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L’ATTUALE SCENARIO INTERNAZIONALE
tra bisogno di un ordine mondiale, la crisi delle Grandi Potenze e l’anarchia montante:
CI ASPETTANO SETTE ANNI DI GUAI?
Amm. Sq. Ferdinando SANFELICE di MONTEFORTE
- A che punto siamo
Secondo una superstizione piuttosto diffusa, se una persona rompe uno specchio, incorre in sette anni di guai. Guardando a cosa sta succedendo da un paio d’anni a questa parte, viene proprio da pensare che qualcuno, all’ONU, a Bruxelles, a Washington o – più probabilmente – a Mosca abbia rotto uno specchio, scatenando, in una sorta di reazione a catena, la serie interminabile di crisi che stiamo vivendo.
In effetti, le notizie circa guerre, tensioni e conflitti per terra e per mare, vicini e lontani, si accavallano con una frequenza tale che, spesso, cancelliamo dalla mente il conflitto che ci aveva preoccupato fino a quel momento, e ci focalizziamo su altre, tremende notizie riguardanti lo scoppio dell’ennesima nuova guerra.
Purtroppo, i conflitti non finiscono quando noi li dimentichiamo, e le loro conseguenze, a poco a poco, si iniziano ad avvertire, fino a far scricchiolare quell’equilibro mondiale che vedeva noi Occidentali decisamente avvantaggiati rispetto agli altri.
Sembra, quindi, che l’anarchia stia imponendosi sempre più come caratteristica del sistema internazionale, e questa prospettiva – bisogna dirlo – è preoccupante. La violenza sempre più diffusa, infatti, impone da un lato la necessità di spese ingenti per ricostruire, dopo decenni di pace, strumenti militari quantomeno credibili come deterrente nei confronti di chi ci vuole male, e dall’altro fa venir meno il commercio internazionale, la principale fonte di benessere per molte Nazioni, con l’Italia in prima linea.
L’anarchia del sistema internazionale, poi, spinge gli Stati a non fidarsi più di nessun altro, per cui le alleanze e le unioni si indeboliscono, le organizzazioni internazionali perdono credibilità, e ognuno cerca di arraffare quanto più possibile, a spese altrui, prima dell’arrivo di una “tempesta perfetta” che ci spazzi tutti via.
- Il bisogno di un ordine mondiale
La triste realtà è che non esiste alcun ordine internazionale – o stabilità mondiale – senza che un gruppo di Nazioni, più ricche e potenti delle altre, trovino dei limiti nella concorrenza tra loro, accordandosi su alcuni interessi in comune, e comprimano le aspirazioni e i revanscismi dei Paesi più piccoli, che si trovano nella loro zona di influenza.
La possibilità che le Superpotenze trovino punti di accordo potrebbe sembrare pura utopia, ma ognuna di esse ha, come primo interesse, quello di conservare il proprio status privilegiato, e quindi sarà riluttante a oltrepassare alcuni limiti – le cosiddette “linee rosse” – calpestando gli interessi essenziali delle competitrici, spingendole così a reagire con violenza.
Queste Nazioni-guida possono riunirsi in un organismo internazionale, come sono le Nazioni Unite, oppure prendere la buona abitudine di consultarsi periodicamente, anche in via informale, come avvenne alla fine del XIX secolo, grazie alle iniziative del Cancelliere tedesco Bismark, che ebbe cura di favorire questo tipo di coabitazione tra potenti, passato alla storia come “Concerto delle Potenze”.
Va detto, poi, che la Storia ci mostra come ogni sostituzione di un ordine mondiale con un altro è avvenuta al termine di un periodo di gravi sconvolgimenti e tragedie a ripetizione; sarà poi il vincitore a stabilire i termini e le caratteristiche di questo nuovo ordine mondiale.
Non è detto, poi, che questo ordine mondiale regga per un numero adeguato di anni: la sua durata sarà proporzionale al numero degli attori consenzienti e dalla sua accettazione, da parte degli sconfitti, senza eccessivi rimpianti.
Come funziona questo meccanismo per creare un ordine stabile post-bellico? Notava uno studioso, a questo proposito, che “gli Stati che nel dopoguerra diventano preminenti idealmente desiderano legare altri Stati a orientamenti prevedibili e stabili. Ma nel cercare l’impegno istituzionale di questi Stati, la Nazione-guida deve offrire loro, a titolo di scambio, una certa autolimitazione credibile e istituzionalizzata”[1].
Ma l’autore avvertiva anche che “maggiore sarà la capacità di queste istituzioni a funzionare indipendentemente dai gruppi che le hanno create, più longevo sarà l’ordine [internazionale]”[2]. In effetti, ogni ordine si basa sul consenso, e se alcuni Stati o gruppi decidono di buttarlo all’aria, l’ordine stesso non potrà sopravvivere a lungo.
La Storia contemporanea è ricca di esempi in tal senso. Prendiamo, anzitutto, la “Santa Alleanza”, concepita al Congresso di Vienna, nel 1815. Dopo la disfatta di Napoleone, i vincitori decisero di tornare al passato, creando però un sistema nel quale le potenze vincitrici si sarebbero aiutate reciprocamente per mantenere l’ordine internazionale contro i tentativi di sovversione.
Si ebbero così, tra l’altro, la spedizione austriaca nel Sud dell’Italia e in Piemonte, nel 1821, contro i costituzionalisti napoletani e piemontesi, quella spagnola dell’esercito franco-piemontese, comandato dal Duca di Angoulême nel 1823 contro i liberali spagnoli, l’intervento austriaco in Italia centrale nel 1831, per sedare i tumulti nel Ducato di Modena e negli Stati Pontifici, quello russo in Ungheria nel 1848 e infine quello francese nello Stato Pontificio, nel 1849, per sradicare la Repubblica Romana.
Tutti questi interventi, però, divennero via via più complicati, non riuscendo a contrastare la diffusione delle idee liberali e delle aspirazioni nazionali. Si può dire, addirittura, che questi interventi le favorirono, visto che le popolazioni interessate – e vessate da queste spedizioni – iniziarono a guardare alle nuove idee con occhi meno diffidenti rispetto a prima.
Ci vollero due decenni di guerre prima che il principe di Bismark riuscisse a creare il cosiddetto “Concerto delle Potenze” in grado di gestire le crisi in modo concordato, evitando una catastrofe mondiale. Fu appunto il rifiuto, da parte di alcune potenze, di gestire secondo questa prassi la crisi di Sarajevo, nel 1914, che portò all’apocalisse della Prima Guerra Mondiale.
Neanche la Società delle Nazioni, istituita dopo questo tragico conflitto, ebbe una sorte migliore, visto che durò esattamente venti anni, fino al 1939, quando scoppiò la Seconda Guerra Mondiale, questa volta a causa del revanscismo tedesco, che perseguì i propri obiettivi, rifiutando (o calpestando) ogni soluzione di compromesso.
Miglior fortuna ha avuto il periodo della “Guerra Fredda” durante il quale le due Potenze uscite vincitrici dalla guerra riuscirono a contenere non solo il livello di contenzioso tra di loro, ma esercitarono un’azione calmieratrice nei confronti delle irrequietudini e instabilità sub-regionali, anche se non mancarono esempi di “proxy wars” (guerre per procura) per sfruttare le difficoltà di un concorrente, impegnato in una operazione eccessivamente ambiziosa. La guerra di Corea, quella del Vietnam e l’invasione sovietica dell’Afghanistan ne sono gli esempi più chiari.
Passando ai giorni nostri, il cosiddetto “Ordine unipolare”, instauratosi nel 1991, dopo la fine della “Guerra Fredda”, che avrebbe dovuto portare benefici a tutto il mondo, grazie alla globalizzazione dei commerci, sta mostrando crepe profonde, come si nota ogni giorno di più, tanto da far temere, appunto, la sua fine. Cosa sta succedendo?
- La crisi delle Grandi Potenze
Una prima causa di questo ritorno all’anarchia delle relazioni internazionali, con il proliferare di conflitti, tra attori grandi e piccoli, tra Stati e gruppi non statuali, può essere la decadenza delle Grandi Potenze, Stati Uniti, Cina e Russia, che si stanno impoverendo, in alcuni casi per colpa delle difficoltà che le loro economie stanno attraversando, in altri per le imprese eccessivamente ambiziose nelle quali si sono impelagate.
Ed è anzitutto il principale vincitore della “Guerra fredda”, gli Stati Uniti, a mostrare segni preoccupanti di instabilità economica. Infatti, il governo di Washington si trova a dover fronteggiare un debito pubblico pari all’astronomica cifra, in dollari, di 33.700 migliaia di miliardi, a fronte di un PIL di “soli” 26.200 miliardi e di un bilancio di 5.800 miliardi, tanto che le spese per il pagamento degli interessi del debito pubblico hanno superato quelle per la Difesa, peraltro in continua crescita.
L’aspetto ancora più grave è che anche le economie della maggior parte dei Paesi occidentali, alleati o amici di Washington, si trovano nelle stesse condizioni, per cui non vi è possibilità di un “mutuo soccorso” tra di loro.
Questa situazione viene ritenuta, da molti, un pericoloso sintomo di decadenza. Infatti, come avvertiva uno studioso contemporaneo, “la ricchezza è in genere necessaria per sostenere la potenza militare, così come la potenza militare è di solito necessaria per conquistare e proteggere la ricchezza. [Ma] se una percentuale eccessiva di ricchezza viene destinata a scopi militari, a lungo andare questo può portare a un indebolimento della potenza nazionale”[3].
Merita aggiungere un’altra considerazione dello stesso studioso, che non si applica solo alla situazione americana, ma anche a quella delle altre Potenze. Lo studioso, infatti, notava che “se uno Stato si estende eccessivamente dal punto di vista strategico (tramite, per esempio, la conquista di troppi territori o il coinvolgimento in guerre dispendiose) corre il rischio che i potenziali benefici di un’espansione esterna siano inferiori alle spese da sostenere – un dilemma che diventa grave se la Nazione in questione è entrata in un periodo di relativo declino economico”[4].
Non è un caso che, da tempo, siano sempre più numerosi gli esperti che sostengono la necessità di ridurre gli impegni americani, in modo da assicurare alla Nazione la permanenza nell’esclusivo club delle Superpotenze.
Ad esempio, già nel 1985 uno studioso sosteneva che: “se gli Stati Uniti rimarranno o meno una superpotenza nel XXI secolo dipende in larga misura da come [il governo] deciderà le proprie priorità internazionali in questo decennio e organizzerà le proprie risorse per difenderle. Ridurre l’ampiezza e i costi degli impegni globali degli USA è da tempo una necessità e l’Amministrazione Reagan non dovrebbe esitare dal prendere le difficili decisioni per farlo”[5].
Come spesso avviene, le Cassandre non vengono ascoltate, e questo è quanto si sta verificando negli Stati Uniti, che si sono appena risollevati dalla crisi dei mutui edilizi, e si ritrovano con le banche sempre più in affanno a causa dell’elevata sottoscrizione del Debito Pubblico nazionale, il cui rendimento è sempre minore.
Dietro la sempre più accanita rivalità politica tra i due principali partiti del Paese, i Repubblicani e i Democratici, aleggia quindi la paura di dover vedere gli Stati Uniti precipitare dalla posizione di preminenza assoluta, di cui godono ormai da quasi ottant’anni.
Ma, come scriveva Vincenzo Monti, “se Messenia piange, Sparta non ride”[6]. La Federazione Russa, nata dalle ceneri dell’Unione Sovietica, rimane la Nazione più vasta al mondo, con una superficie pari a 17 milioni di chilometri quadrati, nonostante le secessioni che l’hanno privata di circa il 25% del territorio dell’ex Unione Sovietica.
Malgrado queste separazioni che, come vedremo, incidono in senso negativo sull’immaginario collettivo del popolo russo, la Nazione ha conservato una parte significativa delle ricchezze naturali di cui godeva. Gli idrocarburi, il gas naturale, l’oro e gli altri minerali abbondano, tanto che il loro sfruttamento ha permesso alla Russia di risollevarsi in relativamente poco tempo dalla crisi del 1991.
La Russia, però, ha tre punti deboli. Il primo è l’assenza di confini naturali, che – come molti studiosi hanno notato – ingenera insicurezza e spinge ad ampliare sempre più il proprio territorio, alla ricerca di tranquillità.
Il secondo punto debole è il PIL, pari a soli 1.800 migliaia di miliardi di dollari, una cifra che resta inferiore al PIL di Paesi decisamente più piccoli, in termini di dimensioni e di ricchezze naturali: basti pensare che il PIL dell’Italia raggiunge i 2.100 miliardi di dollari.
Il terzo, e più grave punto debole, è la relativa scarsità di popolazione, rispetto all’ampiezza del territorio – meno di 9 abitanti per chilometro quadrato – con l’aggravante che la crescita demografica è minima.
Questa situazione è resa ancora più insidiosa dal fatto che il governo di Mosca si sia lanciato in imprese, come l’invasione dell’Ucraina, estremamente costose da punto di vista delle perdite umane. Se sono vere le cifre che circolano – si parla, infatti, di oltre 100.000 caduti in combattimento – la Russia rischia di diventare, tra alcuni anni, una specie di immenso congelatore vuoto, e aperto a migrazioni di massa, che la priveranno, di fatto, a poco a poco, delle zone più ricche del Paese.
Infatti, secondo le leggi della geopolitica, il vuoto di popolazione induce i Paesi limitrofi, quando sono sovrappopolati a indurre parte della popolazione a emigrare verso zone dove la popolazione è scarsa. La paura di essere travolti dall’immigrazione di massa tormenta i governanti russi, non solo a Mosca ma anche nella periferia del Paese.
Come osservava uno studioso francese, Pierre Célérier, già negli anni 1950, “la difficoltà di vivere per effetto del sovrappopolamento conduce sia all’emigrazione sia alla ricerca di un’estensione territoriale, talora con la violenza; al contrario, il Paese sottopopolato è privo di braccia, è sfruttato in modo incompleto, e deve accettare l’immigrazione o rischiare l’asservimento, talvolta anche con la violenza”[7]
Purtroppo, l’immaginario collettivo del popolo russo è influenzato dalle perdite territoriali subite con le secessioni dei popoli alla propria periferia, e sogna la riconquista di questi spazi, incurante del fatto che le popolazioni dei Paesi che si sono staccati dall’Unione Sovietica e sono diventati indipendenti lo hanno fatto come rivalsa dalle sofferenze patite nei secoli passati.
In breve, la Russia è circondata da una “Cortina di odio”, il che rende qualsiasi futuro allargamento precario, malgrado questo venga ottenuto con la forza delle armi.
Neanche la Cina, terza ma non ultima Grande Potenza, si trova in una condizione di privilegio, malgrado l’attenzione della propria leadership a migliorare l’economia del Paese. Infatti, esso soffre in questi ultimi anni di un vistoso rallentamento del proprio sviluppo, cui si aggiunge l’instabilità endemica, a causa delle periodiche ribellioni delle minoranze presenti nel suo vasto territorio.
In effetti, la Cina sta cercando di risolvere i propri problemi, da un lato, allentando la pressione demografica, favorendo sia l’emigrazione verso l’interno del Paese, in modo da acquietare le sue minoranze, sia sponsorizzando una sorta di invasione pacifica della Siberia, sempre più spopolata, e praticando una politica di espansione verso il mare aperto, non solo alla ricerca di risorse, ma anche per accrescere la propria popolarità nei confronti dell’opinione pubblica nazionale.
Le rivendicazioni su Taiwan e sul mar Cinese Meridionale, infatti, appaiono come il classico espediente, usato molte volte in passato, da Paesi in difficoltà sul fronte interno, per distrarre l’opinione pubblica dalle difficoltà in cui si trova.
La quarta e ultima Grande Potenza, almeno sul piano economico, è l’Unione Europea, che si trova però in una situazione di pericolo, a causa dell’astio che il proprio vicino, la Russia, nutre nei suoi confronti, accusandola di essersi troppo allargata, favorendo l’adesione degli Stati ex sovietici ed ex alleati di Mosca.
Purtroppo, la sua economia, malgrado sia decisamente più prospera, rispetto almeno a quelle cinesi e russe, è oberata da debiti pubblici non facilmente riducibili, e a questa situazione si aggiungono due debolezze, che la minano alla base.
La prima è il frequente disaccordo politico, che rende l’UE più una sede di dibattimenti, anziché di decisioni. Questo disaccordo, che spesso ha pregressi risalenti ai secoli passati, impedisce all’Unione di decidere rapidamente in caso di crisi, e rende spesso preferibile nascondere i problemi sotto il tappeto, anziché agire efficacemente.
La seconda debolezza è quella di aver trascurato per decenni la propria difesa. Solo dopo che l’UE si ritrovò da sola a gestire l’implosione della ex Jugoslavia si cercò prima di rivitalizzare l’Unione Europea Occidentale, poi si capì che l’impresa era impossibile, non essendovi legami diretti con l’Unione, e si inaugurò la cosiddetta “Politica Europea di Sicurezza e Difesa”, oggi “Politica di Sicurezza e di Difesa Comune”, senza peraltro proseguire, creando una struttura operativa permanente[8].
Va detto che le operazioni condotte finora sotto l’egida UE non si sono mai risolte in un fallimento completo, a differenza di quanto accaduto alla NATO in Afghanistan. La prima ragione di questa assenza di insuccessi è la saggia prudenza, che ha spinto i Membri dell’Unione ad agire solo nella parte bassa dello spettro delle crisi. Ora, però, che la tensione mondiale aumenta e si crea la necessità di essere preparati a respingere attacchi violenti, l’UE deve sfatare la ormai storica affermazione dell’Onorevole Bonino, che definì l’UE “un gigante economico, un nano politico e un verme militare”.
Si è accennato alla NATO, e alla sua ritirata dall’Afghanistan, dove le forze dei Paesi membri si erano logorate per oltre un decennio. Il ritorno della minaccia russa le ha conferito nuova vitalità, facendola tornare all’attività per cui era nata, la difesa collettiva, nell’ormai lontano 1949.
Il punto debole della NATO è che le Forze Armate dei Paesi europei sono rimaste un complemento di quelle degli Stati Uniti, e questo è il fattore che spiega la debolezza militare europea, priva di mezzi idonei a fronteggiare aggressioni da parte delle Forze Armate di un Paese potente e tecnologicamente avanzato, disposto a condurre una guerra senza limiti.
Questa debolezza, se da un lato rende la NATO indispensabile, impedisce agli Stati Uniti, ogni volta in cui hanno cercato di responsabilizzare gli Europei, in modo da diminuire gli impegni militari nel Vecchio Continente, di concentrarsi su quella che ritengono sia la sfida principale: come fronteggiare efficacemente la crescente assertività della Cina.
Tornando all’Europa, è necessario che la propria leadership si convinca che la migliore arma è quella che non ha bisogno di essere usata. Per questo, lo strumento militare europeo deve essere credibile, tanto da scoraggiare l’avversario dall’intraprendere avventure contro di noi.
Al momento, quindi, il revanscismo della Russia può essere tenuto a freno solo dalla NATO. Ci vorrà tempo prima che altrettanto possa dirsi della Difesa europea.
- L’anarchia montante
In questa situazione, va ricordato che, spesso, vi sono due conseguenze della situazione di debolezza generale appena descritta. La prima è che, quando una Potenza decade, le altre cercano di approfittarne, in modo da guadagnare territori e ricchezze naturali, e questo è il pericolo che la Russia sta correndo, tanto da essere ormai considerata, nelle capitali delle potenze rivali, come un osso pronto per essere spolpato a tempo debito.
Questo spiega l’accanimento tra le Grandi Potenze, pronte a usare ogni mezzo per piegare i concorrenti. Finora, tutte loro hanno fatto ricorso, per fortuna, solo a strategie indirette, ma anche questa relativa prudenza nasconde dei pericoli non da poco.
Infatti, qualora, inavvertitamente, nel danneggiare il concorrente venissero superate le già citate “linee rosse”, la reazione sarebbe drammatica, ben descritta dalla frase della Bibbia “Muoia Sansone con tutti i Filistei”.
Questo ci deve allertare sul fatto che le Potenze, nel cercare di affossarsi a vicenda, stanno conducendo un gioco pericoloso, tanto che il rischio di un’ecatombe mondiale è, oggi, molto più vicino rispetto al passato.
La seconda conseguenza di questo indebolimento generale è che il potere di influenzare le azioni delle Nazioni medie e piccole, da parte delle Grandi Potenze in fase di decadimento, è decisamente minore rispetto a quando le prime erano in gran spolvero.
Oggi, una Grande Potenza, se deve frenare, o indurre ad agire una o più Nazioni minori, amiche o alleate, deve entrare in una trattativa serrata, in cui il partner minore chiederà compensi non da poco, per ottemperare a quanto gli viene chiesto.
Ancora peggio, la debolezza apre spiragli a chi voglia alterare l’equilibrio mondiale, o quanto meno togliersi sassolini dalle scarpe, intraprendendo iniziative che in altri tempi sarebbero state bloccate dalle Superpotenze.
Un esempio di quanti spazi di iniziativa si aprano, nell’attuale situazione di debolezza delle potenze sarà sufficiente: la Russia aveva sempre difeso l’Armenia cristiana contro le mire dell’Azerbaijan, sciita, sulla regione del Nagorno-Karabak, un tempo incluso nella Repubblica Azera dell’URSS, ma abitato da una popolazione armena.
I tentativi, compiuti a partire dal 1991, da parte del governo armeno di annettersi questa regione erano stati frustrati dal governo di Baku, che aveva dispiegato forze adeguate a tenere a bada l’avversario. Era intervenuta la comunità internazionale, ed aveva congelato il conflitto.
Ora, però, con la Russia impegnata nel conflitto con l’Ucraina, l’Azerbaijan ha fatto un solo boccone della regione contesa, costringendo almeno 120.000 armeni ad abbandonare le loro case e rifugiarsi in Armenia, con buona pace del governo di Mosca, che è dovuto restare a guardare.
Sempre parlando della Shia, la religione praticata in Azerbaijan, e predominante in Iran, bisogna notare un aspetto particolarmente preoccupante di questa crescente anarchia dell’ordine internazionale.
Quanto sta accadendo nel Medio Oriente – il Levante, come veniva chiamato un tempo – è infatti assimilabile a uno sconvolgimento generale, impensabile fino a un anno fa, quando tutti confidavano in una distensione generale della tormentata regione, grazie all’accordo del 10 marzo 2023, tra i governi dell’Arabia Saudita e dell’Iran sulla normalizzazione delle relazioni diplomatiche, conseguito grazie alla mediazione della Cina.
Con le due Nazioni leader delle rispettive costellazioni della Galassia Islamica, quella sunnita e quella sciita, che riprendevano a dialogare – si pensava – la pace sarebbe calata finalmente in quella parte del mondo.
Al plauso generale nei confronti del governo di Pechino si univa la speranza che questo accordo, insieme alle altre iniziative di distensione, come il secondo ciclo degli “Accordi di Abramo” allora in corso di trattativa, riuscisse a calmare finalmente le acque agitate dei rapporti tra Paesi islamici tra di loro, nonché quelli tra questi ultimi e Israele.
Nulla di più errato! Si è dovuto assistere, in questi ultimi mesi, a una serie di attacchi, spesso di particolare crudeltà, compiuti da gruppi non statuali vicini all’Iran, come Hamas, gli Hezbollah e gli Houthi yemeniti, che hanno di fatto azzerato la distensione, riportandoci indietro di cinquant’anni, quando il Medio Oriente era in fiamme.
Sembra proprio che dietro questa serie di attacchi vi sia una strategia di espansione, attuata dal governo iraniano in questo momento in cui i suoi leader pensano che il potere di pressione da parte delle Grandi Potenze sia ridotto rispetto al passato.
La reazione dell’Occidente a questa situazione ha mostrato una spaccatura preoccupante, anche se storica, nell’approccio da seguire. Mentre, infatti, gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno iniziato ad agire contro questi gruppi in modo decisamente violento, anche se la loro forte reazione si è finora limitata a colpire i gruppi non statuali, i cosiddetti “proxy”, anziché il mandante, l’Iran.
In effetti, se ci si guarda intorno, si può notare come la “Mezzaluna Sciita” stia diventando sempre più forte e potente: oltre all’Iran, anche l’Iraq e la Siria hanno governi sciiti, vicini e sodali di Teheran, e a questi si aggiungono, come abbiamo visto, gruppi non statuali che dominano il Libano meridionale (gli Hezbollah), lo Yemen nord-occidentale (gli Houthi) e la Striscia di Gaza (Hamas)[9].
Se è vero che le maggiori iniziative ostili, intraprese in questi ultimi mesi dalla “Costellazione Sciita” mirano a colpire l’Occidente – e la crisi di Bab-el-Mandeb lo dimostra, è altrettanto vero che nel mirino di Teheran ci sono altri Stati della “Galassia Islamica”, che dipendono dal commercio internazionale per la loro prosperità.
Si può capire, quindi, il motivo dietro il sostegno, sia pure dietro le quinte, che i Paesi leader della costellazione sunnita forniscono ad Israele.
In questa equazione entrano, poi, due tra gli attori principali del Medio Oriente, e precisamente la Turchia e l’Egitto. I loro problemi interni, di carattere economico e sociale, li spingono a un ruolo di mediazione, che purtroppo non può risultare decisivo in tempi brevi. La loro è una corsa contro il tempo, per evitare le conseguenze, disastrose per le loro economie, delle iniziative di cui Teheran viene sospettato essere il mandante.
Più efficace appare la benemerita azione moderatrice degli Emirati del Golfo Persico, i cui tentativi di ridurre le tensioni all’interno della Galassia Islamica sono in linea con i loro interessi strategici, visto che rischiano di trovarsi in mezzo tra un Iran sempre più assertivo e un’Arabia Saudita che potrebbe temere di essere caduta in un tranello, firmando l’accordo con Teheran, e quindi potrebbe mandare all’aria tutto ciò di buono che è stato fatto nel Golfo Persico.
- Conclusione
La guerra in Europa, tra Russia e Ucraina, quella del Medio Oriente tra Israele, Hamas e Hezbollah, per non parlare degli altri contenziosi in giro per il mondo, preoccupano noi Europei, che vediamo con altrettanto timore le reazioni decise degli Anglo-Americani.
Lo sforzo di tutti i governi dell’Unione, e in particolare di quello italiano, è quello di riportare le parti dietro a un tavolo negoziale. Purtroppo, ci vorrà del tempo. Storicamente, al negoziato, le parti in conflitto arrivano solo in due casi: quando sono sconfitte – militarmente o economicamente – oppure quando le loro opinioni pubbliche vengono colpite dal fenomeno noto come “stanchezza della guerra”.
Ambedue i casi sono lontani dal concretizzarsi, per cui la pazienza e la perseveranza sono d’obbligo, insieme alla capacità di sopportare i colpi al nostro sistema di benessere che questi conflitti inevitabilmente ci provocano.
Ci vorrà, in sintesi, del tempo, prima di arrivare alla composizione delle principali dispute che sono esplose negli ultimi due anni. Se non saranno sette anni di guai, come vuole il proverbio citato all’inizio di questo lavoro, poco ci mancherà. Forse si riuscirà a conseguire situazioni armistiziali che daranno un po’ di respiro, almeno temporaneo, forse si convincerà una parte a cedere, per il bene collettivo, ma la cosa più importante è che le parti sappiano che vi è qualcuno pronto ad ascoltare e a mediare.
In questo, la nostra tradizione diplomatica ci consente di guardare al futuro con sufficiente ottimismo, sicuri che prima o poi riusciremo a trovare un punto di accordo tra i contendenti.
[1] G. J. IKENBERRY, After Victory. Princeton University Press, 2001, pag. XXXIII.
[2] Ibid, pag. 269.
[3] P. KENNEDY. Ascesa e declino delle Grandi Potenze. Ed. Garzanti, 1989, pag. 20.
[4] Ibid.
[5][5] D.E: NUECHTERLEIN, America Overcommitted. The University Press of Kentucky1985, pag. VII.
[6] Frase tratta dalla tragedia Aristodemo di Vincenzo Monti, e divenuta in breve un proverbio popolare.
[7] P. CÉLÉRIER, Géopolitique et Géostratégie. Presses Universitaires de France, 1955, pag. 34.
[8] Ad oggi vi è solo una cooperazione strutturata permanente (PESCO).
[9] Gruppo che a differenza degli altri è sunnita e non sciita, ma ha trovato nel comune odio verso Israele base per la sua cooperazione con l’Iran.