scarica il file il pdf – Le montagne più alte – dicembre 2020 – colamedici
LE MONTAGNE PIÙ ALTE
Una riflessione di geopolitica
Julian Colamedici[1]
“Da dove vengono le montagne più alte? Così chiedetti un tempo.
Allora imparai che esse vengono dal mare.”[2]
- La resilienza del fattore geografico
Nell’anno della pandemia globale, il fattore geografico sembra scomparire sotto i colpi del nuovo coronavirus. Dall’Estremo Oriente al Nuovo Mondo, microscopiche sequenze di RNA mettono in ginocchio istituzioni e potenze. Incurante di dogane e barriere, di valichi e muri, di monti e pianure, la minaccia virale spicca il volo – con un biglietto in business class. La globalizzazione dei consumi, del turismo e delle idee ha infatti elevato a potenza anche il non voluto. Pericoli che accompagnano l’uomo fin dall’inizio dei tempi, ne seguono silenziosi le stupefacenti sorti; si sradicano dal suolo, attraversano i mari su rotte transoceaniche. Una rinnovata consapevolezza si fa strada nell’immaginario collettivo, così come nei pensieri dei singoli. Il segnale è chiaro: sfide globali eludono approcci locali. Una domanda, dunque, ci poniamo noi: ha ancora senso guardare una carta per capire il mondo? Cercheremo una risposta, pur senza pretesa di trovarla, ripartendo dalla geografia. Dall’importanza essenziale che la materialità spaziale ha per l’interazione politica. Un legame profondo, antico. Quanto quello dell’uomo con la sua terra.
Ricominciamo allora da Machiavelli, controverso maestro dell’arte politica, che già nella Firenze medicea sentiva il bisogno di raccomandare così all’aspirante Principe: “e parte imparare la natura de’ siti, e conoscere come surgono e’ monti, come imboccano le valle, come iacciono e’ piani, ed intendere la natura de’ fiumi e de’ paduli; e in questo porre grandissima cura”[3]. La conoscenza del territorio, sembra suggerire il Machiavelli, è dunque dote indispensabile. Al buon regnante, infatti, il Segretario fiorentino da indicazioni molto chiare: “stare sempre in sulle cacce”, vivendo ed esplorando il terreno dei propri dominii, “la qual cognizione è utile in due modi: prima, si impara a conoscere el suo paese, e può meglio intendere le difese di esso: di poi, mediante la cognizione e pratica di quelli siti, con facilità comprendere ogni altro sito che di nuovo li sia necessario speculare”[4]. D’altronde, “La géographie, ça sert, d’abord, à faire la guerre” si intitolava un noto saggio di Yves Lacoste[5]. E poiché la strada per la “pace perpetua”[6] appare ancora un’ardua scalata, l’antica lezione di Tucidide non perde di validità. Nelle parole di Kirshner: “behaviors may be restrained, norms may be respected, and actors might behave in a civilized fashion. But they might not—and nothing guarantees that the very worst will not come to pass”[7]. Il nostro Principe, dunque, non potrà concedersi il lusso di trascurare una simile realtà. Al contrario, dovrà tenere nel massimo conto l’impatto della geografia nell’elaborazione delle proprie strategie. Con attenzione – precisa però il Machiavelli: “ancora che, per la invida natura degli uomini, sia sempre suto non altrimenti periculoso trovare modi ed ordini nuovi, che si fusse cercare acque e terre incognite”[8].
La predilezione per l’elemento geografico, la sensibilità per le ragioni spaziali, ha a lungo caratterizzato il pensiero geopolitico “classico” proprio in ragione di questa sua intrinseca resilienza – la conformazione fisica di un territorio, infatti, è il fattore politico “meno soggetto ai capricci del tempo, delle contingenze economiche e politiche e dei salti d’umore elettorali”[9]. In altre parole: “geographic factors were thought to determine the behaviour of states over long periods of time and could therefore be drawn on for the formulation of a strategy over decades”[10]. In tal senso, sebbene vada rifuggita ogni forma di determinismo geografico, “geography remains inextricably intertwined with the making of grand strategy”[11]. Una stabilità che tuttavia non deve trasformarsi in rigido fatalismo, nelle parole dello storico statunitense John Lewis Gaddis: “dare per scontata la stabilità è uno dei modi in cui si producono le rovine. La resilienza” – al contrario – “accoglie e accomoda l’inaspettato”[12].
Un’agenda strategica di ampio respiro, dunque, non potrà che partire proprio dal fattore geografico per stabilire priorità e interessi primari, essendo strutturalmente “located in and directed at a specific context”[13]. Una simile agenda guiderà il Principe nell’elaborazione della propria grand strategy[14], ricordando che anche alla base del più complesso dei sistemi politici, del più vasto degli imperi come del più elementare dei nuclei sociali vi sia un inaggirabile vincolo: “l’allineamento dei fini e dei mezzi”[15], ovvero, prendendo in prestito una celebre definizione economica[16], l’allocazione ottimale di risorse notoriamente scarse – per il raggiungimento, però, di un obiettivo politico di lungo termine. Scarsità strutturale, spesso dovuta proprio a quell’iniquitas loci che già i romani ben conoscevano (e presto impararono a sfruttare a loro vantaggio)[17]. Le condizioni, infatti, potranno anche essere favorevoli – “ma le correnti sono forti, i venti infidi e i ponti fragili”[18]. Per questo, il Principe, lo stratega, avrà sì bisogno di essere “golpe e lione”, ma anche riccio[19]: per “conoscere e’ lacci (…) e sbigottire e’ lupi”, ma con lo sguardo rivolto al futuro[20]. Accompagnato dal fantasma di Serse, comprenderà i limiti (e le opportunità) offerte dall’ambiente esterno[21].
In questo senso, la geografia – e dunque la collocazione spaziale dei fenomeni sociali – si è storicamente rivelata un nodo cruciale nel determinare le sorti delle comunità umane. Concentrando l’osservazione sulla particolare dimensione del conflitto armato, quale opposizione violenta tra entità politiche statali parimenti sovrane – secondo i canoni della “guerre en forme”[22] – la dimensione spaziale appare anche in questo caso ictu oculi in tutta la propria irrinunciabilità. Con le parole di Blaise Pascal: “Trois degrés d’élévation du pôle renversent toute la jurisprudence. Un méridien décide de la vérité, ou peu de possession. Les lois fondamentales changent. Le droit a ses époques. Plaisante justice qu’une rivière ou une montagne borne! Vérité en deça des Pyrenées, erreur au delà”[23]. Da una simile prospettiva lo spazio – entità concettuale radicata nelle strutture più elementari dell’esperienza umana – assume un’importanza fondamentale non soltanto da un punto di vista squisitamente geostrategico, “cioè per la difesa o per l’attacco di un determinato territorio”, ma anche da una prospettiva latu sensu politico-economica[24]. In questo senso, riferendosi all’età delle grandi esplorazioni, Carl Schmitt ricordava che “gli archivi cartografici avevano una grande importanza non solo per la navigazione, ma anche per l’argomentazione giuridico-internazionale”[25].
- La conquista del mare. Dalla Pax Britannica all’American Century
“Se l’Ottocento si chiudeva all’ombra della Pax Britannica, il Novecento sin dall’inizio palesava la propria vocazione a divenire The American Century”[26]. Una vocazione marittima. Paradigmatico, a tal proposito, è il celebre e molto studiato caso del Regno Unito. Presa coscienza della propria natura di isola, come l’Atene di Temistocle[27], si fece “veicolo e centro della svolta elementare dalla terraferma al mare aperto”[28]. Gli abitanti dell’antica Albione, come i loro predecessori attici – ci racconta Tucidide – “si imbarcarono sulle navi e divennero marinai”[29], conquistando la terra attraverso il mare: protetta dalla Manica da invasioni terrestri, ricca di risorse energetiche, forte di una capacità di proiezione marittima senza precedenti, nel corso del XIX secolo Londra regnò indiscussa sui mari, divenendo il cuore pulsante di un vasto impero esteso dall’India all’Australia, dall’Africa alle Americhe, con insediamenti portuali sulle più fiorenti rotte commerciali del tempo. Egemone ma raccolta nel suo “splendido isolamento”[30], ben attenta a non farsi trascinare nei tediosi affari della litigiosa Europa continentale. Lezione poi appresa dagli Stati Uniti. Così che, all’alba dell’ascesa globale del Nuovo Mondo e all’incipiente tramonto del Vecchio, un anziano George Washington poté lasciare in eredità ai propri concittadini queste parole:
“Why, by interweaving our destiny with that of any part of Europe, entangle our peace and prosperity in the toils of European ambition, rivalship, interest, humor, or caprice?”[31].
E oggi gli Stati Uniti – “vera isola contemporanea”[32] – oscillando tra isolazionismo e imperialismo, possono a ragione dirsi legittimi eredi della potenza marittima inglese. Con tutte le contraddizioni della dottrina Monroe, s’intende. Contraddizioni tuttavia apparenti, che una lettura più attenta del celebre discorso del 1823 può aiutare a sciogliere[33]. Da un lato, infatti, James Monroe affermava senza esitazione: “In the wars of the European powers in matters relating to themselves we have never taken any part, nor does it comport with our policy so to do”. Dall’altro, lo stesso Presidente si affrettava a precisare: “It is only when our rights are invaded or seriously menaced that we resent injuries or make preparation for our defense. With the movements in this hemisphere we are of necessity more immediately connected, and by causes which must be obvious to all enlightened and impartial observers”[34]. In poche parole, si stava tracciando un confine, una “linea globale che suddivide il mondo in due metà, una delle quali buona e l’altra cattiva”[35]. L’eloquenza della formula “this hemisphere” si mostra da sé – emisfero, non nazione. Ancora più chiare sono le parole del presidente Herbert Hoover, parole considerate da Carl Schmitt il fondamento della dottrina Stimson stessa, compiuta realizzazione della “prassi interventistica”[36]. Precisamente: “An act of war in any part of the world is an act that injures the interests of my country”[37]. Queste le premesse. Questa la mentalità con cui oggi gli Stati Uniti, citando John Mearsheimer, “dominates the Western Hemisphere”. Non solo. Sono gli unici a farlo: “and there is no hegemon in any other area of the world”[38]. Nelle parole di Henry Kissinger: “nessun paese ha svolto un ruolo così determinante nel plasmare l’ordine mondiale contemporaneo come gli Stati Uniti, e nessuno ha manifestato una simile ambivalenza in merito alla propria partecipazione a esso”[39].
Si potrebbe a lungo discutere sull’ampiezza di questa sfera di influenza, se il tale o il tal altro Stato vi rientri oppure no, ma non è questo il punto rilevante in questa sede. Ciò che si vuole sottolineare è come le basi stesse dell’egemonia si fondarono, principalmente, su un atto di delimitazione geografica: gli americani resero così chiaro al mondo che “il suolo del vicino, al di là del confine, non è senza padroni”[40]. Un’egemonia ad ampio spettro, che opera su più piani, contemporaneamente: dal sapere alla tecnica, dalla politica all’economia, conservando l’impero attraverso una rassicurante benevolenza[41]. Un impero implicito, sotto forma di “ordine cooperativo in inarrestabile espansione cui concorrono Stati che osservano regole e norme comuni, che abbracciano sistemi economici liberali, che rinunciano alle conquiste territoriali, che rispettano la sovranità nazionale e adottano sistemi di governo partecipativi e democratici”[42]. Un dominio che resta, nonostante le apparenze, saldamente radicato negli elementi: innanzitutto, l’ottimale collocazione geografica – incastonata tra due oceani, circondata da alleati innocui, l’America ha assunto dimensioni continentali ottenendo al tempo stesso il controllo dell’orbe terraqueus attraverso una marina formidabile: puro “sea power”.
Si può dunque affermare con Carl Schmitt che “la storia del mondo è la storia della lotta delle potenze marittime contro le potenze terrestri e delle potenze terrestri contro le potenze marittime”[43]? Affermazione dal sapore deterministico, ad un primo sguardo euristicamente poco efficace. Il cui merito, tuttavia, è celato più in profondità. La storia si ritrae da categorizzazioni lineari. Eppure, allo stesso tempo, ripropone curiose affinità. Affine, d’altronde, è l’uomo a sé stesso: “cumulativa è la storia: le storie sono soltanto ripetitive”[44]. Ad un primo sguardo, infatti, non si esita a collocare gli Stati Uniti tra le potenze marittime, e ciò non senza ragione. Tuttavia, se ci si sofferma più attentamente sulla particolarità della forma storica americana, emergono alcune decisive ed essenziali differenze rispetto all’antecedente britannico. Pur semplificandole forse eccessivamente, se ne possono tuttavia trarre alcune osservazioni. Innanzitutto, l’estensione territoriale. Una tale vastità e una tale ricchezza di risorse interne era sconosciuta alla vecchia isola oltre la Manica. Poi il bacino demografico, costantemente arricchito e mantenuto giovane da una forte immigrazione. E ancora la clamorosa potenza militare – non soltanto navale, ma capace di proiettare migliaia di uomini a migliaia di chilometri dalle proprie coste in pressoché qualsiasi area del globo, occupando terra e soverchiando il nemico – boots on the ground. L’immagine con cui si presenta l’America contemporanea, in fondo, non sembra poi così distante da quella con cui Hoover chiudeva il penultimo discorso di quella campagna elettorale che l’avrebbe portato alla presidenza:
“an America, healthy in body, healthy in spirit, unfettered, youthful, eager—with a vision searching beyond the farthest horizons, with an open mind sympathetic and generous”[45].
In questa prospettiva si può concordare nel sostenere, con le parole di Alessandro Colombo, che de facto gli Stati Uniti si impongono ancora oggi quale “unico attore (…) ad avere una presenza significativa e (quasi sempre) determinante in tutti i contesti regionali – vale a dire, l’unico attore concretamente capace di globalità”[46].
- Sull’irrinunciabilità del territorio
Vecchi canoni cedono il passo a nuove misure. Dal mare al cielo, passando per la Rete. La terra perde terreno. Staremmo quindi assistendo al tramonto dell’ordinamento spaziale così come l’abbiamo conosciuto? Un ordinamento giuridico, costituito dalla dinamica sociale di sovrane unità di potenza nel relazionarsi l’un l’altra su di un piano di parità[47]. Un ordinamento fatto di potere e geografia. Due elementi che ben trovano sintesi nell’immagine di una carta politica: catene montuose delimitano proiezioni giuridiche, mari e fiumi separano culture e popoli, tratti di penna circoscrivono potestà pubbliche. Arbitraria convenzione? Limes intrinsecamente artificiale, il concetto di frontiera “naturale” ha nei secoli ben adempiuto al proprio dovere fungendo, di volta in volta, come agevole strumento di pressione politica. Strumento la cui immagine odierna sembra altresì più simile a quella di un fragile minerale poroso. Quando non dichiaratamente additata, nelle visioni più radicali, come malferma costruzione sociale, superflua limitazione. Con ciò nutrendo già voraci conflittualità. Esposti a sindacabilità, a reciproche dichiarazioni di appartenenza da parte di Stati confinanti, oggetto di interminabili contese, l’ideale corrispondenza dei confini politici con gli ostacoli geografici si è dimostrata spesso inconsistente: “da un punto di vista puramente «naturale»”, infatti, “gli unici confini insindacabili sono quelli degli Stati insulari”[48]. Ultima realizzazione dell’incessante progresso tecnico, difatti, anche le frontiere “naturali” sono state abbattute, almeno per come l’uomo della modernità le aveva concepite: “oggi fiumi, foreste e deserti possono essere attraversati, le paludi prosciugate, le montagne sorvolate, e i mezzi anfibi possono aver ragione anche delle coste più inaccessibili”[49].
La dimensione cyber, in particolare, con il suo portato di trasformazioni esistenziali avrebbe rivoluzionato il modo stesso di fare e concepire la guerra – storicamente una delle attività umane più sensibili alle alterne vicende delle civiltà –, interponendo nel gioco delle variabili un elemento nuovo: infatti, “the rise of cyberspace has changed the character of war significantly”[50]. In tal senso, già Carl Schmitt intuì come “le odierne scienze naturali forniscono a ogni detentore del potere strumenti e metodi che trascendono il concetto di arma e, con esso, anche quello di guerra”[51]. Nonostante sia ancora discussa l’appropriatezza del considerare lo spazio cibernetico “an independent realm of war”, la centralità di quest’ultimo per la conduzione di operazioni belliche è fuori discussione: “to that extent ‘ciberwar, like ‘space war’, already exists”[52]. Le grandi potenze si affrettano a guadagnarne il dominio, a studiarne il potenziale strategico, a saggiarne fragilità e capacità offensive. In una decisiva gara alla conquista di questo “territorio”, i principali attori globali hanno avviato importati processi di adeguamento alla mutata realtà, dimostrando al mondo la portata epocale dell’evoluzione in atto. Gli Stati Uniti, infatti, con i loro poderosi investimenti pubblici[53], manifestano un “forte entusiasmo per gli aerei senza pilota (UAV, Unmanned Aerial Vehicle) pilotati da terra, per la ‘guerra informatica’ – il cyberwarfare – e sempre più per le operazioni spaziali”[54].
L’accresciuta rilevanza dello spazio cibernetico, in particolare, oltre ad aver portato la NATO stessa a riconoscerlo un domain con pari dignità della terra e degli oceani[55], ha imposto l’adeguamento dell’agenda geopolitica di molti Paesi. Un’agenda costretta a porre la propria attenzione alle emergenti vulnerabilità delle proprie “infrastrutture critiche” (centrali elettriche, servizi pubblici, circuiti finanziari, …), ogni giorno sempre più connesse, “la cui distruzione o malfunzionamento prolungato può causare conseguenze gravi a livello economico o politico, mettendo a rischio la sicurezza di cose e persone, con un possibile impatto debilitante sulla capacità di difesa di un paese”[56]. In questa prospettiva, si è sollevata l’attenzione sul cyberpower – cioè “the process of converting information into strategic effect”[57] – al fine di prevenire azioni contrarie da parte di soggetti ostili e sfruttare la dimensione cibernetica a proprio vantaggio. Quando questo vantaggio, poi, assume finalità belliche, si può addirittura parlare di vera e propria cyberwar. Ovvero, “making any malign cyber incident conducted against a state or its society or economy a new form of conflict”[58].
Ciononostante, i tradizionali dominii della guerra convenzionale costituiscono ancora un modello valido – seppur con le dovute integrazioni – per leggere gli scenari futuri. “The stopping power of water is – e presumibilmente resterà – of great significance”, sia in relazione all’impatto che i liberi mari hanno sulla guerra terrestre, in termini di “power projecting”, che sullo sviluppo di un egemone. Pedigree del dominante: preminenza regionale, dimensioni continentali e aspirazioni oceaniche. Fattori, questi, inemendabilmente fondati sulla terra: “the strongest power is the state with the strongest army”[59]. Ciò, afferma lo studioso statunitense, a conferma della superiorità dell’elemento terraneo su quello aereo o marittimo, contestando le rispettive teorie di Douhet e Mahan. Questi ultimi due fattori, infatti, sarebbero si importanti – lungi dal negarne l’evidente rilevanza –, tenendo altresì ben presente che “a state’s power is largely embedded in its army and the air and naval forces that support those ground forces”[60].
Gli eserciti, infatti, diversamente dalle flotte, sarebbero l’unico strumento attraverso il quale la forza militare, in Patria o in una guerra aperta, si fa autorità di ultima istanza su una comunità territoriale: “armies are of paramount importance in warfare bacause they are the main military instrument for conquering and controlling land”[61]. In questo senso, il dominio spaziale è misura. Da ciò conseguirebbe l’inadeguatezza della guerra marittima e, a maggior ragione, della guerra aerea a formare rapporti giuridici, essendo intrinsecamente volte all’annientamento piuttosto che all’esercizio di un’autorità, alla pretesa di sovranità: “naval and air forces are simply not suited for conquering territory”[62]. Ancor meno verosimili appaiono, ad oggi, futuristiche “occupazioni” di mare, dell’aria o persino dello spazio, almeno non con le attuali possibilità della tecnica. “L’uomo è un essere terrestre, un essere che calca la terra”[63] – e con ragionevole certezza continuerà a farlo a lungo. Persino un teorico del sea power come Julian Corbett, d’altronde, riconosce che “since men live upon the land and not upon the sea, great issues between nations at war have always been decided (…) by what your army can do against your enemy’s territory”[64].
Appare dunque evidente come sia ancora prevalente in alcuni osservatori contemporanei l’elemento spaziale, il radicamento territoriale, della competizione tra potenze: geopolitica – ovvero, fatte tali premesse: “lotta politica per concetti puramente geografici”[65]. In un mondo caratterizzato dal ritorno in grande stile della politica di potenza, delle rivalità sistemiche, delle minacce ideologiche[66]Infatti “la contrapposizione politico-geografica implica l’analisi, la distinzione precisa delle parti, la misurazione dei confini, ma anche” – in quanto inscindibili da questi primi elementi – “l’indagine della loro interna struttura e, alla fine, del loro demone-carattere”[67]. In tale prospettiva viene in luce come – se l’obiettivo ultimo dell’uso politico della forza consiste nell’imporre la propria volontà su un nemico (hostis) e non nell’annientare un criminale (inimicus)[68] – soltanto una proiezione territoriale possa consentire l’effettiva instaurazione di un rapporto giuridicamente e politicamente fondato su un “legame spaziale”[69]. In altre parole, “l’esercito che occupa un territorio nemico è normalmente interessato a mantenere in esso la sicurezza e l’ordine, e a stabilirvisi come autorità”[70]. Processo sufficiente ma non necessario. Pur senza una tale fondazione, infatti, agevolmente si eserciterà influenza culturale, si incuterà timore, si faranno pressioni economiche: soft powers[71]. Altro è però l’egemonia. Ogni Principe questo lo sa.
In guerre ibride, invece, nelle quali lo scopo è, giocoforza, limitato all’acquisizione di vantaggi sull’avversario, il bilanciamento tra le diverse dimensioni operative è diverso, volta per volta, e i reparti di un Esercito convenzionale vengono sostituiti dalle Forze Speciali. Inoltre, in questo tipo di guerra entrano in gioco altre dimensioni, da quella economica al cyber, fino allo sfruttamento di fenomeni di massa, come quelli migratori.
- Carte geografiche
“L’umanità, nel passaggio dal feudalesimo all’assolutismo, aveva bisogno della polvere da sparo, ed eccola apparire”[72]. Citando questa “massima” hegeliana, Carl Schmitt riallaccia, prima di affidare agli “spiriti pacifici” il disvelamento del nuovo incipiente nomos, i fili della sua trattazione: è necessario cambiare punto di vista, forse il progresso tecnologico ha determinato il passaggio a nuove epoche? Oppure, suggerisce Schmitt, è l’avvento di una nuova epoca a rendere possibile tale progresso? L’umanità ha avuto bisogno delle armi di distruzione di massa, e sono apparse. Ma perché ne ha avuto bisogno? – si chiede Schmitt, senza rispondere. In ogni caso, accenna chiudendo, non sarebbe stato il rinverdito altare della “guerra giusta” a richiederle; questa, semmai, sarebbe stata incoronata dai suoi apostoli come legittimazione a posteriori di tali strumenti. L’eziologia appare dunque inversa: tantum licet in bello justo![73]
In ogni caso, come nel Medioevo la scoperta della polvere nera portò a una “gradual trasformation of the battlefield and of the architecture of fortifications”[74], così i moderni mezzi di annientamento avrebbero neutralizzato il concetto stesso di “campo” di battaglia e di “fortificazione”. Il fattore spaziale, pur travolto dallo sconvolgente rovesciamento in atto, sembrerebbe altresì godere di innata resilienza. Si conserva intatta la ruvida materialità degli elementi: confini, risorse naturali e collocazione geografica sono ancora le leve delle grandi manovre geopolitiche. Infatti “è vero che la pura geografia e la semplice cartografia sono, in quanto metodi scientifico-naturali, matematici e tecnici, qualcosa di neutrale, ma è anche vero che esse forniscono – come ogni geografo sa – possibilità di applicazione e di utilizzazione immediatamente attuali e altamente politiche”[75]. Lo dimostrano potentemente e con insuperata efficacia le ricorrenti crisi internazionali – ancora saldamente territoriali: rivendicazioni di frontiera, migrazioni di massa, epidemie virali. E ancora: “vie della seta”, gasdotti transnazionali, corse al dominio dei mari e pivot areas dividono il mondo come faglie tettoniche. È bene ricordare, a tal proposito, il monito del Machiavelli citato in apertura, poiché anche “se il territorio non può più essere considerato un elemento centrale dell’analisi geopolitica non vuole dire che abbia cessato di essere importante”[76].
Così il nostro Principe, catapultato nel XXI secolo, dovrà esercitare l’arte politica in una realtà mutevole, in continuo disfacimento. Un mondo “liquido”, “disunito”, “postmoderno”[77]; un mondo attraversato da guerre, virus, crisi umanitarie; un mondo abitato da uomini increduli e disorientati. Dominante l’incertezza, vecchie formule e approcci innovativi si compenetrano, non sempre con esiti soddisfacenti. Resta perciò quanto mai valido, dinanzi ad una crisi economico-sanitaria di portata epocale, l’antico principio di buon governo: ancorare i destini dello Stato al ponderabile – “e, per farlo, una carta geografica continua a essere uno strumento indispensabile”[78].
[1] Le opinioni espresse e le tesi sostenute riflettono esclusivamente il pensiero dell’autore e non sono in alcun modo riferibili all’Istituzione di appartenenza.
[2] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Feltrinelli, Milano, 2018, p. 157.
[3] N. Machiavelli, Il Principe, Mondadori, Milano, 2011, p. 73.
[4] Id.
[5] Citato da M. Graziano, Geopolitica. Orientarsi nel grande disordine internazionale, il Mulino, Bologna, 2019, p. 197.
[6] I. Kant, Per la pace perpetua, Feltrinelli, Milano, 2010.
[7] J. Kirshner, “Handle Him with Care: The Importance of Getting Thucydides Right”, Security Studies, (28) 2019, p. 4 (https://doi.org/10.1080/09636412.2018.1508634), consultato il 13/12/2020.
[8] N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, RBA, Milano, 2017, p. 194. Al primo paragrafo, probabilmente destinato ad essere soppresso, M. dà incipit così: “Ancora che, per la invida natura degli uomini, sia sempre suto non altrimenti periculoso trovare modi ed ordini nuovi, che si fusse cercare acque e terre incognite, per essere quelli più pronti a biasimare che a laudare le azioni d’altri”.
[9] M. Graziano, cit., p. 125.
[10] S. Ortmann, N. Whittaker, “Geopolitics and Grand Strategy”, in J. Baylis, J.J. Wirtz, C.S. Gray, Strategy in the Contemporary World, Oxford University Press, Oxford, 2019, p. 314.
[11] Id., p. 321.
[12] J.L. Gaddis, Lezioni di strategia, Mondadori, Milano, 2019, p. 162.
[13] S. Ortmann, N. Whittaker, op. cit., p. 321.
[14] Id., p. 309-310, dove gli Autori la definiscono “an evolution of strategy away from a narrow focus on victory in war towards a much broader, more long-term vision that is essentially political in its nature”.
[15] J.L. Gaddis, op. cit., p. 33.
[16] L. Robbins, Saggio sulla natura e l’importanza della scienza economica, 1932: “L’economia è la scienza che studia la condotta umana nel momento in cui, data una graduatoria di obiettivi, si devono operare delle scelte su mezzi scarsi applicabili ad usi alternativi”.
[17] Caio Giulio Cesare, La guerra gallica, Rizzoli, Milano, 2010. Si veda, tra le molte, p. 174, dove si enumera la “oportunitate loci” tra i fattori che, assieme alla “hostium inscientia ac defatigatione” e alla “virtute militum et superiorum pugnarum exercitatione”, avrebbero consentito a Sabino di sconfiggere agevolmente i galli ribelli, convinti ad attaccare il campo romano da un falso disertore istruito da Sabino stesso. Un esempio inverso, altresì, può riscontrarsi nell’assedio di Gergovia condotto da Cesare (pp. 413 ss.). In tale circostanza, infatti, constatate le condizioni sfavorevoli del terreno (“iniquitas loci”, p. 418), Cesare raccomandò ai legati che aveva posto al comando delle sue legioni di frenare i soldati (“ut contineant milites”, ib.) per evitare che questi si distanziassero troppo e diede l’ordine di attacco; ciononostante, i soldati si lasciarono prendere dalla foga, avanzando fin sotto le mura della città e non fermandosi al segnale di ritirata. Terminata la battaglia con il respingimento dei romani, Cesare convocò le legioni, rimproverando i soldati “temeritatem (…) cupiditatemque” e dimostrando loro “quid iniquitas loci posset”.
[18] J.L. Gaddis, op. cit., p. 33.
[19] Secondo la celebre immagine di Isaiah Berlin ne Il riccio e la volpe, tema sviluppato e ripreso da J.L. Gaddis, op. cit., in particolare a p. 9, dove cita il noto frammento attribuito ad Archiloco di Paro: “la volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande”.
[20] N. Machiavelli, Il Principe, Mondadori, Milano, 2011, p. 88: “Sendo, dunque, uno principe necessitato sapere usare bene la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione; perché il lione non si defende da’ lacci, la golpe non si defende da lupi. Bisogna, adunque, essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi”.
[21] J.L. Gaddis, op. cit, p. 33, dove G. ripercorre alcune delle vicende narrate da Erodoto, soffermandosi in particolare sulla figura di Serse in quanto tipico esempio di “riccio” incapace di allineare ambizioni e capacità, condannandosi ad una rovinosa sconfitta ad opera dei greci.
[22] C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «jus publicum Europaeum», Adelphi, Milano, 1991, p. 199: “Nessuno ha il diritto di speculare sul carattere giusto di una guerra, né le parti in causa né i neutrali, a condizione che la guerra sia «in forma». (…) e ciò significa che le guerre che vengono condotte sul suolo europeo da Stati territoriali chiusi contro Stati territoriali chiusi a loro eguali – le pure guerre statali – sono qualcos’altro dalle guerre cui prende parte un non-Stato”. Riprendendo così la celebre formula di E. de Vattel, Droit des gens: “La guerre en forme, quant à ses effets, doit être regardée comme juste de part et d’autre”.
[23] B. Pascal, Pensieri, RBA, Milano, 2017, p. 68, citato da C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 94, dove si legge “un meridiano decide la verità” nell’ambito della riflessione sulle amity lines (“linee di amicizia”).
[24] M. Graziano, op. cit., p. 133.
[25] C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 151.
[26] F. Ruschi, “Leviathan e Behemoth. Modelli egemonici e spazi coloniali in Carl Schmitt”, Quaderni Fiorentini per la Storia del Pensiero Giuridico Moderno, (34) 2005 (https://flore.unifi.it/handle/2158/375356?mode=full.1), consultato il 13/12/2020.
[27] J.L. Gaddis, op. cit., p. 36, dove l’Autore afferma che il progetto delle mura di collegamento tra Atene e il porto del Pireo, fortemente volute da Temistocle, “avrebbero reso queste due città un’isola, immune a un attacco da terra, rifornita di tutto il necessario dal mare, pronta a schierare una flotta altrettanto potente dell’esercito spartano”.
[28] C. Schmitt, Terra e mare, Adelphi, Milano, 2002, p. 93.
[29] J.L. Gaddis, op. cit., p. 36, dove l’Autore cita Tucidide.
[30] C. Howard, “Splendid Isolation”, Hystory, (47) 1962, p. 34 (citato da J. L. Shapiro, L’anglosfera guarirà l’egocentrismo dell’America vittoriana, Limes, (12) 2019, p. 51: “la geopolitica imperiale era incentrata sugli interessi inglesi e rifuggiva alleanze o rivalità immutabili”).
[31] G. Washington, “September 19, 1796: Farewell Address”, Miller Center (https://millercenter.org/the-presidency/presidential-speeches/september-19-1796-farewell-address), consultato il 22/03/2020.
[32] C. Schmitt, Terra e mare, cit., p. 104.
[33] J. Colamedici, “La difesa comune. Prospettive di integrazione europea”, Jura Gentium (online first), pp. 4-5 (https://www.juragentium.org/pp/colamedicipp.pdf).
[34] J. Monroe, “December 2, 1823: Seventh Annual Message (Monroe Doctrine)”, Miller Center (https://millercenter.org/the-presidency/presidential-speeches/december-2-1823-seventh-annual-message-monroe-doctrine), consultato il 25/03/2020.
[35] C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 388.
[36] Id., p. 406. Per un approfondimento del “dilemma tra isolamento e intervento” e del rapporto di questo con la “dottrina Stimson” si veda cap. 6, “Il mutamento di significato del riconoscimento giuridico-internazionale”, pp. 388 e ss.
[37] La citazione è in Carl Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 407.
[38] J.J. Mearsheimer, The Tragedy of Great Power Politics, W.W. Norton & Company, New York, 2014, p. 42.
[39] H. Kissinger, Ordine mondiale, Mondadori, Milano, 2018, p. 234.
[40] C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 33.
[41] M. Chiaruzzi, quadro a cura di, in F. Andreatta et al., cit., p. 128, dove si riportano alcune argomentazioni che sostengono la capacità degli Stati Uniti di sottrarsi alla ciclicità tipica delle egemonie: tra queste, rileverebbe “una natura benevola nell’egemonia americana, dovuta al portato culturale e istituzionale del regime liberal-democratico statunitense nella sua dimensione internazionale”.
[42] H. Kissinger, op. cit., p. 3.
[43] C. Schmitt, Terra e mare, cit., p. 18.
[44] V. Ilari, “Clausewitz in Italia”, in Clausewitz in Italia e altri scritti di storia militare, Roma, Aracne Editrice, 2019, p. 22.
[45] H. Hoover, “October 22, 1928: Principles and Ideals of the United States Government”, Miller Center (https://millercenter.org/the-presidency/presidential-speeches/october-22-1928-principles-and-ideals-united-states-government), consultato il 26/03/2020.
[46] A. Colombo, La disunità del mondo. Dopo il secolo globale, Feltrinelli, Milano, 2010, p. 25.
[47] A. Sinagra, P. Bargiacchi, Lezioni di diritto internazionale pubblico, Giuffrè, Milano, 2019, pp. 1 e ss.
[48] M. Graziano, op. cit., p. 139, dove l’Autore prosegue: “Negli altri casi, la natura stessa degli ostacoli in questione è variabile e si presta a tutte le possibili strumentalizzazioni politiche”.
[49] Id.
[50] J.B. Sheldon, “The Rise of Cyberpower”, in J. Baylis, J.J. Wirtz, C.S. Gray, op. cit., p. 294.
[51] C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 410.
[52] D. Moran, “Geography and Strategy”, in J. Baylis, J.J. Wirtz, C.S. Gray, op. cit., p. 269.
[53] Ben 738 miliardi di dollari stanziati per l’anno fiscale 2020 con il National Defense Authorization Act, di cui 40 milioni andranno assegnati alla neocostituita Space force. Il Sole 24 Ore, Trump fonda l’esercito per le «guerre spaziali», 21/12/2019 (https://www.ilsole24ore.com/art/trump-fonda-l-esercito-le-guerre-spaziali-ACWsdr7), consultato il 01/03/2020.
[54] G. Giacomello, G. Badialetti, op. cit., p. 185.
[55] G. Giacomello, G.P. Siroli, “La guerra cibernetica”, in G. Giacomello, G. Badialetti, op. cit., p. 185.
[56] Id., p. 186.
[57] J.B. Sheldon, “The Rise of Cyberpower”, in J. Baylis, J.J. Wirtz, C.S. Gray, op. cit., p. 294.
[58] Id., p. 295.
[59] J.J. Mearsheimer, op. cit., p. 84.
[60] Id., p. 83.
[61] Id., p. 86.
[62] Id.
[63] C. Schmitt, Terra e mare, cit., p. 11.
[64] J. Corbett, Some Principles of Maritime Strategy, Annapolis, MD: U.S. Naval Institute Press, 1988, p. 16, citato da J.J. Mearsheimer, op. cit., p. 86.
[65] C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 84.
[66] Cfr. Rapporto “NATO 2030”, 25/11/2020, p. 16, dove si definisce il contesto internazionale attuale come caratterizzato dalla “re-emergence of geopolitical competition – that is, the profusion and escalation of state-based rivalries and disputes over territory, resources, and values” (https://www.nato.int/nato_static_fl2014/assets/pdf/2020/12/pdf/201201-Reflection-Group-Final-Report-Uni.pdf), consultato il 22/12/2020.
[67] M. Cacciari, Geofilosofia dell’Europa, Adelphi, Milano, 2019, p. 17.
[68] C. von Clausewitz, On War, Repeater Books, London, 2019, p. 35: “war therefore is an act of violence to compel our opponent to fulfil our will”.
[69] C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 425.
[70] Id., p. 423.
[71] J.S. Nye, Bound to Lead: The Changing Nature of American Power, 1990, cui si deve l’utilizzo attuale del termine.
[72] C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 431.
[73] Id.
[74] B. Heuser, “The history of the Practice of Strategy from Antiquity to Napoleon”, in J. Baylis, J.J. Wirtz, C.S. Gray, op. cit., p. 26.
[75] C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 84.
[76] M. Graziano, op. cit., p. 197.
[77] Per riprendere le efficaci formule di Z. Bauman (La modernità liquida, 2000), A. Colombo (La disunità del mondo, 2010) e J.-F. Lyotard (La condizione postmoderna, 1979).
[78] M. Graziano, op. cit., p. 200.