bordeaux e Kobe.
Così finiva tristemente la nostra conquista del Corno d’Africa, ottenuta grazie all’appoggio della Gran Bretagna, e persa per aver dichiarato guerra a quest’ultima.
Conclusione
Questa vicenda mostra che, allora come oggi, l’Italia non riesce a espandersi senza il beneplacito delle potenze maggiori. Favoriti dall’apertura del Canale di Suez, abbiamo conquistato il Corno d’Africa, grazie all’appoggio britannico, e lo abbiamo perso quando ci siamo alienati il favore della principale potenza marittima dell’epoca, appunto la Gran Bretagna.
Oggi, noi abbiamo conquistato un relativo benessere grazie alla trasformazione delle materie prime che importiamo e i prodotti finiti, che esportiamo in tutto il mondo, spesso battendo concorrenti molto agguerriti.
Per continuare a fare questo, è necessario avere accesso, per le nostre merci, a importatori negli altri continenti. La via dell’Oriente, in particolare, è vitale per i nostri traffici commerciali, ed è aperta alle nostre navi grazie all’appoggio dei Paesi occidentali, con gli Stati Uniti in prima fila. Questo spiega la nostra partecipazione, a partire dal 2008, alle operazioni NATO ed UE contro la pirateria nell’Oceano Indiano, a fianco delle potenze marittime occidentali.
Se dovessimo, però, entrare in conflitto con questi, perderemmo rapidamente la possibilità di praticare il commercio con l’Asia, dovendo sottostare al volere degli altri, più forti militarmente ed economicamente di noi.
Gaetano SALVEMINI aveva scritto che l’Italia “teneva un posto intermedio tra le grandi e le piccole Potenze: era la più piccola tra le grandi e la più grande tra le piccole”[16]. Ogni volta in cui i nostri governi si sono dimenticati delle implicazioni di questa nostra situazione, e hanno abbandonato il nostro tradizionale atteggiamento di vicinanza alle potenze marittime, essi hanno portato il Paese alla rovina.
[1] M. VALLE. Suez. Il Canale, l’Egitto e l’Italia. Ed. Historica, 2018, pag. 18.
[2] R. MANTRAN. Storia dell’Impero Ottomano. Ed. Argo, 1999, pag. 163.
[3] Ibid.. pag. 166.
[4] P. H. COLOMB. Slave Catching in the Indian Ocean. Longmans, Green and Co. 1873, pag.16.
[5] Ibid. pag. 13.
[6] Ibid. pag. 14.
[7] USMM. L’Opera della R. Marina in Eritrea e Somalia. Istituto Poligrafico dello Stato, 1929, pag. 6.
[8] F. SANFELICE di MONTEFORTE. I Savoia e il Mare. Ed. Rubbettino, 2009, pag. 134.
[9] USMM. Op. cit. pag. 9.
[10] F. SANFELICE di MONTEFORTE. Op. cit. pag. 149.
[11] Ibid.
[12] P. SILVA. L’Italia fra le Grandi Potenze (1882-1914). Ed. Paolo Cremonese, 1931, pag. 27.
[13] Ibid. pag. 12.
[14] Ibid. USMM, cit. pag. 548.
[15] In Italiano “Cunfida”. A ricordo di questa vittoria è rimasta solo una via di Roma, nel Quartiere Trionfale.
[16] G. SALVEMINI. La Politica Estera dell’Italia (1871-1914). Ed. Barbera, 1944, pag. 14.