scarica il file in pdf – neo ottomanesimo – aprile 2023- Lanzara
Le sei frecce di Ataturk e il neo-ottomanesimo
nella Turchia di oggi
Gino Lanzara
L’impero è morto, viva l’impero!
La Turchia è la naturale erede di una secolare tradizione imperiale che ha conosciuto la sua fine in un tempo storicamente ancora troppo recente perché non se ne possa avere memoria e, soprattutto perché non susciti sentimenti ancora vivi e pulsanti. Grandezza, potenza, estensione non possono essere obliati con un semplice tratto di penna; orgoglio, nazionalismo e desiderio di proiezione di potenza animano la politica anatolica che, attraversato il kemalismo, vive un contrastante e dibattuto ritorno ad una forma criptoimperiale, una forma di neo ottomanesimo che deve essere studiata con attenzione soprattutto per le possibili implicazioni in un futuro più che prossimo e coinvolgente.
- Mari, ponti ed imperi
Le acque del Mediterraneo bagnano Paesi insigni, magari ora appartenenti ad una nobiltà decaduta, che hanno tuttavia lasciato il loro indelebile segno negli annali della storia dell’uomo, sia dell’esclusiva caratteristica di insistere su sponde di Nazioni la cui strutturata complessità politica non ha avuto né mai potrà avere pari. Osservando una rappresentazione cartografica verticale del Mediterraneo, si potranno sicuramente apprezzare due elementi atti ad incrementarne il valore: la relativa esiguità di spazi, e l’insostituibile funzione di collegamento liquido che, nei secoli, ha unito terre e civiltà. Estendendo per affinità linguistica il Πόντος ellenico, si giunge al latino Pons, il Ponte che, nella lingua italiana, gemmata dal greco, indica il collegamento tra parti distanti. Se l’Italia taglia il Mediterraneo congiungendo il nord europeo alle acque continentali nordafricane, e se la Grecia si protende come una mano dai Balcani verso il sud est dell’Egeo, l’Anatolia è il ponte naturale che si proietta verso le acque greche dalle profondità continentali caucasiche dall’est verso l’ovest. È dunque la conformazione geografica che ha indirizzato la storia di un popolo che, nomade d’elezione, ha impresso in una storia secolare una traccia indelebile fatta di guerre, fasti imperiali e di un fermento politico ed ideologico senza pari.
Il risorgimento di un ex stato imperiale non è di certo facile; la Turchia non ha fatto eccezione, viste violenze politiche, guerre, rivolte, persecuzioni genocidarie che l’hanno segnata ed ancora fanno sentire la loro eco. Il quadro del cambiamento istituzionale, dal punto di vista strutturale, ha evidenziato innovazioni costituzionali, politiche, economiche, linguistiche, che hanno fatto sì che Atatürk sia stato considerato padre fondatore e, al contempo statista visionario, il demiurgo politico per il quale è stato necessario designare uomini ed apparati di intelligence da porre a guardia dei fondamenti della sua ideologia, secondo i dettami, tuttavia prudentemente non scritti, di quello che, per ogni Paese strutturato secondo le linee rosse del potere, può definirsi Deep State, Stato Profondo, l’intelaiatura di un potere che non soffre per sua stessa natura della morfologia del transeunte consenso elettorale. È vero del resto che, secondo Machiavelli, intraprendere un iter riformista basato esclusivamente sulle concettualità può essere pericoloso, tanto che il sostegno del più concreto hard power risulta sempre e comunque imprescindibile. Non è dunque inopportuno ricordare come, a suo tempo, gli americani, intendendo limitare l’accesso sovietico alle calde acque mediterranee, e per effetto della politica interna ancirana, turbata dalle cure determinate da possibili sovversioni sotterranee da parte delle forze che godevano del sostegno moscovita, sulla scorta dell’intuito geopolitico di George Kennan[1], indimenticato autore del lungo telegramma che stigmatizzò il sovietismo staliniano e le sue proiezioni di potenza nonché artefice della politica del containment, impedirono l’entrata turca nell’orbita russa, consentendo nel 1952 l’ingresso anatolico nella Nato.
- Morte e rinascita di uno Stato: il Gazi
Il ‘900 vede consumarsi il primo dramma turco con la dissoluzione di un impero secolare rinato, come una fenice dalle sue stesse ceneri, per volontà di uno dei personaggi che hanno caratterizzato il XX secolo, Mustafa Kemal Atatürk, il Gazi[2], il Padre della Patria, una patria che non può che rinascere, secondo una sorta di ineliminabile genetismo storico, nel sangue e nel fuoco di Smirne nel 1922, nel perpetuarsi delle conseguenze di una guerra infiammata dagli orrori generati dai colpi di pistola sparati da Gavrilo Princip a Sarajevo il 28 giugno 1914. Atatürk raccoglie idealmente il vessillo di Mehmet II Fatih[3], colui che nel 1453 pone fine al millenario impero bizantino; da un impero all’altro, da un soggetto politico all’altro. Forse è anche per questo che l’antitesi tra Atatürk ed il presidente Recep Tayyip Erdoğan è così stridente: poco agevole infatti accostare il padre della Turchia attuale e del Medio Oriente contemporaneo ad un politico che, se mai ne avrà le facoltà, deve ancora ritagliarsi un posto duraturo nella galleria che la storia riserva solamente ai grandi.
È la storia che, secondo percorsi imperscrutabili, impedisce l’incontro tra Mustafa Pasha e Thomas Edward Lawrence d‘Arabia[4], la guida della rivolta araba destabilizzatrice dell’Impero Ottomano dalle fondamenta e che aprì a Sua Maestà Britannica le porte di una regione già da allora rilevante e poi sempre più strategica, in relazione alle dinamiche energetiche globali. Atatürk saggiamente e con rara preveggenza rinuncia al comando nel ribelle Hegiaz[5], caratterizzato da azioni di controguerriglia, per affrontare il nemico con onore e sempre con successo pur nel disfacimento statuale ottomano. L’armistizio di Mudros[6] e l’occupazione alleata di Costantinopoli nel 1918 non cancellano le battaglie di Gallipoli, Aleppo, gli scontri vittoriosi contro le truppe russe nel Caucaso. Di certo il guerrigliero Lawrence ha avuto di fronte comandanti meno valenti dell’esperto Mustafa Kemal[7], temprato dalla guerriglia organizzata contro l’Italia a Derna, nella Tripolitania e Cirenaica libiche, tra il 1911 ed il 1912; forse la conquista della fortezza ottomana di Aqaba sul Mar Rosso, espugnata dalla terraferma con un’azione condotta dalle truppe cammellate, non sarebbe stata così facilmente coronata dal successo.
Al fine di rendere più esplicita e chiara la panoramica d’insieme, è opportuno rammentare che, nel contesto ottomano prima e turco poi, l’entità araba ha rivestito nel tempo diverse rilevanze che, correlate agli aspetti storici, impongono la più ampia considerazione delle contingenze correnti sul momento. Che il rapporto non sia stato improntato ad un entente cordiale è testimoniato, a partire già dal primo conflitto mondiale, dai tentativi di conquista dell’indipendenza da parte dei popoli arabi che, dall’interno e con l’appoggio occidentale, sconfissero le armate ottomane in Medio Oriente. Le ostilità di quel particolare frangente, di fatto, sono rimaste così vividamente impresse nella memoria storica sia di turchi che di arabi che a lungo hanno pregiudicato i vicendevoli rapporti diplomatici tra i soggetti politici successivamente costituitisi. Quel che rivestì importanza sociale e politica consistette nel fatto che i Giovani Turchi, così come i nazionalisti arabi e gli intellettuali panturchisti, accantonarono la dimensione musulmana insita nei fisiologici alleli politico culturali, per volgersi ad un tentativo di formazione di una società laica, moderna e nazionale, aspetto questo che esaltò l’importanza del fattore ideologico quale aggregatore istituzionale. Il fervore politico, acceso già dal 1895 dagli ideali innovatori e liberali propugnati dall’associazione segreta del Comitato di Unione e Progresso e coltivato a Salonicco dagli intellettuali che si unirono agli Ufficiali della III Armata, divampò fin verso il 1916, quando le rivolte arabe orbarono l’impero di parte dei suoi territori con una contestuale perdita di consensi islamisti a favore dell’ideologia turchista, successivamente fautrice delle violenze mosse contro la comunità armena, e che favorì la nascita del movimento politico dei Giovani Turchi, divenuto partito solo durante la guerra. Il nazionalismo esaltò quindi le nuove élite, legittimando la loro aspirazione ad indirizzare le masse e contrastando il panislamismo del sultano ‘Abd al-Hamid II; di fatto si assistette al passaggio tra un islamismo modernista ed un laicismo costituzionalista, una transizione avvalorata dalla palesata vulnerabilità musulmana. Rimaneva il problema costituito dal rapporto con le diverse nazionalità che si stavano gradualmente allontanando dall’orbita imperiale; se però da un lato per le popolazioni cristiane era stato più agevole darsi un’identità nazionale da rivendicare nei confronti dell’autorità ottomana, dall’altro i musulmani non riuscivano a separare il nazionalismo da Islam e Impero. Tra il 1908 ed il 1923 il concetto di turchismo identificò dunque una civiltà capace di concretizzare la sua identità storica senza essere musulmana, diventando moderna senza essere occidentale; tutto fu utile a condurre al nazionalismo turco, cioè ad un ideale capace di porsi ancora una volta in contrasto con le entità cristiane, con i conservatori musulmani, e soprattutto di diffondere un marcato disprezzo verso gli Arabi, definiti cani dell’Impero, una categorizzazione capace di provocare la reazione di un nazionalismo arabo più che mai pronto e motivato a soddisfare gli interessi britannici. A carico di Istanbul, oltre al mantenimento delle linee belliche degli Stretti, dei fronti egiziani e caucasici, nel 1916 si aggiunse dunque la rivolta araba; la politica condotta dai Giovani Turchi, in nome di un sempre più acceso nazionalismo, determinò una totale discriminazione non solo verso i cristiani armeni, ma anche verso altri gruppi minoritari, entro cui furono ricomprese le popolazioni arabe, oggetto di persecuzioni sempre più frequenti, divenute poi utili motivazioni al sostegno ideologico della politica indipendentista propugnata dall’emiro Hussein Ibn Alì, controllore di gran parte dei beduini dell’Hegiaz, che aveva dovuto, ob collo torto, mantenere precedentemente nei confronti ottomani una condotta accondiscendente. Anche Mustafa Kemal, del resto, principiando nel 1915 una marcata campagna persecutoria nei confronti dei circoli nazionalisti arabi ed ebraici siriani, aveva reso evidente come il nazionalismo turco non avrebbe mai acconsentito ad alcuna autonomia araba, ancorché parziale. Poiché la storia protende le sue radici nel presente, non si trova nulla di anomalo nel diniego arabo ad una leadership turca specie fin quando la laicità di Ankara, collusa con l’Occidente, è stata considerata alla stregua di una forma di ateismo, non dissociabile da una più prosaica e temuta propensione ad estendere nuovamente influenze e rivendicazioni su antichi possedimenti imperiali.
Alla stessa stregua di Lawrence, Atatürk comprese quanto fosse controproducente l’errore di imporre alle tribù arabe il dominio turco nelle province dominate dalla Sublime Porta[8]; pur nel suo nazionalismo panturco, Atatürk comprese che, per condurre efficacemente le operazioni belliche volte alla difesa delle roccaforti libiche, avrebbe dovuto far sua la fiducia dei capi tribù locali, a cominciare dai Senussi, promuovendone le pratiche sufi nelle formazioni irregolari sotto il suo comando, vestendo gli abiti tradizionali per conquistarne il consenso. Il Gazi innovò l’arte bellica nel deserto, con i suoi movimenti nascosti, con gli spostamenti notturni, con avanzate e ritirate che assumono un significato più preciso nell’ambito complessivo di una strategia non mirata all’esclusivo controllo territoriale. È qui che, precedendo Lawrence, Atatürk comprese la rilevanza politica del riconoscimento dell’esistenza del collante di una causa nazionale atta a mantenere la coesione tra truppe straniere e combattenti locali. Lo statista, e poi uomo d’armi, Atatürk, avrebbe di certo isolato politicamente il guerrigliero Lawrence, puntando a creare un nuovo consenso con gli Arabi, rendendo accettabile la reiterata soggezione alla Sublime Porta; qui, di converso, il fallimento ottomano fu invece totale, tanto da aprire la strada alla dissoluzione del dominio imperiale. Probabilmente, se a prevalere fosse stato Mustafa Kemal, la causa araba non avrebbe potuto svilupparsi con lo stesso dinamismo, e difficilmente si sarebbe giunti alla spartizione del Medio Oriente imposta dalla geopolitica delle linee di Sykes-Picot[9]. Ma la storia ha seguito percorsi differenti e Lawrence, non affrontando Mustafa Kemal, ebbe modo di aiutare a conferire al futuro Padre dei Turchi quell’aura di invincibilità che rafforzò il suo carisma quando condusse la rivoluzione contro le condizioni punitive imposte dal Trattato di Sèvres e per la riconquista completa dell’Anatolia. Paradossalmente il percorso storico, premiando l’uomo politico Atatürk, invitto condottiero di una guerra perduta, ed il soldato Lawrence, ha contribuito rendere ambedue, protagonisti del loro tempo.
- Politica, religione, nazione: il kemalismo
Il kemalismo, noto anche come Atatürkism, presa forma e consistenza sulle ceneri ottomane, diviene l’ideologia ufficiale fondante della Repubblica di Turchia del 1923; in linea con la personalità del Gazi, il kemalismo non è stato, e non è tutt’ora, semplice delineazione di pensiero priva di spinta concreta, ma anima ispiratrice di riforme politiche, sociali, culturali e religiose, spirito progettuale creatore di uno stato turco proiettato nel futuro, completamente diverso dal predecessore ottomano[10], capace di comprendere ed abbracciare uno stile di vita occidentale e moderno, ed in grado di compendiare e consentire il sostegno di stato alle scienze, l’istruzione gratuita, i diritti delle donne. Attenzione però alla religione; Atatürk non è stato privo di contraddizioni, tanto da dichiarare nel 1927, alla giornalista inglese Grace Ellison: “io non ho religione e qualche volta vorrei vedere tutte le religioni affondare in fondo al mare”; Mustafa Kemal leggeva tuttavia il Corano e, nel 1923, visitando la moschea di Balikesir aveva appellato l’Islam quale “più naturale e ragionevole delle religioni”, concludendo, con un riferimento personale che “in realtà ognuno ha una religione, anche la persona che nega di averla”. Laiklik, lemma coniato dallo stesso Atatürk per tradurre laicismo, non aderisce completamente alla laicité francese e, dunque, se ne può dedurre che Kemal, comprendendo l’impossibilità di un colpo di spugna, non abbia inteso eradicare l’Islam, ma tentare di modernizzarlo riconducendolo sotto il controllo dello Stato[11]. Politologicamente si può quindi distinguere tra un kemalismo ideologico per cui il laicismo è uno scopo legato ad un contrasto anti fideista, ed un atatürkismo per cui il laiklik è un passepartout necessario per traghettare la Turchia nella modernità.
In effetti diversi princìpi alla base del kemalismo iniziarono a vedere la luce sotto varie forme nel periodo del tardo impero ottomano per tentare di evitarne il collasso, a cominciare dal Tanzimat, ovvero dal complesso delle riforme avviate tra il 1839 ed il 1876. L’ottomanesimo prese dunque forma con i Giovani Ottomani che, alla metà del XIX secolo, cercarono di infondere vita all’ideologia del nazionalismo ottomano allo scopo di contrastare le spinte nazionalistiche ed etniche interne all’Impero, introducendo una sorta di democrazia limitata e mantenendo comunque le influenze islamiste. All’inizio del secolo scorso, tuttavia, i Giovani Turchi abbandonarono il nazionalismo ottomano per volgersi al primo nazionalismo turco, associandovi una visione politica laica. Il sincretismo politico del momento storico entro cui si mosse Atatürk, ha dunque condotto al kemalismo quale filosofia modernizzatrice che ha traghettato la transizione tra l’impero ottomano multireligioso e multietnico ad una Repubblica laica, democratica ed unitaria, ed in cui si sono stabiliti i limiti del processo sociale di riforma dello Stato. Kemalismo quale ideologia di stato, dunque, ma lo stesso Atatürk preferì astenersi dalla rigidità di qualsiasi postulato descrivendo così la sua guida: “Non lascio alcun verso, nessun dogma, né alcun principio congelato e modellato come eredità spirituale. La mia eredità spirituale è la scienza e la ragione”.
- Le sei frecce del kemalismo
Il kemalismo, che sopravvisse alla morte di Atatürk nel 1938, si basa su sei principi ideologicamente vicini ai Tre Principi del Popolo di Sun Yat-sen[12], chiamati le sei frecce (AltıOk)[13]:
il repubblicanesimo, a difesa dell’organizzazione dello stato contro i tentativi di restaurazione feudale; il nazionalismo, a garanzia della sovranità del paese e dell’appartenenza solidale e dell’unità di tutti i cittadini, senza alcun pregiudizio etnico, che vivono all’interno dei confini nazionali; il populismo, inteso nel significato dell’uguaglianza di fronte alla legge e volto alla difesa di un ordine sociale “per tutto il popolo”; lo statalismo, ovvero il modello economico che prevede l’intervento diretto dello stato sul libero mercato; il laicismo, inteso nella separazione fra potere secolare e religione islamica, ovvero il credo che, a lungo per secoli, aveva influenzato lo sviluppo del paese; il riformismo o rivoluzionarismo, il principio che richiede che il paese sostituisca istituzioni e concetti tradizionali con le istituzioni e i concetti moderni secondo una strategia atta a raggiungere un ideale sociale moderno.
La rivoluzione kemalista puntava a creare uno stato nazionale dai resti di un impero multireligioso e multietnico, fondandosi sulle teorie del contratto sociale ispirato dai principi nazionalisti e civici sostenuti da Jean Jacques Rousseau. Le sei frecce, rappresentano una forma di giacobinismo inteso da Atatürk come un utilizzo dell’autoritarismo politico necessario per abbattere il dispotismo sociale prevalente tra la popolazione musulmana di mentalità tradizionale, indotto, egli riteneva, dal bigottismo degli ulema[14]. Il repubblicanesimo sostituisce la monarchia assoluta con lo stato di diritto, con la sovranità popolare, con la virtù civica; il kemalismo definisce dunque un modello di repubblica costituzionale, in cui i rappresentanti popolari sono eletti e governano conformemente alla legge costituzionale che limita il potere governativo. Il populismo è l’anima della rivoluzione sociale destinata a trasferire il potere politico alla cittadinanza, e con esso il kemalismo intende non solo affermare la sovranità popolare, ma anche la realizzazione della trasformazione socio-economica aliena da conflitti di classe e da collettivismo: l’identità nazionale è sempre e comunque al di sopra di tutto. Il populismo kemalista ipotizza una sorta di socialismo che esalta collaborazione di classe e unità nazionale affine al solidarismo, fino a giungere ad una modernizzazione tale da rendere l’Islam compatibile con lo stato-nazione. Questo ovviamente prevedeva la supervisione statale di scuole e organizzazioni religiose, tanto che lo stesso Mustafa Kemal affermò che “tutti hanno bisogno di un posto dove imparare la religione e la fede; quel posto è un mektep, non una madrasa”[15]; Atatürk temeva che, se l’istruzione non fosse stata portata sotto il controllo pubblico, le madrase senza supervisione avrebbero potuto esacerbare il crescente problema dell’insularità dei tarikat[16] che minacciava di minare l’unità dello Stato[17].
La teoria sociale kemalista non contempla aggettivazioni poste prima della definizione di nazione poiché la sovranità le appartiene naturalmente senza restrizione alcuna; di fatto il populismo è volto contro l’assertività politica di sceicchi, leader tribali, dell’Islam politico imperiale ottomano, tanto che il nazionalismo kemalista mirava a traslare la legittimità politica dall’autocrazia dinastica ottomana, dalla teocrazia del califfato ottomano, dal feudalesimo tribale, alla partecipazione attiva della cittadinanza; tale partecipazione della volontà popolare fu dunque stabilita sia grazie al regime repubblicano sia al comune sentire turco che si pose in luogo delle altre forme affiliative promosse nell’Impero, come la fedeltà ai diversi millet[18], forieri delle successive divisioni.
- Turanismo, Panturchismo: nascita dei nazionalismi
Comprendere la Turchia, o tentare di farlo, non può però limitarsi a questo; il panorama storico in cui emerge la spinta kemalista si innesta in un momento che conserva aneliti culturali di spessore, e che trova una sua naturale associazione con ideologie che, detenendo una specifica rilevanza, hanno comunque esercitato un influsso politico. Turanismo e Panturchismo si manifestano dunque in ambiti determinati e rivestono una valenza culturale che non può essere accantonata.
Il Turanismo, nato nel XIX secolo ad opera di intellettuali ottomani[19], copre trasversalmente Turchia, Ungheria, Germania, al fine di promuovere il rinascimento di tutti i popoli turanici, ovvero ugro-finnici, turchici e mongolici. Il termine origina dalla denominazione geografica del bassopiano turanico posto, in Asia centrale, tra Turkmenistan, Uzbekistan, Kazakistan, un’area da cui si riteneva derivassero alcuni idiomi uralo altaici[20]. L’idea panturanica affonda dunque le sue origini nelle arcaicità eurasiatiche, dove non a caso è rinvenibile un certo Tur o Turaj, primogenito dell’imperatore Fereydun, fratello di Iraj, nonché capostipite dei Turchi, ovvero dei Turani. Attualmente, ed è ciò che interessa, sopravvive solo la variante panturca, forte in Anatolia, Azerbaigian e Asia centrale nella regione degli Stan[21]. In Turchia, attualmente, va considerata la presenza dei sostenitori della cd. preponderanza strategica della comunanza continentale eurasiatica, associati ai circoli del Vatan Partisi (Il Partito della Patria)[22]. Non a caso il Presidente Erdoğan ha confermato la sua adesione alla proiezione politico-militare di questa concezione concretizzatasi nella dottrina del Mavi Vatan (Patria blu)[23], grazie alla quale la Turchia aspira a diventare la potenza principale del sub-continente turanico proprio perché “rappresentante degli Stati turchici dell’Asia centrale […] l’unica popolazione turcica ad avere un accesso al mare”[24].
Mentre il Turanismo si applica in via più generale, il Panturchismo si identifica come specifico movimento politico emerso intorno al 1880 tra gli intellettuali turchi che popolavano la regione di Kazan, il Caucaso, ed ovviamente l’odierna Turchia, con il proposito di unificare politicamente e culturalmente tutti i popoli turchi. Il poeta ottomano Ziya Gökalp[25], considerato da Atatürk a discapito del pensiero e del lascito culturale di Enver Pasha[26], definì il panturchismo come un concetto filosofico e politico che sosteneva l’unità dei popoli turchi, ideologicamente basato sul darwinismo sociale. Se nella letteratura di ricerca Panturchismo è termine usato per descrivere l’unità politica, culturale ed etnica di tutto il popolo turco, è comunque necessario rammentare la coesistenza di teorie pseudoscientifiche poco attendibili e che hanno caratterizzato la pseudo turcologia. In senso lato, per i sostenitori del panturchismo, il termine turco rientra nelle distinzioni linguistiche, etniche e culturali che non rientrano nel più ristretto ambito della mera cittadinanza[27].
Il Panturchismo trova tuttavia spunti interessanti tra gli jadidi, gli innovatori, tra coloro che incoraggiavano lo spirito critico sostenendo l’istruzione, la tolleranza e l’uguaglianza, incoraggiando l’unità culturale turca comunque volta al recepimento dell’eredità europea; il loro programma di modernizzazione semi secolare, di fatto, cominciava ad indirizzarsi verso l’enfatizzazione dell’identità nazionale piuttosto che quella religiosa.
La perdita dei territori nordafricani a favore del Regno d’Italia, ed il sempre più difficile esercizio d’influenza nei Balcani spinge i panturchisti a guardare ad un’identità nazionale cui dare corpo e anima in Asia centrale costituendo una sorta di commonwealth turco con cui sostituire il decaduto impero; un’idea contrastata dal nazionalismo dei Giovani Turchi e dal Gazi, che preferì plasmare una forma di nazionalismo volta a preservare l’esistenza di un nucleo anatolico. La deriva filo tedesca presa nel corso degli eventi caratterizzanti la II GM condurrà alla condanna del panturchismo, il 19 maggio 1944, da parte di İsmet İnönü[28].
- La profondità strategica di Ahmet Davutoğlu
La Turchia, come già visto, è politica, è realtà in movimento con balzi repentini ed improvvisi; per comprendere, o almeno tentare di farlo, il presente, è stato necessario cercare di esaminare un passato complesso. Le linee guida della politica estera post Guerra Fredda trovano traccia nel libro “Profondità Strategica. La Posizione Internazionale della Turchia[29]”, scritto da Ahmet Davutoğlu nel 2001 e, contemplando il crollo del blocco sovietico e la fine del bipolarismo, indirizzano la Turchia verso una dimensione internazionale di secondaria importanza a meno di una ridefinizione da parte di Ankara delle priorità esclusive con l’estero vicino, con il recupero del proprio potenziale imperiale.
Mentre la Guerra Fredda volgeva al termine, mentre l’Unione Sovietica collassava lasciando temporaneamente il campo per un inedito unipolarismo, con l’invasione del Kuwait e l’implosione della Jugoslavia, in Turchia il liberal-conservatore Turgut Özal, prima in qualità di premier poi da Capo dello Stato[30], tentava di conferire alla Turchia una dimensione geopolitica conforme alle supposte ed ambite potenzialità. Fedele Atlantista, mentre Özal faceva partecipare nel 1991 le truppe turche alla Prima guerra del Golfo, coltivando la speranza che gli Stati Uniti rivalutassero l’importanza della Turchia quale ultima roccaforte occidentale in Medio Oriente, d’altro lato aveva compreso come e quanto fosse necessaria una riforma della politica estera turca riconsiderando i legami con i Paesi circoscritti nell’antica area ottomana ricompresa tra Balcani, Levante, Caucaso ed Asia centrale. Ecco dunque il ritorno dell’ipotesi panturanica, sopravvissuta sia alla morte di Enver Pasha, sia alla protezione offerta dall’isolazionismo anatolico kemalista. Özal riprende il turanismo in versione panturca, ma declinandolo in termini diversi da quelli prospettati dai Giovani Turchi del primo ‘900: per Özal la Turchia doveva e poteva tornare ad essere il punto di riferimento dei vari popoli ex ottomani attraverso il soft power della comune fede islamica nella versione istituzionale turca, grazie alla comune origine etnica omogenea e per mezzo delle possibilità economiche offerte dalla fine dell’impero sovietico.
Non c’è dubbio che la politica di Turgut Özal abbia dato una concreta chance sia all’evoluzione in versione contemporanea del turanismo sia alla Profondità strategica di Davutoğlu, che fa risaltare i limiti della politica estera ancirana della fine del secolo scorso, quando l’establishment considerava la Turchia una media potenza regionale senza considerare lo strategico posizionamento geografico del Paese, unitamente alla sua eredità politico-culturale di stampo imperiale. Davutoğlu, del resto, non sbaglia quando esalta il fattore geografico, fondamentale per la sua teoria perché la Turchia si posiziona esattamente all’incrocio delle direttrici nord-sud ed ovest-est, punti di contatto sì, ma anche di conflitto; direttrici che, se da un lato costituiscono innescano più di un rischio per la potenza posta al centro, dall’altro costituiscono un’opportunità per valorizzare l’autonomia della propria politica estera rispetto all’occidente. Se per Özal l’appartenenza al campo occidentale altro non era che un moltiplicatore di potenza, per Davutoğlu, comunque a sua volta atlantista, rappresenta un fattore limitante circa l’espletamento del fisiologico ruolo turco di mediazione, utile al percepimento di adeguati profitti politici[31]. Se è mancato un adeguato ritorno ciò è stato dovuto, secondo l’ex primo ministro, alla mancanza di una cultura imperiale già in precedenza liquidata dalla politica kemalista. Davutoğlu è chiaro: il nazionalismo kemalista ha erroneamente creduto che il sentire imperiale fosse scomparso a seguito del crollo della Sublime Porta nel 1922, costringendo la Turchia a restringersi alla sola Anatolia; ma come regolarsi con i Paesi turcofoni coinvolti nei conflitti degli anni ’80 e ’90, che avevano cominciato a guardare ad Ankara per chiedere mediazione ed ottenere protezione?
A ben vedere, quelli sono stati i più chiari segnali dell’esistenza di un sentimento ottomano diffuso e presente addirittura più nel vicino estero turco che nella stessa Turchia. Con l’arretramento americano la Turchia percepisce la necessità di rifondare identità e cultura politica di riferimento allo scopo di definire i confini della propria sfera d’influenza entro cui procedere ad un nuovo controllo egemonico. Davutoğlu opta quindi per un’azione revisionista, aliena dagli intenti kemalisti di mantenimento dello status quo, anche se deve fare i conti, nel corso della Guerra Fredda, con il suo stesso filo-occidentalismo. Le scelte determinate dal timore sovietico, le posizioni pro USA e pro Israele, hanno infatti determinato attriti sia con i Paesi arabi sia con quelli balcanici, e dunque si può ritenere corretto ritenere che la ricerca di una stabilità regionale perseguita grazie a negoziati ed accordi politici, abbia causato più discrasie che benefici; allora, meglio buscar el levante por el ponente, non abbandonare cioè la consueta e tradizionale postura filo-occidentale ricalibrare al contempo interessi ed area d’influenza, riequilibrare lo sbilanciamento diplomatico verso occidente mostrando più attenzione ai Paesi vicini, dare forma al neo-ottomanesimo mantenendo la pax ottomana nel Levante ed in Caucaso[32], senza perdere d’occhio il Continente africano[33] quale strumento necessario all’espansione delle proprie relazioni diplomatiche ed economiche dopo il lungo periodo di chiusura politica dalla fine degli anni ’80 del XIX secolo.
Il soft power turco in Africa, grazie alle risorse destinate agli aiuti umanitari, ha permesso di esercitare una sempre più massiccia influenza in regioni strategiche come il Corno d’Africa sostenuta, tra il 2005 ed il 2011, da congiunture economiche che hanno visto la Turchia crescere a ritmi vertiginosi. Le riforme attuate, la diffusione di un sistema economico liberal-capitalista, una visione moderata dell’Islam, hanno attratto l’attenzione sia degli alleati occidentali che dei Paesi viciniori al contesto neo ottomano; tutti elementi che, insieme al rifiuto di intervenire contro l’Iraq di Saddam Hussein nel 2003, costituirono la prima incrinatura nel rapporto con gli USA, ma che hanno avvicinato Ankara ai Paesi mediorientali in aperto dissenso verso l’intervento angloamericano.
- Primavere Arabe
Le Primavere Arabe del 2010-2012, se da un lato hanno da principio messo in difficoltà Ankara, dall’altro hanno offerto un’opportunità per accelerare il processo politico revisionista. L’intervento a sostegno dei ribelli siriani ed in posizione avversa ai curdi ha dato modo di constatare la trasformazione del pensiero della Profondità Strategica, ora puntato alla volta del revisionismo rivoluzionario, anche in considerazione dell’autoritaria assertività erdoğaniana in politica interna. La realpolitik presidenziale ha dunque condotto ad un contrasto insanabile con Davutoğlu, dimissionario nel 2016 e successivamente espulso dall’AKP nel 2019; il pragmatismo opportunista ed accentratore di Erdoğan, pronto ad ogni revisionismo dello status quo in quanto indirizzato sempre e comunque al conseguimento del massimo profitto, si è fatalmente scontrato con l’essenza concettuale della Profondità strategica, fondata sul mantenimento di determinati equilibri e sulla ricerca di soluzioni a lungo termine[34].
Di fatto le teorie di Davutoğlu sono state formalmente accantonate per il sopravanzare della Patria blu, che ha comportato il volgere del pensiero strategico turco alla dimensione marittima, in una sorta di ritorno al passato kemalista; è sbagliato tuttavia credere che Profondità strategica e Patria blu siano teorie tra loro scisse e a sé stanti: mentre la prima risponde ad un neo-ottomanesimo volto al recupero del predominio turco sugli antichi spazi imperiali, la seconda, anche se partita da assunti kemalisti imperniati sull’importanza di proteggere il mare turco, inevitabilmente si trasla sul concetto di ricostruzione della potenza navale nazionale prendendo a paradigma proprio la Sublime Porta. A fattor comune, entrambe le teorie rispondono alla necessità di rendere la Turchia una potenza energetica capace sia di autosufficienza sia di sostenere i costi d’una politica estera via via sempre più ambiziosa e volitiva.
- Mavi Vatan, la Patria blu
È Atatürk che realizza, durante il conflitto turco-ellenico (1919-1922), che Istanbul non ha una propria cultura navale e che, soprattutto, il comando effettivo del mare è di gran lunga da privilegiare rispetto al principio della “fleet in being”[35].
L’ammodernamento della Marina Militare iniziato nel 2002 è determinato proprio dal bisogno di recuperare una carente dimensione marittima e navale, ed è al 2002 che l’Ammiraglio Cem Gürdeniz, retrodata dal 2006 la sua dottrina strategica Mavi Vatan, la Patria blu. Mai come ora la geopolitica del mare diventa imprescindibile per Ankara, che non considera più solamente l’area orientale come di sua pertinenza, ma amplia il proprio raggio d’azione e d’intervento a tutto il bacino del Mediterraneo. Laddove deflagrasse un conflitto convenzionale tra la Turchia ed un’altra potenza marittima, la Türk Deniz Kuvvetleri[36] andrebbe allo scontro risolutivo in acque mediterranee aperte senza rinchiudersi nel Mar Nero. La teoria di Atatürk, aggiornata al XXI secolo, risponde alla dottrina della Patria blu, che è poi quella della “diplomazia delle trivelle e delle navi da guerra” e punta al “ritorno della Turchia al mare… per garantire i propri diritti nel Mediterraneo”. Le interposizioni delle navi da guerra a Cipro, la negoziazione della ZEE turco-libica a danno della Grecia[37], l’opposizione ai negoziati greco-egiziani circa i rispettivi confini marittimi, le tensioni con Atene per l’isola di Kastellorizo, lo sbarco a Misurata e la presenza nel Corno d’Africa e nel Mar Nero, compongono il quadro di un’unica grande strategia marittima, l’elemento di continuità tra Profondità strategica e Patria blu, capace di trasformare in acqua salata la parte tellurica della dottrina classica. Gli Ammiragli Gürdeniz e Yayci[38] hanno dimostrato che la profondità strategica è valida solo se e quando accompagnata da una forte presenza di navi da guerra, forti dell’appoggio di basi presenti nell’hinterland marittimo locale, e da navi adibite alle trivellazioni.
Non c’è dubbio che la politica navale turca abbia comunque poggiato su un sostrato storico e culturale alla base della politica di potenza della Marina Imperiale Ottomana. La navalità turca e la sua capacità di proiezione tra Mediterraneo ed alcuni punti strategici del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano, costituisce dunque una delle armi politiche più valide della Repubblica, come dimostrato con la Grecia nell’Egeo e con la Francia in acque cipriote[39]. Da un punto di vista politico-militare, l’avanzata turca nel Mediterraneo costituisce un successo per la Turchia ed una sconfitta per le potenze rivali d’area, segnatamente l’Italia; va anche ricordato che gli alti costi economico-politici che richiede la Mavi Vatan unitamente all’innalzamento esponenziale del debito pubblico, stanno indebolendo la divisa turca rispetto al dollaro USA. Non è escluso che le difficoltà interne stiano spingendo la Turchia ad adottare un atteggiamento aggressivo verso l’estero per ottenere capitali, conscia del fatto che, dopo la crescita economica degli anni precedenti, si sta dirigendo verso un sensibile stato di crisi.
La svolta marittima, a ben vedere, è sorprendente, e si fonda sulla convinzione che solo superando la diffidenza verso il salmastro i Turchi possano approdare in Europa, malgrado l’originaria natura nomade terrestre. Come la Sublime Porta anche la Turchia attuale è consapevole che allontanarsi dal mare è presagio di sconfitta; sono queste le premesse su cui l’ammiraglio Gürdeniz ha fondato il suo suggerimento per una rinascita marittima e navale, la cui importanza è stata compresa e fatta propria anche dal Presidente Erdoğan nonostante la decapitazione dei vertici della marina post colpo di stato, ed il kemalismo caratteristico degli alti gradi.
La scoperta del gas nel Mediterraneo orientale, la contestuale competizione accesasi per i gasdotti con l’azione di disturbo turca avverso l’EastMed[40], il ritorno russo e la penetrazione della BRI cinese, hanno suggerito ad Ankara l’impianto di una costellazione di basi dal Qatar alla Somalia, da Cipro alla Libia fino all’Albania, quale filo di perle a difesa delle rotte commerciali e militari; all’industria nazionale il compito di rinnovare e potenziare la flotta. La Turchia scalfito lo status quo egeo quando ritenuto troppo favorevole per Atene, ha mantenuto la presa sulla Repubblica turca di Cipro Nord, nel Mar Nero, ha poi impostato relazioni con tutti i paesi rivieraschi; in questo contesto il controllo del Bosforo e la querelle incentrata sulle esportazioni di grano dall’Ucraina hanno evidenziato la centralità turca nelle dinamiche geopolitiche. L’aspetto negativo, per Ankara, risiede tuttavia nel fatto che le attuali contingenze storiche non sono comparabili a quelle ottomane e, dunque, la politica turca può emergere solo in funzione del consenso qualora accordato dagli altri egemoni[41]. Dal Corno d’Africa al Sahel fino all’Africa Occidentale la Turchia ha cercato di riprendere strategia ottomana e presenza palpabile; basterebbe a proposito rammentare l’intervento dei servizi di sicurezza turchi in merito alla liberazione della cooperante italiana Silvia Romano rapita in Kenia nel 2018 e liberata nel 2020. L’avamposto mediterraneo in Libia irradia il riflesso turco che giunge fino all’Oceano Indiano ed in Somalia, un paese considerato fallito e sostenuto invece da Ankara. Dal Corno d’Africa al Tigrai fino all’antica base ottomana di Suakin sulle coste del Sudan sul Mar Rosso e nel fondamentale stretto di Bab el Mandeb, tutto rafforza l’intento dimostrativo della proiezione di potenza turca. La strategia ancirana, recitando un copione basato su religione, infrastrutture e difesa ha enfatizzato una base storica e culturale differenziata però dagli imperi europei bollati dall’accusa di espansionismo, malgrado la politica turca non possa certo dirsi estranea alle pratiche colonialiste. Di fatto la narrazione imperiale non è stata rimossa ma sostenuta da una potenza volta ad unire etnie e culture senza far emergere gli aspetti colonizzatori. Da considerare comunque la fragilità economica turca, che deve sostenere la concorrenza delle potenze arabe del Golfo Persico: l’avanzata ottomana deve confidare speranzosa negli spazi vuoti lasciati dagli altri concorrenti. In ogni caso, è in oriente che la Turchia ritrova origini e spazi che danno vita al suo impero: non si tratta solo di un ritorno al passato, ma di una predisposizione strategica.
È fuori di dubbio che gli interessi nello spazio geopolitico mediterraneo siano significativi, come è altrettanto chiaro intuire in quale veste la Turchia intenda proporsi, vista la posizione inequivocabilmente imperialista che neanche il presunto golpe del 2016 ha potuto lenire. La postura turca è quella di un attore con una spiccata tendenza ad acquisire potenza, così come reso evidente dalle ripetute proiezioni oltre i propri confini che rendono palmare come gli obiettivi strategici possano essere ricondotti all’antica vocazione imperiale ottomana secondo una più attuale polarizzazione realista. Non è del resto errato asserire che il neo ottomanesimo prenda spunto dal sentimento di paura e soprattutto di ripulsa ingenerato dalla sindrome di Sèvres; questo fa sì che l’obiettivo strategico non muti nonostante le variazioni tattiche intervenute. Il convincimento ingenerato dall’idea di profondità strategica ha permesso alla Turchia di superare il senso di minorazione psicologica di appartenere al novero delle medie potenze regionali per potersi poi elevare al rango di soggetto politico internazionale di prima grandezza.
Di sovente l’esecutivo turco procede per logiche politiche e diplomatiche provocatorie, così come poco lineare è anche la dirittura tenuta in politica estera dove le oscillazioni tattiche sono frequenti e violente. La rinascita geopolitica turca, individuato l’obiettivo strategico, ha esteso gli orizzonti sul mare, divenuto il teatro della dottrina del neo ottomanesimo; è per questo che Ankara sta tentando di affermare il proprio dominio sul Mare nostrum parallelamente all’espansionismo sul Mar Nero, aspetto questo del resto che trova conferma nell’approvazione dei progetti per il Canale di Istanbul, nulla di più che un nuovo choke point caucasico. Ma è sulle acque orientali che la Turchia concentra i suoi sforzi con il proposito dichiarato di affermare la propria presenza per vedersi riconosciuto il ruolo di interlocutore principe nel Mediterraneo.
- Divagazioni economiche neo ottomane: quanto costa un impero
Ma, come dicevano coloro che hanno avuto il privilegio ed il diritto di appellare il Mediterraneo come nostrum, in cauda venenum. Sembra infatti opportuno ricordare come la crisi valutaria e del debito del 2018 abbiano condotto ad un collasso finanziario caratterizzato dal crollo valutario della lira turca, dall’elevata inflazione e dall’aumento dei costi di finanziamento. Al di là della suadente grandeur neo ottomana, il governo Erdoğan ha fatto registrare crescenti deficit delle partite correnti, con il tasso di cambio valutario che ha accelerato il deterioramento della situazione. È opinione comune tra gli economisti, che la velocizzazione della perdita di valore sia da attribuirsi al Presidente Erdoğan, che ha impedito alla Banca Centrale di effettuare sui tassi di interesse i necessari aggiustamenti[42].
Il Paese si trova sempre più spesso esposto a crisi determinate da un’inflazione che a fine 2022 ha visto un incremento dei prezzi che ha oltrepassato l’80%; un’inflazione che ha condotto all’erosione dei redditi causando difficoltà alle fasce meno abbienti e rendendo il paese più vulnerabile a shock esogeni. La Turchia è di fatto estremamente esposta punto di vista dei beni energetici, tanto che secondo l’Ocse importa il 99% del gas ed il 93% del petrolio. Non a caso, il decremento dei prezzi energetici degli ultimi due mesi ha comportato una forte riduzione del tasso inflattivo, passato da circa l’80% a circa il 60. Malgrado ciò, le aspettative sull’inflazione rimangono sopra il 40%. Tuttavia, il contenimento dell’aumento dei prezzi al consumo non sembra essere annoverato tra le priorità dell’esecutivo, che punta ad una crescita economica a qualsiasi prezzo pur di rinsaldare la base elettorale in vista delle elezioni post sisma di maggio 2023. Dopo una crescita dell’11,4% nel 2021, il dato migliore degli ultimi 60 anni, l’Ocse ha stimato un incremento del Pil di circa il 3% per i prossimi esercizi finanziari.
È la governance monetaria a soffrire di più per la situazione; la banca centrale turca, soggetta sempre di più alla politica impressa dal governo e priva di indipendenza dal potere politico, ha avuto cinque governatori in otto anni, sensibili agli strali del premier ogniqualvolta vi sia stata un’opposizione alle sue – spesso poco ortodosse – richieste. Il tasso d’inflazione target della banca centrale è pari, nel medio lungo termine, a circa il 5%, benché le aspettative siano del tutto disancorate da questo valore. Il governo intende infatti perseguire una politica monetaria populista ed espansiva, mantenendo i tassi di interesse bassi. Per contenere il malcontento e per continuare a sostenere artificiosamente la domanda, la politica fiscale è rimasta espansiva, ed il governo ha continuato ad avanzare proposte in merito a nuove spese pubbliche, sostenendo che una valuta debole è un bene per l’economia perché incentiva le esportazioni. Se è vero che gli effetti negativi della debolezza valutaria sono così stati momentaneamente oscurati, non se ne può escludere un celere ed inevitabile ritorno. Non a caso, nonostante l’aumento delle esportazioni, nel 2022 la bilancia commerciale turca è peggiorata, con le importazioni nette passate a 42 miliardi di dollari, per effetto dell’aumento del costo dell’energia. In generale, le aziende turche devono affrontare una sorta di darwinismo sociale, e solo le più adattabili e forti riescono a sopravvivere in un panorama così poco favorevole. È opportuno non dimenticare, infatti, che valuta impoverita comporta un maggior onere per le importazioni con un conseguente impoverimento delle aziende nei confronti dei paesi esteri.
La guerra in Ucraina non ha interrotto il rapporto con la Russia, che si è sviluppato negli anni seguendo il doppio iter di cooperazione e competizione secondo una sorta di interdipendenza asimmetrica a favore di Mosca sul fronte energetico anche alla luce della politica di diversificazione perseguita da Ankara ed in considerazione dell’arrivo sul mercato turco del gas dall’Azerbaigian. Il gas russo, che giunge in Turchia attraverso due gasdotti sottomarini nel Mar Nero (Blue Stream 2003, Turk Stream 2020), garantisce dei flussi costanti che non si sono interrotti neanche nelle fasi più critiche delle relazioni bilaterali. La cooperazione energetica si è estesa anche al nucleare grazie alla società russa Rosatom cui è stato demandato lo sviluppo della prima centrale nucleare nell’Anatolia meridionale, in grado di produrre circa il 10% del fabbisogno elettrico a partire dal 2025. La Russia è il terzo partner commerciale della Turchia, dopo Germania e Cina, con un import-export di 34,7 miliardi di dollari nel 2021, e il secondo fornitore dopo la Cina con importazioni da Ankara che sfiorano i 29 miliardi di dollari, mentre le esportazioni turche sfiorano i 6 miliardi di dollari. lo squilibrio commerciale a favore di Mosca è dunque evidente, malgrado l’export turco di macchinari, prodotti alimentari e tessili sia cresciuto in modo considerevole.
Più di recente, oltre alla cooperazione energetica ed economica si è aggiunto un nuovo settore, quello della difesa; nel 2019 Ankara ha acquistato il sistema di difesa missilistico russo S-400, che però per la Turchia, membro della Nato, ha comportato l’espulsione dal programma di sviluppo degli F-35 oltre alle inevitabili sanzioni statunitensi. Da notare comunque che alla cooperazione ancirano-moscovita si contrappone un’accesa competizione in diversi teatri, in particolare in Siria e Libia dove Russia e Turchia si trovano su fronti diversi, e dove entrambe cercano di consolidare posizioni ed influenza, evitando nel contempo qualsiasi scontro diretto. Pur nella compartimentazione degli interessi di una relazione indubbiamente complessa, Ankara non ha tardato a definire inaccettabili sia la decisione russa di riconoscere l’indipendenza delle due repubbliche separatiste del Donbass nell’Ucraina dell’est, sia l’invasione avvenuta due giorni dopo. Malgrado il governo turco abbia tentato di tenere aperti i canali di dialogo sia con Mosca che con Kiev, i suoi tentativi di addivenire ad una mediazione tra i due fronti non hanno finora trovato un valido riscontro. Per la Turchia, attore che ha molto da perdere dal conflitto tra Kiev e Mosca, è in bilico la sicurezza del versante settentrionale ed il mantenimento dell’equilibrio di forze nel Mar Nero. L’Ucraina, dal punto di vista turco, costituisce un bastione avverso all’espansione dell’influenza e della pressione di Mosca nella regione del Ponto Eusino, aspetto questo che rende comprensibile perché la Turchia non abbia riconosciuto l’annessione russa della Crimea nel 2014; proprio a partire dal 2014 le relazioni tra Ankara e Kiev si sono rafforzate sia in ambito economico sia nel settore della difesa, tanto che l’interscambio ucraino turco, nel 2021, ha raggiunto i 7,4 miliardi di dollari, con il proposito di portarlo a 10 miliardi dopo la firma dell’accordo di libero scambio. Ma gli sviluppi più rilevanti hanno interessato il settore della difesa con l’accordo di cooperazione per la produzione di droni in Ucraina; dal 2014 società turche hanno rivestito un ruolo di assoluto rilievo nella modernizzazione militare ucraina, mentre droni da combattimento turchi, Bayraktar, sono stati utilizzati da Kiev nell’ottobre del 2021 proprio contro forze russe nel Donbass, suscitando forti reazioni da parte di Mosca.
Malgrado il sostegno all’Ucraina, la Turchia si è tuttavia guardata bene dal compromettere interessi e relazioni con Mosca. Le dinamiche imposte dal diritto internazionale, e dopo il riconoscimento della situazione come rientrante in una inequivocabile situazione di guerra, hanno condotto il governo turco alla piena applicazione della Convenzione di Montreux che, dal 1936, regolamenta il regime degli Stretti[43]. Un atto dovuto quello della Turchia che, dopo aver votato in Assemblea generale delle Nazioni Unite a favore della risoluzione di condanna dell’invasione russa, deve applicare un difficile esercizio di bilanciamento tra interessi e partner diversi senza escludere gli alleati della NATO.
Ankara, tuttavia, non può permettersi l’applicazione di sanzioni che avrebbero implicazioni tanto a livello diplomatico anti russo, quanto sulla sua economia, da tempo in difficoltà. A prescindere dalle sanzioni, l’economia turca non potrà evitare le ricadute del conflitto ucraino, che accelererà le tendenze già in atto l’instabilità sui mercati internazionali a causa dell’aumento dei prezzi delle commodities. Le oscillazioni del prezzo del petrolio impatteranno sull’aumento del deficit della bilancia commerciale turca che dipende in larga parte dalle importazioni per soddisfare il fabbisogno energetico. Anche l’aumento del prezzo dei cereali determinerà conseguenze non solo sul deficit di conto corrente ma anche sui prezzi al consumo di farina e derivati[44].
Le prospettive dunque non sono favorevoli per un Paese in cui l’inflazione è aumentata esponenzialmente, e la cui moneta negli ultimi periodi ha perso valore rispetto al dollaro; tutto questo non potrà che contribuire a deteriorare il quadro macroeconomico e gli standard di vita, che inevitabilmente intaccheranno il consenso nei confronti di una leadership che, proprio sul successo economico ha costruito le fondamenta del suo successo elettorale.
- Esercizi di potere tra proiezioni di potenza e politica interna
Negli ultimi venti anni l’ambiente strategico turco è cambiato; gli eventi succedutisi sulla ribalta internazionale[45] hanno condotto Ankara ad adottare una postura aggressiva, necessaria per affrontare le sfide e per cogliere le opportunità[46] soprattutto secondo una chiave riformista ed espansionista, poco amante dello status quo. Si tratta di progettualità politiche che compendiano la ricerca dell’egemonia in ambito regionale, la necessità di aumentare lo spazio vitale dello Stato turco nell’estero più prossimo, sviluppando una sfera di influenza nei Balcani, in Medio Oriente, in Caucaso fino al Grande Turkestan. Le aperture diplomatiche volte a rafforzare i vincoli con l’America Latina grazie a partnership commerciali ed alla proiezione del soft power turco, inducono a ritenere ragionevole che il sistema internazionale stia assistendo ad un tentativo di riesumazione della tradizione imperiale ottomana, visto anche il grande pragmatismo sotteso nei rapporti con le maggiori potenze[47]. Nel caso ucraino, questo non significa che Ankara sia filo russa, ma porta solo a contemplare la possibilità che Mosca possa prevalere, ritenendo dunque poco saggio ed avveduto alienarsene l’appoggio; se viceversa il Cremlino patisse una sconfitta strategica, Ankara non dovrebbe fare altro che approfittare del vuoto di potere che fagociterebbe lo spazio post-sovietico, interpretando un ruolo essenziale nelle progettualità pechinesi volte alla creazione di vasti corridoi geoeconomici.
È dunque all’interno che bisogna guardare, vista la ridefinizione dello Stato impressa dal Partito per la Giustizia e lo Sviluppo[48]. Nel discostarsi dal kemalismo e da tutto ciò che esso rappresenta, la politica turca ha privilegiato un islamismo, a volte più militante a volte più ragionato, quale riferimento per riconfigurare l’identità culturale secondo una visione conservatrice agevolata nella sua azione dal tentato colpo di stato del 2016, dallo strutturalismo statale illiberalista, dalla ricerca di leadership assertive, dal ritorno della religione quale strumento di controllo socio-politico, dalla mobilitazione delle forze nazionaliste.
In un certo senso, si potrebbe dire che la Turchia sia ormai persuasa che il kemalismo abbia raggiunto da tempo il suo scopo, e che non trovi più alcuna utilità o ragion d’essere; visto che l’attuale regime sembra avere accantonato qualsiasi progetto di occidentalizzazione, non è da sottovalutare l’ipotesi che vedrebbe Ankara spinta a far sue alternative geopolitiche comuni con Stati votati a minare il modello di ordine mondiale liberale di marca occidentale. Sia egemoni eurasiatici che potenze marittime occidentali, nel contesto del nuovo modello di Guerra Fredda sopravanzante, potrebbero avanzare argomentazioni tali da catturare la Turchia nel proprio campo di attrazione, un assunto che tuttavia non deve mai far dimenticare il fatto che la Turchia sarà solo e sempre allineata ai propri interessi. Ankara ha sempre dimostrato la volontà politica di trattare con tutti e per tutti, su una base pragmatica e vantaggiosa, ma senza tuttavia schierarsi, secondo una linea d’azione volta a consentire la sua emersione come una forza da non sottovalutare, a prescindere da quale blocco prevarrà nella riconfigurazione dell’ordine globale. Attenzione però: anche se è evidente che la Turchia risulta coinvolta nella ricerca dello status di grande potenza, presumendo che possieda il potenziale per ottenerlo, non vi è al momento una sua effettiva certezza di riuscita.
- Proiezioni di potenza continentali e nuovi ordini mondiali
In questo contesto, dall’inizio del nuovo millennio, Ankara ha puntato ad aumentare la propria valenza globale mediante una decisa proiezione continentale, senza dunque limitarsi a Mediterraneo e Medio Oriente; una propensione necessaria, visto l’arco delle crisi che hanno comunque interessato il Paese, e che hanno configurato l’Africa quale retroterra fondamentale, sia politicamente che economicamente. Oltre ai contatti politico diplomatici e culturali con i Paesi africani, Ankara partecipa a missioni ONU ed invia le sue Navi grigie nell’ambito delle operazioni di contrasto alla pirateria. Peraltro le relazioni politiche, dopo il tentato colpo di stato del 2016, si rafforzano in conseguenza dell’incrinarsi delle liaison con l’Europa; l’Africa si inserisce a pieno titolo nella politica neo ottomana e la Turchia si propone quale hub di collegamento con Medio Oriente e Asia centrale. Non a caso, proprio in Somalia, Ankara possiede un’estesa base militare e navale, e da lì si spinge, sempre verso est, per stabilire ulteriori postazioni.
Storicamente, prima di tentare l’accesso a Bruxelles, con Turgut Özal e Süleyman Demirel, era stata studiata l’opzione panturca[49] della relazione con i paesi di stirpe turca o turcomanna. Se il declino russo aveva inizialmente favorito tale iniziativa, successivamente l’ascesa al potere di Putin, insieme con il ripetersi delle periodiche crisi regionali e con il rifiuto delle varie élite di rimpiazzare l’influenza russa con quella turca, l’hanno fatta incagliare. Per gli Stan l’alleanza con la Turchia va considerata in chiave difensiva anti cinese, cosa che permette la sussistenza di ragioni geopolitiche ed interessi che accomunano Russia e Turchia nel contenimento di Pechino. È dunque probabile che in un futuro prossimo Ankara sarà costretta a scegliere, tra le tante, le priorità più urgenti definendo una politica delle alleanze meno aleatoria.
In senso più lato, è probabile che l’ordine mondiale venga riscritto dopo il conflitto multidimensionale russo-ucraino, tenendo conto delle tensioni militari, della concorrenza strategica tra USA e Cina, della riconfigurazione delle alleanze, della forte recessione economica planetaria che si riflette nell’inflazione, nell’interruzione delle supply chain transnazionali, nella volatilità finanziaria, tutti elementi atti a favorire l’attuazione di progetti revisionisti. Riprendendo i princìpi del nazionalismo turco kemalista, dopo averli resi omogenei con il richiamo alla centralità politica dell’Islam unitamente ad uno spiccato interventismo, Erdoğan ha cullato il sogno di un’era neo-ottomana; un visione onirica tuttavia destinata a scontrarsi con una realtà che, oggettivamente, non permette di giocare contemporaneamente su più tavoli, dalla Siria alla Libia, da Cipro al controllo dei giacimenti di gas off shore nel Mediterraneo orientale fino al Nagorno-Karabakh. Le relazioni sono dunque oltremodo complesse, e non possono trascurare i rapporti con il Qatar, con cui Ankara ha condiviso interessi economici e battaglie politiche e ideologiche, come quella a sostegno della Fratellanza musulmana, e con l’Iran, che rappresenta uno dei principali partner commerciali anatolici; una relazione che espone tuttavia Ankara a sensibili criticità nei rapporti con Arabia Saudita ed EAU[50]. Più strutturato il rapporto che la Turchia deve gestire con la Federazione Russa, visti anche i significativi interessi economici e gli interessi politici che, puntando al Medio Oriente ed al Nord Africa, trascendono qualsiasi possibile attrito approfittando delle colpose disattenzioni occidentali. In Siria, le varie fasi del conflitto hanno visto la Turchia di mano in mano volta sia contro Assad sia a suo favore in versione anti curda nel Rojava e pro russa ma rimanendo contigua a Washington, in un gioco pericoloso e spregiudicato alla stessa stregua di quello praticato in Libia, con l’invio di armi, in deroga all’embargo imposto dalle NU, e di miliziani trasferiti dalla Siria. Ankara ha così ottenuto il controllo strategico della parte occidentale del Paese grazie al controllo della base aerea di Al Watiya e della base navale di Misurata. Dietro la cooperazione militare spunta la riesumazione degli accordi, ante caduta di Muhammar al Khadafi, circa la partecipazione di aziende turche nella costruzione di nuove infrastrutture.
La rideterminazione della Zona Economica Esclusiva con Tripoli, a detrimento degli interessi greco-ciprioti e della regolamentazione internazionale basata sulla UNCLOS[51], ha rimesso in discussione i business energetici da cui la Turchia era stata estromessa; insomma, Ankara intende imporsi come interlocutore principe in merito a tutto ciò che ha a che fare con estrazione ed export di gas nel Mediterraneo orientale, anche a costo di doversi confrontare con i competitor d’area con cui, tuttavia, non trascura di tentare di addivenire a più cooperative e convenienti liaison, come con Israele.
Ma sono le effettive capacità economiche e le impellenti necessità contingenti[52] a scontrarsi con i notevoli sforzi economico-militari profusi pur di riuscire a conquistare l’ambito ruolo da rediviva protagonista in area MENA[53]; ma attenzione: il tentativo di imporre la Turchia quale imprescindibile ponte tra mondo musulmano ed Occidente sembra essere sfumato, così come sembra improbo riuscire a far entrare compiutamente la Turchia nel mercato del gas mediterraneo. Al momento Ankara non appartiene all’East Mediterranean Gas Forum (Emgf)[54], così come è rimasta ai margini del progetto del gasdotto Eastmed, che dovrebbe collegare le acque tra Cipro, Israele ed Egitto con la Grecia. La muscolarità dell’approccio turco, al netto del prevedibile ed iniziale sconcerto, ha solo provocato ulteriori tensioni con l’Ue, intervenuta a sostegno di Grecia e Cipro, a dimostrazione che il gioco condotto dal Presidente Erdoğan sta diventando prevedibile e controproducente.
- Europa e Balcani
Dopo 80 anni di kemalismo ancorato all’occidente, la Turchia ha ceduto ad un revanscismo nostalgico di marca ottomana che ha seguito un’evoluzione inizialmente moderata, volta a lenire le preoccupazioni occidentali, ma che poi ha preso inediti piglio e decisione. A chi può essere ascritta la responsabilità della deriva autoritaria di Ankara? Probabilmente proprio alle locomotive d’Europa, Francia e Germania, che a lungo hanno illuso la Turchia sulle sue concrete possibilità di accesso all’UE. Inevitabile dunque la costruzione di un orizzonte alternativo relazionabile ai fasti di un impero dissoltosi poco tempo addietro e dunque ancora vivo nella memoria collettiva.
A voler ampliare la prospettiva, da un punto di vista analitico e storico, le ambizioni imperiali hanno trovato terreno fertile non solo in Turchia, ma anche in altri Paesi; la Gran Bretagna punta ad una sorta di nuovo Commonwealth, la Germania si conferma colosso economico che ambisce – sia pur tardivamente e con molte remore – al riarmo, la Francia cerca di aggrapparsi a quel che di coloniale rimane in Africa. Per quanto riguarda Ankara, il vantaggio di cui gode la Turchia consiste nel riuscire a non essere collocata con precisione in alcuno schieramento; se il Paese rimane un importante alleato della Nato, continuando a considerare in itinere la procedura di ammissione ad un’UE prodiga di finanziamenti indirizzati al contenimento dell’emergenza migratoria, i rapporti con la Russia si sono attestati su un’ambiguità che rende l’appartenenza della Turchia alla sfera occidentale difficilmente compatibile con l’ambivalenza da doppio forno della sua politica. Non c’è dubbio che l’apertura temporanea verso la neo zarista Mosca collida con il neo ottomanesimo di Ankara che, d’altro canto, non ha lesinato aiuti all’Azerbaigian, proprio a detrimento della filorussa Armenia; al contempo il Kazakistan ha di fatto impedito la realizzazione di qualsiasi progetto turco atto a riunire in un sistema panturanico gli Stan asiatici, mentre in Libia russi e turchi si trovano schierati su fronti contrapposti. In Europa la Turchia punta sui Balcani e sulla loro dorsale verde, ovvero sull’estensione occupata dalle terre islamiche che vanno dalla Bosnia-Erzegovina alla Bulgaria, grazie anche al supporto offerto dall’Arabia Saudita, interprete dell’accentuazione dell’azione islamista.
Tra Ankara ed i Balcani[55], esistono legami di natura storica risalenti alla dominazione ottomana. I rapporti nell’area si volgono lungo due direttrici: quella commerciale e quella politico-diplomatica, che intende riempire gli spazi lasciati vuoti dagli altri attori come l’UE, a beneficio dei risvolti della politica interna. L’ascesa dell’AKP di Erdoğan ha mutato la metodologia che, dagli approcci multilaterali, è passata ai rapporti bilaterali improntati al pragmatismo. Non a caso la Turchia ha intensificato le relazioni commerciali con alcuni Paesi, come la Serbia, fondamentale per il gasdotto TurkStream, in cui la storia ottomana non viene interpretata con levità, ma di sovente come espressione di intenti repressivi delle identità nazionali. Per Ankara la stabilità geopolitica balcanica è una garanzia a tutela dei propri interessi regionali. Se da un lato i Balcani garantiscono una partnership commerciale viva e pulsante, dall’altro rappresentano il terreno sunnita su cui doversi rapportare con rivali storici come l’Arabia Saudita, popolare nel Sangiaccato[56]. Sono le diverse interpretazioni dell’Islam, spesso, a fare la differenza: più moderato quello turco ma sovente contrapposto al crescente radicalismo wahabita saudita, peraltro espressione di un Paese economicamente più dotato e capace di un soft power basato sulla ricostruzione di moschee, sulla ristrutturazione dei centri culturali, sugli istituti religiosi. Nei Balcani, da dove di fatto la Turchia non è mai andata via, più che di neo-ottomanesimo si può parlare di un pragmatismo diplomatico teso a salvaguardare gli interessi turchi. Il nazionalismo inclusivo motiva la postura turca nella regione, specialmente nella Bosnia Erzegovina, e riesce a mantenere comunque buoni rapporti con il resto dell’area che, forte delle sue radici cristiane, non soffre di particolari nostalgie per la Sublime Porta.
- Dettagli di un neo imperialismo
Scendiamo, sia pur brevemente nel dettaglio.
La linea politica di governo dell’AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo) è nota come neo-ottomanesimo, in quanto caratterizzata da un richiamo alla corrente dell’ottomanismo ottocentesco; affermare tuttavia che la costruzione di quest’idea politica e sociale poggi su un ritorno al passato e sul rifiuto tout court del kemalismo, può non essere aderente alla realtà.
Come accennato, l’ascesa di Özal nel 1983 consente di comprendere come si siano infranti 60 anni di kemalismo repubblicano, grazie alla reintroduzione dell’Islam politico sia nella sfera pubblica che in quella privata grazie ad un’opera che, fondendo laicismo e tradizione, è riuscita ad ottenere l’appoggio militare. Özal aveva inteso che la Turchia avesse bisogno di una nuova identità nazionale multiculturale ed inclusiva, dunque da poter essere riferita all’ottomanismo ottocentesco, etnicamente e religiosamente tollerante[57]. Mentre Atatürk considerava l’integrazione tout court con l’Occidente una minaccia preferendo una mera vicinanza politica, Özal si avvicinò sempre più all’Occidente, considerato utile strumento volto a garantire la sicurezza del Paese.
L’ottomanismo, rimasto in ombra durante gli anni di Atatürk, si inserisce dunque gradualmente ed in forma più moderna nella politica turca, con l’elemento religioso che viene concepito come aggregante capace di legare tra loro politica identitaria e politica estera e di proporre un’identità turco-ottomana di ampio respiro geopolitico: la Turchia si trasforma in punto di congiunzione tra due mondi politici differenti, con l’AKP che ha rafforzato il concetto di identità turco- musulmana, fondendola con uno spiccato nazionalismo.
Il neo-ottomanesimo non è semplice ideologia, ma un modo di pensare la Turchia richiamandosi ad un passato glorioso, ritenuto a lungo un’eredità perdente; di fatto, è un termine non sempre ben accettato ed utilizzato dal management politico turco, poiché ritenuto foriero di richiami ad un impopolare neo imperialismo, ed anche perché tende tutt’ora a presentarsi come fenomeno accademico e giornalistico. Le aperture liberali impostate da Özal, insieme con la graduale rivalutazione del fattore islamico promossa dall’ala militare quale argine alle derive rivoluzionarie di sinistra, contribuirono ad incentivare l’elaborazione di un impianto dottrinale autonomo rispetto al kemalismo, capace peraltro di dar credito e spazi ad una classe sociale di media levatura. La sintesi turco-islamica, basata sull’idea che la cultura islamica fosse un complemento necessario alla fortificazione dei valori nazionalisti, fu formulata da un gruppo di docenti noti come Aydınlar Ocağı; in questo frangente, peraltro, l’apertura al mercato globale agevolò l’ascesa di una nuova classe di intellettuali islamici che contribuirono all’erosione dell’originario principio di laicità.
Per Atatürk l’identità turca era definita dalla κοινή linguistica e territoriale che rigettava il multi-culturalismo; il nazionalismo assimilazionista inoltre, aveva portato a discriminazioni etniche più pervasive di quelle caratterizzanti il periodo ottomano, tanto da condurre alla rottura con la comunità curda. Özal considerò gli svariati caratteri etnici, religiosi, idiomatici e politici come valori da ricomprendere in una nuova identità nazionale inclusiva ottomana più che turca, affine a quella elaborata nel XIX secolo durante la stagione Tanzimat. Fu poi proprio il fallito tentativo di plasmare un moderno concetto egualitario di cittadinanza che si rivelò essere una delle cause che determinarono il crollo imperiale con il suo sistema amministrativo dei millet, una delle migliori espressioni della tolleranza religiosa ottomana[58]: primo elemento a crollare fu la coabitazione delle molteplici identità riunite sotto l’egida ottomana, indizio delle forze centrifughe interne che indebolirono l’Impero rendendolo preda dell’imperialismo europeo.
In realtà Özal si è mosso da concettualità culturali che intendevano assorbire le etnie minoritarie, aspirando ad una società democratica, musulmana, liberale e capitalista racchiusa all’interno di un sistema multiculturale, multilinguistico e multireligioso. La politica estera turca divenne quasi esclusivamente funzionale alla protezione degli interessi economici, con il recupero dei tradizionali rapporti sia con gli USA che con l’Europa, ma soprattutto con gli altri Stati regionali, anche in virtù del pragmatico aumento di consumi energetici da dover sostenere. L’aspetto culturale assurse ad un livello preminente, dimostratosi utile per avvicinarsi alle antiche province imperiali grazie soprattutto al soft power.
L’avvento dell’Adalet ve Kalkınma Partisi (AKP) nel 2002, ha rappresentato il punto di faglia rispetto al passato, evidenziando la capacità di generare una forza di governo che, pur radicata nella tradizione islamica, ha saputo coniugare l’Islam al libero mercato; solo dando vita ad un movimento politico meno vulnerabile agli attacchi dei militari e della magistratura, si sarebbe potuto rafforzare il ruolo politico dell’Islam all’interno della struttura laica turca, anche richiamandosi ad un passato politico delicato come quello di Adnan Menderes[59], Primo Ministro negli anni cinquanta.
La vittoria elettorale dell’AKP nel 2002 può dunque essere vista come un processo innescato dalla volontà di restaurare l’indimenticata essenza politica di un soggetto politico, presentandosi come piattaforma democratica conservatrice in grado di rispondere alle esigenze del nuovo ceto imprenditoriale sviluppatosi nelle province anatoliche[60]. L’ascesa dell’AKP, di evidente matrice islamica, per quanto formazione apparentemente moderata, visto il suo successivo supporto alla Fratellanza Musulmana, ha tuttavia contribuito ad erodere il potere tradizionalmente detenuto dai militari secondo una funzione legittimata fin dal primo colpo di stato del 1960 ed in accordo allo specifico ruolo di garanti ed interpreti dei principi kemalisti, un ruolo costituzionalmente riconosciuto grazie al Consiglio di Sicurezza nazionale, organo istituzionale con a capo i vertici delle Forze Armate.
A lungo i principali pericoli per l’unità interna sono stati identificati con le rivendicazioni separatiste curde e con le istanze portate avanti dall’Islam politico, la cui progressiva riabilitazione pubblica ha apparentemente depotenziato la minaccia portata dall’islamismo radicale. L’evoluzione di questi fattori ha condotto ad un progressivo calo di popolarità delle Forze Armate[61], accompagnato da un allontanamento dal mito kemalista, agevolato sia dall’elezione di Abdullah Gül quale primo Presidente islamico della Repubblica, sia dal fallimento del comunicato di mezzanotte del 2007[62], con cui i militari non hanno più minacciato direttamente l’esecutivo come nel 1997 nei confronti di Necmettin Erbakan[63], ma hanno fatto ricorso, nel tentativo di mobilitare l’opinione pubblica, al web.
I più evidenti mutamenti di prospettiva si sono riscontrati in politica estera, con l’allontanamento dall’UE e da Israele, ed in politica interna, dove l’AKP ha potuto operare la trasformazione dell’intera società civile, grazie anche alle misure note come pacchetti di armonizzazione rispetto alle norme comunitarie, che hanno ancor più liberalizzato l’economia, intaccando il controllo diretto dello Stato e limitando l’influenza dei militari.
Il voto, di fatto, ha legittimato l’AKP quale nuovo attore politico sia abilitato alla revisione del confine creatosi tra Stato e società, sia legittimato ad intervenire su una sfera economica improvvisamente prodiga di benefici. L’iniziale successo economico, favorito dalla congiuntura globale propizia per i paesi in via di sviluppo, ha aiutato sia a preservare i rapporti con la borghesia economica e religiosa, sia a permettere una serie di interventi indirizzati al miglioramento delle condizioni delle fasce più povere della società, evitando la deflagrazione degli elementi potenzialmente più destabilizzanti. L’ascesa dell’AKP[64] ha dunque posto in risalto la centralità geopolitica turca, e ha favorito la definizione dei nuovi indirizzi in politica estera, stigmatizzati da una crescente autonomia: è rinata dunque una dottrina incentrata sulla retorica neo ottomana dell’incontro tra civiltà, e mirata a trasformare la Turchia da Stato periferico ad attore in ambito reginale prima, globale poi.
L’idea fondante con AKP e Davutoğlu sugli scudi, è che l’Islam cessa dall’essere un fattore destabilizzante per trasformarsi in aggregante; ecco dunque la concretizzazione transnazionale del principio che impone zero problemi con i vicini, e che ha permesso di estendere le relazioni soprattutto negli ambiti economico e culturale, scavalcando regimi ed istituzioni, per cercare un contatto diretto con le popolazioni. Per l’AKP l’Islam è la via necessaria per creare un’identità condivisa dalle varie etnie, grazie ad un dinamismo progressista capace di adattarsi alla modernità, un’idea fortemente influenzata dai precetti della confraternita sufi Nakşibendi[65], cui sono appartenuti sia Erdoğan che Özal.
- Conclusioni
Entro il 2053, secondo la visione del Reis, la Turchia dovrà essere una potenza in grado di competere con i maggiori egemoni geopolitici, per suggellare il 600esimo anniversario della conquista di Costantinopoli; si tratta dunque dell’espressione di una consapevolezza imperiale radicata nel profondo di uno spirito nazionale che si considera erede dei 16 imperi turchi che si sono succeduti dal 204 a. C. al 1922, e che si trovano effigiati dalle stelle che adornano la bandiera presidenziale. Con la fine della Guerra Fredda, Ankara torna ad apprezzare la propria rilevanza nell’ambito turco musulmano, sancita peraltro dalle affermazioni del Generale Evren, esponente laico e kemalista, che osa definire la Turchia un paese musulmano.
Primo Presidente ad utilizzare l’aggettivo correlato alla repubblica fondata da Atatürk, Evren fu il fautore della ristrutturazione dell’assetto sociale, economico e politico del Paese, conosciuta come la Sintesi Turco-Islamica, che integrò un forte nazionalismo su basi islamico-conservatrici con elementi economici neo-liberisti, puntando ad eliminare l’opposizione kemalista e progressista, seguitando a considerare fuori legge movimenti ed organizzazioni comuniste. Il successore Özal, per non essere da meno, annunciò l’avvento del secolo turco, proclamando l’intento di proiettare potenza “tra l’Adriatico e la Muraglia cinese” seguendo l’istinto che già in precedenza aveva ispirato la riconquista di quanto perduto a seguito dei trattati conseguenti alla I GM. Non c’è dubbio che la costellazione che adorna il vessillo presidenziale piaccia ad una nazione e dunque ad uno Stato che si percepisce molto più grande di quanto non sia realmente, uno Stato che, nella sua attualità, sembra intenda proporsi quale diciassettesima stella.
Il popolo turco, nell’arco temporale destinato alla sua formazione ed al suo arricchimento culturale, viene costantemente convinto dell’ineliminabile necessità si sentirsi parte di un tutto più elevato, un’oggettività olisticamente imperiale, anche a costo di notevoli sacrifici e pur trovandosi, spesso, in condizioni difficili o comunque percepite come tali. Ad un occidentale può sembrare paradossale, ma è per questo, per tener desto questo spirito, che vengono trasmesse frequenti serie televisive ambientate nei periodi ottomano e selgiuchide. È per questo che il tentato colpo di stato del 2016 ha generato reazioni forti giustificabili con il timore per la sopravvivenza dello Stato conducendo ad espandere la zona militare e d’influenza di Ankara contro quello che è stato dipinto come un tentativo esogeno americano di appropriazione dell’Anatolia. Un colpo di stato che, negli effetti pratici e conseguenti, ha spazzato via sia un pericoloso ex alleato ormai inservibile ed ora antagonista in quanto organico al deep state come Fethullah Gülen, e soprattutto i vertici kemalisti.
Negli ultimi anni la Turchia è eccezionalmente progredita: ha saputo acquisire know how tecnologici importanti; ha messo a punto efficientissimi armamenti autoctoni idonei per l’esportazione; ha concettualizzato ed utilizzato tattiche di guerra ibrida divenute poi oggetto di studio; ha posto in evidenza capacità industriali e tecnologiche che l’hanno condotta all’avanguardia in numerosi settori strategici. Il quadro è completato dal sostegno fornito dalle risorse fondate sulle basi ideologiche ed immateriali della consapevolezza della missione storica della collettività turca cui gran parte dei cittadini si sentono parte integrante, unita alla predisposizione al sacrificio quotidiano, l’orgoglio che impone di non dover e poter sfigurare di fronte ad un presente che non può trascurare la parabola storica di cui si ognuno si sente erede.
Concetto ormai poco avvertito dalla comunità occidentale, per il cittadino turco lo Stato rimane l’entità più pregiata, ed è sulla sua esportazione, in quanto risorsa unica ed inestimabile, condivisa con i soggetti politici viciniori da sottomettere, che trova fondamento una sorta di progettualità imperiale e repubblicana al contempo; Erdoğan riporta alla luce kızıl elma[66], la credenza mitologica turanica che sta a simboleggiare un destino che non può che condurre al governo del genere umano[67], in una sorta di afflato sì spirituale ma non necessariamente religioso che indirizza i turchi, confortati dalla mistica ed impalpabile consapevolezza dell’appoggio divino, che tuttavia non può che restituire un’idea, non una certezza imperiale.
In questo ambito la creatività mediatica plasma l’idea di un’unione tra Turchia, Repubblica Turca di Cipro, paesi Stan centro asiatici[68] o, in alternativa, un’ipotesi di confederazione volta a raccogliere gran parte delle antiche province ottomane sotto la nuova capitale Istanbul, simbolo del desiderato ritorno di uno Stato ecumenico. Rimane da vedere quanto sia realizzabile, in termini di reperimento di risorse concrete, un’aspirazione che sembra non tenere conto delle estensioni geografiche, dei diversi interessi politici, delle influenze più o meno esercitabili, da parte degli altri egemoni. Che poi questo disegno possa trovare celere riscontro politico nell’asse costituito con Azerbaigian e Libia non si può escludere, vista la propensione di Baku[69] a cercare di sfilarsi dalle attenzioni russe, insieme con il significativo aiuto militare assicurato da Ankara nel conflitto contro l’Armenia per il Nagorno Karabakh, e la necessità di tornare sulle sponde nordafricane del Mediterraneo, prima linea di difesa marittima del nuovo impero. Non a caso l’accordo sulla divisione delle ZEE tra Turchia e Libia del 2019, costituisce la prima vera applicazione della Mavi Vatan. Un’eventuale disgregazione libica porterebbe con sé il fallimento strategico turco nel Mediterraneo; inevitabile quindi il consolidamento della sovranità marittima, estendendo il confronto con la Repubblica di Grecia, il nemico per antonomasia. All’interno, la Turchia confina con l’exclave del Naxçıvan, disgiunta dall’Azerbaigian dalla provincia armena di Syunik, ed attraverso cui dovrà svilupparsi il corridoio infrastrutturale di Zangezur, necessario per garantire il collegamento tra Anatolia e Caspio accentuando la possibile estensione del conflitto azero-armeno al territorio che collega l’Armenia all’Iran, innescando così un conflitto tra Ankara e Teheran.
Di fatto, il processo di annessione dei territori rivendicati dal Gazi è iniziato nel 2016, in concomitanza con l’inizio della prima operazione armata turca in Siria e con l’aiuto israeliano che costringe l’Iran a rivedere la propria proiezione in Siria e Iraq bilanciando le mire di Ankara su Cipro, che altrimenti diverrebbe il punto nodale della competizione mediterranea. Se è vero che la tradizione imperiale turca di nascita di un soggetto politico ha sempre coinciso con il collasso di qualche altra entità statuale di pari rilevanza seppur in declino, ora il limite oggettivo alle aspirazioni di Ankara è dato dai deficitari rapporti di forza con l’America, dall’assenza di un antagonista e dai punti di faglia rappresentati dai vincoli economici, ciclicamente posti in evidenza dalle turbolenze che mettono in ginocchio la lira. Politicamente sarà dunque avveduto, da parte turca, limitare le ambizioni in Nord Africa, Cipro e nei Balcani. Realisticamente, ammesso che la Turchia riuscirà ad intervenire in Albania, Kosovo, Macedonia del Nord, difficilmente riuscirà ad imporre una sovranità diretta sull’ex Europa ottomana.
Per quanto concerne la politica interna, la Turchia dell’AKP e del suo attuale Presidente coltiva l’aspirazione di accompagnare in un tranquillo oblio sepolcrale il Gazi, come auspicato da Davutoğlu, e da İsmet İnönü prima di lui, in un’alternanza tra la ricerca di una laicità modulata da una tradizione fideistica troppo forte per essere eradicata in breve tempo, ed un ritorno a visioni e tradizioni appartenenti ad un’epoca imperiale che, per i suoi fasti, induce a revanscismo e nostalgia un popolo naturalmente nazionalista. Il kemalismo modernizza la Turchia, vorrebbe accompagnarla da protagonista nel futuro occidentale secolarizzando masse, ideologie e politica, ma deve fare i conti con una più che vitale Turchia profonda. Da questo punto di vista è comprensibile come, per la sinistra, la rivoluzione kemalista rimanga una magnifica incompiuta, visto che peraltro l’idea di Atatürk rimane bene di proprietà della destra nazionalista, sempre più vicina alle ideologie affini a quelle dei Lupi Grigi[70]. Nel 1982 il kemalismo torna ad essere ideologia totalizzante di stato, ed avvicina la figura del Gazi alla religione in un’operazione politica rischiosa e foriera di conseguenze incontrollabili. Da un lato la Turchia è progredita, ma dall’altro è rimasta frammentata in due entità sociali che si percepiscono antropologicamente separate, tanto che il Paese rimane terreno di scontro tra un totalitarismo di marca occidentale e un assolutismo islamista rivelando una società in equilibrio instabile. Secondo la politica progressista occidentale, solo la liquidazione del kemalismo conferirà una patente europeista alla Turchia, ma non c’è dubbio che, se non ci fosse stato Atatürk, il problema non si sarebbe nemmeno posto. Il problema è la persistenza della sindrome di Sèvres e delle strutturalità culturali e politiche che portano ciclicamente a ripudiare l’opzione occidentale. Non si può escludere che in futuro la politica cercherà di celebrare Atatürk solo come nume tutelare patriottico.
Ripartendo dal presunto colpo di stato del 2016, la politica estera turca appare ancora più ondivaga ed ambigua, tanto da volersi affrancare dalla Nato con un occhio a Cina e Russia, ritornando a sognare in neo ottomano in un’impossibile riunione con il nazionalismo ideologico kemalista. Nel 2016 il Presidente Erdoğan illustra quello che intende essere il manifesto di una nuova fase che vuole celebrare il ritorno di una rilevante influenza statale turca a partire dall’Europa Centrale per arrivare alle profondità geopolitiche africane. A prescindere dal golpe, ambiguo e che porta a purghe staliniane che mutano profondamente l’aspetto dello Stato, dando l’impalpabile certezza che l’establishment non attendesse altro, Ankara muta la sua condotta esaltando l’ambizione di un leader che intende recuperare ascendente e percezione del proprio paese nel mondo. Sotto quest’ottica, il filo conduttore rimane quello imperiale, visto che a parere di Erdoğan la vera Turchia è molto più grande dell’attuale, limitata dalla politica esogena e dagli eventi. Non c’è dunque solo una logica ottomana nostalgica, ma anche il ritrovamento di estensioni geografiche ancora legate da una continuità storica unita all’esperienza kemalista, che ha avuto il merito di far risorgere il paese dalle ceneri imperiali; per il Reis Erdoğan non esistono cesure storiche: il passaggio tra entità politiche è continuo.
Sotto questa prospettiva l’espansione balcanica diventa fondamentale per conquistare l’Europa infrangendo l’immagine orientale ed asiatica e per proteggersi dalle minacce che possono mettere a rischio gli accessi del Mar Nero. È nei Balcani che l’impero ha conquistato un ruolo di prima grandezza, dove l’Islam ha attecchito con una valida base culturale, e dove il ricordo dell’assedio di Vienna è ancora vivo. Con la fine di Jugoslavia e URSS riprende la marcia verso ovest grazie ad un attento soft power. Oltre agli aspetti culturali e religiosi, emergono anche motivazioni pratiche, come una rete di accordi a protezione delle rotte che uniscono Ankara ai mercati centro europei, visti i commerci e le garanzie che quelle terre vengano attraversate da infrastrutture energetiche dirette in Europa. I Balcani diventano una leva negoziale nei confronti della Grecia, alleato atlantico ma ancestrale nemico nell’Egeo, un’urgenza che spiega la presenza ancirana in Albania, e fungono da possibile ed ipotetica merce di scambio con gli USA, in quanto possono qualificare la Turchia come amplificatore di influenze stabilizzanti in una regione turbolenta, dove la Cina risale dal Pireo all’Ungheria, e la Russia rinsalda i rapporti con lo spazio slavo-ortodosso.
Il problema è che se i Balcani sono una carta d’imbarco per l’Europa, è l’Europa, che guarda a est, a respingere una Turchia tentata dall’idea di una proficua dialettica dell’incontro scontro con Mosca. Tuttavia, malgrado i precetti della profondità strategica di Davutoğlu, le ambizioni anatoliche non riescono a celare la fragilità di un paese che non riesce ad accedere al club degli egemoni globali.
In sintesi, c’è qualcosa di ancestrale nella politica turca, connaturato all’idea di sentirsi un impero capace di oltrepassare i confini repubblicani, come si nota anche dallo stemma presidenziale che, oltre a mezzaluna e stella, mostra anche un sole – l’eternità dello stato – e 16 stelle – gli imperi turchi nella storia, un modo per rammentare che la Turchia non è solo Islam e non è solo impero ottomano. È vero che si tratta di una dimensione imperiale fatta propria dal Presidente Erdoğan, auto nominatosi interprete delle ambizioni nazionali, ma vincolare la Turchia a ideali passati rischia di confondere le acque. L’area di proiezione della Repubblica si sovrappone a quella che fu estensione imperiale, ed arricchisce la complessità turca fondata su geopolitica ed idee divenute miti. I nazionalisti kemalisti non hanno base ideologica imperiale; alcuni si inseriscono nella tradizione panturca animata dal concetto di etnia che vuole riunire i popoli sulla base di una fratellanza di sangue astorica; alcuni apparati sono unicamente nazionalisti, altri si muovono in politica estera su un piano esclusivamente pragmatico. A questi elementi si aggiunge l’Islam politico, dove la religione assume un ruolo preminente. L’Islam è utile per un conservatorismo affine a pratiche lontanissime dalla laicità kemalista; a questa prospettiva si somma quella di un impero legato alla confessione religiosa. Contemporaneamente si manifesta un altro sistema ideologico basato su etnia e visione eurasiatica di fratellanza con popoli uniti dall’unica potenza in grado di rappresentarli. Buon ultimo, il mito di Mustafa Kemal, che ha evitato la disfatta post imperiale. Attenzione però: se conservatori, islamisti, nazionalisti e laici hanno tutti una visione che si proietta verso l’esterno, allora vuol dire che le aspirazioni ancirane oltrepassano Erdoğan affondando le loro radici in una concezione sì altissima ma basata su una politica pragmatica che cura gli interessi concreti, basandosi su piattaforme sconfinanti nel mito. La religione non è sufficiente per illustrare la Turchia odierna; va ricordato il mito di una nazione ben più estesa dei suoi attuali confini e che è necessario a compattare il fronte nazionalista laico che non bada alla confessione religiosa ma all’appartenenza etnica o all’essere cittadino turco.
Il 2023 è un anno fondamentale per l’Anatolia, spezzata da un sisma di rara violenza; l’ascesa al potere dell’AKP fu agevolata dalle critiche mosse a proposito dell’inefficienza dei soccorsi prestati per un altro violento terremoto. Impossibile asserire che si tratti di una sorta di tragica nemesi, ma non c’è dubbio che il quadro politico che si sta delineando non induce a prospettive tranquillizzanti. Alle urne si confronteranno di nuovo due mondi, due diverse concezioni: l’AKP dell’Islam politico in versione turca, ed il kemalismo di ritorno.
L’Impero Ottomano è morto, lunga vita all’Impero Ottomano?
[1] 1904 – 2005, è stato un diplomatico, storico, ambasciatore e studioso di scienze politiche statunitense. Noto come il padre della politica del containment, fu figura chiave durante il periodo di delineamento della Guerra Fredda. I suoi studi ispirarono la Dottrina Truman e la politica estera statunitense volta a contenere l’URSS. Il suo lungo telegramma da Mosca nel 1946 prima, e l’articolo del 1947 dal titolo Le origini della Condotta Sovietica, affermavano l’espansionismo sovietico e la necessità che la sua influenza doveva essere contenuta nelle aree strategiche per gli USA.
[2] Espressione usata per riferirsi a Mustafa Kemal Atatürk, il fondatore della Repubblica Turca
[3] Il Conquistatore
[4]1888 – 1935, è stato un agente segreto, militare, archeologo e scrittore. Ricordato per essere stato uno dei capi della rivolta araba durante la Prima guerra mondiale; paladino del nazionalismo arabo è ricordato come uno dei più controversi protagonisti dell’insurrezione delle tribù arabe contro la dominazione ottomana a inizio del Novecento nella zona compresa fra l’Higiaz e la Transgiordania.
[5] L’Hegiaz è la regione nord occidentale della penisola araba, oggi parte dell’Arabia Saudita.
[6] 30 ottobre 1918; pose fine alle ostilità nel Vicino Oriente tra l’Impero ottomano e gli Alleati.
[7] Atatürk “anticipò” Lawrence organizzando guerriglia e resistenza delle tribù libiche attraversando l’Egitto britannico travisato con gli abiti tribali tradizionali; il 18 ottobre 1912, alla firma dell’armistizio con l’Italia, Derna fu consegnata senza esser stata espugnata sul campo.
[8] È uno degli elementi architettonici più noti del Palazzo di Topkapı di Istanbul, residenza del sultano ottomano. L’espressione, nel corso dei secoli, è stata usata come metonimia per indicare il governo imperiale.
[9]L’accordo Sykes-Picot (accordo sull’Asia Minore) è un trattato segreto stipulato tra il governo del Regno Unito e quello della Repubblica francese che definiva le sfere di influenza nel Medio Oriente in seguito alla sconfitta ottomana nella Prima Guerra Mondiale. I negoziati furono condotti dal diplomatico francese François Georges-Picot e dal diplomatico britannico Mark Sykes, ed ebbero luogo tra novembre 1915 e marzo 1916. L’accordo venne poi sottoscritto il 16 maggio 1916
[10] Dall’arabo ‘uthmānī, der. di ‘Uthmān, variante araba del nome di Osman I, capostipite della dinastia ottomana e il fondatore e primo monarca dell’impero ottomano.
[11] L’impero ottomano era uno stato islamico in cui il capo dello stato deteneva la posizione del califfo; il sistema sociale era organizzato secondo vari sistemi, tra cui il Millet organizzato religiosamente e la legge della Shari’ah, permettendo alla religione di essere incorporata nel sistema amministrativo, economico e politico. Il secolarismo fu avviato dall’abolizione del califfato nel marzo 1924; l’ufficio di Shaykh al-Islām fu sostituito con la Presidenza degli Affari Religiosi (Diyanet). Nel 1926, i codici di legge mejelle e shari’ah furono abbandonati a favore di un codice civile svizzero adattato e di un codice penale modellato su quelli tedesco e italiano. Altre pratiche religiose furono eliminate, con conseguente scioglimento degli ordini sufi e con la penalizzazione di indossare il fez, che fu visto da Atatürk come un legame con il passato ottomano. Secondo il kemalismo lo stato deve essere equidistante da ogni religione, senza promuovere né condannare alcuna credenza. I kemalisti chiedono dunque sia la separazione tra religione e stato, ma anche un controllo statale dell’establishment religioso; questo significa che tutte le attività religiose sono sotto la supervisione dello stato. I conservatori religiosi hanno tuttavia respinto questa idea; nonostante le loro proteste, questa politica è stata ufficialmente adottata dalla costituzione del 1961
[12] Conosciuto in Cina come Sun Zhongshan, 1866 – 1925. È considerato il padre della Cina moderna e uno dei più importanti rivoluzionari cinesi; fondatore del partito Kuomintang, tra i primi a proporre il rovesciamento dell’Impero cinese e a considerare il problema della democrazia.
[13]Sei principi (ilke): repubblicanesimo (cumhuriyetçilik), populismo (halkçılık), nazionalismo (milliyetçilik), laicismo (laiklik), statalismo (devletçilik), riformismo (inkılapçılık), del 1931, precedute dal lungo discorso del 1927
[14] Dotto musulmano esperto in scienze religiose. Benché – letteralmente – il termine significhi ‘sapienti’, ‘dotti’, ‘saggi’, la loro scienza non è quella delle scienze esatte, ma è quella della conoscenza della Volontà di Dio, ritenuta dall’Islam più significante.
[15] il maktab o mektep indica la prima precaria scuola islamica in cui un adulto, discreto conoscitore del Corano, insegnava a leggere e a scrivere la lingua araba ai ragazzi, in cambio di un magro emolumento da parte dei genitori; una madrasa indicava una scuola ma nell’XI secolo, dopo l’arrivo dei turchi Selgiuchidi, passò a designare l’istituto di studi superiori in cui si ultimava l’apprendimento garantito dal maktab e dalla moschea; proponeva un percorso formativo basato sull’acquisizione dei principi della religione islamica, la cui comprensione, poi, giustificava l’apprendimento della lingua araba
[16] Vie che conducono a Dio, sette
[17] Le leggi intendevano abolire le scuole o gli ordini religiosi sufi (tarikats) e le loro logge (tekkes). Titoli come sceicco e derviscio furono aboliti e le loro attività bandite. Il giorno di riposo fu cambiato da venerdì a domenica, e le restrizioni sulla scelta personale si estendevano sia al dovere religioso che alla denominazione: i turchi dovettero adottare un cognome senza poter compiere l’hajj (pellegrinaggio alla Mecca). La forma kemalista di separazione tra stato e religione cercava la riforma di un insieme completo di istituzioni e di gruppi di interesse, nonché le loro relazioni con le norme e le regole politiche che governavano le loro funzioni. Il più grande cambiamento fu dunque l’abolizione del califfato il 3 marzo 1924, seguita dalla rimozione dei suoi meccanismi politici. La norma che stabiliva che “la religione stabilita della Turchia è l’Islam” fu cassata dalla costituzione il 10 aprile 1928. Politicamente il kemalismo è anticlericale, in quanto cerca di impedire l’influenza religiosa sul processo democratico; nella prospettiva politica kemalista, i politici non possono pretendere di essere i protettori di alcuna religione o setta religiosa, cosa che costituisce motivo legale sufficiente per la messa al bando permanente delle formazioni politiche.
[18] Il sistema delle millet costituisce una forma perfezionata e con influssi bizantini dell’istituto islamico della dhimma, che intende un patto di protezione stretto tra non musulmani e un’autorità di governo musulmana.I dhimmi godevano di maggiori diritti rispetto ad altri soggetti non-musulmani, ma di minori diritti legali e sociali dei musulmani. Nel turco moderno, millet significa nazione.
[19] Nel 1839 tra i Tartari russi fu fondata la Società Turanica, che fece poi la sua comparsa anche in Ungheria con la Società Turanica fondata nel 1910, e con l’Alleanza Turanica, fondata nel 1920, e in Giappone con l’Alleanza Turanica, del 1921, e la Società Turanica, degli anni ’30.
[20] Ugriche, mongole, per alcuni anche le coreane e le giapponesi
[21] Rimangono ancora movimenti che si ispirano a questa ideologia, tra cui il partito nazional-socialista giapponese Kokka Shakaishugi Nippon Rōdōsha-Tō, il partito ungherese di destra Jobbik insieme con il partito di governo Fidesz, il partito turco Movimento Nazionale e i Lupi grigi (bozkurtlar).
[22] Ultranazionalista, kemalista, antioccidentale, socialista, rivoluzionario, Il partito è fortemente filo-cinese e filo-russo, oltre che anti-americano.
[23] Il 2 settembre 2019, il presidente Erdoğan è apparso in un’immagine con una mappa che raffigurava quasi la metà del Mar Egeo e un’area fino alla costa orientale di Creta come appartenente alla Turchia. La mappa è stata mostrata durante una cerimonia ufficiale a Istanbul e mostra un’area denominata come Patria Blu della Turchia, estesa fino alla linea mediana dell’Egeo e che racchiude le isole greche in quell’area senza alcuna indicazione territoriale greca.
[24] La dottrina marittima induce “a prendere in considerazione anche il Mar Arabico, il Golfo Persico, il Mar Rosso e gli approdi all’Oceano Atlantico dalla parte del Mediterraneo occidentale, perché queste aree rappresentano la nostra periferia a livello geopolitico”.
[25] Nato Mehmed Ziya (Diyarbekir, 23 marzo 1876 – Istanbul, 25 ottobre 1924).
[26] Ministro della Guerra e Comandante in Capo durante la I GM
[27] Le idee panturche hanno attecchito nella contemporaneità dopo il crollo dell’Unione Sovietica in Asia centrale ed in altri Paesi turcofoni
[28] Smirne, 24 settembre 1884 – Ankara, 25 dicembre 1973) è stato un generale e politico. Primo ministro dal 1923 al 1924 e dal 1925 al 1937, fu dopo Atatürk il massimo artefice delle riforme modernizzatrici dello Stato. Alla morte di Mustafa Kemal nel 1938 divenne presidente della repubblica fino al 1950. Divenne nuovamente Primo ministro dal 1961 al 1965 dopo un colpo di Stato militare. Fu leader del Partito Popolare Repubblicano, dalla morte di Atatürk fino al 1972.
[29] “Stratejik Derinlik. Türkiye’ nin Uluslararasi Konumu”
[30] Premier dal 1983 al 1989; Presidente della Repubblica dal 1989 al 1993
[31] Guadagni nell’estero vicino relativamente al golpe filogreco di Cipro (1974), alla Guerra iraniano-irachena (1980-1988), alla Prima guerra del Golfo, alla Guerra del Nagorno Karabakh tra Armenia e Azerbaigian (1988-1994) e alle guerre jugoslave tra il 1991 ed il 1995.
[32] Dal 2005 al 2011 la Profondità Strategica ha ottenuto i suoi migliori successi con: le rinnovate relazioni bilaterali con l’Iraq; con la ripresa dei rapporti commerciali con l’Iran; con la normalizzazione dei rapporti siriani; con la firma della dichiarazione tripartita Turchia-Israele-Siria a favore del processo di pace in Palestina; con i nuovi rapporti con le antiche province di Albania, Bosnia, Kosovo e Macedonia.
[33] A partire dal 2005 e fino al 2008 si sono susseguiti accordi ed investimenti che hanno permesso ad Ankara di ottenere la nomina quale “membro osservatore” dell’Unione Africana con il contestuale ingresso nella Banca Africana dello Sviluppo.
[34] Se Davutoğlu in Siria ha puntato alla deterrenza, Erdoğan, nell’ottobre 2019, scacciando sia le milizie curde che le forze governative di Assad, ha puntato su un obiettivo regionale legato alla politica turca e non a quello che era stato sempre giudicato come un problema di sicurezza interna, senza contare le ambiguità turche nei confronti dell’Isis e di altre realtà dell’islam radicale in Siria ed Iraq.
[35] Nella guerra navale una ” flotta in essere ” è una forza navale che esercita un’influenza senza mai lasciare il porto.
[36] Marina Militare Turca
[37] Secondo la Turchia le isole non possono avere una ZEE completa avendo diritto solo ad una ZEE ridotta a 12 miglia nautiche o a nessuna ZEE. Non avendo ratificato l’UNCLOS la Turchia non si ritiene vincolata alle disposizioni che assegnano zone marittime insulari. La posizione turca riguardo alle ZEE è un’interpretazione unica non condivisa da nessun altro paese e non conforme al trattato Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare firmato da 168 parti.
[38] Ispiratore dell’accordo bilaterale con la Libia circa la nuova ZEE
[39] Il 26 maggio 2020, il mercantile Çirkin, battente bandiera tanzaniana, sarebbe partito dal porto di Istanbul diretto a Gabès, in Tunisia. Dopo aver lasciato le acque territoriali turche, la nave avrebbe spento il sistema di tracciamento automatico necessario a rilevare la posizione in alto mare si sarebbe unita a navi militari turche, con destinazione finale non più Gabès, bensì il porto libico di Misurata, in Tripolitania, zona controllata dal Governo di Accordo Nazionale. Il 27 maggio il convoglio sarebbe stato avvistato dal cacciatorpediniere francese Forbin, e le navi militari turche si sarebbero frapposte tra il mercantile e la nave francese, al fine di impedire ogni possibile tentativo di ispezione. La flotta sarebbe poi giunta a Misurata il 28 maggio, e il mercantile Çirkin avrebbe scaricato materiale bellico prezioso per il GAN, violando l’embargo imposto dall’ONU.
[40]Collegherebbe Israele all’Europa passando per Cipro e Grecia.
[41] Mosca ed Ankara hanno bisogno vicendevole nel controllo del Mar Nero e per i gasdotti; gli USA hanno necessità affini a quelle russe, mentre i turchi hanno bisogno degli americani per armamenti ed equilibri regionali; la Cina con i suoi investimenti influisce sulle sorti economiche dell’area.
[42] Erdogan ha affermato che i tassi di interesse al di fuori del suo personale controllo sono “la madre e il padre di tutti i mali”, e che “la banca centrale non può prendere questa indipendenza e mettere da parte i segnali dati dal presidente”.
[43] In base alla Convenzione, quindi, le navi militari degli Stati belligeranti non possono passare attraverso il Bosforo e i Dardanelli in tempo di guerra, fermo restando il loro diritto di transito per ritornare alle basi nel Mar Nero
[44] Nonostante la Turchia produca circa la metà del grano che consuma, da Russia e Ucraina proviene il 78% delle sue importazioni
[45] 2003 Invasione anglo-americana dell’Iraq; fallito intervento NATO in Afghanistan; la Primavera araba; conflitti in Siria e Yemen; rivoluzione in Egitto; rinascita dell’islamismo radicale; revanscismo russo; rivoluzioni colorate in diversi Stati post-sovietici; ricercata egemonia regionale iraniana; squilibri interni all’UE; il partenariato tra Israele e petro-monarchie del Golfo; conflitto russo ucraino.
[46]Vd. Il sostegno diplomatico all’indipendenza del Kosovo dalla Serbia; il coinvolgimento delle forze turche in teatri operativi per contrastare le milizie curde; la gestione dei flussi migratori come strumento di pressione e ricatto nei confronti della UE; il sostegno a milizie sunnite, jihadisti e mercenari; l’istigazione della guerra del Nagorno-Karabakh; il rimpatrio delle riserve auree turche mantenute negli Stati Uniti come segno della diminuzione della fiducia turca in Washington.
[47] Vd. Le trattative per l’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato, e alla politica del doppio forno adottata con la Russia
[48] AKP
[49] In Turchia non mancano i sostenitori del sogno panturco della “Grande Turchia”, estesa dai Balcani allo Xinjiang, destinati a scontrarsi con il pragmatismo del Presidente Erdogan.
[50] Vanno comunque valutate le aperture diplomatiche intercorse recentemente tra Riyadh e Teheran
[51] United Nations Convention on the Law of the Sea
[52] Vd. la necessità di dover coprire il 90% del proprio fabbisogno energetico attraverso approvvigionamenti esteri
[53] Middle East North Africa
[54] Cipro, Egitto, Grecia, Italia, Israele e Autorità nazionale palestinese
[55] Bal-Kan, miele e sangue
[56] Il Sangiaccato è una regione storico-politica e geografico-amministrativa dei Balcani occidentali suddivisa tra Serbia e Montenegro. Deve il suo nome all’unità amministrativa del Sangiaccato di Novi Pazar, una suddivisione dell’Impero ottomano che rimase in vigore fino alle guerre balcaniche del 1912.
[57] Durante il periodo riformatore del Tanzimat venne applicato il principio europeo di uguaglianza di fronte alla legge
[58] Vigeva la convinzione che accettare le differenze etniche e religiose fosse necessario per la sopravvivenza di una realtà pluriconfessionale come era l’Impero
[59] 1899 – 1961, Primo Ministro tra il 1950 e il 1960. Fu uno dei fondatori del Partito Democratico (DP). Fu processato e impiccato sotto la giunta militare dopo il colpo di stato del 1960, insieme ad altri due membri del governo, Fatin Rüştü Zorlu e Hasan Polatkan. Fu l’ultimo leader politico turco ad essere giustiziato dopo un colpo di stato militare. Il colpo di stato avvenne quando gli aiuti statunitensi derivanti dalla dottrina Truman e dal Piano Marshall si stavano esaurendo tanto da indurre Menderes a programmare una visita a Mosca per tentare di stabilire linee di credito alternative
[60] Tigri anatoliche
[61] Le forze armate hanno ampliato le loro capacità di combattimento expeditionary. L’esercito del XX secolo ha funzionato come una coorte pretoriana superiore alle autorità politiche civili. Il fallito colpo di stato del 2016 e le successive riforme hanno ridotto l’indipendenza dei militari dalla vigilanza civile. L’esercito turco ante 2016 ha effettuato limitate operazioni extraterritoriali, incomparabili con le proiezioni di potenza effettuate dal 2016.
[62] L’esercito turco, con un duro «comunicato di mezzanotte», nel pieno dell’elezione del capo dello Stato, ha accusato il Governo filoislamico di «attività antilaiche» riaffermando il suo ruolo costituzionale di «guardiano della laicità» e minacciando ulteriori mosse se necessarie. Il Governo ha definito le critiche erronee e ha ricordato ai militari che sono subordinati all’esecutivo, e ha anche affermato che i turchi non avrebbero permesso il ripetersi dei colpi di stato militari passati.
[63] 1926 – 2011; è stato Premier dal 28 giugno 1996 al 30 giugno 1997. In seguito al colpo di Stato militare del 12 settembre 1980 fu arrestato notificandogli nel 1982 il divieto di esercitare attività politiche nel decennio successivo. Il divieto fu revocato nel 1987. Fu eletto Presidente del Partito del Benessere e fu premier tra il 1996 ed il 1997. Il 30 giugno 1997 si dimise su pressione militare. Le formazioni politiche a cui aderì erano tutte accomunate da una visione dell’Islam politico vissuto non come una questione personale, come sostenuto da Atatürk, ma come una religione presente anche nelle scelte politiche. Dopo il periodo kemalista in cui la Turchia si era avvicinata all’Europa e all’Occidente, Erbakan teorizzò un nuovo percorso che la riavvicinasse alla sua identità islamica e ottomana.
[64] Il partito accentua il richiamo all’identità islamica riprendendo l’ottomanismo del periodo hamidiano, dove all’idea di ottomanismo fu conferito dal Sultano Abdülhamit II un simbolismo islamico, finalizzato a dare maggiore legittimità al proprio potere
[65] La Naqshbandiyya è il solo ordine mistico islamico che pretenda di tracciare la sua linea spirituale (silsila) dal Profeta Maometto, attraverso il suo primo Compagno, suo suocero e suo primo successore alla guida politica delle Umma Abū Bakr.
[66] La mela rossa è un’immagine mitologica pensata per i turchi Oghuz. È il simbolo di un obiettivo ed essa stessa è un obiettivo per gli stati turchi. L’obiettivo dell’offensiva ottomana verso Costantinopoli, era noto come Mela Rossa, intesa come simbolo di potere. Nell’immaginario dell’esercito, la Mela aveva una precisa localizzazione all’interno della città. Davanti alla Basilica di Santa Sofia, su una colonna si trovava una statua equestre dell’imperatore Giustiniano, un simbolo della potenza imperiale bizantina e del suo ruolo come roccaforte cristiana. La Mela Rossa fu localizzata nella sfera armillare di Giustiniano, vista come simbolo di potere e di dominio.
[67] Come stabilito dal lessicografo selgiuchide Kâşgarlı Mahmud, la cui opera Dîvânu Lugâti’t-Türk, – divenne per volontà di Atatürk uno dei testi base della cultura nazionalista repubblicana
[68] Kazakistan, Uzbekistan, Kirghizistan e Turkmenistan
[69] Già in occasione del decimo anniversario della Repubblica, Mustafa Kemal ammonì di non dimenticare il vincolo che lega turchi e azerbaigiani.
[70] I Lupi Grigi sono un movimento estremista nazionalista turco che ha tra i suoi fondamenti ideologici l’ideale del panturchismo, la xenofobia nei confronti delle minoranze etnico-religiose in Turchia