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LE GUERRE DELL’IRAN:
una storia millenaria che spiega i conflitti attuali
Amm. Sq. Ferdinando SANFELICE di MONTEFORTE
- Introduzione
L’assertività dell’Iran, in questi ultimi anni, ha destato forti preoccupazioni nella Comunità internazionale. Il governo di Teheran, infatti, si è schierato apertamente in favore dell’aggressione russa all’Ucraina, ed è da tempo sospettato di fomentare l’instabilità del Medio Oriente, mediante gruppi non statuali a lui vicini, come Hezbollah, Hamas e gli Houthi.
Si afferma, infatti, che dietro alle aggressioni ai mercantili nello Stretto di Bab-el-Mandeb, da parte di questi ultimi, malgrado si tratti di rudi e coraggiosi montanari yemeniti, neanche tanto esperti di cose di mare, ci sia l’appoggio, neanche tanto indiretto, dell’Iran, che li sostiene, oltretutto, fin dall’inizio dell’intervento in Yemen da parte della coalizione capeggiata dall’Arabia Saudita, nel 2014.
Negli ultimi mesi, infine, il governo iraniano, che da alcuni decenni “sostiene” gli attacchi degli Hezbollah libanesi e dei palestinesi di Hamas, è entrato in conflitto aperto con Israele, dopo che il proprio Consolato a Damasco era stato attaccato, provocando la morte di alcuni leader dei Pasdaran, le Guardie della Rivoluzione, che vi si trovavano, per una riunione con corrispondenti siriani.
Per capire le ragioni di questa assertività dell’Iran, è necessario dare uno sguardo alla sua posizione geografica, e quindi trovare nella sua storia, lunga e tormentata, le ragioni ricorrenti di tale periodica tendenza verso l’espansione – sia essa territoriale o di influenza sull’area medio orientale – e capire anche il legame di questa tendenza con l’attrazione culturale e religiosa che l’Iran esercita nei confronti dei popoli dell’Asia occidentale.
- La geografia dell’Iran
Va notato, anzitutto, che questo Paese occupa una superficie di 1 milione e 650 mila chilometri quadrati, e si estende dal mar Caspio all’oceano Indiano e dall’Iraq all’Afghanistan e al Pakistan. Come nota uno studioso, “L’Iran è difeso dalla sua geografia, con montagne su tre lati, paludi e acqua nel quarto. I Mongoli furono l’ultima forza a compiere qualche progresso attraverso [il suo] territorio nel 1219-21 e da allora gli aggressori si sono arenati nella polvere, nel tentativo di avanzare nelle montagne”[1]. A parte le imprecisioni di questa notazione – come vedremo compiendo un pur rapido excursus storico – si può dire, in generale, che l’Iran sia stato dotato da Madre Natura di una serie di difese naturali che, se e quando ben presidiate, lo possono proteggere da possibili invasori.
All’interno di queste difese naturali, la popolazione iraniana si è accresciuta nel tempo raggiungendo gli 85 milioni di abitanti, anche se la densità di popolazione è ancora relativamente bassa, pari a 52 abitanti per chilometro quadrato. Se si pensa, poi che la capitale, Teheran, è ascrivibile nel novero delle megalopoli, visto che ospita oltre 14 milioni di persone, si può notare quante zone sottopopolate vi siano nelle regioni periferiche del Paese.
La maggiore risorsa naturale dell’Iran è data dai suoi immensi giacimenti petroliferi, che hanno attirato più volte le Grandi Potenze, inducendole a mettere le mani su questo ben di Dio, ogni volta che l’Iran è stato colpito da lotte intestine che lo hanno indebolito. Gran parte della diffidenza del popolo iraniano verso i Paesi stranieri è legato a questi tentativi di spoliazioni.
Sul piano dell’agricoltura, invece “la coltivazione è limitata [alle province del] piovoso Azerbaijan, del Kurdestan e della costa sul mar Caspio, ai villaggi irrigati e alle oasi sparse su tutto il territorio specie ai piedi delle catene montuose”[2]. In definitiva, i tre quinti dell’Iran sono privi di precipitazioni sufficienti per consentire l’agricoltura su pianta stabile, anche se, nel passato come attualmente, imponenti opere di canalizzazione delle acque hanno consentito di ampliare l’area coltivabile.
Al di là della sicurezza offerta all’Iran dalle montagne che ne segnano il confine, sul piano della geopolitica, va detto che alcuni studiosi sono arrivati a definire, nell’Asia sud-occidentale, l’esistenza, fin dall’antichità, di una zona compresa tra le civiltà greca, cinese e indiana. Questa zona, chiamata dagli studiosi “Oikoumene, un termine greco antico che significa zona abitabile, [è] la zona arida e temperata della massa afro-asiatica che si stende dal Nord Africa ai margini occidentali della Cina”[3].
Questi studiosi giudicano, inoltre, una parte di questa “Oikoumene”, il vasto quadrilatero, posto al centro dell’Asia, come una zona “caratterizzata da uno sconcertante insieme di regni, sultanati, teocrazie, democrazie, e autocrazie di stile militare, un asse di instabilità densamente affollato, dove convergono continenti, reti stradali storiche, e rotte marittime. La regione è incline a tutte le patologie: ideologie estremiste, psicologia delle masse, raggi d’azione di missili che si sovrappongono, e mass-media diretti dal profitto”[4].
Anche prima di loro il grande Mahan, agli inizi del XX secolo, analizzando la struttura dell’Asia, aveva affermato qualcosa di simile, notando la concentrazione, tra il 30° e il 40° parallelo nord, delle “caratteristiche naturali più decisive, come anche le divisioni politiche, il cui carattere instabile rende il problema dell’Asia di oggi, al tempo stesso, fonte di perplessità e immanente”[5]. In pratica, Mahan puntava il dito sul fatto che l’instabilità in Asia si accumulasse in questa fascia che taglia quasi a metà il continente asiatico, e che tendesse a estendersi verso nord o verso sud.
Lo studioso proseguiva affermando che “a nord e a sud [di questa fascia] le condizioni politiche sono relativamente definite. [Ma] lungo i confini settentrionali e meridionali [della fascia] dove gli impulsi esterni si urtano, vi sono incertezza e gelosia, aggressione e difesa, non tanto militari, quanto politiche”[6]. Basta guardare la carta geografica dell’Asia per notare che l’Iran si trova incluso in questa che si può ben definire come la “fascia di instabilità” del continente asiatico.
L’Iran, quindi, posto al centro di questa immensa zona, oltre ad occuparne una parte cospicua, tanto da essere il Paese più vasto della fascia, e a possedere un’immensa ricchezza in giacimenti di petrolio e di gas, gode anche di altri importanti vantaggi di posizione, tanto da essere considerato da alcuni studiosi come il vero e proprio Paese-perno dell’Asia sud-occidentale.
Quali siano questi vantaggi, è facile spiegare: anzitutto, la costa occidentale iraniana, che si affaccia sul Golfo Persico, “per le sue baie, insenature, ridossi e isole – posti eccellenti per nascondere imbarcazioni suicide, capaci di speronare petroliere – è lunga 1.356 miglia nautiche[7]. La guerra delle petroliere, alla fine degli anni 1980, ha visto le forze rivoluzionarie iraniane fare ampio uso di queste caratteristiche della costa, rendendo la vita difficile alla forza multinazionale, cui l’Italia ha partecipato, inviata per proteggere il traffico nel golfo.
Il secondo vantaggio di posizione dell’Iran deriva dal fatto di essere un ponte naturale che consente l’accesso alle acque oceaniche ai Paesi dell’Asia Centrale, incluse le zone della Russia asiatica. Confinando a nord con il mar Caspio, del quale, oltretutto, occupa un tratto di costa significativo, e a sud, appunto, con l’Oceano indiano, l’Iran è il tramite naturale di questi Paesi con il resto del mondo.
Il terzo vantaggio – a volte una tentazione – deriva dal fatto che l’Iran, nei periodi in cui è stato adeguatamente forte, grazie al fatto di essere il Paese più vasto e popolato, ha potuto sfruttare la debolezza endemica dei Paesi appartenenti all’immensa “fascia d’instabilità” di cui fa parte, espandendosi e/o influenzando gli eventi tutto intorno a sé. I Paesi che lo circondano, infatti, sono piccoli o sottopopolati, tanto da essere stati considerati nel passato prede appetibili per i governanti di Teheran.
Ma questi vantaggi, se costituiscono un beneficio, possono anche essere una dannazione. Infatti, se non sono adeguatamente sfruttati, rendono il Paese interessato preda delle Potenze mondiali. Infatti, come è accaduto spesso, se una di queste vuole appropriarsi di queste posizioni, il Paese rischia di essere sottomesso con la forza, o quantomeno costretto a venire a patti. In questo, l’Iran è simile all’Italia, per secoli appetita dalle Grandi Potenze per la sua posizione invidiabile al centro del Mediterraneo, una situazione che ne ha ritardato l’unificazione fino alla metà del XIX secolo.
Se si aggiunge alla posizione e alla sicurezza naturale dei suoi confini il fatto che oggi, per le sue ricchezze e per la sua popolazione, l’Iran è la potenza dominante della regione, si capirà la sua importanza sul piano della geopolitica. Oltretutto, la posizione centrale, con molte possibilità di commerci e collegamenti sia terrestri sia marittimi, permette a un Paese di antica civiltà, come l’Iran, di estendere la propria influenza al di là delle frontiere, tanto da creare o mantenere nuclei di simpatizzanti o di correligionari nei Paesi viciniori.
Questa influenza culturale, poi, se appoggiata da abbondanti ricchezze, diventa un fattore estremamente potente di influenza nei confronti dei vicini: questo è il caso dell’Iraq e dall’Azerbaijan a ovest, della provincia occidentale afgana di Herat, a est, ambedue di religione sciita e persino della Siria, governata da leader sciiti, appartenenti alla setta Alawita. Questo tipo di preminenza culturale, nel caso dell’Iran, si è, però, esteso, oltre che in Siria e nel Libano, persino nella Palestina sunnita, come vedremo a breve. Alcuni studiosi riconoscono, infatti, che “l’Iran ha una storia ben più venerabile come Stato-Nazione e civilizzazione urbana che molti posti del mondo arabo e tutte le zone della Mezzaluna Fertile”[8].
Bisogna ammettere, infatti, che l’influenza che l’Iran esercita su parte dell’Asia occidentale è un fatto che esisteva già nei tempi antichi, ben prima della diffusione, nell’Islam, dell’eresia sciita. Come ricorda Mackinder, “dal nord-est [della fascia fertile del Medio Oriente] con tutta l’immensa profondità dello Heartland [il cuore della terra] dietro di loro, i Cavalieri discesero dall’altipiano iraniano nella Mesopotamia”[9].
Lo studioso, poi, ricordava che “dall’altopiano iranico verso l’India vi sono due vie naturali, una attraverso l’imponente ma stretto versante dell’Hindu Kush, nella vallata di Kabul, e l’altro attraverso Herat e Kandahar, passando intorno alle montagne afghane, e attraverso la gola di Bolan fino all’Indo”[10]. Queste vie, che consentirono ad Alessandro Magno di raggiungere l’India, sono state periodicamente utilizzate sia dagli invasori che conquistarono il Paese in epoche passate, sia dallo stesso Iran, quando tentò di espandersi verso est, anche se le sue forze non sono mai andate al di là della provincia di Herat, nel XIX secolo.
Si può anche sospettare che, sul piano dell’espansione culturale dell’Iran, l’eresia sciita, adottata nel momento di massima diffusione dell’Islam, sia stata adottata come religione nel XV secolo dai governi di Teheran per differenziarsi dalle potenze arabe, e che la sua diffusione, sostenuta da uno Stato forte e influente com’è sempre stato l’Iran, abbia seguito gli stessi canali che avevano permesso al Paese di esercitare la propria influenza culturale.
Un discorso a parte va fatto per la parte sud-orientale dell’Iran, abitata dai Beluci, un popolo che risiede a cavallo della frontiera con il Pakistan, e si trova spesso a lottare per la propria autonomia con ambedue i governi. Questa zona ha un potenziale esplosivo non da poco, e rischia di esacerbare i rapporti tra l’Iran e il suo vicino orientale, anche perché ambedue i Paesi nutrono ambizioni di influenza nell’Afghanistan, che è posto tra loro a mo’ di cuscinetto.
Purtroppo, l’influenza culturale dell’Iran ha alimentato, nei secoli, l’idea del “Grande Iran, (che si estendeva) dalla Tracia e dalla Macedonia a nord-ovest, e dalla Libia e dall’Egitto nel sud-ovest, fino al Punjab ad est, e dal Trans-Caucaso, il mar Caspio e il mare di Aral nel nord, per arrivare al Golfo Persico e al mare Arabico a sud”[11]. La voglia di ripetere le gesta dei propri antenati e dominare politicamente i popoli che hanno assimilato, sia pure in parte, la cultura della Potenza dominante non è un fenomeno esclusivamente iraniano!
Questa aspirazione di fare dell’Iran un impero, capace di reggere il confronto con gli altri grandi attori dell’Asia, la Russia, l’India e la Cina, e che ha portato nei secoli i governi di Teheran a cercare di espandersi con la forza, non sembra essere totalmente scomparsa nelle menti della dirigenza iraniana. Per questo, specie nella Galassia Sunnita, c’è chi teme l’Iran e cerca di frenarne l’espansione in ogni modo.
In sintesi, l’Iran è ben posizionato all’interno del continente asiatico, ma soffre sia per non essere abbastanza forte da scoraggiare gli appetiti delle grandi potenze, sia per il fatto di essere periodicamente tentato di espandersi, sfruttando il fatto di trovarsi nel bel mezzo di una fascia di territorio nella quale esiste da secoli una lotta tra attori ben più piccoli rispetto ad esso, pur non avendo quasi mai forze adeguate all’impresa.
Ma, osservava sempre Mackinder, malgrado l’Iran sarebbe naturalmente portato ad espandersi verso est, “la sua connessione è più intima con l’Europa e con l’Arabia, di quanto non lo sia con la Cina e con l’India”[12].
Infatti, almeno dal XVI secolo, le relazioni più strette e, spesso, le più conflittuali si sono avute con le Potenze europee, generando un rapporto di amore e odio nei confronti dell’Occidente, sentimento collettivo ancor oggi avvertibile. Non che i Russi siano più popolari, nel Paese, come vedremo a breve: stupisce, quindi, che il governo di Teheran si dichiari vicino al proprio più pericoloso “nemico naturale” che lo ha sempre minacciato da nord.
- Una Storia tormentata
Malgrado (o grazie a) queste ricchezze e a questi vantaggi di posizione, l’Iran è da millenni in guerra con i propri vicini e con le potenze regionali concorrenti, dando origine a una lotta quasi perenne, che ha avuto esiti alterni, con enormi espansioni e drammatiche cadute. Questo avveniva quindi ben prima che si creasse la spaccatura tra sciiti e sunniti, e per questo la storia del Paese merita di essere analizzata ed aiuta a comprendere cosa sta succedendo ora.
L’altro aspetto interessante della storia dell’Iran è che, nel corso della sua lunga storia, il Paese abbia vissuto cambi di regime a volte radicali, ma nonostante questi cambiamenti, spesso dovuti a sanguinose rivoluzioni, i suoi rapporti, nell’ambito del Medio Oriente – o, meglio, dell’Asia centro-occidentale – con gli altri Paesi sono spesso stati tempestosi.
La Persia, come si chiamava allora, entrò a pieno titolo nel novero delle Grandi Potenze a partire dal 625 a. C. quando i Medi unificarono il Paese e crearono quello che prese il nome di Impero Achemenide. L’espansione della nuova potenza fu impressionante. Come racconta uno studioso, “uno dei grandi eventi della Storia Classica avvenne quando i montanari iraniani scesero fino alla pianura dell’Eufrate, agli ordini del loro re Ciro, e dopo aver conquistato Babilonia continuarono, attraverso la strada della Siria, fino alla conquista dell’Egitto”[13].
In realtà, l’espansione dell’Impero continuò fino all’occupazione dell’Anatolia, dove la Persia entrò in contatto con le colonie greche del litorale. La voglia di conquistare anche la stessa Grecia spinse l’Imperatore a scatenare quelle che sono conosciute come le guerre greco-persiane, dal 499 al 449 a.C. che però segnarono l’inizio di un lento declino dell’Impero, troppo vasto per poter durare a lungo.
Infatti, nel 404 a.C. l’Egitto si rivoltò, anche se ci vollero quasi sessant’anni prima che i Persiani si ritirassero. Poi, nel 334 a.C. ci fu l’invasione macedone, con Alessandro Magno che in tre anni conquistò l’Impero e si spinse fino in India. Uno dei suoi generali, Seleucio Nicator cercò di evitare lo smembramento dell’Impero, riuscendovi almeno in parte. Come nota uno storico, “l’impero costituito da Seleucio Nicator nel 312 a.C. apparve essere il più potente che emerse dall’insieme dei territori conquistati da Alessandro, [in quanto] controllava la Siria, la Mesopotamia e le terre dell’altipiano iraniano”[14].
Alla fine del terzo secolo a. C. i Parti, una popolazione del nord-ovest dell’Iran, travolsero i Seleucidi e conquistarono il Paese. Essi dovettero fronteggiare un nuovo nemico, Roma, le cui legioni si erano spinte fino ai confini della Mesopotamia. Quest’ultima regione divenne ben presto terreno di scontro, e passò di mano in mano fino al 224 d.C. quando una guerra civile scoppiò in Iran e un vassallo locale, il capostipite della dinastia dei Sasanidi detronizzò l’Imperatore e riorganizzò il Paese, riprendendo le conquiste dei territori limitrofi e oltre.
Infatti, al momento della sua massima espansione, l’Impero dei Sasanidi comprendeva, oltre all’attuale Iran, anche l’Iraq, l’Azerbaijan, l’Armenia, la Georgia, l’Abkhazia, il Dagestan, il Libano, la Giordania, la Palestina, Israele, la parte occidentale dell’Afghanistan, la Turchia, la Siria, parte del Pakistan, dell’Arabia, dell’Asia Centrale e dell’Egitto.
Malgrado la fiera opposizione dell’Impero bizantino, i Sasanidi riuscirono a mantenere, almeno in parte, tutte queste conquiste, ma presto o tardi anche questa prodigiosa epopea era destinata a finire. Nel 634, infatti, l’Impero dovette combattere contro un altro inaspettato nemico, gli Arabi.
La Persia “era debole per le guerre che avevano turbato il regno di Cosroe II (morto nel 628). I Sasanidi avevano respinto le incursioni iniziali di gruppi predatori Arabi in Mesopotamia (specie nella battaglia del Ponte nel 634), ma l’Armata reale agli ordini del re Yazdegerd III fu sconfitta a Qadesyya nel 637, dopo di che gli Arabi presero Ctesifonte e tutta la Mesopotamia”[15].
L’esercito persiano subì una seconda sconfitta nel 641, e il re dovette fuggire verso l’est del Paese, dove fu ucciso da uno dei suoi nel 651. Gli Arabi, vedendo la debolezza del loro avversario, proseguirono l’offensiva: la città di Khorasan fu presa nel 654 e “malgrado la resistenza nei territori intorno alla costa meridionale del mar Caspio e nel Nord Est (del Paese) tutte le province furono conquistate nel 707”[16].
Inizialmente, “la conquista non fu seguita, per la maggior parte, da stragi, conversioni forzate o da quello che oggi chiamiamo pulizia etnica. Invee, i nuovi padrono arabi si accontentarono di rimpiazzare le élite di governo dei territori che avevano conquistato”[17].
Ben presto, però, le cose cambiarono. I Califfi Umayyadi “discriminarono fortemente in favore degli Arabi nel governo dell’Impero, anche se erano criticati dagli Arabi perché erano diventati troppo mondani e troppo dediti al compromesso”[18].
Gli Arabi, da buoni conquistatori, infatti, facevano di tutto per umiliare i Persiani, molto più colti di loro, fino a chiamarli “Ajam, che significa coloro che borbottano, un riferimento alla loro scarsa dimestichezza con l’Arabo”[19]. Il malanimo e l’ostilità che caratterizzano ancor oggi i rapporti tra Persiani e Arabi si possono far risalire alla lunga dominazione araba dell’Iran. Chi è dominato con la forza non dimentica le sofferenze patite e le tramanda di generazione in generazione.
Fu in questo periodo che la religione islamica fu introdotta in Iran, sostituendo gradualmente il Zoroastrismo ma, per converso, i conquistatori furono affascinati dalla cultura e dall’arte iraniana, che sotto i Sasanidi aveva avuto un enorme sviluppo, tanto che molto dell’arte e della cultura islamica mostrano ancor oggi le tracce della cultura dei Sasanidi.
Non tutto l’Iran, però, era stato assoggettato, e una serie di rivolte, seguite da feroci repressioni, piagarono il Paese, finché, nel X secolo, non si verificò la frantumazione dell’Impero arabo, che perse gran parte dei territori fino ad allora assoggettati.
Fu un generale di etnia turca, Tughril Beg, a riunificare l’Iran con la forza, nel 1055. Sotto i suoi successori, l’Impero persiano conobbe un altro periodo d’oro, finché il Paese non si trovò di nuovo a soffrire per l’ennesima guerra civile, a partire dal 1092. Non erano solo i vassalli che si erano ribellati: ad essi si aggiunse la setta degli “Assassini”, Nizariti Ismailiti, la cui base era il castello di Alamut, che praticando sistematicamente l’uccisione di leader politici della regione acquisirono una notevole influenza.
Il peggio, però, doveva ancora venire, e comparve sotto le specie dell’esercito dei Mongoli, il cui capo, Gengiz Khan, era noto per la sua ferocia. Nel 1219 l’Iran fu invaso dai Mongoli, che sfruttando una specie di mortaio, con proiettili lanciati grazie alla polvere pirica, inventata in Cina, ebbero ragione della resistenza iraniana in due anni. Alla conquista seguì una serie impressionante di distruzioni. In particolare, l’agricoltura fu privata delle infrastrutture essenziali, come la rete dei canali d’irrigazione nel nord est del Paese, che era stata costruita nei secoli precedenti. Persino la setta degli Assassini fu colpita e gli adepti dovettero trovare rifugio in India.
Il dominio dei Mongoli durò fino al 1335, quando scoppiò l’ennesima guerra civile, e l’Iran si frantumò, ancora una volta, in vari principati in lotta tra loro.
In questa lotta per il potere emerse un principe turco-mongolo, Tamerlano, noto anche come “Timur lo zoppo”. Dalla sua capitale, Samarcanda, egli compì varie spedizioni prima verso Herat, poi verso l’India, quindi verso l’Iran, che conquistò in gran parte, e infine verso ovest, conquistando l’Anatolia.
La sua saga, ben nota da numerosi libri, mette però in ombra l’estrema crudeltà del condottiero, il cui esercito saccheggiava le città conquistate e compiva stragi tra i popoli vinti. L’unica, parziale, eccezione, fu il suo atteggiamento nei confronti della civiltà persiana, che favorì sovvenzionando l’architettura e la poesia.
I suoi discendenti governarono l’Impero con pugno di ferro fino al 1452, quando il Paese fu travolto da una serie di tribù turche, che occuparono l’Iran causando una serie di devastazioni. Sempre in lotta tra loro, nel 1501 dovettero cedere il passo Ismail I, un condottiero proveniente dal Dagestan, che occupò Tabriz, nel nord ovest del Paese. Poco dopo la conquista della città, Ismail I si autonominò Shah di Persia e dichiarò l’eresia sciita religione di Stato.
Va detto che già da alcuni secoli era in atto uno scambio di accuse tra le autorità religiose della Mecca, sunnite, e gli eretici sciiti. “il conflitto fra le autorità (della Mecca) arroganti, mondane, corrotte e l’onesta e pia austerità (degli Sciiti) si consolidò come modello culturale per secoli, fino alla rivoluzione iraniana del 1979 e ad oggi”[20] .
In effetti, già da tempo Ismail I era convinto della necessità di allontanarsi dal modello sunnita, per cui “lo sciismo di Ismail prese una forma estrema, che richiedeva al credente di maledire la memoria dei primi tre Califfi che avevano preceduto Ali; qualcosa di molto offensivo per i Musulmani sunniti, che li veneravano”[21].
Ismail I, quindi, nello scegliere la Shia, oltre a scavare un fossato ideologico tra la religione iraniana e quella degli Arabi, aveva introdotto un altro motivo di divisione e di ostilità tra Arabi e Persiani. L’inimicizia arabo-iraniana, quindi, oltre ad essere di carattere geopolitico, diventava una profonda rivalità religiosa.
Da Tabriz, Ismail mosse alla conquista del resto del Paese e entro i dieci anni successivi non solo consolidò il potere su tutto l’Iran, ma conquistò “tutti i territori del vecchio impero dei Sasanidi, inclusa la Mesopotamia e la vecchia capitale degli Abbasidi, Baghdad”[22]
I successori di Ismail, noti come dinastia Safavide, governarono il Paese fino al 1722, che arrivò a comprendere, nel periodo di massima espansione, anche l’Azerbaijan, l’Armenia, gran parte della Georgia, il Caucaso del nord, la Mesopotamia (l’attuale Iraq), il Kuwait, l’Afghanistan, parti della Turchia, la Siria, l’attuale Pakistan, il Turkmenistan e l’Uzbekistan.
Naturalmente, questa espansione portò l’Impero safavide a essere considerato con timore dai propri vicini, tanto che, aderendo al progetto portoghese di avere nel Golfo Persico alcuni Stati vassalli, che pagassero tributi al re Don Manuel, “Khwaja Ata, il vizir di Hormuz, [cercò in tal modo di] essere messo in grado di consolidare il potere sulla periferia di Hormuz, a parte il fatto di ritrovarsi con un alleato di prestigio per fronteggiare l’espansionismo Safavide. Tradizionalmente, Hormuz aveva sempre preferito un padrone assente e distante a uno vicino”[23].
Ma i Portoghesi, che si installarono prima a Hormuz e quindi a Muscat erano impegnati non solo nel proteggere il commercio delle spezie, ma soprattutto dovettero lottare contro l’Impero Ottomano, una guerra che durò fino alla fine del XVI secolo. La presenza di una loro flotta nel Golfo Persico, comunque, agì da freno per la dinastia safavide nella sua proiezione verso la riva occidentale del Golfo, anche se l’esercito persiano aveva occupato Bahrein.
A parte la sgradita presenza portoghese, l’Iran, nella sua espansione si trovò a confinare con l’Impero Ottomano a ovest, con la Russia a nord e con la Cina ad est, e questo causò ulteriori guerre, tra tre dei quattro contendenti al dominio dell’Asia. Oltre al fatto di essere contenuti dalla flotta portoghese, l’altra novità, infatti, era l’espansionismo della Russia, che, sotto lo Zar Pietro I “Il Grande” aveva deciso di iniziare quella che ancor oggi è l’aspirazione dei governi di Mosca, alias la corsa verso i mari caldi e le acque aperte degli oceani. Egli, infatti, “non accettando che la potenza ottomana si espandesse nella regione senza opposizione, si mosse verso sud, nella sua ultima campagna, e occupò la costa meridionale del mar Caspio”[24].
La guerra russo-persiana del 1722-23 fu infatti la prima sconfitta degli Shah safavidi, che persero, come conseguenza, gran parte dei territori del Caucaso, anche perché indeboliti dal tentativo di colpo di Stato di Mahmud, figlio di un capo Pashtun, che a capo di un’armata afghana conquistò parte dell’Iran, e si proclamò Shah, solo per essere poi cacciato da un altro “Signore della Guerra”, afghano di Khorasan, Nader Shah, il quale, per finanziare la guerra contro l’Impero Ottomano, che si stava spartendo con la Russia i territori del Caucaso, invase l’India, profittando della debolezza dell’Impero dei Moghul, saccheggiò Delhi e tornò in Iran con immense ricchezze, nel 1739.
Purtroppo per l’Iran, i tentativi di Nader Shah di riconquistare il Caucaso furono senza esito, e quando “fu assassinato, nel giugno 1747, da ufficiali della sua guardia del corpo”[25], l’Iran si frantumò di nuovo in numerosi potentati che si combattevano tra loro senza che nessuno riuscisse a prevalere. In quel mentre, l’Impero Ottomano profittò della debolezza iraniana per estendere i propri domini, conquistando la Mesopotamia, fino a Bassora.
In aggiunta all’offensiva ottomana, che sfociò in una guerra aperta tra i 1775 e il 1776, molte furono le secessioni in questo periodo turbolento, la più rilevante delle quali fu quella dell’Afghanistan, che da allora divenne uno Stato indipendente, nonché quella del Bahrein, ceduto alla famiglia di Al Khalifa nel 1783.
A queste sconfitte seguì un periodo di ripresa, grazie allo Shah Karim Khan, un “leader duro, senza scrupoli, com’era necessario in quei tempi difficili, ma egli si meritò anche una reputazione durevole per la sua modestia, compassione, pragmatismo e buon governo”[26].
Alla sua morte, nel 1779, l’Iran fu di nuovo piagato da una guerra civile, finché non emerse un condottiero capace, Aga Mohammad Khan. Dopo aver consolidato il proprio potere in Patria, egli decise che il Caucaso fosse una parte integrale dell’Iran, e che fosse irrinunciabile riportarlo sotto il controllo di Teheran. Il territorio, secondo lui più importante da riconquistare, era la Georgia che dopo essersi staccata in forza delle sconfitte iraniane degli anni precedenti, aveva firmato un patto di assistenza con la Russia nel 1783.
Aga Mohammad Khan prima inviò un ultimatum al re della Georgia, Heraclius II, il quale lo respinse, malgrado le sue richieste di assistenza alla zarina Caterina II fossero cadute nel vuoto. L’esercito iraniano quindi invase la Georgia, occupò la capitale Tbilisi, che fu rasa al suolo, e ristabilì il potere iraniano sul Caucaso, tanto che, al ritorno dalla spedizione, nel 1796, fu incoronato come Shah.
Purtroppo per lo Shah, la riconquista durò poco. Nel 1799 l’esercito russo invase la Georgia, occupò Tbilisi e incorporò il Paese nell’Impero russo. Da quel momento iniziarono le guerre russo-persiane del 1804-1813 e del 1826-1828, che si conclusero con la perdita definitiva per l’Iran dell’intero Caucaso, compresi il Dagestan, l’Azerbaijan, l’Armenia e naturalmente la Georgia.
Un aspetto interessante di queste guerre fu la clausola, nel trattato di pace di Turkmenchay (1828), che prevedeva la possibilità per gli Armeni emigrati in Iran di tornare in Patria, nella sua parte orientale, e stabilirvisi. La clausola diede origine a una vera e propria ondata di ritorno, che fece calare il numero dei Musulmani nel Paese al di sotto del 50%, stabilendo le basi dell’Armenia moderna.
Nel Golfo Persico, fin dal XVII secolo, si era intanto affacciato un altro importante attore, l’Inghilterra, inizialmente per il tramite della Compagnia delle Indie. Come nota uno storico, “mentre i Portoghesi entrarono nel Golfo come soldati e conquistatori, per imporre la loro volontà agli Stati del Golfo, gli Inglesi vi entrarono all’inizio come avventurieri commerciali, alla ricerca di commercio e di fortuna. Due secoli sarebbero passati prima che il conseguimento del possedimento territoriale dell’India li obbligò a ottenere e mantenere il dominio del Golfo”[27].
La Compagnia delle Indie, poco dopo la sua fondazione, nel 1600, “stabilì presto legami commerciali con l’Iran, e fabbriche vennero fondate a Shiraz, Isfahan e Jask nel 1617-18”[28]. Una volta espulsi i Portoghesi, nel 1622, il commercio marittimo nel Golfo era diventato un monopolio britannico, ma la conquista dell’India fece emergere il Golfo come una costante preoccupazione per i Viceré dell’India, e “la politica britannica, fino alla Seconda Guerra Mondiale, fu primariamente formulata e condotta dal Governo dell’India e non da Whitehall”[29], la sede del Ministero degli Esteri britannico.
La necessità di combattere la pirateria portò poi il governo vicereale ad avvicinarsi alle tribù arabe della costa ovest, tanto che “un trattato generale di pace fu firmato nel 1820 [seguito, anni dopo], da un Trattato generale di pace permanente, [che] entrò in vigore nel 1853”[30].
Malgrado l’Inghilterra e l’Iran avessero firmato un’alleanza in funzione antifrancese nel 1801, che concedeva al commercio inglese privilegi non da poco, i rapporti con l’Impero persiano peggiorarono quando, pochi anni dopo, il governo di Londra si rifiutò, nel 1807, di assistere la Persia contro l’avanzata russa nel Caucaso. In effetti, “i Britannici valutavano il loro alleato nordico più di quello persiano e avevano ignorato la richiesta”[31]. Le guerre napoleoniche, all’epoca in pieno svolgimento, imponevano, infatti, al governo di Londra di non urtare la suscettibilità russa.
Lo Shah, quindi, dovette alla fine firmare il Trattato di Turkmenchay, nel 1828, e accettare che, oltre all’Inghilterra, anche la Russia godesse di importanti privilegi commerciali, una concessione che causò un risentimento sempre più diffuso tra i commercianti iraniani.
Oltretutto, il governo di Teheran fu sospettato dal governo di Nuova Delhi di aver favorito la pirateria, per cui nel 1820 “una guarnigione fu stabilita sull’isola di Qishm”[32] dagli Inglesi, che in questo modo riuscirono a controllare un porto che ancor oggi è tra i principali del Paese, quello di Bandar Abbas, posto al centro dello Stretto di Hormuz. Il pericolo di un contrattacco iraniano, però, indusse il governo di Nuova Delhi di ritirare le forze tre anni dopo.
Ma il punto più basso delle relazioni anglo-iraniane fu raggiunto nel 1837, quando lo Shah Mohammad fu incoraggiato e assistito dai Russi, “a ricercare compensazioni per le perdite di territori (nel Caucaso) conquistando territori all’est – a Herat e Kandahar, che erano state terre persiane all’epoca di Nader Shah e anche prima. Mohammad inviò truppe a Herat e assediò la città per alcuni mesi ma le ritirò nel 1838, dopo che i Britannici occuparono l’isola di Kharg nel Golfo Persico”[33].
Herat, è bene ricordare, resistette all’assedio delle truppe iraniane grazie all’opera di un agente inglese, il tenente Eldred Pottinger, che si trovava a Herat quando l’attacco persiano si materializzò, il 18 agosto 1937. “La sua attività era incessante, era sempre sui bastioni; sempre pronto a dare aiuto con i suoi consigli”[34]. A nulla valse la presenza di un consigliere militare russo, il conte Simonič, il quale, a un certo punto, prese addirittura il comando delle operazioni di assedio. Alla fine, l’esercito persiano si dovette ritirare.
La presenza dei Russi a Herat, infatti, era la dimostrazione che la rivalità tra i governi di Londra e di San Pietroburgo si era acuita, per le impressionanti conquiste dell’Esercito zarista in Asia Centrale. Man mano che le truppe russe progredivano, l’Inghilterra vedeva questa avanzata come una minaccia per il proprio dominio dell’India. L’Afghanistan, infatti, era considerato a Londra come uno Stato-cuscinetto, che garantiva la sicurezza indiana.
Lo Shah, per farsi perdonare, fu costretto a firmare, nel 1841, un altro trattato con il governo di Londra, concedendo ulteriori privilegi commerciali ai mercanti britannici.
Ma le mene russe, per mettere in difficoltà la Gran Bretagna, non si erano esaurite con la sconfitta del 1838. Nel 1856 “un altro esercito persiano fu costituito peer riconquistare Herat. Questa volta, esso riuscì a prendere la città, ma causò la guerra con la Gran Bretagna. Truppe britanniche sbarcarono a Busheir e sconfissero le truppe persiane di presidio. Di nuovo, i Persiani furono obbligati a chiedere la pace”[35].
Il Trattato di Parigi del 1857, che concluse queste guerre, ebbe due effetti: il primo fu che “la Persia abbandonò ogni rivendicazione di territorio afghano”[36] e il secondo fu la definizione dei confini del Paese, dopo le perdite di territorio dovute alle guerre con la Russia, confini che da allora non sono cambiati fino ai giorni nostri.
A questa guerra seguì un periodo di stagnazione e di pesanti interferenze russe e britanniche sul governo di Teheran. Malgrado la rivalità tra i due Paesi, questi si divisero le zone di influenza nell’Iran, con i Russi “che nutrivano un interesse speciale per il porto di Enzeli [attuale Bandar-e-Anzali] sul mar Caspio e sulla sua strada per Teheran, [mentre] il governo inglese si interessò alle strade che collegavano il Golfo a Isfahan, Shiraz, Yazd e Kerman”[37].
Questa spartizione di fatto, cui si aggiungevano le pesanti interferenze da parte dei rappresentanti delle due potenze, ebbe come unico beneficio l’inserimento dell’Iran nel commercio mondiale, ma causò un lungo periodo di stagnazione, sia per le “Capitolazioni” (i privilegi e le immunità concessi ai cittadini stranieri, come esenzione dalle tasse, dalle leggi locali e vantaggi commerciali) sia per il deficit crescente dello Stato: infatti “nel 1900 i deficit governativi aumentavano a un ritmo di $ 1 milione l’anno, mentre lo Stato non era in grado di aumentare gli introiti per le tasse al livello necessario. Nello sforzo di rompere questo circolo vizioso, lo Stato provò a vendere concessioni e contrarre debiti”[38].
Se è vero che la rivalità tra Russia e Gran Bretagna aveva preservato l’Iran dal diventare una colonia di una o dell’altra Potenza, la fine del “Grande Gioco”, materializzata nell’accordo dell’agosto 1907 tra “Sir Edward Grey e il Ministro degli Esteri russo, il conte Aleksandr Izvolskij”[39], non portò benefici all’Iran.
Il trattato, infatti, “divideva l’Iran in tre zone, assegnando il nord, inclusa Isfahan, alla Russia; il sud-ovest, e in particolare Kerman, Sistan, e il Belucistan all’Inghilterra e demarcava la terza come zona neutra”[40]. Il Paese, quindi, perdeva la propria sovranità, proprio mentre era prostrato dalle guerre perse, dalla stagnazione economica e indebolito dal malcontento popolare per le Capitolazioni.
Oltretutto, nel 1904-05 il governo aveva dichiarato bancarotta, mentre l’inflazione cresceva a dismisura. Fu il drastico aumento del costo del grano a scatenare disordini, proprio mentre, per riportare la situazione economica sotto controllo, i rappresentanti di Russia e Gran Bretagna avevano imposto allo Shah la nomina, nel 1898, di un esattore generale delle imposte, nella persona di un funzionario delle dogane del Belgio, Joseph Naus.
Le proteste, scoppiate nel 1906, furono talmente diffuse, malgrado il largo impiego di truppe cosacche per sedarle con la forza, che lo Shah Muzaffar al-Din “il 3 agosto 1906 firmò il proclama reale per tenere elezioni a livello nazionale per un’Assemblea Costituente”[41].
Alla sua morte, il 4 gennaio 1907, il suo successore, Muhammad Ali non ebbe alternativa alla promulgazione della Costituzione, o “Legge Fondamentale” com’era chiamata, ma di fronte alle accese discussioni tra i partiti, senza che fosse trovato alcun accordo, nel giugno 1908 dichiarò la legge marziale.
Per metterla in atto, lo Shah “nominò il colonnello Liakhoff, il comandante russo dei Cosacchi, a governatore militare di Teheran. Questi bandì tutti i giornali e riunioni pubbliche, incluse le processioni (religiose) del Muharran; emanò mandati di arresto per i principali deputati e inviò i suoi Cosacchi a occupare l’Ufficio del telegrafo e a bombardare il Majles (il parlamento)”[42].
Questo colpo di Stato scatenò la guerra civile, che si concluse nel luglio 1910, quando i ribelli pro-parlamento avanzarono su Teheran, costringendo lo Shah a rifugiarsi nell’Ambasciata russa e ad abdicare in favore del “figlio dodicenne Ahmad, nominando come reggente l’anziano zio, Azud al-Mulk”[43].
Ma la strada per il rientro del deficit si stava rivelando sempre più ardua, anche per il disinteresse delle potenze dominanti, Russia e Gran Bretagna, verso un qualsiasi miglioramento delle condizioni dell’Iran. Addirittura, nel 1909 la Russia occupò la provincia dell’Azerbaijan iraniano, e nel 1911 i Russi “occuparono il resto della loro zona, inclusa Teheran”[44]
Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale portò altre disgrazie al Paese, malgrado il governo avesse dichiarato la propria neutralità. Il Paese fu teatro di combattimenti tra truppe russe e ottomane, con queste ultime che “compirono incursioni nell’ovest e nel nord. Nel nord ovest, gli Ottomani e i Russi combatterono più aspramente, provocando gravi danni ai villaggi e alla popolazione locale”[45].
Inoltre, una guerriglia antirussa, da parte del gruppo noto come gli Jangali, complicò la situazione, almeno fino al 1916, quando questi furono sconfitti e dovettero disperdersi. La Rivoluzione in Russia, infine, costrinse le truppe zariste a lasciare il Paese, subito sostituite dall’Armata Rossa, anche se quest’ultima si concentrò nel nord, concedendo nel resto del territorio iraniano campo libero ai Britannici. Questi ultimi, però, di fronte al crescente favore della popolazione nei confronti degli Imperi Centrali, dovettero letteralmente riconquistare il Paese, partendo dal sud.
Alla fine della guerra, però, quando nel 1919 il governo di Londra cercò di imporre un accordo che concedeva alla Gran Bretagna privilegi mai visti prima, scoppiò di nuovo una rivolta che spinse il Primo Ministro a ritirare le truppe dal Paese, anche a fronte degli oneri che il suo controllo militare avrebbe comportato. In definitiva, “nel 1920 l’Iran era il classico Stato fallito – per usare una terminologia moderna – I Ministeri avevano una scarsa presenza al di fuori della capitale, il governo era paralizzato non solo dalle rivalità interne. Alcune province erano in mano a Signori della guerra, altre nelle mani di ribelli armati. L’Armata Rossa aveva preso Gilan e minacciava di marciare su Teheran. I proprietari terrieri erano talmente disperati da ricercare una personalità capace di misure drastiche per sventare l’anarchia e il veleno bolscevico”[46].
Quest’uomo era Reza Khan, membro della famiglia Pahlavi e appartenente a una famiglia nobile, che contava molti membri nell’Esercito persiano. All’epoca, egli era comandante della guarnigione cosacca nel Qazvin, e, d’accordo con i Britannici, il 21 febbraio 1921, “prese il controllo di Teheran con 3.000 uomini e 18 mitragliatrici”[47].
Prima di attuare il colpo di Stato, Reza Khan aveva, infatti, promesso al generale britannico Ironside di facilitare il ritiro delle loro truppe e di non deporre lo Shah Ahmad. Poco dopo aver preso il potere, Reza Khan iniziò la ricostruzione dello Stato convincendo l’Armata Rossa a ritirarsi dal Paese e ottenendo l’abolizione di tutte le Capitolazioni che lo avevano piagato.
Nel 1926, dopo essersi assicurato il pieno controllo dell’Iran, Reza depose Ahmad, ponendo così fine alla dinastia dei Qajar e si fece incoronare Shah, con una fastosa cerimonia. Iniziava, in tal modo, la dinastia dei Pahlavi, che durò poco più di cinquant’anni, fino al 1979.
Grazie alla ripresa del commercio, i proventi delle tasse crebbero, e lo Shah investì buona parte di queste somme nella ricostruzione dell’Esercito, che nel 1941 arrivò a contare 127.000 uomini, dotati di armamento moderno. Anche l’Aviazione e la Marina furono ammodernate.
Interessante fu la dichiarazione dello Shah, nel richiedere ai Britannici di vendergli bombardieri a lungo raggio. Egli, infatti, giustificò la sua richiesta asserendo che quei velivoli “sarebbero risultati utili per bombardare Baku”[48]. Neanche lui, quindi, era immune dal sogno del “Grande Iran”!
Sotto il suo pugno di ferro l’Iran conobbe una accelerata modernizzazione, l’ampliamento dell’istruzione, numerose infrastrutture essenziali e opere di pubblica utilità. Tutto questo tumultuoso sviluppo ebbe bruscamente fine nell’agosto 1941, quando la Gran Bretagna e la Russia decisero di occupare militarmente l’Iran.
Il casus belli fu la richiesta alleata affinché “l’Iran espellesse i cittadini tedeschi [presenti nel Paese]. Quando la richiesta fu respinta, l’invasione alleata incontrò solo una opposizione di facciata da parte dell’esercito che Reza Shah aveva curato con tanta attenzione, spendendo grosse somme. Dopo tre giorni (di combattimenti) egli ordinò di cessare ogni resistenza. Le forze britanniche e sovietiche si congiunsero nell’Iran centrale e entrarono a Teheran il 17 settembre 1941”[49].
Lo Shah abdicò e fu esiliato prima alle Mauritius e poi in Sud Africa, dove morì nel 1944. Il figlio, Mohammed Reza, salì al trono, sia pure in una situazione di sovranità assolutamente limitata. Nel 1942 truppe americane si aggiunsero a quelle anglo-sovietiche, che rimasero nel Paese fino a dopo la fine del conflitto.
Le vere ragioni di questa occupazione erano, essenzialmente, due: la determinazione britannica a non perdere il controllo dei giacimenti di petrolio e la necessità della Russia di mantenere aperta una via di rifornimento e di sostegno al conflitto, alternativa a quella dell’Artico, l’unica rimasta dopo l’avanzata tedesca in territorio sovietico. Infatti “la rotta dal Golfo Persico al mar Caspio, benché ardua e lunga, appariva essere una soluzione (entro la fine della guerra più di 5 milioni di tonnellate erano state portate in Russia attraverso l’Iran)”[50].
L’occupazione alleata ebbe termine solo nel 1946, con il ritiro a gennaio delle truppe anglo-americane e a maggio di quelle sovietiche, ma nel frattempo l’occupazione aveva fatto tornare alla luce i sentimenti nazionalistici, oltre alla rabbia popolare per la ineguale distribuzione dei profitti del petrolio, malgrado gli Alleati – dopo aver arrestato gli esponenti iraniani filo-nazisti e i cittadini tedeschi – avessero “garantito l’integrità territoriale dell’Iran, fornito al governo grano per sventare la carestia, scoraggiato le tribù dal creare disordini e – atto più importante – accettato di mantenere l’Esercito sia pure al livello minimo di 80.000 soldati e 24.000 gendarmi”[51].
Di conseguenza, alle elezioni del 1944 il Parlamento (Majles) vide il ritorno in massa di esponenti nazionalisti del periodo antecedente all’avvento al trono di Reza Shah. Nel frattempo, visto che i Britannici e soprattutto i Sovietici erano ormai del tutto impopolari, il nuovo Shah, Mohammad Reza si avvicinò agli Stati Uniti, cercando il loro appoggio.
La sua maggiore preoccupazione era il fatto che i Sovietici, oltre a rifiutarsi di ritirare le truppe di occupazione dall’Azerbaijan iraniano, avevano agevolato la costituzione di un partito comunista, il Tudeh, la cui influenza era ben presto diventata notevole.
Ma il ritiro degli occupanti non portò immediatamente la pace in Iran. Una volta riconquistata la piena sovranità, nel febbraio 1949 lo Shah “sfruttò un tentativo fallito di attentato contro di lui da parte di un assassino solitario per dichiarare la legge marziale in tutto il Paese, mettere fuori legge il Tudeh, chiudere i giornali e arrestare la maggior parte dei leader del partito, oltre che condannare a morte in contumacia coloro che erano riusciti a fuggire”[52].
La scomparsa del Tudeh, costretto alla clandestinità, lasciò campo libero ai movimenti nazionalisti. Tra i suoi esponenti di spicco, emerse Muhammad Mossadeq, le cui idee antibritanniche e antimonarchiche lo portarono prima a nazionalizzare l’industria petrolifera, finendo in rotta di collisione non solo con la Gran Bretagna, ma anche con gli Stati Uniti e con la Corte. Dopo un tentativo fallito di rimpiazzarlo con il generale Zahedi, fervente monarchico, lo Shah dovette fuggire dal Paese nell’agosto 1953, salvo poi a ritornare quando il regime creato da Mossadeq fu rovesciato da un colpo di Stato.
Lo Shah, gradualmente, prese in mano tutte le leve del potere e agli inizi del 1963 intraprese una serie di riforme occidentalizzanti dei costumi, oltre a spingere verso una diffusa educazione, una modernizzazione dello Stato e un suo sviluppo industriale. Chiamata la “Rivoluzione Bianca”, questa serie di riforme “malgrado il boicottaggio del Fronte Nazionale, che sosteneva che la riforma avrebbe dovuto essere presentata e approvata da un Parlamento eletto costituzionalmente, ottenne un supporto schiacciante nel referendum [indetto per la sua approvazione] con 5,5 milioni di voti favorevoli su un elettorato di 6,1 milioni”[53].
Lo Shah, però, non rinunciò a cercare di influenzare gli eventi intorno al suo Paese, anche se dovette recedere, nel 1970, dalla secolare rivendicazione nei confronti dell’isola di Bahrein, popolata da Sciiti ma governata da un Emiro sunnita, vicino al governo di Riad.
Nel 1974-75, poi, si ebbe una serie di scontri di frontiera con l’Iraq, che accusava il governo di Teheran di sostenere la rivolta curda e rivendicava la sovranità sulla provincia iraniana occidentale del Khuzestan, abitata da Arabi, e posta ad est dello Shatt-el-Arab, l’estuario che unisce le acque del Tigri e dell’Eufrate e le fa defluire in mare. L’Iraq, impegnato su due fronti, dovette aderire, sia pure con riluttanza, alla proposta del governo algerino di mediazione. L’accordo tra le parti fu firmato ad Algeri il 17 marzo 1975.
Ma sul piano interno le cose andavano di male in peggio. Il regime totalitario, appoggiato dalla Polizia Segreta, la SAVAK, che usava metodi particolarmente brutali per reprimere il dissenso, finì per alienare allo Shah il favore popolare, finché, dopo numerosi disordini repressi nel sangue, l’11 dicembre 1978 una dimostrazione di massa, cui parteciparono oltre 2 milioni di persone, “acclamò la costituzione di una repubblica islamica, il ritorno [dall’esilio] dell’Ayatollah Khomeini, l’espulsione delle potenze imperialiste e l’attuazione della giustizia sociale per le masse diseredate”[54].
Non era mai successo prima che il potere passasse per acclamazione alla classe religiosa, che nei decenni precedenti aveva partecipato alla politica in posizione di comprimario. L’enorme numero di manifestanti rendeva impossibile qualsiasi repressione, e il regime dello Shah collassò. “Lo Shah aveva perso il controllo della situazione e il 16 gennaio 1979 lasciò il Paese”[55].
Il 1° febbraio 1979 l’Ayatollah Khomeini tornò dall’esilio, attuando un sistema di governo che dura ancor oggi, grazie all’appoggio delle masse popolari e dell’Esercito parallelo creato dal regime, i cosiddetti Pasdaran, malgrado l’insoddisfazione delle classi colte del Paese. I primi mesi della rivoluzione, però, furono tumultuosi, per lo scarso controllo che il regime degli Ayatollah riusciva ad esercitare sul popolo, specie sui più esagitati.
Ma il pericolo che i gruppi marxisti leninisti prevalessero, sull’onda della rivoluzione, spinse i fautori di Khomeini all’azione. Il 4 novembre successivo, infatti, “quattrocento studenti scavalcarono la cinta di protezione dell’Ambasciata USA. Khomeini non aveva ordinato quella occupazione, ma ne intuì subito i vantaggi (e) diede la sua benedizione all’occupazione di quella Ambasciata che gli studenti definivano un nido di spie”[56]. In effetti, nei decenni precedenti il coinvolgimento degli USA nel mantenere sul trono lo Shah era stato fin troppo palese e massiccio, tanto che i rivoluzionari li consideravano “corresponsabili degli abusi commessi dallo Shah”[57]
Gli ostaggi americani, cinquantadue in totale, rimasero in cattività per ben 444 giorni, fino al gennaio 1981. Il tentativo americano di liberarli con un’azione di sorpresa di poche forze speciali, il 14 aprile 1980, fallì miseramente, in parte per un’imprevista tempesta di sabbia, ma specialmente perché era un’illusione poter attraversare il Paese, raggiungere Teheran, liberare gli ostaggi e riportarli in Patria senza incontrare opposizione alcuna.
Il fallito blitz confermò la decisione del governo iraniano di assumere un atteggiamento decisamente antiamericano. Non a caso, gli Stati Uniti da allora furono denominati “Il Grande Satana” e il fatto di aver accolto lo Shah, quando si ammalò di tumore, ha solo confermato tale atteggiamento da parte delle masse popolari. Da lì a includere fra i nemici da abbattere Israele, capovolgendo un’alleanza di fatto che risaliva agli anni 1950, il passo fu breve, come vedremo tra poco.
I problemi per l’Iran, però, non erano finiti. Il 22 settembre 1980 l’Iraq invase l’Iran. Le ragioni di tale aggressione erano varie. Anzitutto, vi era la paura che l’Iran sobillasse la popolazione sciita del sud dell’Iraq contro il governo Baatista di Saddam Hussein; quest’ultimo, inoltre, era intenzionato a riprendere il controllo della riva destra dello Shatt-el-Arab, denunciando l’Accordo di Algeri del 1975.
Infine, l’Iraq sperava di diventare la Potenza predominante nel Golfo Persico, un desiderio che si era rivelato irrealizzabile fino a quel momento, a fronte della superiorità delle Forze Armate iraniane, più numerose ed equipaggiate con moderni armamenti occidentali, decisamente superiori a quelli iracheni, di produzione sovietica.
La rivoluzione khomeinista, e i conseguenti sconvolgimenti interni che avevano indebolito le Forze Armate iraniane fu considerata da Saddam Hussein un’occasione da non perdere per denunciare l’Accordo di Algeri, occupare la provincia del Khuzestan e controllare lo Shatt-el-Arab nella sua totalità.
Dopo però alcuni successi iniziali dell’Esercito iracheno, “l’Iran respinse l’Iraq nel maggio 1982 ed avanzò in territorio nemico. [Poi] l’Iran ricorse alla guerra di trincea e alla strategia di mobilitazione nazionale, un ricordo della Prima Guerra Mondiale. A quel tempo, si stimò che l’Iran avesse sofferto un milione di morti, ma più tardi il portavoce governativo fornì la cifra di 160.000 caduti in battaglia”[58].
La verità sta, forse nel mezzo, vista anche l’imponente organizzazione per l’assistenza agli orfani di guerra e ai feriti in battaglia, messa su dal regime degli Ayatollah dopo il conflitto, che durò ben otto anni. Da allora, e per effetto della crescente inimicizia con Israele, l’Iran ha moltiplicato gli sforzi per possedere un’arma nucleare, considerata una clausola di sicurezza, non solo contro il governo israeliano, che ne dispone, ma anche contro il Pakistan, anch’esso dotato di capacità di lancio di ordigni nucleari.
Non bisogna dimenticare, infatti, che, a parte le opposte mire sul Belucistan, diviso tra Iran e Pakistan, si sta approfondendo il divario con la “Galassia Sunnita” o meglio contro gli odiati Arabi che potrebbe degenerare in una guerra senza limiti, malgrado il recente accorso, mediato dal governo di Pechino, sul ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra Riad e Teheran.
La ricerca della capacità nucleare è stato il motivo scatenante delle sanzioni occidentali contro il regime degli Ayatollah, sanzioni che hanno messo in ginocchio l’economia del Paese, malgrado la sua ricchezza derivante dal petrolio, e stanno causando sempre più frequenti sommosse, malgrado la feroce repressione da parte dei Pasdaran.
In definitiva, la storia dell’Iran è la perfetta dimostrazione dell’aforisma di Clausewitz, il quale avvertiva che “La maggior parte [degli attacchi strategici] giunge ad un punto in cui le forze disponibili dell’attaccante gli bastano appena per mantenersi sulla difensiva in attesa della pace. Tutto sta nel comprendere quale sia il punto culminante dell’offensiva”[59]. Come notava lo stesso autore, però, l’individuazione di questo punto di massima possibile espansione viene quasi sempre superato, e il tracollo diventa, a questo punto, inevitabile.
Non è infatti un caso che la storia dell’Iran sia una successione di conquiste incredibili, seguite da crolli rovinosi, che hanno portato spesso a lunghi periodi di soggezione allo straniero.
- Cosa sta succedendo oggi
I timori di Saddam Hussein circa il pericolo che l’Iran sfruttasse le comunità di fedeli sciiti, rimaste al di fuori del Paese, per effetto delle perdite territoriali subite tra il XVIII e il XIX secolo, non erano infondati. Lentamente, l’Iran è riuscito a non solo a sostenere ed appoggiare le rivendicazioni degli Alawiti siriani, degli Hezbollah libanesi, degli Houthi yemeniti, inducendoli a condurre una serie di guerre e guerriglie che stanno indebolendo gravemente i Paesi arabo-sunniti, ma si è dimostrato in grado di influenzare gli eventi in Iraq, ormai dominato dalla sua maggioranza sciita.
Tra i gruppi favorevoli all’Iran va anche annoverato il popolo palestinese, malgrado la diversità di religione. Questa amicizia è nata quasi per caso, quando il leader palestinese Arafat, abbandonato dall’Egitto, colse “nel 1977 l’occasione di un grave lutto familiare per rendere omaggio a una figura allora poco conosciuta in Occidente, ma ben nota in Iran: l’ayatollah Khomeini. Quando morì all’età di 47 anni suo figlio Mostafa Khomeini, l’ayatollah viveva in esilio in Iraq. Fino a quel momento era solo uno fra tanti leader dell’opposizione allo Scià, anzi delle opposizioni al plurale: contro il regime monarchico si battevano diverse correnti islamiche, nonché organizzazioni laiche, di tipo socialista, comunista, o democratiche. È in Iraq che Khomeini ricevette un messaggio di condoglianze di Arafat, l’inizio di una relazione destinata a cambiare la fisionomia politica del Medio Oriente”[60].
La guerra con Israele da parte dell’Iran, dopo il feroce attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, l’altrettanto dura reazione israeliana, e l’uccisione di alcuni leader militari Pasdaran, nel consolato iraniano di Damasco, ha spinto i principali Paesi arabi a soccorrere Israele, mettendo a disposizione le proprie Aviazioni per contrastare il massiccio attacco iraniano, basato sul lancio di numerosi missili e droni.
Il governo iraniano, infatti, è accusato di ricercare “il trionfo finale degli sciiti sui sunniti, quindi la conquista dei due luoghi sacri dell’Islam, la Mecca e Medina. L’Arabia Saudita, pertanto, sarebbe la terza vittima designata, nel piano imperiale della teocrazia sciita”[61]. Naturalmente, è lecito dubitare della fattibilità di questo ambizioso piano, una conferma che i governanti iraniani non hanno imparato nulla dalla Storia del Paese, e continuano a lanciarsi in imprese superiori alle loro forze.
Il massiccio attacco con droni e missili contro Israele del 13 e 14 aprile 2024, oltretutto, ha messo in pericolo il terzo luogo santo dell’Islam, la moschea di Al Aqsa, a Gerusalemme, ed è stato infatti visto dai Paesi arabi come una aggressione diretta, tanto da spingere l’Arabia Saudita, la Giordania e l’Egitto a far levare in volo i propri caccia intercettori, per sventare questa minaccia.
L’Occidente, da parte sua, si è dovuto impegnare per protegger il traffico mercantile che attraversa lo Stretto di Bab-el-Mandeb, dove le navi sono messe in pericolo dagli attacchi da parte dei montanari Houthi, sempre mediante drone sofisticati e missili da crociera, sostenuti anche loro da Teheran. Anche qui, mentre l’Europa si limita a difendere i mercantili, gli USA e la Gran Bretagna hanno reagito anche contro le basi di lancio di queste armi, compiendo una massiccia serie di incursioni.
L’avvicinamento e il sostegno da parte del regime degli Ayatollah al governo di Mosca, è un’apparente anomalia, visti i burrascosi precedenti dei secoli passati, ma è un segno che il governo di Teheran, probabilmente logorato dalla sua lunga permanenza al potere, sta cercando di rinverdire, sia pure sotto altre forme, il sogno del “Grande Iran”, messo in naftalina più di un secolo fa, nel 1857, attirandosi, in tal modo, il favore della popolazione, stanca dell’eccessiva bigotteria del governo.
Certo, l’Iran gode di notevoli vantaggi di posizione e di una situazione geografica che lo favorisce. “Persino gli USA, la forza combattente più grande che il mondo abbia visto, pensò che fosse meglio evitare, una volta entrata in Iraq da sud, di svoltare a destra, sapendo che persino con la sua superiore potenza di fuoco l’Iran non era un Paese da invadere. Di fatto, i militari USA, a quel tempo, avevano uno slogan che diceva “Noi pratichiamo il deserto, non le montagne””[62].
Non vi è, quindi, apparentemente, nulla di nuovo rispetto al passato. L’Iran, pur di estendersi al di là dei propri confini, mediante acquisizioni territoriali oppure creando un’area sempre più vasta di sostenitori, si è sempre appoggiato a una Grande Potenza contro un’altra, non sempre – bisogna ammetterlo – con risultati positivi. Ma è quello che il governo degli Ayatollah sta tentando di fare come nel passato.
Ma se l’Iran pratica la “Guerra per procura” contro Israele e l’Occidente e cerca di danneggiare e indebolire i Paesi arabi, anche se non deve temere altre invasioni, è sempre soggetto ad atti di “Guerra Ibrida” specie ora che il fermento popolare si sta rivelando pericoloso per il regime.
Indurre gli Ayatollah a rallentare, se non a sospendere questa nuova spinta espansionistica, materializzata nella cooptazione delle popolazioni sciite rimaste al di fuori dei propri confini, nonché dei Palestinesi è un compito difficile, ma non impossibile. Se è vero, come è vero, che la Storia dovrebbe insegnare qualcosa, basterebbe il turbolento passato dell’Iran a convincere i propri governanti a rinunciare dall’intraprendere imprese impossibili e rovinose, come avevano fatto i loro predecessori nell’ultimo secolo e mezzo, consentendo uno sviluppo notevole del Paese.
Ad esempio, gli Iraniani hanno da tempo rapporti amichevoli con l’Italia, e la nostra diplomazia può esercitare un’azione in favore di un rallentamento dell’espansionismo iraniano, che è destinato, come nel passato, a incontrare opposizioni, specie da parte dei Paesi arabi, tali da condizionarne il futuro benessere.
[1] T. MARSHALL, Prisoners of Geography. Ed. Elliot & Thompson, 2015, pag. 171.
[2] E. ABRAHAMIAN, A History of Modern Iran, Cambridge University Press, 2008, pag. 2.
[3] R. D. KAPLAN, The Revenge of Geography. Ed. Randon House, 2012, pag. 255.
[4] Ibid. pag. 259.
[5] A.T. MAHAN, The problem of Asia and its effects upon International Policies. Little, Brown and Co. 1900, pag. 21.
[6] Ibid, pag. 22.
[7] Un miglio nautico è pari a 1,852 chilometri. Quindi la costa iraniana nel Golfo Persico raggiunge i 2. 511 chilometri.
[8] R. D. KAPLAN, Op. cit. pag. 269.
[9] H. MACKINDER, Democratic Ideals and Reality. Ed. Constable & Co, 1919, pag. 118.
[10] Ibid. pag. 131.
[11] Ibid. pag. 270.
[12] H. MACKINDER, Op. cit. pag. 134.
[13] H. MACKINDER, Op. cit. pag. 117.
[14] M. AXWORTHY, Iran, Empire of the Mind. Penguin Books, 2007, pag. 33.
[15] Ibid. pag. 76.
[16] Ibid. pag. 77.
[17] Ibid.
[18] Ibid. pag. 79.
[19] Ibid. pag. 82.
[20] Ibid. pag. 125.
[21] Ibid. pag. 131.
[22] Ibid. pag. 132.
[23] L. G. POTTER (editor), The Persian Gulf in History, Ed. Palgrave Macmillan, 2009, pag. 210.
[24] M. AXWORTHY. Op. cit. pag. 152.
[25] Ibid. pag. 165.
[26] Ibid. pag. 170.
[27] L.G. POTTER (editor), Op. cit. pag. 277.
[28] Ibid, pag. 278.
[29] Ibid, pag. 279.
[30] Ibid, pag. 286.
[31] M. AXWORTHY, Op. cit. pag. 181.
[32] L-G. POTTER (editor), Op. cit, pag. 286.
[33] M. AXWORTHY, Op. cit. pag. 191.
[34] P. HOPKIRK, Il Grande Gioco, Adelphi Edizioni, 1990, pag. 213.
[35] M. AXWORTHY, Op. cit. pag. 196.
[36] Ibid.
[37] E. ABRAHAMIAN, Op. cit. pag. 38.
[38] Ibid, pag. 39.
[39] P. HOPKIRK, Op. cit. pag. 573.
[40] E. ABRAHAMIAN, Op. cit. pag. 51.
[41] Ibid. pag. 46.
[42] Ibid, pag. 52-53.
[43] Ibid. pg. 54.
[44] Ibid. pag. 60.
[45] M. AXWORTHY, Op. cit. pag. 217.
[46] E. ABRAHAMIAN, Op. cit. pag. 64.
[47] Ibid, pag. 65.
[48] Ibid. pag. 71.
[49] M. AXWORTHY, Op. cit. pag. 234.
[50] Ibid. pag. 233.
[51] E. ABRAHAMIAN, Op. cit. pag. 101.
[52] Ibid. pag. 115.
[53] M. AXWORTHY, OP. cit. pag. 247.
[54] Ibid. pagg. 164-165.
[55] Ibid. pag. 263.
[56] F. RAMPINI, Il nuovo Impero Arabo, Ed. Solferino, 2024, pag. 139.
[57] Ibid, pag. 131.
[58] E. ABRAHAMIAN, Op. cit. pag. 174.
[59] C. von CLAUSEWITZ, Della Guerra. Ed. Mondadori, 1970, Vol. II, pagg. 704-705.
[60] F. RAMPINI, Da quando, e perché, l’Iran è il «protettore» dei palestinesi? La storia dell’incontro-scontro tra Khomeini e Arafat. Corriere della Sera, 15 febbraio 2024.
[61] F. RAMPINI, Il nuovo Impero Arabo. Op. cit. pag. 142.
[62] T. MARSHALL, Op. cit. pag. 171