scarica il File in pdf – SANFELICE – LE STRATEGIE DI SICUREZZA USA E DELLA NATO. DAL NEW LOOK ALLA RISPOSTA FLESSIBILE E RITORNO -feb 2019
LE STRATEGIE DI SICUREZZA USA E LA LORO APPLICAZIONE NELLA NATO.
DAL “NEW LOOK ALLA “RISPOSTA FLESSIBILE” E RITORNO
Amm. Sq. Ferdinando SANFELICE di MONTEFORTE
Introduzione
Chi opera da anni per la sicurezza del Mediterraneo sa bene quanto grande sia stata – e quale sia tuttora – l’influenza degli USA sugli eventi del bacino, a partire dalla fine degli anni 1940. Conoscere l’evoluzione delle “Strategie di Sicurezza” USA nel tempo è quindi indispensabile per interpretare correttamente quanto è accaduto nel bacino in questi decenni, le azioni svolte dagli USA e le reazioni cui esse hanno dato luogo.
Questo è ancora più importante quando si consideri l’altro attore principale nel Mediterraneo, la NATO, la quale agisce in linea con quanto deliberato dai Paesi membri, sotto forma di Concetti Strategici; documenti pubblicati periodicamente, ma che sono inevitabilmente influenzati dalle concezioni strategiche USA, il principale fornitore di forze all’Alleanza.
La storia di come nacquero, crebbero e si affermarono, prima negli USA e poi in ambito NATO, queste strategie è oltremodo interessante, anche perché mostra come non sempre vi sia stata una perfetta identità di vedute tra le opposte sponde dell’Atlantico.
Mentre, infatti, le dottrine strategiche USA dei primi decenni furono pienamente accettate dai membri europei dell’Alleanza, altrettanto non avvenne con la strategia statunitense della “Risposta Flessibile”. Per due motivi:
- anzitutto, perché la strategia della “Risposta Flessibile” riservava un potere assoluto agli USA di decidere se intervenire o meno in Europa, e questo, malgrado numerose modifiche e aggiornamenti rispetto alla sua versione originaria, costituisce – come vedremo – ancor oggi la base concettuale della strategia USA;
- poi, in quanto la sua lunga elaborazione evidenziò le differenze di approccio esistenti tra le due sponde dell’Atlantico, differenze che sono tornate recentemente alla ribalta, in termini fin troppo simili a quelli del passato.
L’adozione di tale strategia da parte della NATO fu infatti un processo oltremodo tormentato, che durò sette anni, tra il 1961 e il 1968. Se si aggiunge il fatto che, prima, negli Stati Uniti, la discussione all’interno della leadership era durata altri sette anni, dal 1954 al 1961, si tratta della gestazione di una strategia più travagliata della storia.
Ambedue le fasi di questo periodo furono caratterizzato da discussioni oltremodo accese che, alla fine, spinsero le Nazioni che non intendevano assolutamente accettare il nuovo concetto strategico, a prendere decisioni radicali, circa il loro posizionamento geopolitico.
Si può dire che tale strategia – che poneva l’enfasi sugli interventi nelle “Piccole Guerre” – sia stata seguita dalle varie Amministrazioni di Washington, sia pure con numerose varianti e aggiornamenti, al mutare delle situazioni; solo di recente, nel 2017 vi è stato un radicale cambiamento di impostazione, con la pubblicazione di una nuova “Strategia Nazionale di Sicurezza”, che pone l’enfasi sugli interessi nazionali e tende a ridurre gli impegni diretti oltremare, da parte delle forze USA.
Dato che la nuova strategia presenta vari punti di somiglianza con quelle anteriori alla “Risposta Flessibile”, prima di discuterne le implicazioni per i Paesi mediterranei, è bene ricordare brevemente cosa siano i documenti strategici che i governi – e le Organizzazioni Internazionali – pubblicano periodicamente.
Le Strategie Declaratorie
Le strategie di difesa e sicurezza concepite dai vari governi sono documenti che discendono da prolungate discussioni a livello di vertice politico-militare; queste, come avvertiva il generale Maxwell D. TAYLOR, “sembrano concentrarsi soprattutto in parole, ma le parole sono estremamente importanti per chi concepisca la politica militare”[1].
In effetti, queste discussioni tra i leader, spesso vivaci e accalorate, non sono meri esercizi di dialettica, in cui prevale chi si dimostra più eloquente degli altri, ma segnano di fatto gli indirizzi che dovranno governare sia la politica sia il processo di pianificazione delle forze: i risultati di queste discussioni, una volta avallati a livello politico, vengono infatti travasati in “Concetti Strategici”, vere e proprie “Strategie Declaratorie”.
Queste erano considerate, nel passato, documenti ad alta classifica di segretezza; oggi, invece, sono considerate documenti da rendere disponibili agli studiosi e ai media, sia per coinvolgere la propria opinione pubblica, sia per avvisare i terzi – concorrenti e nemici inclusi – delle proprie intenzioni.
Sul piano organizzativo interno, poi, questi documenti costituiscono la giustificazione, la base concettuale per arrivare alla definizione dei singoli programmi di sviluppo dei mezzi e, soprattutto, per decidere il dimensionamento e la struttura dell’intero strumento militare, in tutte le sue componenti.
Sul piano multinazionale il processo è molto simile, anche se inevitabilmente più lento. La NATO, un’Organizzazione che ha seguito tale tipo di procedimento fin dagli inizi, nel 1949, promulga periodicamente i propri “Concetti Strategici” e li utilizza come base della pianificazione delle forze ritenute necessarie per l’Alleanza. Tale pianificazione, una volta approvata, viene inviata alle Nazioni, con la richiesta di fornire il proprio contributo per il raggiungimento dei livelli di forza individuati, in allegato a un documento, noto come “Force Proposals”.
L’Unione Europea, o meglio la sua componente securitaria, la Common Security and Defence Policy (CSDP) segue un approccio molto simile, fin dai tempi della sua istituzione, nel 1998, sia pure a intervalli di tempo maggiori.
Bisogna comunque ammettere che in ambedue i contesti, quello nazionale e quello multinazionale, raramente si è arrivati a concepire nuovi concetti in tempi brevi: i dibattiti, infatti, durano da un paio d’anni a oltre un decennio, e sono più lunghi quando le divergenze tra gli attori principali sono notevoli, prima che il nuovo documento venga approvato. Queste divergenze sono, di solito, di due tipi:
- divergenza di interessi, quando le singole Nazioni avvertono minacce diverse o intendono perseguire linee d’azione che non sono condivise dalle altre. Oggi, ad esempio, alcune Nazioni NATO temono la minaccia da Est, dalla Russia, mentre altre guardano con timore al Sud del mondo, in preda a convulsioni violente, i cui effetti si riversano su di esse;
- divergenza di approccio, quando alcune Nazioni puntano su azioni punitive a breve durata, spesso molto violente, mentre altre tentano di stabilizzare, con metodo e pazienza, le aree turbolente viciniori.
Come vedremo, conciliare esigenze divergenti non è facile, ma finora si è sempre riusciti, in ambito NATO, a farlo, mantenendo la dottrina strategica di questa coerente con quella USA, pur salvaguardando le priorità dei membri europei.
Le strategie iniziali degli USA e della NATO
La strategia approvata nei primi anni di esistenza della NATO, detta del “Contenimento” della minaccia sovietica, teneva conto della debolezza militare degli Alleati europei, nonché della scarsa profondità della difesa contro un’invasione da Est, dato che la prima possibile linea di resistenza era lungo il fiume Reno. Essa, per dirla con le parole dell’allora Senatore John F. KENNEDY,
“si fondava su due posizioni di monopolio di cui disponevamo a quell’epoca. Anzitutto, noi soli potevamo esportare in Europa e nei paesi sottosviluppati capitali e assistenza tecnica. Il secondo nostro monopolio si suddivideva in due parti. Possedevamo il monopolio delle armi nucleari ed eravamo in grado di metterle a segno. La strategia originale della NATO si foggiò nello stampo di questo duplice fatto. Essa partiva dal presupposto di poter creare un’alleanza delle forze di terra dell’Europa occidentale, sufficiente a contenere ogni operazione diversiva che i comunisti intraprendessero per saggiare la volontà di resistenza dell’Occidente”[2].
Questa strategia, che puntava a coinvolgere i Paesi europei limitatamente alla difesa del loro territorio, fu superata dall’avvento alla Presidenza degli Stati Uniti del generale EISENHOWER, nel 1952, che segnò l’introduzione di una nuova strategia di sicurezza e difesa degli Stati Uniti e, di conseguenza, della NATO.
Il nuovo Presidente era stato Comandante Supremo del Quartier Generale delle Potenze Alleate in Europa, (SHAPE) e conosceva bene la situazione e le implicazioni di un eventuale cambiamento. Egli, in particolare, era determinato a risanare l’economia americana, contenendo le spese e, soprattutto, riducendo gli impegni diretti del proprio Paese, dissanguato dalla guerra di Corea, che solo ora si avviava verso la soluzione.
Il 30 ottobre 1953, quindi, EISENHOWER approvò la nuova dottrina strategica, che non si limitava agli aspetti di difesa e sicurezza ma era una vera e propria “Grande Strategia” che si poneva l’obiettivo di “sventare la minaccia sovietica alla sicurezza degli Stati Uniti e, nel fare questo, evitare di indebolire seriamente l’economia USA o minare i valori fondamentali e le istituzioni”[3] dell’Occidente.
Anche se sarebbe interessante evidenziare le numerose considerazioni, contenute nel documento, sull’importanza di un’economia sana e in espansione, nonché l’enfasi sulla necessità di un’intensa opera di propaganda, sia nei confronti delle opinioni pubbliche alleate, sia verso i popoli del “Blocco Sovietico”, appare qui necessario limitare l’analisi agli aspetti di difesa e sicurezza, i soli che coinvolsero direttamente le Nazioni alleate.
Presentato al pubblico come dottrina del “New Look”, il documento partiva dalla considerazione che, “nell’Europa Occidentale, il potenziamento della forza militare e il progresso della ripresa economica hanno rimediato, almeno in parte, a una situazione di patente debolezza in un’area vitale. Le forze NATO e (quelle) associate sono ora sufficienti per rendere costosa per l’URSS un’azione aggressiva in Europa e per creare un maggiore senso di fiducia e sicurezza nei popoli dell’Europa Occidentale”[4].
Per converso, gli Alleati erano ancora “dipendenti dagli Stati Uniti per la loro sicurezza, in quanto erano privi di quella capacità atomica che è il deterrente maggiore all’aggressione sovietica (e) molti di loro mancano di quella stabilità politica ed economica sufficiente ad appoggiare le proprie forze militari”[5]. Questa frase era un accenno, neppure tanto velato, al fatto che questi avevano ridotto le spese militari, per finanziare lo sviluppo sociale, e non intendevano aumentarle, anche a costo di essere accusati di diventare “consumatori di sicurezza”.
Secondo EISENHOWER, quindi, il ruolo degli Stati Uniti era quello di “mantenere un forte assetto di sicurezza, con l’enfasi su un’adeguata forza offensiva di rappresaglia e di difesa. Essa deve essere basata su una capacità atomica massiccia, inclusiva delle basi necessarie, su un integrato ed efficace sistema di difesa continentale, su forze pronte degli USA e dei suoi alleati convenientemente dislocate e adeguate a scoraggiare o contrastare inizialmente un’aggressione”[6]. Importanti, nel documento, erano tre precisazioni:
- la prima affermava che “in caso di ostilità, gli Stati Uniti avrebbero considerato che le armi nucleari sarebbero state disponibili per l’impiego così come altri (tipi di) munizioni”[7], il che significava l’intenzione di usarle senza restrizioni;
- la seconda delimitava strettamente le aree di azione, o di possibile intervento, degli Stati Uniti. Nel documento si affermava , infatti, che “secondo gli attuali trattati o politiche, un attacco ai Paesi NATO, (nonché) alla Germania Occidentale, al Giappone, alle Filippine, all’Australia, alla Nuova Zelanda, alle Repubbliche Americane, o a quella di Corea, coinvolgerebbe gli Stati Uniti in una guerra contro l’URSS, o almeno contro la Cina Comunista, se l’aggressore fosse solo lei”[8], anche se a questa lista veniva aggiunta la considerazione che “alcuni Paesi, come l’Indocina o Formosa, rivestono una tale importanza strategica per gli Stati Uniti, che un attacco contro di esse probabilmente obbligherebbe gli Stati Uniti a reagire con la forza militare o localmente nel punto di attacco oppure in generale contro la forza militare dell’aggressore”[9].
- la terza manteneva aperta “la possibilità di negoziare con l’URSS e la Cina Comunista accordi accettabili e attuabili, sia limitati ad argomenti individuali oppure coinvolgenti una soluzione generale a questioni (più) ampie, incluso un controllo degli armamenti”[10], nella convinzione che la controparte si sarebbe dimostrata più aperta a trattative se l’Occidente avesse dimostrato la propria forza.
Per conseguire gli obiettivi di difesa e sicurezza, oltre a minacciare un uso indiscriminato delle armi nucleari, la dottrina EISENHOWER si basava sulla “principale forza in potenza (costituita) dalle forze dell’Aeronautica e della Marina nonché sul potenziale nel generare un grande sforzo di guerra economica”[11].
I lineamenti di questa strategia, che all’epoca aveva un’alta classifica di segretezza, furono però delineati all’opinione pubblica americana dal Segretario di Stato, Foster DULLES, il 12 gennaio 1954, al Council of Foreign Relations. Partendo dalla considerazione che “non era una sana strategia militare quella di mantenere permanentemente in Asia forze terrestri tali da assorbire tutte le riserve strategiche”[12] e dopo aver aggiunto che “non era una sana economia, o una buona politica estera, quella di sostenere in permanenza altri Paesi”,[13] il Segretario di Stato affermò che gli Stati Uniti non potevano permettersi spese militari che portassero in pratica alla bancarotta.
Dopo tali premesse, DULLES affermò che “la difesa locale sarà sempre importante, ma non vi sarà mai alcuna difesa locale in grado di contenere da sola la notevole potenza terrestre del mondo comunista. La difesa locale deve essere rafforzata dal deterrente addizionale di una capacità di rappresaglia massiccia”[14], per cui gli Stati Uniti avevano deciso di “dipendere soprattutto da una grande capacità di effettuare una rappresaglia immediata, con i mezzi e nei luoghi che verranno scelti”[15]. Si deve quindi a Foster DULLES l’identificazione della strategia del “New Look” quale “Rappresaglia Massiccia”, un nome che divenne di uso comune tra gli addetti ai lavori.
Questa strategia, all’interno dell’Amministrazione EISENHOWER, era vista in modi diversi: sia sul come attuare la divisione dei ruoli tra Alleati, sia sul come condurre la stessa “Rappresaglia Massiccia”. Anzitutto, il Presidente intendeva delegare gli Alleati a condurre le guerre limitate, malgrado questi si stessero dimostrando impari a gestirle in modo adeguato, fornendo ad essi solo la garanzia dell’ombrello nucleare americano.
Egli, infatti, scrisse nelle sue memorie, che “il ruolo logico dei nostri alleati lungo la periferia della Cortina di Ferro, sarebbe stato quello di provvedere, con il nostro aiuto, per la propria sicurezza locale, specialmente con le forze terrestri, mentre gli Stati Uniti, avrebbero provveduto con forze di riserva mobili di tutte le Forze Armate, con enfasi speciale su contingenti navali e aerei”[16].
Questa era una visione diversa da quanto detto dal Segretario di Stato, il quale, come si è visto, “aveva caratterizzato (la dottrina) come la capacità di rappresaglia istantanea con i mezzi e nei luoghi di propria scelta”[17]. Egli, infatti, fin dall’inizio si era mostrato riluttante ad “automatizzare” la rappresaglia, rivendicando un ruolo autonomo agli USA nelle scelte strategiche, anche in caso di aggressione. Vedremo poi che egli sarà uno di coloro che incoraggeranno la transizione verso la dottrina della “Risposta Flessibile”.
Il Segretario alla Difesa, Charles E. WILSON, nutriva, invece, una profonda fede nella rappresaglia massiccia, tanto da osservare che “noi (gli USA) non possiamo permetterci di combattere guerre limitate. Possiamo solo permetterci di combattere una grande guerra, e se ce ne sarà una, questo sarà il tipo (di guerra) che accadrà”[18].
In questo tipo di valutazione giocava molto la provenienza del Segretario alla Difesa dal mondo imprenditoriale, essendo egli stato Presidente della General Motors, e subiva l’attrattiva di una soluzione “semplice”, come il ricorso all’arma nucleare, che gli sembrava quella che garantisse il migliore rapporto costo-efficacia. A suo dire, infatti, questa soluzione forniva “more bang for a buck”[19](più potenza esplosiva per ogni singolo dollaro).Di conseguenza, egli fu portato a estremizzare l’attuazione della strategia approvata.
WILSON, Infatti, coadiuvato fedelmente dal Capo di Stato Maggiore Difesa[20], Ammiraglio RADFORD, concentrò le risorse finanziarie, inevitabilmente limitate, nello sviluppo degli armamenti nucleari strategici, sia aerei sia navali, a spese dell’Esercito, che non solo si vide privato di fondi per l’ammodernamento delle forze esistenti, ma fu anche costretto a ridurre la consistenza numerica delle forze operanti, con conseguenti difficoltà ad assicurare persino la presenza in forze nei teatri critici dell’Europa e dell’Asia Orientale.
Nel frattempo, la dottrina del “New Look”, così com’era, si fece strada nella NATO, sia pure a piccoli passi. Come racconta lo storico professor Gregory PEDLOW, vi erano state lunghe discussioni sui livelli di forze convenzionali necessari, che avevano visto il Comandante Supremo dell’Europa (SACEUR) richiedere invano agli Alleati europei ulteriori forze, al di là di quanto era stato deciso fino ad allora, per compensare le prevedibili maggiori perdite dovute allo scambio nucleare.
Nell’estate 1954, quindi, il suo Quartier Generale (SHAPE) inviò “due studi maggiori allo Standing Group[21]: lo studio del SACEUR sulle capacità (necessarie) per il 1957 e un documento intitolato “The Most Effective Pattern of NATO Military Strength for the next few years”(lo schema più efficace per la forza militare della NATO per i prossimi anni).
Lo Standing Group combinò il secondo documento con quanto inviato dagli altri Comandi NATO e produsse una bozza di concetto strategico che alla fine divenne un documento ufficiale (denominato) MC 48”[22], approvato nel Novembre 1954.
Successivamente, tale impostazione fu riconfermata “con l’approvazione del Documento del Comitato Militare (MC) 14/2 del 23 maggio 1957, che poneva l’enfasi sul fatto che, qualora avvenisse una guerra generale, la NATO avrebbe dovuto assicurare la capacità di effettuare una controffensiva nucleare immediata e devastante con tutti i mezzi disponibili e sviluppare la capacità di assorbire e sopravvivere all’attacco nemico”[23].
In definitiva, questa dottrina era basata sull’idea che “la missione della NATO potesse essere conseguita (solo) mediante la sostituzione dell’arma atomica al posto degli uomini”[24]. La riduzione degli effettivi dell’Esercito USA ne era la logica conseguenza, come metodo principale per ridurre le spese militari.
Ma tale approccio non incontrava negli USA il consenso generale. Anzi! I critici erano numerosi, a cominciare, naturalmente, dal Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, generale Matthew RIDGWAY, che aveva da poco assunto questa carica, alla fine del suo periodo di comando in Europa quale SACEUR[25]. Egli, insieme a numerosi altri militari in posizione di vertice, non tardò a evidenziarne i difetti. Infatti, secondo lui:
- da un lato, questa strategia “apparentemente era intesa a scoraggiare significativi contributi militari da parte dei Paesi alleati: le forze della NATO (infatti) erano viste essenzialmente come un trip wire (filo per far scattare una trappola) in caso di ostilità”[26] il che non appariva realistico.
- dall’altro, essa era senza dubbio un incentivo per l’Unione Sovietica ad intensificare l’appoggio a guerre limitate, per lo più condotte da Paesi terzi, nonché a finanziare i movimenti di liberazione nazionale nelle varie parti del mondo, ancora soggette alla dominazione coloniale europea, evitando in tal modo un confronto diretto, che avrebbe portato alla rappresaglia nucleare.
Indubbiamente, la guerriglia comunista in Indocina, in Algeria, nell’Africa sub-sahariana e in Malesia, nonché l’appoggio sovietico ai Paesi del Medio Oriente impegnati contro Israele erano azioni che mettevano in crisi il sistema post-bellico, e minacciavano la stabilità del mondo sotto l’influenza occidentale, senza il rischio, per l’URSS, di incorrere in una rappresaglia massiccia, che lo avrebbe inevitabilmente distrutto.
La capacità degli Alleati degli USA nell’affrontare tali insurrezioni era a dir poco discontinua: a fronte dei successi britannici in Malesia, infatti, la Francia appariva già in enormi difficoltà, impegnata com’era sia in Indocina sia in Algeria, con gli esiti che ben conosciamo.
Negli Stati Uniti, quindi, questo proliferare di “piccole guerre” creava preoccupazione, almeno presso alcuni circoli, che consideravano dannoso un tale approccio. Il portavoce degli scontenti, dopo le dimissioni di RIDGWAY, al termine di due anni di mandato, fu il nuovo Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, generale Maxwell D. TAYLOR.
La nascita della “Risposta Flessibile”
Malgrado avesse assicurato il Presidente e il Segretario alla Difesa che egli avrebbe attuato fedelmente le direttive superiori, anche quelle che non condivideva, il generale TAYLOR condusse una continua opposizione ai progetti di riduzione delle forze convenzionali degli Stati Uniti, specie quelle dell’Esercito, riuscendo a limitarne l’entità.
Proveniente dai paracadutisti, il generale si era distinto in numerose circostanze, prima raggiungendo clandestinamente Roma, alla vigilia dell’armistizio dell’8 settembre 1943, per fornire un parere sulla fattibilità di inviare forze USA per difendere la Capitale italiana (il suo messaggio “Situation Innocuous” che giudicava una tale azione di appoggio all’Italia votata all’insuccesso è ben noto da noi), e poi comandando la 101 Divisione Paracadutisti in Normandia, in Belgio e in Olanda, tra il 1944 e il 1945.
La sua esperienza più recente, quale comandante dell’Ottava Armata in Corea, lo aveva portato a toccare con mano la riluttanza dei vertici statunitensi a impiegare la bomba atomica, anche in caso di sconfitta; gli esempi più recenti di “guerre limitate” sponsorizzate dall’URSS, avvaloravano le sue convinzioni sul fatto che l’arma atomica non aveva alcun potere deterrente in queste circostanze.
Grazie alla sua insistenza, egli riuscì a contenere le riduzioni degli effettivi dell’Esercito, che comunque scese da 1 milione di uomini a poco meno di 800.000, nel corso del suo mandato, ma dovette accettare la rinuncia a programmi ambiziosi e, soprattutto, all’ammodernamento degli armamenti in dotazione alle sue forze.
Le sue perorazioni in favore di una strategia che tenesse conto del proliferare di “guerre limitate” nel Terzo Mondo, mantenendo una forza in grado di intervenire nei luoghi più minacciati, furono viste con favore da molti studiosi, come George KENNAN, il quale scrisse che “il giorno della guerra totale è passato. Da questo momento in poi, le operazioni militari limitate sono le uniche che presumibilmente serviranno a ogni scopo coerente”[27].
Ma non c’era solo KENNAN, ad appoggiare il generale: il suo modo di vedere era condiviso anche da altri accademici, come Henry KISSINGER, il quale sostenne che “la deterrenza è massima quando la forza militare si unisce alla volontà di impiegarla”[28], una chiara allusione alla riluttanza, già più volte manifestata, all’impiego dell’arma nucleare nei conflitti limitati. Ma la battaglia di TAYLOR era tutta in salita, e apparentemente senza speranza.
Un aiuto insperato gli venne da un evento che impressionò il mondo: il 4 ottobre 1957 l’Unione Sovietica lanciò in orbita un satellite, denominato Sputnik 1, dimostrando la propria capacità di colpire, in un futuro prossimo, gli Stati Uniti mediante missili intercontinentali dotati di testate nucleari. Fino ad allora, infatti, l’URSS non veniva ritenuta in grado di usare armi atomiche al di là del teatro europeo, dato che i suoi bombardieri strategici erano lenti e vulnerabili.
Ora, invece, “questo atto scientifico e di ingegneria apparentemente innocuo era sia la dimostrazione della prevedibile capacità di lanciare missili (balistici) intercontinentali (ICBM), sia un atto potente di guerra psicologica”[29].
In questa nuova situazione, il monopolio USA dell’arma atomica veniva meno, e il Paese diventava vulnerabile a un attacco nucleare – e quindi ricattabile: qualora infatti Washington avesse deciso di usare l’arma nucleare in caso di invasione dell’Europa da parte dell’Armata Rossa, lo stesso territorio americano sarebbe stato esposto a una rappresaglia nucleare da parte del governo di Mosca.
Questo evento, quindi, portava un cambiamento radicale nella situazione strategica mondiale, dando inizio a quella che fu denominata l’era della “Distruzione Mutua Assicurata (MAD)”. Il che imponeva agli USA di disporre di adeguate forze convenzionali, per rispondere a guerre locali, senza la necessità di rischiare il conflitto nucleare.
Un altro argomento a favore delle teorie del generale fu dato dallo sbarco delle forze USA in Libano, il 15 giugno 1958, per sostenere il governo legittimo e sventare un colpo di Stato. Durante i tre mesi in cui le forze americane stabilizzarono la situazione, “l’Esercito USA mantenne in mare (su una nave) al largo di Beirut una batteria di (missili tattici) “Honest John”, ma non fu autorizzato a sbarcarla in quanto essa poteva sparare una testata atomica, oltre a una convenzionale”[30]
Come racconta il biografo del generale TAYLOR, per effetto di tali eventi, “EISENHOWER fu quasi spinto a riconoscere che vi era più delle sole armi nucleari, (e che) i problemi che si manifestavano nel Terzo Mondo richiedevano forze militari convenzionali”[31]. Foster DULLES, indubbiamente, aveva avuto un ruolo importante nel convincere il Presidente.
Anche altri studiosi di strategia erano di questo parere. Uno dei più autorevoli accademici negli Stati Uniti, Bernard BRODIE, scrisse profeticamente nel 1959 che un “principio fondamentale d’azione per gli Stati Uniti era quello di dotarsi di una capacità reale e sostanziale per gestire aggressioni limitate e locali, mediante un’applicazione locale di forze, per evitare di trovarsi un giorno nel dilemma in cui noi dovessimo accettare la sconfitta su un problema locale di grande importanza oppure ricorrere a un tipo di forze che potrebbe essere intrinsecamente inappropriato e che potrebbe aumentare in modo critico il rischio di una guerra totale”[32].
Persino in Europa, dove i governi contavano molto sull’ombrello atomico americano, per limitare le proprie spese militari, alcuni condividevano queste perplessità, malgrado il fatto indubbio che “nell’Europa Occidentale la Rappresaglia Massiccia fosse una strategia ragionevolmente efficace (in quanto) la posta in gioco era sempre stata elevata, e quindi la credibilità della volontà USA di accettare le conseguenze di una guerra nucleare con l’Unione Sovietica era stata relativamente alta”[33]. Infatti, la maggioranza dei governi del continente era ben lieta di tale “ombrello atomico” che non costava loro niente, se non in termini di perdita di sovranità.
Fra tutti, il più attento a cogliere i difetti della strategia in vigore fu Sir Basil LIDDELL HART, il quale osservava che “attualmente, la capacità delle potenze occidentali di rappresaglia dovrebbe essere sufficiente a scoraggiare la Russia (sic!) dallo scatenare un’invasione dell’Europa libera su larga scala, o dal tentare di paralizzare il potere di rappresaglia degli Alleati mediante un colpo a sorpresa. Ma, sfortunatamente, questo potere di rappresaglia è molto meno sicuro di fornire una deterrenza nel caso di aggressioni su scala inferiore”[34].
Questi dubbi furono fatti propri da Nelson ROCKFELLER, che era stato nominato Assistente Speciale del Presidente, e si era dimesso nel 1956. Egli, coadiuvato da un gruppo di intellettuali, produsse una serie di rapporti, l’ultimo dei quali asseriva che: “il mondo libero doveva essere preparato a resistere a ogni forma di aggressione, una guerra generale, una guerra limitata e (anche) un’aggressione occulta mascherata come un sommovimento interno mediante un colpo di Stato o una guerra civile”[35].
Malgrado ciò, l’Amministrazione EISENHOWER non apportò cambiamenti significativi nella strategia ufficiale del “New Look”, anche a causa delle resistenze dell’establishment, specie da parte dell’Air Force – che temeva di perdere gran parte del proprio bilancio – nonché dell’industria della difesa, impegnata in modo massiccio nella costruzione di armamenti nucleari e di bombardieri strategici.
Ma il generale TAYLOR non si diede per vinto. Una volta andato in pensione, egli pubblicò un libro, dal titolo “The Uncertain Trumpet”, tratto da una frase della Lettera di San Paolo ai Corinzi che dice “se la tromba dà un suono incerto, chi si preparerà per la battaglia?”. Nel libro, egli criticava aspramente la strategia della “Rappresaglia Massiccia” e proponeva un approccio diverso.
Anzitutto, per il generale, era necessario prendere quattro provvedimenti d’urgenza, per rendere credibile la capacità militare americana di difendersi e proteggere i suoi alleati:
- “migliorare la pianificazione e l’addestramento per una guerra limitata;
- sfruttare i missili balistici a medio raggio – IRBM – (rendendoli) mobili;
- proteggere meglio il Comando Aereo Strategico;
- (avviare) un programma limitato di riparo contro il fall out nucleare (la caduta di ceneri radioattive)”[36].
Una volta presi questi provvedimenti, gli Stati Uniti avrebbero dovuto modificare la composizione delle proprie forze, in modo da possedere:
- “Forze di deterrenza atomica offensive (poche centinaia di missili affidabili e accurati, integrati da un numero decrescente di bombardieri) e difensive (batterie di missili antimissile Nike Zeus, e antiaerei Nike Hercules e Hawk per proteggere le forze di rappresaglia);
- Forze di contro-attrito, la cui dimensione avrebbe dovuto essere determinata a mezzo di studi sulle ipotetiche guerre limitate; esse avrebbero dovuto essere moderne, mobili e possedere armi nucleari tattiche, ma essere in grado di combattere anche con le sole armi convenzionali;
- Forze da dislocare oltremare, simili alle precedenti ma aumentate moderatamente come numero;
- Forze mobili di riserva e rifornimenti, come sostegno;
- Trasporto aereo e navale per trasportare le forze;
- Forze per la guerra anti-sommergibili, per sorvegliare la flotta subacquea sovietica e per la difesa contro sommergibili lancia-missili”[37].
Per quanto riguardava l’impiego, secondo il generale, “avrebbe dovuto essere dichiarato chiaramente che gli Stati Uniti si sarebbero preparati a rispondere dovunque, in ogni momento, con armi appropriate alla situazione”[38].
Le proposte inserite nel libro, in verità, non apparivano del tutto rivoluzionarie, a un primo sguardo, tanto che alcuni osservarono che si trattava essenzialmente di sfumature, dato che si parlava “di quanto grande un livello di forze dovesse essere mantenuto, nonché quali dovessero essere il livello di prontezza al combattimento e la capacità di dispiegamento delle forze convenzionali”[39].
In realtà – e lo si scoprirà anni dopo – la dottrina proposta seguiva un approccio filosofico diverso, in quanto poneva “l’enfasi sulla capacità di combattere e sulla volontà di usare tale capacità nelle guerre limitate”[40]. Ovviamente, la scelta su dove combatterle e dove rimanere al balcone era il punto più critico, suscettibile di portare a impegni disastrosi, e l’infelice decisione di intervenire in massa a protezione del Vietnam del Sud ne fu l’esempio più probante.
Inutile dire che il libro del generale TAYLOR fece scalpore negli Stati Uniti, dove la voglia di combattere contro i Comunisti non si era spenta, malgrado gli eccessi del Maccartismo, e ottenne quindi un grande successo editoriale. Tra i più attenti lettori vi fu un giovane Senatore, John F. KENNEDY, che pochi mesi dopo si sarebbe candidato alla Presidenza degli Stati Uniti.
La strategia di KENNEDY
La nuova Amministrazione, rapidamente definita come quella delle “Teste d’Uovo” – cioè degli intellettuali – comprendeva, quale Segretario alla Difesa, un altro capitano d’industria, Robert S. Mc NAMARA, già Direttore Generale, e poi Presidente, della Ford Motor Company.
Anche se all’epoca pochi lo notarono, era curioso questo passaggio di consegne tra Segretari alla Difesa, ambedue provenienti da grandi industrie che, oltre a costruire automobili, erano notevolmente impegnate nel settore degli armamenti. L’unico accenno al pericolo di tale ingresso di capitani d’industria nella “stanza dei bottoni” si riscontrò nel discorso di addio del Presidente EISENHOWER, nel quale egli espresse, sia pure in ritardo, la propria preoccupazione per il crescente potere del complesso militare-industriale. Come si vide poi, tale appello era destinato a rimanere lettera morta.
Robert Mc NAMARA aveva idee ben precise su come orientare la composizione delle forze militari per fronteggiare la “Strategia Periferica”, messa in atto dall’URSS, sostenendo i movimenti di liberazione delle colonie africane e asiatiche dell’Occidente. Il principale teorico di questa strategia era l’Ammiraglio Sergei GORSHKOV, il quale la espose nel suo libro, edito nel 1978, “The Sea Power of the State”.
L’autore partiva dalla premessa che “gli Stati imperialisti usano il potere marittimo principalmente quale strumento di politica aggressiva per soggiogare e tenere in scacco Paesi e popoli, come mezzo per esacerbare la situazione internazionale e scatenare conflitti militari in diverse parti del mondo (nonché) per assicurare la loro posizione dominante e l’influenza schiacciante dei monopoli americani”[41].
Questa situazione era aggravata dal fatto che al potere marittimo occidentale era affidato “il compito basilare di lanciare potenti attacchi dal mare mediante i tre elementi delle forze navali: missili balistici da sottomarini atomici, l’aviazione delle portaerei e i Marines”[42] ponendo un vero e proprio assedio dal mare all’Unione Sovietica.
Di conseguenza, “il potere difensivo dell’Unione Sovietica era più che mai una garanzia decisiva per la protezione di tutti gli Stati socialisti e anche degli Stati progressisti che hanno conseguito la liberazione nazionale, una garanzia per la protezione della pace in tutto il mondo”[43].
Il programma del nuovo Segretario alla Difesa americano, a fronte di tale strategia sovietica, era molto simile a quello proposto da TAYLOR, con l’eccezione delle forze strategiche nucleari. Infatti, nell’Amministrazione KENNEDY si erano manifestate due posizioni divergenti tra loro su tale argomento, anche se ambedue “riconoscevano che le forze strategiche dovevano essere in grado di sopravvivere a un attacco di sorpresa in quantità sufficiente a effettuare una rappresaglia con un colpo devastante, e ambedue ponevano l’enfasi sul requisito di (un sistema di)comando e controllo efficace a precludere un attacco accidentale o non autorizzato”[44].
Dove le due posizioni differivano era su quali bersagli scegliere e sulla composizione delle forze necessarie. La prima impostazione, simile a quella proposta da TAYLOR, era “identificata come (quella) della deterrenza limitata o minima, per rallentare la corsa agli armamenti. La seconda spingeva per forze sostanzialmente maggiori, capaci di (offrire) una varietà di opzioni in materia di scelta dei bersagli, dopo un (eventuale) primo attacco sovietico”[45].
Mc NAMARA finì per allinearsi con la seconda impostazione, anche se “non si identificò mai (totalmente)”[46]con essa, in nome della limitazione dei danni, e a tal fine cercò, nei suoi discorsi pubblici, almeno di “indurre i Sovietici ad adottare una strategia che escludesse le città”[47] come possibili bersagli, orientando le forze nucleari di rappresaglia “a distruggere le basi del nemico prima che questi abbia il tempo di lanciare la sua seconda salva”[48].
In particolare, nel suo discorso all’Università di Ann Arbour, nel Michigan, il 9 luglio 1962, egli dichiarò:
“gli Stati Uniti hanno raggiunto la decisione che, per quanto fattibile, la strategia militare di base in una possibile guerra generale nucleare dovrebbe essere affrontata nello stesso modo in cui operazioni militari più convenzionali sono state viste nel passato, cioè, che gli obiettivi militari principali, in caso di guerra nucleare che scaturisse da un attacco maggiore all’Alleanza dovrebbe essere la distruzione delle forze nemiche, non della sua popolazione civile. Proprio la potenza e la natura delle forze dell’Alleanza rende possibile di mantenere, anche in caso di un attacco di sorpresa massiccio, una sufficiente riserva di potenza d’urto per distruggere una società nemica, se indotti a farlo. In altre parole, stiamo dando al nostro possibile avversario l’incentivo più fortemente immaginabile per trattenersi dal colpire le nostre città”[49]
I Sovietici non risposero mai direttamente a questo suggerimento, pur dichiarando, nel gennaio 1961, che “non solo le guerre mondiali, ma anche le guerre limitate dovessero essere evitate, a causa del pericolo di una loro degenerazione in una guerra mondiale. Ma (per loro) le guerre di liberazione erano sia ammissibili sia inevitabili ed esse, soprattutto, dovevano essere appoggiate dal Partito Comunista”[50].
Questa posizione fu subito definita da Mc NAMARA come la “tecnica delle fette di salame, che avrebbe eroso gradualmente, poco alla volta, la credibilità della determinazione degli Stati Uniti nel difendere i propri interessi e (mantenere gli) impegni nel mondo sottosviluppato”[51] e rafforzò la determinazione del Segretario nel contrastare le guerre limitate in giro per il mondo.
Infatti, in un suo discorso al Congresso, il Segretario alla Difesa dichiarò:
“Le nostre forze per la guerra limitata dovrebbero essere equipaggiate in modo appropriato per gestire l’intero spettro delle aggressioni limitate ed esse dovrebbero disporre dei mezzi per spostarsi rapidamente ovunque esse possano essere richieste, con breve preavviso. La capacità di rispondere prontamente alle aggressioni limitate, possibilmente in più di un posto allo stesso tempo, può servire sia per scoraggiarle sia per impedir loro di espandersi in conflitti maggiori”[52].
L’approccio di difesa che prese forma, sotto l’Amministrazione KENNEDY, finì per includere tre fasi: la difesa diretta, da condurre inizialmente con forze convenzionali; l’espansione deliberata, con l’uso di armi nucleari tattiche, nel caso in cui le forze convenzionali della NATO si trovassero in difficoltà, quando attaccate dai Sovietici, e infine la risposta generale nucleare, comprendente un attacco totale nucleare contro il mondo comunista.
Secondo il Segretario alla Difesa, le forze nucleari strategiche si sarebbero basate sulla cosiddetta triade, costituita dai missili balistici intercontinentali (ICBM), da quelli a gittata intermedia (IRBM), nonché dai bombardieri strategici. La triade si ridusse poi a una coppia, in conseguenza dei negoziati tra USA e URSS, successivi alla crisi di Cuba dell’ottobre 1962, quando il governo di Washington decise di ritirare i missili IRBM, dislocati in Europa, in parallelo al ritiro dei missili di pari portata che i Sovietici avevano installato nell’isola caraibica.
MCNAMARA volle anche che, al posto del precedente iter procedurale, teso a produrre, dopo molti dibattiti, una Basic National Security Policy (BNSP), si dovesse attivare un sistema decisionale più semplice e snello. Furono quindi adottati, come base per la discussione, dei Draft Presidential Memorandum (DPM) che, una volta approvati, avrebbero dato luogo alle già previste direttive di pianificazione della risposta nucleare.
Il primo piano, riguardante tale argomento, fu il Single Integrated Operational Plan (SIOP) 62, che fu rigettato dal Segretario alla Difesa, in quanto “la sua mancanza di flessibilità era la debolezza principale. (Quindi) i civili da poco nominati nel suo ufficio (Office of Secretary of Defence – OSD) e lo staff del National Security Council (NSC) si prepararono a sostituire quello che essi chiamavano un approccio spasmodico con un insieme di opzioni”[53].
Il risultato fu il SIOP 63, che prevedeva “tre compiti, ognuno dei quali dava origine a cinque opzioni. Il documento prevedeva anche la possibilità di rinunciare in modo selettivo a alcuni tipi di attacco previsto in ogni opzione”[54]. In tal modo, la flessibilità di scelta che la leadership USA si garantiva era molto superiore rispetto al passato.
Per quanto riguarda le forze convenzionali, “nel febbraio 1961, MCNAMARA propose a KENNEDY che la missione primaria delle forze USA oltremare dovesse essere quella di mantenere una capacità di condurre una guerra non-nucleare. Il Presidente (quindi) approvò una direttiva che poneva come prima priorità la difesa dell’Europa Occidentale con capacità convenzionali”[55].
A questo punto, nel giugno del 1961, scoppiò una nuova crisi a Berlino e il “ 20 ottobre, al culmine della tensione, KENNEDY stabilì che un eventuale nuovo blocco della città avrebbe dovuto essere affrontato con una sequenza di risposte graduate. Prima, saggiare le intenzioni sovietiche usando una forza a livello plotone come prova sul terreno, e inviare aerei da combattimento a scortare i trasporti lungo i corridoi aerei. Se questi fossero stati respinti, provare a conquistare la superiorità aerea locale. E nel contempo lanciare operazioni a livello divisionale o maggiore nella Germania Orientale. Se anche questo fallisse, allora scatenare attacchi nucleari selettivi, con lo scopo primario di dimostrare la volontà di usare le armi nucleari. Infine, ricorrere alla guerra nucleare generale”[56].
Questa era la prima applicazione del concetto di “pressione graduale” che MCNAMARA applicò durante i lunghi anni del suo mandato, sia nel confronto con i Sovietici, sia in Asia Sud-Orientale.
Dal punto di vista quantitativo, le forze convenzionali “pronte a scopo generale (avrebbero dovuto essere) in grado di combattere grandi campagne in due teatri operativi, più un’operazione di contingenza minore altrove”[57]. Va detto che, per carenza di fondi, quest’ultimo obiettivo non fu mai raggiunto, durante il periodo in questione, anche se lo si trova ancora in molti documenti strategici contemporanei.
Ma il Presidente era fermamente convinto della validità di un approccio teso a puntare sulle forze convenzionali, specie nelle “guerre limitate”, almeno durante le fasi iniziali di un conflitto. Nel suo messaggio al Congresso, egli osservò che “dal 1945 in poi le guerre convenzionali, a carattere limitato, o le azioni di guerriglia avevano sempre costituito la più diretta e continua minaccia alla sicurezza del mondo libero”[58].
Questo, secondo KENNEDY, “suggeriva lo sviluppo di forze di rapido impiego, al fine di accrescere la nostra capacità di risposta con l’uso di armi non nucleari. La preparazione a combattere guerre limitate dovrà essere l’obiettivo più importante delle nostre forze dislocate oltremare”[59].
Il “piccolo particolare” che il nuovo Presidente trascurava era che questo potenziamento delle forze convenzionali avrebbe provocato un “aumento delle spese militari (che) crearono le premesse per quella gravissima crisi finanziaria che dieci anni dopo avrebbe portato alla svalutazione del dollaro”[60]. EISENHOWER, con la sua decisione di contenere le dimensioni delle forze convenzionali, non aveva avuto, in fondo, tutti i torti!
Questo dibattito interno agli USA non era però privo di implicazioni internazionali, e in particolare nei confronti dei Paesi NATO. Infatti, la decisione di non ricorrere subito all’arma nucleare, nel teatro europeo, creò serie preoccupazioni in Europa, che vedeva la possibilità di trovarsi priva dell’ombrello nucleare americano, al momento del bisogno. Come si è visto, in molti Paesi, questo ombrello era stata la principale giustificazione alla limitazione delle spese militari, a favore di uno sviluppo sociale ed economico, esattamente come TAYLOR aveva notato.
Come racconta sempre lo storico ufficiale della NATO, il primo tentativo di convincere gli alleati europei ad adottare la strategia della “Risposta Flessibile” fu compiuto dal Segretario MCNAMARA alla Sessione Ministeriale del Consiglio del Nord Atlantico (NAC), la massima assise politica al di sotto di quella di vertice, nel dicembre 1961, ma “non fu raggiunto alcun consenso”[61].
Lo stesso accadde l’anno successivo, alla Ministeriale di Atene, malgrado il rapporto del Segretario Generale NATO, Dirk STIKKER, il quale “si focalizzava sul problema del controllo politico delle armi nucleari. Il rapporto concludeva raccomandando consultazioni nell’impiego delle armi nucleari a seconda delle diverse circostanze, con un tale impiego (da considerare) virtualmente automatico nell’evento di un attacco nucleare sovietico, ma soggetto a consultazioni, se il tempo lo avesse consentito, nel caso di un attacco convenzionale a grande scala da parte sovietica”[62].
Fu tentata allora la via di introdurre, poco a poco, il nuovo concetto strategico, impiegandolo come base per le esercitazioni, in modo da provare la validità della nuova strategia, senza impegni per gli alleati, ancora aggrappati alla strategia della “Rappresaglia Massiccia”.
Quindi, con la scusa di “fornire una guida strategica a una tale esercitazione, il NAC ordinò al Comitato Militare di preparare un Apprezzamento della Situazione Militare quale coinvolgeva la NATO fino al 1970. Quando completato, nel settembre 1963, il documento, noto con la sigla MC 100/1, proponeva un livello molto maggiore di flessibilità nella strategia dell’Alleanza. (Inoltre), il documento concepiva tre stadi di difesa: un tentativo di contenere l’aggressione con le (sole) armi convenzionali, un rapido aggravamento, fino all’uso di armi nucleari tattiche, in alcune circostanze, e un uso graduale (a carattere) strategico, di armi nucleari”[63].
Immediatamente, la Francia pose il veto, e l’esercitazione fu annullata. Il motivo di questa opposizione al cambio di strategia era profondo: a Parigi, infatti, specie nella mente di DE GAULLE, era ben viva la “sindrome di Dunkerque”, quando la Francia, nel 1940, era stata abbandonata a sé stessa, di fronte all’invasione tedesca, con la promessa che l’allora alleato britannico sarebbe tornato in futuro.
La decisione di dotarsi di una pur limitata capacità propria di rappresaglia nucleare, definita di “dissuasione”, ne fu la logica conseguenza.
Infatti, in occasione dell’unico incontro faccia a faccia tra i due statisti, il 20 maggio 1961, quando KENNEDY cercò di “persuaderlo ad abbandonare l’idea del potenziale nucleare indipendente e rassicurarlo sulle garanzie americane”[64], DE GAULLE rispose che “gli Stati Uniti, essendo esposti al pericolo di distruzione, in caso di guerra totale userebbero l’arma atomica solo quando si vedessero minacciati sul proprio territorio. Pertanto, era indispensabile che l’Europa provvedesse da sé alla propria difesa”[65].
Ma DE GAULLE aggiunse anche che, per quanto riguardava la NATO, “essa rimaneva valida per l’Europa e per la Francia; non così l’organizzazione militare che ad essa faceva capo e che, nella sua forma attuale, era superata e inaccettabile per il governo francese”[66].Non si può dire che il governo di Washington non fosse stato avvertito per tempo della possibilità che la Francia uscisse dalla struttura militare dell’Alleanza.
Inutile ricordare che l’avversione di DE GAULLE alla “Risposta Flessibile” non era un fenomeno isolato, anche se la maggioranza dei governi preferì adottare, come vedremo, tattiche dilatorie, per evitarne – o ritardarne – l’adozione.
Gli stessi alleati più fedeli, come la Gran Bretagna e l’Italia, erano fortemente preoccupati. Mentre la Gran Bretagna, in cambio della rinuncia a sviluppare un proprio missile balistico intercontinentale, ottenne di armare i propri sottomarini nucleari con missili “Polaris”, a condizione che essi fossero in permanenza sotto il controllo della NATO, il nostro Paese concepì un sistema di lancio di missili balistici, imbarcato sull’incrociatore Garibaldi. In tal modo, ambedue le Nazioni cercarono di disporre di una “chiave”, sia pure in condominio, per una risposta nucleare in caso di attacco al proprio territorio.
Ma non era quella l’unica obiezione contro l’adozione della strategia di “Risposta Flessibile”, da parte dei governi alleati dell’Europa Occidentale. Infatti, ve ne erano altre due: la prima era che “qualsiasi dichiarazione ufficiale o di azioni indicanti l’adozione di (questa) strategia avrebbe diminuito il valore deterrente delle forze di rappresaglia nucleare, suggerendo ai Sovietici che una guerra in Europa non avrebbe comportato il pagamento del prezzo ultimo di uno scambio nucleare generale”[67].
La seconda obiezione era che la nuova strategia metteva gli Europei in un dilemma senza soluzioni. Infatti, veniva riconosciuto che “la difesa iniziale dell’Europa Occidentale, stando alla Risposta Flessibile, poteva prendere due forme, o una difesa totalmente convenzionale, oppure una difesa basata sull’uso di armi nucleari tattiche. Una difesa puramente convenzionale, quasi certamente, non era fattibile alle (soglie) della Cortina di Ferro. È possibile che una difesa adeguata avrebbe potuto essere stabilita sul Reno, ma è più probabile che sarebbe stata eretta lungo la linea della Somme, dei Vosgi, lo Jura e le Alpi”[68].
L’uso di armi nucleari tattiche, poi, “era ugualmente inaccettabile, dato che persino uno scambio nucleare tattico avrebbe completamente schiacciato l’Europa per 1.800 miglia dall’Atlantico alla frontiera sovietica”[69].
KENNEDY cercò di sgombrare il campo da queste apprensioni con tutti i mezzi, ma, dopo la sua decisione, in seguito alla crisi di Cuba, di ritirare i missili IRBM, basati appunto sul Vecchio Continente, i malumori aumentarono, tanto che il professor KISSINGER, allora consigliere speciale della Casa Bianca fu inviato, nel gennaio 1963, in visita nelle capitali europee, per attenuare le preoccupazioni degli alleati.
KISSINGER portava con sé anche un dono, che secondo KENNEDY avrebbe calmato gli animi, rassicurando i governi alleati. Infatti, il professore aveva avuto l’incarico di offrire la costituzione di una “Forza Nucleare Multilaterale (MLF), con i Paesi che lo desiderassero”[70].Si trattava del progetto di assegnare alla NATO una serie di navi mercantili, dotate di missili a medio raggio, e armate da equipaggi provenienti da tutte le Nazioni NATO. L’ordine di lancio sarebbe spettato appunto all’Organo di Vertice dell’Alleanza.
Questo progetto, tra l’altro, rispondeva anche all’esigenza, avvertita dall’Amministrazione USA, di scoraggiare la Francia, ormai da tempo impegnata a costruirsi un proprio strumento di dissuasione nucleare, malgrado il boicottaggio di Washington, che le aveva negato il trasferimento della tecnologia con la motivazione ufficiale che, un tale deterrente, al di fuori della NATO, non era costo-efficace.
I maligni pensarono subito, invece, che tale impresa, da parte della Francia, costituiva una minaccia al monopolio nucleare americano, e i sospetti aumentarono quando iniziarono i colloqui bilaterali tra USA e URSS per il controllo degli armamenti strategici, il cui primo risultato fu il bando degli esperimenti nucleari nell’atmosfera, nel mare e, in parte, sotto terra, che apparvero un altro ostacolo a quel fenomeno che fu poi chiamato la “proliferazione nucleare”.
Va detto che, anche al di là della Cortina di Ferro, una disputa analoga a quella tra Washington e Parigi, ma anche più profonda, era in corso tra Cina e URSS, con l’effetto della grave rottura della collaborazione tra i due Stati, culminata in violenti scontri lungo la frontiera siberiana, negli anni successivi.
Per quanto riguarda l’Europa, però, come osservava KISSINGER, “dopo la crisi di Berlino (del 1961), non vi erano più state sfide frontali da parte dei Sovietici agli interessi occidentali in Europa”[71]. Anche se l’accerchiamento dell’Europa, mediante la creazione di basi sovietiche in Nord Africa, specie in Egitto, proseguiva, la possibilità di una guerra totale tra i due Blocchi diminuiva visibilmente.
Questo periodo, fu poi denominato quello della “Distensione”, sia pure caratterizzato da alti e bassi, questi ultimi particolarmente seri, come nel caso dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia nel 1968.
Il nuovo clima consentì a molti governi europei l’avvio di una strategia di cooptazione commerciale dell’URSS e dei Paesi del Patto di Varsavia, con lo scopo di sventare le minacce all’Europa mediante una crescente interdipendenza economica tra le Nazioni poste ai due lati della Cortina di Ferro. Oltre alla “Ostpolitik” della Germania, iniziata già negli anni 1963-64, possiamo ricordare la fabbrica di automobili impiantata dalla FIAT a Togliattigrad, ma le iniziative in tal senso si moltiplicarono con gli anni, conseguendo un notevole successo.
Nel frattempo, gli eventi avevano fatto passare in secondo piano il problema della revisione della strategia dell’Alleanza: infatti, prima vi fu l’uscita della Francia dalla struttura militare della NATO, annunciata nel marzo 1966, che portò il NAC a decidere il trasferimento del Quartier Generale alleato da Parigi a Bruxelles, nell’ottobre 1967; quindi il deterioramento della situazione in Asia Sud-Orientale, attirò l’attenzione generale, inducendo a riporre temporaneamente in un cassetto i progetti di riforma strategica.
Ma, ormai lontano dai clamori dei media, e una volta assorbite le conseguenze del parziale ritiro francese, che comportarono, tra l’altro, la costituzione del Comitato per la Pianificazione della Difesa/DPC (in pratica il NAC senza la Francia), e il trasferimento di SHAPE da Fontainebleau a Mons, nel sud del Belgio, la NATO riprese il lavoro per sostituire la strategia della “Rappresaglia Massiccia” con quella della “Risposta Flessibile”.
Essendo necessario convincere le Nazioni restie ad accettare la nuova strategia, si procedette in modo metodico, ancorché graduale: “il 7 ottobre 1966, una sessione informale del Comitato Militare valutò di nuovo la minaccia alla NATO e riesaminò gli obiettivi strategici alleati regione per regione. Quindi il Comitato si espresse in favore di una maggiore flessibilità di scelta, da parte alleata, nel confrontarsi con le varie situazioni contingenti”[72].
Nel dicembre successivo, i Capi di Stato Maggiore della Difesa concordarono “la preparazione di un documento in bozza, per rimpiazzare (quello esistente), lo MC 14/2. L’approvazione politica venne l’11 maggio 1967, quando il DPC, in Sessione Ministeriale, emanò la sua direttiva alle Autorità Militari”[73], la “Guida Ministeriale”.
In tale documento, veniva segnalata, anzitutto, la convinzione dei Ministri che “per un attacco diretto esclusivamente o inizialmente contro una regione dei fianchi NATO (Norvegia e Mediterraneo), le debolezze militari locali potranno molto probabilmente influenzare la scelta di azione di un aggressore in favore della (ricerca della) sorpresa”[74], mentre nella regione centrale, dove era più probabile un attacco massiccio, “possiamo attenderci qualche indicazione militare della concentrazione, con una stima che copre l’intervallo da 4 a 15 giorni nel contesto di un attacco con 80 Divisioni”[75].
Detto questo, i Ministri concentravano la loro attenzione sulla necessità di “assicurare la deterrenza e, se necessario contrastare l’aggressione”[76], puntando sulla triade costituita dalle forze nucleari strategiche, dalle forze nucleari tattiche e sulle forze convenzionali, che “avrebbero dovuto essere costituite in modo da dissuadere e contrastare con successo, nei limiti massimi possibili, un attacco limitato non-nucleare e dissuadere ogni attacco maggiore non-nucleare con la prospettiva di ostilità non-nucleari su una scala che potrebbe comportare un grave rischio di espansione a una guerra nucleare”[77]
Quindi, veniva ribadita la priorità della “difesa diretta, (che) richiedeva forze efficaci nella difesa il più avanzata possibile su terra e sul mare, ovunque avesse luogo un’aggressione”[78], per poi affermare che: “il concetto generale strategico per la NATO dovrebbe essere rivisto per consentire alla NATO una maggiore flessibilità e per prevedere l’impiego più appropriato di una o più (tra le opzioni) di difesa diretta, espansione deliberata e risposta nucleare generale”[79].
Come nota ancora Pedlow, “in tal modo la caratteristica chiave della nuova strategia della NATO che stava evolvendo nel 1967 non era solo la flessibilità, che (peraltro) era già stata, entro certi limiti, una caratteristica dei precedentidocumenti strategici NATO, bensì (anche) l’idea di espansione (escalation), che sarebbe stata poi sviluppata ulteriormente nei nuovi documenti strategici MC 14/3 (Concetto Strategico) e MC 48/3 (Misure attuative)”[80].
Che gli animi non si fossero completamente calmati, anche dopo tutti questi eventi è testimoniato non solo da alcune differenze, pudicamente definite “terminologiche”, che saranno evidenziate più oltre, ma anche dal fatto che, mentre il primo dei due documenti venne promulgato dal Comitato Militare il 12 dicembre 1967, il secondo – che specificava le tipologie di forze da generare, da parte delle Nazioni – venne approvato solo il 4 dicembre 1969, ovvero ben due anni dopo.
Questi erano i segni che, una volta accettato, sia pure di malavoglia, il concetto strategico della “Risposta Flessibile”, le Nazioni avevano dedicato un’attenzione particolare alle misure attuative, per evitare di trovarsi danneggiate oltre un certo limite, specie sul piano finanziario.
Ma esaminiamo prima il Concetto Strategico, lo MC14/3. Questo documento, anzitutto, spiegava bene il concetto di flessibilità, appena accennato nella Guida Ministeriale, definendolo come la capacità “che impedirà al potenziale aggressore di predire con sicurezza la risposta specifica della NATO all’aggressione e che lo porterà a concludere che (un tale atto) avrebbe comportato un inaccettabile livello di rischio, a prescindere dalla natura dell’attacco”[81].
Interessante, nella lettera di inoltro, era poi l’ammissione che “la terminologia del documento strategico cambiava, sotto alcuni aspetti, rispetto a quella della Guida Ministeriale”[82], come si è accennato. Il documento, infatti, presentava una serie di differenze concettuali, rispetto ad essa. Anzitutto, esso poneva l’enfasi sul mantenimento della “difesa avanzata”[83], un concetto in vigore fin dagli albori dell’Alleanza, sul quale i Ministri, come si è visto, si erano mostrati più possibilisti.
La seconda differenza consisteva nell’enfasi sul possibile uso, da parte dei Sovietici, di “capacità chimiche e possibilmente biologiche”[84], una possibilità non considerata dai Ministri; inoltre, si enfatizzava in rischio che i Sovietici “potessero impegnarsi in azioni occulte per fomentare disordini, insicurezza e sovversione, al fine di creare condizioni favorevoli da sfruttare successivamente”[85].
Infine, un’altra differenza rispetto alla Guida Ministeriale riguardava il pericolo che “i Sovietici tentassero di sfruttare ogni debolezza entro (ma anche) al di fuori dell’area NATO, al fine di rafforzare la propria posizione quale potenza mondiale”[86].
Questa affermazione rifletteva le preoccupazioni del Comitato Militare per la “Strategia Periferica” sovietica, che non solo era stata evidenziata dalla crisi di Cuba, ma creava una situazione sempre più difficile nel Mediterraneo, dove i Sovietici, poco dopo la “Guerra dei Sei Giorni” tra Israele e i Paesi Arabi, avevano potuto installarsi con una loro Squadra Navale nei porti egiziani e siriani, oltre a posizionare periodicamente alcune navi negli ancoraggi più prossimi ai passaggi obbligati, per manifestare la propria presenza.
L’aspetto di tale situazione nel fianco sud dell’Alleanza, che il Comitato Militare temeva di più, era “la possibilità di ostilità derivanti da incidenti o da calcoli errati, che potessero espandersi in (un conflitto) di maggiore intensità”[87], una considerazione dovuta al fatto che unità navali sovietiche di superficie e subacquee erano sempre più impegnate a seguire da vicino i gruppi navali con portaerei americane operanti nel Mediterraneo.
Queste navi sovietiche non solo disturbavano le attività delle portaerei, ma soprattutto ponevano la minaccia di un attacco improvviso mediante i missili antinave, la cui efficacia era stata dimostrata, pochi mesi prima, il 12 ottobre 1967, con l’affondamento del cacciatorpediniere israeliano Eilat, impegnato nel pattugliamento delle acque antistanti Alessandria, da parte di alcune unità missilistiche che l’URSS aveva da poco concesso all’Egitto.
Passando poi al documento applicativo, lo MC 48/3, si notano ulteriori differenze rispetto alle due precedenti direttive, malgrado esse fossero, almeno in teoria, sovraordinate rispetto ad esso. Infatti:
- Nel parlare delle implicazioni del Concetto Strategico, lo MC 48/3 legava il concetto di “Risposta Flessibile” ai tre tipi previsti di reazione, ovvero “la difesa diretta, l’espansione deliberata e la risposta nucleare generale”[88], rendendolo così più rigido;
- Nel cercare di indicare la durata delle operazioni, il documento affermava che “l’uso tempestivo (e) appropriato delle armi nucleari tattiche potrebbe fermare l’aggressore, ma una volta che le armi nucleari saranno introdotte, il conflitto potrà essere molto difficile da controllare”[89];
- Per seguire gli sviluppi in caso di tensione, lo MC 48/3 stabiliva che “una ricognizione efficace e forze di sicurezza devono essere dispiegate per fornire un’allerta tattica dell’attacco e per coprire il dispiegamento delle forze NATO. (Inoltre), per evitare attacchi di sorpresa da parte di navi e sommergibili, e per allertare sull’avvicinarsi delle ostilità, un’efficace sorveglianza marittima e un sistema di allarme sono anche necessari”[90];
- Per aumentare la capacità di resistenza, in caso di attacco massiccio non-nucleare, il documento prevedeva poi di “sviluppare e mantenere un sistema efficace e le procedure per una veloce mobilitazione ed espansione delle forze”[91], introducendo quindi il concetto di forze di riserva.
Nelle conclusioni, infine, lo MC 48/3 dichiarava apertis verbis ciò che i due documenti precedenti avevano solo adombrato: “esiste la necessità di rafforzare le forze convenzionali in potenza per assicurare la credibilità dell’opzione convenzionale della strategia”[92].
Questo era, e sarà negli anni a venire, il nodo principale sul quale si scontreranno da una parte la riluttanza europea a incrementare le dimensioni del proprio strumento militare e dall’altra l’insistenza americana affinché gli Alleati del Vecchio Continente sostenessero spese maggiori per la difesa, in nome di un’equa divisione degli oneri (burden sharing). L’Alleanza, a decenni di distanza, discute ancora su questo spinoso argomento.
La Strategia nazionale di sicurezza USA
La fine della Guerra Fredda orientò la NATO verso altri obiettivi, primo fra tutti la gestione delle crisi, un modo per assicurare la sopravvivenza dell’Alleanza anche dopo la fine del nemico sovietico; garantire, infatti, la sicurezza dei Paesi membri, in un mondo la cui evoluzione verso nuovi equilibri era oltremodo turbolenta, era una missione molto popolare presso i governi alleati, che cercavano il modo di stabilizzare i focolai di crisi che si manifestavano con sempre maggiore frequenza.
Questo orientamento della NATO, ancora una volta, era in piena consonanza con quanto le Amministrazioni USA desideravano: la pace, la stabilità e la legalità sono, infatti, i tre prerequisiti per ogni espansione commerciale, e gli USA, lanciando la globalizzazione come strumento di espansione commerciale, ne avevano oltremodo bisogno.
Ancora una volta, però, la sproporzione tra fine e mezzi divenne evidente, quando fu deciso di passare dalla stabilizzazione di piccole enclave, come la Bosnia, la FYROM[93] e il Kosovo, oppure di piccole Nazioni, come l’Albania, a operazioni di “Peace Enforcement” (Imposizione della Pace) in Paesi di dimensioni molto maggiori, come l’Afghanistan.
Non a caso il Concetto Strategico NATO del 2010 evidenziava la necessità di una maggiore cautela nella scelta dei Paesi da stabilizzare, con un paragrafo molto chiaro: “Crises and conflicts beyond NATO’s borders can pose a direct threat to the security of Alliance territory and populations. NATO will therefore engage, where possible and when necessary, to prevent crises, manage crises, stabilize post-conflict situations and support reconstruction”[94].
Appunto la frase sottolineata, “where possible and when necessary” richiamava l’esigenza di scegliere bene dove e come operare, evitando imprese troppo ambiziose (Esame di Fattibilità) e agendo solo dove fosse strettamente indispensabile (Esame di Necessarietà).
Non a caso, già in quegli anni, si era levata la voce di alcuni tra i più attenti studiosi americani che sostenevano, per gli USA, che, da una parte, “fixing Mexico is more important than fixing Afghanistan”[95] e che, dall’altra parte, per gli USA, “geographic isolation is a strategic blessing, and should not be squandered by an expeditionary strategy”[96].
Queste due affermazioni erano il modo per adombrare la necessità di una sorta di “Ripiegamento Strategico” per gli USA, logorati com’erano da un eccesso di impegni oltremare. La volontà americana di combattere le “Small Wars” in giro per il mondo stava già venendo meno, il che mostrava come il Concetto strategico NATO non facesse altro che evidenziare questa nuova tendenza.
Dietro queste perorazioni vi era la necessità, per gli USA, di ridurre le spese per gli impegni oltremare, in modo da ridare fiato all’economia del Paese, con buona pace degli impegni assunti nei confronti degli Alleati.
Ci sono voluti alcuni anni perché tale esigenza fosse fatta propria da un’Amministrazione di Washington. Infatti, si è dovuto attendere il 2017 affinché essa diventasse un presupposto della strategia USA.
Nel dicembre 2017, infatti, è stata pubblicata la “National Security Strategy of the United States of America”, un documento che nella pagina iniziale riporta una dichiarazione firmata direttamente dal Presidente Trump, che ricorda:
– di voler rendere l’America di nuovo grande: un’ammissione delle difficoltà che gli USA stanno vivendo;
– di aver “promesso (durante la campagna elettorale) che la sua Amministrazione avrebbe posto la sicurezza, gli interessi e il benessere dei propri cittadini come primo obiettivo. Noi abbiamo promesso di rivitalizzare l’economia Americana, ricostruire il nostro (strumento) militare, difendere le nostre frontiere, proteggere la nostra sovranità e diffondere i nostri valori”[97].
Il quadro di situazione descritto nel documento, infatti, non è per niente roseo. Come scritto dallo stesso Presidente, nel prosieguo della sua introduzione, all’inizio del suo mandato “regimi criminali stavano sviluppando armi nucleari e missili per minacciare l’intero pianeta. Gruppi islamisti terroristi radicali prosperavano. I terroristi avevano preso il controllo di vaste aree del Medio Oriente. Potenze rivali stavano danneggiando aggressivamente gli interessi americani in giro per il mondo. In Patria, frontiere porose e leggi di immigrazione non applicate avevano creato una serie di vulnerabilità. Cartelli criminali portavano droga e pericoli nelle nostre comunità. Pratiche commerciali sleali avevano indebolito la nostra economia ed esportato posti di lavoro oltremare. Un’ingiusta spartizione degli oneri con i nostri alleati e investimenti inadeguati nella nostra difesa avevano favorito pericoli da parte di coloro che desiderano danneggiarci”[98].
Passando al contenuto del documento strategico, tale situazione si precisa nei dettagli e vengono stabiliti quattro pilastri della strategia di sicurezza nazionale che, in ordine di priorità, sono:
- Proteggere gli Americani, il Paese, e il modo di vivere americano, rendendo sicure le frontiere e il territorio americano, contro minacce quali le armi di distruzioni di massa, il terrorismo e l’immigrazione. Contro il terrorismo, in particolare, la strategia intende, “insieme agli alleati e ai partner, rimanere all’offensiva contro quei gruppi non-statuali che intendono colpire gli Stati Uniti e i loro alleati”[99];
- Promuovere la prosperità dell’America, mediante una serie di misure economiche per equilibrare la bilancia degli interscambi commerciali;
- Preservare la pace attraverso la forza, alternando “la ricerca di aree di cooperazione da una posizione di forza”[100] con lo sviluppo di nuovi concetti e capacità, dato che, con il ritorno della “competizione tra grandi potenze, (le potenze concorrenti) stanno mettendo in campo capacità militari intese a negare l’accesso USA in tempi di crisi e per contrastare la nostra capacità di operare liberamente in zone critiche del commercio in tempo di pace”[101]. Secondo il documento, infatti, “la deterrenza oggi è notevolmente più complessa da conseguire”[102], dato che i concorrenti hanno sviluppato armi accurate e poco costose, nonché le armi cibernetiche, e sono in grado di “operare al di sotto della soglia del conflitto militare palese e ai limiti del Diritto Internazionale”[103].
- È quindi necessario conseguire una forza militare soverchiante (Overmatch) per “scoraggiare i potenziali nemici mediante la negazione, convincendoli che essi non potranno conseguire obiettivi mediante l’uso della forza o altre forme di aggressione”[104].
- Aumentare l’influenza americana nel mondo, incoraggiando potenziali partner, acquisire maggiori risultati nei consessi internazionali, e propagandare i valori americani.
Il documento, infine, esamina le strategie da seguire nei vari contesti regionali, prevedendo un approccio differenziato per ognuno di essi. Gli approcci da seguire, però, sono molto simili tra loro, e consistono nel mantenere una forte presenza militare nelle aree minacciate, incoraggiare e assistere i partner nello sviluppare le loro economie, la loro capacità di sicurezza, specie nel combattere il terrorismo e nella sicurezza cibernetica.
Significativo è il passo che parla dell’Europa, la cui prosperità è ritenuta fondamentale per gli USA; ma gli Europei devono comprendere che “la NATO diverrà più forte (solo) se tutti i Paesi membri assumeranno maggiori responsabilità e pagheranno (sic) la loro giusta parte per proteggere i nostri interessi comuni, la loro sovranità e i valori”[105].
In sintesi, il documento dà una priorità massima alla sicurezza degli Stati Uniti contro le minacce dirette al proprio territorio, e, per quanto concerne le azioni oltremare, punta all’uso della forza militare USA in funzione di presenza dissuasiva, per prevenire le aggressioni, limitando gli impegni diretti alla lotta contro le organizzazioni terroristiche, agendo alla fonte della minaccia; per il resto, gli USA intendono agire indirettamente, aiutando i Paesi alleati e partner a conseguire maggiori capacità di azione, in modo da limitare gli impegni diretti delle forze americane.
Si può affermare, quindi, che gli Stati Uniti hanno sanzionato, in questo documento, la loro volontà di effettuare un “Ripiegamento Strategico”, limitando al massimo i propri impegni diretti, nell’uso della forza, all’eradicazione dei nidi del terrorismo, alla dissuasione e a una presenza, sia pure minacciosa, nelle aree in cui la competizione e le crisi sono più evidenti.
Conclusioni
La nuova strategia USA è destinata a creare imbarazzi tra i governi europei, un po’ come avvenne a suo tempo per la strategia della “Risposta Flessibile”: all’epoca, gli USA, ma anche i Paesi NATO dell’Europa, dovettero rinunciare alla confortevole sicurezza che derivava dalla minaccia di un uso massiccio e automatico dell’arma nucleare, in caso di aggressione. Ora i Paesi europei si trovano a essere maggiormente responsabilizzati rispetto al passato, e devono prepararsi a gestire crisi nella propria area d’interesse praticamente da soli.
Ogni riluttanza al cambiamento è umanamente comprensibile, ma fondamentalmente errata: infatti, in caso di confronto tra potenze o blocchi avversari, ogni strategia dell’uno provoca una contro-strategia da parte dell’altro, dando luogo a quella che è stata chiamata “l’arte della dialettica delle volontà”[106], o meglio “la dialettica delle intelligenze”[107]. Se non si adegua la strategia, per tenere il passo con questa dinamica, si corrono seri rischi di sconfitta.
Negli anni 1960 la situazione era almeno chiara: l’Unione Sovietica, trovandosi bloccata dalla minaccia da parte dell’Occidente di una reazione generale mediante l’uso dell’arma atomica, aveva abbandonato l’idea di uno scontro frontale, adottando una “Strategia Periferica”, ben definita da MCNAMARA come la “tecnica delle fette di salame”[108], favorendo una serie di conflitti limitati e di insurrezioni, in giro per il mondo.
L’Occidente, se avesse perseguito la strategia della “Rappresaglia Massiccia”, si sarebbe trovato pertanto nell’alternativa tra il provocare una catastrofe mondiale e la rassegnazione a vedere erosa la propria zona di influenza: in poche parole, la sconfitta a piccoli passi. Per questo era logico il ricorso a una diversa strategia, appunto quella della “Risposta Flessibile”, che avrebbe lasciato nell’incertezza l’avversario sull’entità e il punto di reazione.
Il problema, ben visto fin dall’inizio dal generale Maxwell TAYLOR, era però che la nuova strategia comportava una serie di scelte “intelligenti”, tali da evitare il logoramento, specie nei teatri periferici, se gli interventi per frenare l’espansione delle zone di influenza sovietiche si fossero rivelati troppo onerosi o prolungati.
E proprio le “teste d’uovo” kennediane caddero in questo tranello: infatti, il debutto della nuova strategia, per gli Stati Uniti, portò anzitutto a un peggioramento dell’economia americana, e, pochi anni dopo, alla tragedia della guerra in Vietnam, che ridusse, almeno per un decennio, la capacità del governo di Washington di influenzare gli eventi nel mondo.
La lezione vietnamita, però, non è stata appresa del tutto negli USA, e il perseguimento della strategia della “Risposta Flessibile”, è rimasto per anni alla base della strategia americana sia pure sotto altre forme, dando luogo a interventi non sempre coronati dal successo, come quello in Afghanistan.
Oggi, gli Stati Uniti si stanno dimostrando sempre più riluttanti a togliere le castagne dal fuoco per conto altrui, specie in Europa e, con la nuova strategia, fanno appello sempre più ai propri alleati affinché essi forniscano un contributo valido ed efficace alla lotta dell’Occidente per mantenere la propria valenza militare.
Va detto che questo atteggiamento non è nuovo, e non deve meravigliare che la Presidenza USA insista per ottenere un maggiore impegno da parte alleata, esattamente come EISENHOWER intendeva fosse fatto dalla NATO, dove i Paesi dell’Europa Occidentale, secondo lui, avevano il compito di fornire le forze terrestri, mentre gli USA avrebbero provveduto a sostenerli e a fornire il proprio potenziale bellico aereo e navale, malgrado una tale situazione, all’epoca della Guerra Fredda, comportasse una perdita di sovranità da parte degli Europei, le cui capacità di azione erano null’altro che un supplemento alla potenza militare USA.
Per tali ragioni, quanto raccontato nelle pagine precedenti è un esempio di una situazione ricorrente, nei rapporti transatlantici. Gli Stati Uniti hanno sempre cercato di delimitare, contenendoli, gli impegni nei confronti degli Alleati, convinti che gli Europei abbiano sempre cercato di essere “consumatori di sicurezza”, sotto l’ombrello americano.
Questa situazione è ancor più vera oggi. Impegnati a contenere la crescente instabilità dell’Asia, e con il “cortile di casa” – il continente americano – sempre più ostile, gli Stati Uniti sono arrivati alla conclusione che non conviene loro agire in prima persona in tutte le circostanze, tanto da adombrare un vero e proprio “Ripiegamento Strategico”.
L’Europa ha dovuto prendere atto di questa realtà ed è costretta a porsi il problema della difesa e sicurezza collettive. Di conseguenza, è giunta l’ora per l’Europa di fare di più, per acquisire una posizione di complementarietà, abbandonando la tentazione di essere ancora un semplice supplemento degli USA: le sfide che l’Europa dovrà gestire da sola sono destinate a diventare sempre più numerose, nei prossimi anni, ed è bene prepararsi in tal senso. Il tanto criticato DE GAULLE, in fondo, aveva precorso i tempi, nel prevedere tale necessità!
[1] R. M. TAYLOR. The Uncertain Trumpet. Ed. Harper & Brothers, 1959, pag. 57.
[2] J.F. KENNEDY. Strategia di Pace. Ed. Mondadori, 1960, pag. 23.
[3]US NATIONAL SECURITY COUNCIL. Document NSC 162/2, 30 October 1953, para 1.
[4]Ibid. para 15 b.
[5]Ibid. para 12 d.
[6]Ibid. para 34 a.
[7]Ibid. para 39 b.
[8] Ibid. art. 13 a.
[9] Ibid, para 13 b.
[10] Ibid. para 42 b.
[11]J. M. TAYLOR. General Maxwell Taylor. Ed. Doubleday, 1989, pag. 155-156.
[12]J. FOSTER DULLES. Evolution of Foreign Policy. University of Minnesota, 1954, pag. 1.
[13] Ibid.
[14]Ibid.
[15] Ibid.
[16] D. D. EISENHOWER. Mandate for Change. Ed. Doubleday & Co, 1963, pag. 446-447.
[17]J. M. TAYLOR. Op. cit. pag. 205.
[18]J. GAVIN. War and Peace in the Space Age. Ed. Harper &Brothers, 1958, pag. 173.
[19]J.M. TAYLOR. Op. cit. pag. 204.
[20]Il titolo esatto della carica, negli USA, è quello di “Presidente dei Capi di Stato Maggiore Riuniti”
[21]Lo Standing Group era un organo tripartito, costituito da un rappresentante per ogni potenza maggiore (USA, UK e Francia), che costituiva il collegamento tra i Comandi Operativi e l’organo politico di vertice, il Consiglio dell’Atlantico del Nord (NAC).
[22]G. PEDLOW. The Evolution of NATO Strategy, 1949-1969. Introduzione alla pubblicazione NATO Strategy Documents 1949-1969 pag. XVII.
[23] B. CHAPMAN. Military Doctrine. A Reference Handbook. Ed. Praeger Security International, 2009, pag. 125.
[24]W. W. ROSTOW. The United States in the World Arena. Ed. Harper & Brothers, 1960, pag. 334.
[25] SACEUR è l’acronimo per Supreme Allied Commander Europe.
[26]J. M. TAYLOR. Op. cit. pag. 193.
[27] J.M. TAYLOR. Op. cit. pag. 214.
[28] Ibid.
[29]W.W. ROSTOW. Op. cit. pag. 366.
[30] R.M. TAYLOR. Op. cit. pag. 9.
[31] Ibid. pag. 218.
[32] B.BRODIE. Strategy in the Missile Age. Princeton University Press, 1959, pag. 396
[33]P. F. WITTERIED. A Strategy of Flexible Ressponse. US Army War College, 1972, pag. 4.
[34] B. H. LIDDELL HART. Deterrent or Defense. A fresh look at the West’s Military Position. Ed. Praeger, 1960, pag. 55.
[35]W.W. ROSTOW. Op. cit. pag. 371.
[36]R. M. TAYLOR. Op. cit. pag. 139.
[37]Ibid. pag. 158-160.
[38]Ibid. pag. 146.
[39]P. F. WITTERIED. Op. cit. pag. 6.
[40]Ibid..
[41]S. G. GORSHKOV. The Sea Power of the State. Pergamon Press, 1979, pag. 2.
[42]Ibid. pag. 4.
[43]Ibid. pag. 246.
[44]P. F. WITTERIED. Op. cit. pag. 7.
[45]Ibid. pag. 8.
[46]Ibid.
[47] Ibid.
[48] Ibid.
[49]Discorso di Mc Namara all’Università del Michigan, AnnArbour, 9 luglio 1962.
[50]Ibid. pag. 11.
[51]Ibid.
[52]Ibid. pag. 10.
[53]W.S. POOLE. Adapting to Flexible Response. 1960-1968. Historical Office, Office of Secretary of Defence, pag. 5.
[54]Ibid. pagg. 5-6.
[55] Ibid. pag. 8.
[56] Ibid. pag. 10.
[57]P. F. WITTERIED. Op. cit. pag. 10.
[58]Ibid. pag. 342
[59]Ibid.
[60]G. MAMMARELLA. L’America da Roosevelt a Reagan. Ed. Laterza, 1984, pag. 332.
[61]G. W. PEDLOW. Op. cit. pag. XXIII.
[62]Ibid.
[63]Ibid.
[64] G. MAMMARELLA. Op. cit. pag. 358.
[65] Ibid.
[66] Ibid.
[67] P.F. WITTERIED. Op. cit. pag. 12.
[68] Ibid. pag. 13.
[69]Ibid.
[70] A. CAGIATI. Evoluzione dell’Alleanza Atlantica verso un ampliato e rafforzato Occidente. Ed. FrancoAngeli, 2009, pag. 77.
[71]H. KISSINGER. Diplomacy. Ed.Simon & Schuster, 1994, pag. 617.
[72]Ibid. pag. XXIV.
[73]Ibid.
[74] Annex II to DPC/D (67)23, para 13.
[75] Ibid. para 14.
[76] Ibid. para 17.
[77] Ibid. para 17 (c).
[78] Ibid. para 19.
[79] Ibid. para 25.
[80] G. PEDLOW. Op. cit. pag. XXIV.
[81]MC 14/3 del 12 settembre 1967, Enclosure I para 16 c.
[82]MC 14/3, (cover letter) para 4.
[83]Enclosure I to MAC 14/3, para 2.
[84] Ibid. para 5 b.
[85] Ibid. para 9.
[86] Ibid. para 3.
[87] Ibid. para 13.
[88]Enclosure I to MC 48/3, 6 May 1969, para 5 e.
[89] Ibid. Para 8.
[90] Ibid. para 9.
[91]Ibid, para 16.
[92] Ibid. para 20 a.
[93]FYROM significa FormerYugoslav Republic of Macedonia, ora ridenominata “Macedonia del Nord”, grazie all’accordo tra il governo di Skopje e quello di Atene.
[94]NATO Strategic Concept, 2010, para 20.
[95] R. D. KAPLAN. The Revenge of Geography. Ed. Random House, 2012, pag. 340.
[96] Ibid. pag. 327.
[97]US NATINAL SECURITY STRATEGY, December 2017, lettera introduttiva di presentazione presidenziale.
[98]Ibid.
[99] Ibid. pag. 10.
[100] Ibid. pag. 26.
[101] Ibid. pag. 27.
[102]Ibid.
[103] Ibid.
[104] Ibid. pag. 28.
[105] Ibid. pag. 48.
[106] A. BEAUFRE. Introduction à la Stratégie. Ed. Pluriel, 1998, pag. 34.
[107] H. COUTAU- BÉGARIE. Traité de Stratégie. Ed. Economica, 2006, pag. 73.
[108]R. MCNAMARA. Discorso di Ann Arbour, cit.