scarica il file in pdf – il coronavirus e l’Africa – fusar poli – maggio 2020
L’impatto del Coronavirus sul continente africano
Davide Fusar Poli
Introduzione
Nelle ultime settimane, dopo una prima serie di sporadici casi d’importazione, si sono attivate anche nel continente africano catene di trasmissione interne. Ad oggi, secondo i dati ufficiali, il virus starebbe circolando con un certo ritardo e con minor forza rispetto ad altre regioni . Non mancano tuttavia timori circa gli effetti che il nuovo Coronavirus potrebbe produrre sulle popolazioni africane e sui fragili e limitati servizi sanitari continentali . Oltre a ciò, un secondo e più pressante allarme proviene dalla sfera socioeconomica, dove gli effetti indiretti della pandemia minacciano di far piombare l’Africa in una situazione di grave bisogno e d’instabilità. Se questo pessimistico scenario dovesse avere la meglio, innescherebbe senza dubbio una serie di dinamiche che interesserebbero direttamente l’intero bacino del Mediterraneo e l’Europa.
Esiste da anni, tra le due sponde del Mediterraneo, una tensione carsica che – ancor prima che il virus si manifestasse – correva lungo due linee di faglia. Quella dell’occupazione lavorativa, sintetizzabile nel concetto di “opportunità di vita”: la possibilità – o meno – di crearsi una vita soddisfacente. Ed in seconda battuta, quella riconducibile al quadro di sicurezza e stabilità del continente africano. Quest’ultimo aspetto ricopre un’importanza centrale, in quanto premessa ad uno sviluppo armonico ed inclusivo. Un eventuale sfaldamento dell’assetto sociopolitico porterebbe in dote caos ed insicurezza, povertà e fame, innescando effetti domino geograficamente diffusi. Una situazione che investirebbe la regione mediterranea – Italia in testa – e l’Unione Europea.
Europa ed Africa sono profondamente legate da un’esperienza storica comune, fatta certo di angherie e rapporti diseguali, ma arricchita, allo stesso tempo, da proficue relazioni umane, commerciali e culturali, in entrambe le direzioni: basti ricordare come il 32% del commercio africano è diretto verso l’Unione Europea (il 17% avviene con la Cina, il 6% con gli Stati Uniti). Il Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha inaugurato il suo mandato con una chiara affermazione programmatica: un rinnovato interesse verso la frontiera meridionale del Vecchio continente . Lo scorso febbraio il primo viaggio internazionale del Presidente è stato proprio in Africa, ad Addis Abeba, sede dell’Unione Africana. Una strategia d’avvicinamento dettata da un rapporto sempre più complesso e difficoltoso con il mondo anglosassone, che si somma ad una relazione definibile quantomeno come sfaccettata con Mosca e Pechino. Ecco perché in dicembre, i Ministri degli Esteri dei Paesi dell’Unione Europea hanno dichiarato il 2020 come “pivotal year” della relazione con l’Africa . Un interesse dettato dal grande potenziale economico di un mercato formato da 1,2 miliardi di consumatori, peraltro in pieno boom demografico. Oltre all’aspetto commerciale, nell’agenda programmatica sono presenti l’annosa questione della gestione delle migrazioni e la preoccupazione securitaria . L’inaspettato affioramento del coronavirus mette in discussione, o forse meglio dire alla prova, questo riassestamento della politica estera europea in direzione del continente africano.
La battaglia contro il virus, il sostegno economico, la creazione di un’ambiente sicuro e stabile, nonché il contenimento della sfera di influenza di Pechino nella regione, possono essere visti come i punti focali di questa relazione euro-africana. Su queste linee d’azione si gioca il futuro del rapporto bilaterale. La pandemia metterà in luce le contraddizioni prima celate dalla quotidianità. I prossimi mesi produrranno una serie di profondi cambiamenti: a seconda di come verranno affrontati e gestiti, definiranno il futuro dei territori che si affacciano sul Mar Mediterraneo.
L’emergenza sanitaria: luci ed ombre
A fine febbraio la Nigeria registrava il primo contagio dell’Africa Subsahariana, seguendo di poche settimane i primi casi accertati in Algeria ed in Egitto . Non più tardi della prima metà di aprile, tutti i Paesi della regione avevano individuato almeno un paziente affetto da Coronavirus . Sebbene la pandemia coinvolga da allora il continente nella sua interezza, le disuguaglianze in termini di minaccia potenziale, diffusione e capacità di risposta erano e restano molto variegate fra i Paesi dell’Africa. Forza economica, livello d’apertura alle reti della globalizzazione, densità abitativa, qualità del servizio sanitario e stabilità politica – per citare alcuni elementi chiave – variano largamente fra gli Stati della regione, influenzando il grado di rischio sanitario nonché le eventuali strategie per affrontarlo .
Ad un primo sguardo si può notare come la Pandemia abbia avuto una maggiore incidenza agli estremi della massa continentale: nel Maghreb ed in Egitto da un lato, nel Sudafrica dall’altro. Presenza di numerosi lavoratori cinesi, vicinanza geografica e livello di interscambio con l’Europa rappresentano le probabili motivazioni dei focolai del Nord Africa, così come la rilevanza economica del Sudafrica nelle strutture della globalizzazione ne aiuta a chiarire l’alto numero di contagiati. Un altro Paese con un grande livello di contatto internazionale è la Nigeria, in un’area del continente – quella dell’Africa occidentale – che, per le medesime motivazioni sopra citate, ha fatto registrare un terzo importante nucleo di infezioni. Una discriminante economica ha inciso di conseguenza – soprattutto nelle prime settimane – sulle probabilità di importare contagi dall’estero, mentre ora, dato che il Virus circola autonomamente nel continente, altri aspetti e vulnerabilità potrebbero divenire più rilevanti nel determinare il livello di diffusione della pandemia ed il grado di rischio del singolo Paese .
Un primo aspetto da considerare riguarda i servizi sanitari. L’Africa settentrionale e quella meridionale possono vantare una migliore organizzazione sanitaria, mentre, all’opposto, la regione sahelica e l’area centrale del continente si caratterizzano per una pronunciata fragilità. Ambedue risultano più esposte al Coronavirus in quanto contraddistinte – rispetto alle prime due regioni considerate – da una più elevata densità urbana e da un rapporto abitativo città-campagna sbilanciato a favore della prima, che si sommano alla scarsa trasparenza governativa, ad una stampa costretta ad operare tra mille vincoli, in contesti, per di più, spesso segnati da violenti conflitti e da un alto numero di rifugiati e profughi. Di contro, queste aree registrano un’età media inferiore rispetto al Maghreb (la popolazione più “anziana” della regione) ed alla porzione meridionale del continente (specialmente del Sudafrica) . Sebbene, nel complesso, si possa dunque affermare che il grado di rischio pandemico si concentri grossomodo nella sezione medio-superiore dello sterminato territorio africano, sinora il contagio si è sviluppato seguendo un’altra direzione, diffondendosi più intensamente nelle tre regioni prima indicate: Maghreb, Africa meridionale e Golfo di Guinea.
A dispetto di queste differenze, l’Africa è accumunata da una generalizzata impreparazione medica. Carenze di risorse, mezzi, infrastrutture e personale, nonché una sostanziale dipendenza – in termini di finanziamenti, medicinali ed equipaggiamenti – da Europa, Asia e Nord America, rappresentano le debolezze intrinseche della sanità continentale, la più fragile a livello globale . L’Africa spende circa la metà (5,2% del Pil) rispetto alla media mondiale (10% del Pil) per finanziare il proprio servizio ospedaliero , può contare su un numero di medici molto basso, pari a circa 2,2 ogni 10,000 abitanti (contro i 35 dell’UE) , e dispone di un numero di posti in terapia intensiva che in molti Paesi ammonta a poche centinaia, se non addirittura a poche decine di unità : il Sudafrica ne disporrebbe circa un migliaio, il Malawi ne avrebbe solo 25 per una popolazione che oltrepassa i 21 milioni di abitanti, mentre perfino un gigante del calibro della Nigeria si fermerebbe a 120 (0,07 letti ogni 100,000 abitanti rispetto ai 12,5 dell’Italia) . Dotazioni largamente insufficienti anche per quanto concerne i respiratori artificiali – decisivi per affrontare il Covid-19. Esplicativo, sotto ogni aspetto, il caso della Repubblica Centrafricana che ne possederebbe solo 3 esemplari, oppure della Costa d’Avorio – una delle economie più dinamiche degli ultimi anni – dove il numero di macchinari si attesterebbe tra le 70 e le 80 unità . Peraltro, variazioni importanti si segnalano non solo fra le diverse nazioni e regioni del continente, ma anche all’interno dei singoli Stati, dove di norma è distinguibile un netto contrasto tra l’ambito urbano e quello rurale. Ad esempio, più della metà dei medici ciadiani risiedono nella capitale N’Djamena , mentre, in tutta l’Africa, ospedali adeguatamente equipaggiati si trovano quasi esclusivamente nelle principali città.
Un ulteriore elemento di criticità strutturale è rappresentato dalla perdurante presenza di malattie endemiche come la malaria, il colera, la tubercolosi e l’AIDS – a cui si somma il fardello della malnutrizione, che colpisce il 40% dei bambini al di sotto dei 5 anni . Uno studio realizzato dalla Rand nel 2016 ha concluso che 22 tra i 25 Paesi più vulnerabili alle malattie infettive si trovano in Africa . Sempre nello stesso anno, il 56% delle morti registrate nel Continente dall’Organizzazione Mondiale della Sanità sono state attribuite alla voce “communicable (or infectious) diseases” . In particolare, le infezioni del tratto respiratorio inferiore hanno causato il maggior numero di decessi, seguite, in seconda posizione, dall’HIV ed in terza dalla dissenteria. La malaria, pur non comparendo sul podio, è stata responsabile, nel 2018, di circa 380.000 decessi (il 94% del totale mondiale) . Viceversa, le malattie associate ad alti standard di vita, quali infarto e ischemia, hanno provocato solamente il 34% delle morti. Nell’insieme la presenza di queste patologie definisce un quadro di debolezza diffuso, ben illustrato dalla percentuale di sieropositivi in Africa meridionale che viene stimata nell’ordine del 15%: l’aliquota più elevata a livello mondiale .
L’emergere di nuove malattie inoltre può rompere quel delicato equilibrio di fragilità nel quale si dibattono i servizi sanitari continentali. Si stima che l’epidemia di ebola del 2014-2015 in Guinea, Liberia e Sierra Leone abbia causato ulteriori 10.000 morti per altre malattie (malaria, HIV), trascurate a causa dello sforzo a cui furono sottoposti i servizi medici locali, intaccando altresì i livelli di salute di donne e bambini, declinati significativamente fin dall’esplosione del contagio . L’OMS ha sottolineato l’importanza di non trascurare le campagne in corso per contenere la diffusione delle patologie esistenti: la malaria potrebbe avere una significativa recrudescenza rispetto agli anni passati se il Covid-19 dovesse rallentare, o peggio ostacolare, gli sforzi e progressi fatti per estirparla .
Non mancano tuttavia alcuni aspetti positivi, peculiari al continente. Il primo e più rilevante riguarda l’età, fattore che incide notoriamente sull’esito della malattia. L’Africa subsahariana vanta un’età media di 18,7 anni e più della metà della popolazione continentale ha meno di 20, in confronto al 22% dei Paesi ad alto reddito. Numeri ancor più ragguardevoli se analizzati nel dettaglio e se rapportati alla demografia europea – ad oggi il territorio più drammaticamente colpito dal Nuovo Coronavirus. Particolarmente esplicativo il caso dell’Uganda – secondo Paese più giovane al mondo dopo il Niger – dove un terzo della popolazione ha meno di 10 anni e l’età media si attesta a soli 15,9 contro i 46,5 dell’Italia e i 47,8 della Germania .
La giovinezza della popolazione africana si manifesta anche nella esigua percentuale di ultrasessantenni rispetto al totale (appena il 2%). Questa perfetta ripartizione piramidale delle classi d’età rappresenta la prima e più cruciale linea di difesa contro il virus, e potrebbe consentire al continente di resistere meglio di altre regioni alla pandemia . Un secondo aspetto da considerare riguarda le lezioni apprese nel gestire passate emergenze sanitarie, come pure l’abitudine a rapportarsi quotidianamente con numerosi e diffusi malanni in un quadro di risorse limitate . L’aver affrontato, tra le altre, l’HIV/AIDS o l’ebola , rappresenta un bagaglio di conoscenze, capacità e pratiche che possono essere impiegate per affrontare la nuova pandemia. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha riconosciuto queste capacità pregresse, sottolineando come il virus possa ancora essere contenuto sul suolo africano . Inoltre, precedenti forme di coronavirus come SARS-CoV e MERS-Cov hanno interessato solo marginalmente l’Africa, per merito forse di una combinazione di fattori che include differenze immunologiche, vaccinazioni contro la tubercolosi e perfino l’impatto dei raggi UV sulle superfici ospitanti il virus . Anche il clima caldo e umido si ipotizza possa agire quale freno alla diffusione del virus .
In ultimo, la bassa mobilità delle popolazioni che risiedono nelle aree rurali, unito alla precoce risposta africana – quantomeno rispetto ad altre regioni – che ha portato alla chiusura delle frontiere ed a misure di distanziamento prima ancora che fossero registrati significativi focolai della malattia, potrebbero aver ridotto o rallentato la circolazione del virus quando questo era ancora ad uno stato embrionale.
Per concludere, è ugualmente necessario sottolineare come i dati relativi ai contagi e alla mortalità siano notoriamente inaffidabili, a tutte le latitudini, Africa inclusa . I Paesi classificati come low-income e lower-middle income countries (LICs e LMICs), pur avendo circa la metà della popolazione globale, costituiscono solamente il 2% delle morti causate dal Covid-19. Pertanto, la dicotomia registrata tra Nord globale e Sud globale, in termini di infezioni e morti, si potrebbe far anche risalire alle diverse capacità di captare e registrare quanto avviene sul territorio, configurando dunque una sovra-rappresentazione statistica delle nazioni più ricche . Lo stesso ragionamento può essere applicato alla regione africana, dove le istituzioni statali più solide e con maggiori disponibilità di risorse riescono a realizzare fotografie più definite di quanto avvenga all’interno delle proprie frontiere rispetto agli Stati meno abili e strutturati.
La risposta africana al COVID-19
Le autorità locali hanno essenzialmente seguito il canovaccio di marca cinese – imitato poi in mezzo mondo – per combattere la pandemia. Ma il confinamento applicato indistintamente a tutto il territorio e a tutti i cittadini può darsi non sia particolarmente adeguato alla specifica realtà africana. Questo per almeno tre ragioni . Innanzitutto, data la strutturale debolezza dei sistemi sanitari locali, non ha particolare senso seguire uno schema che miri a proteggere e salvaguardare i servizi medici tramite un “appiattimento” della curva dei contagi.
In secondo luogo, l’economia e l’infrastruttura produttiva africana, semplicemente, non possono permettersi un lockdown “all’europea”. Più del 70% degli africani lavora in settori informali, è sottoccupato oppure senza lavoro : la grande maggioranza dunque non può permettersi di rimanere inoperosa. Il livello minimo di sussistenza è garantito proprio da una serie di transazioni informali quotidiane, da un’agricoltura di piccola scala, da un modesto allevamento di bestiame, da una pesca artigianale e da operazioni minerarie non ufficiali. In ogni caso un insieme d’attività rivolte all’autosufficienza, piuttosto che al commercio del prodotto. L’assenza di salari stabili e certi si somma pure ai bassi tassi di risparmio ed alla limitata inclusione finanziaria. Benché il numero di africani in possesso di un conto corrente sia cresciuto nettamente nell’ultimo decennio, a tutt’oggi solo 43% degli africani ha accesso a questo vitale servizio .
Megalopoli ad alta densità abitativa, campi profughi (ospitano circa 16,5 milioni di individui), baraccopoli (dove risiede il 56% della popolazione urbana) , carenze d’acqua ed elettricità, alloggi inidonei, conflitti violenti, assenza di un vero welfare state, Stati deboli – nonché una relazione tra cittadini e governi spesso marcata da sfiducia – pongono infine ulteriori evidenti barriere all’impiego di queste misure di distanziamento .
Il continente deve pertanto elaborare delle sue strategie di contenimento del virus – in base alle singole esigenze locali – poggianti su di un approccio proattivo basato su di un tracciamento precoce (sfruttando anche la diffusione ritardata del virus e le reti di sorveglianza già esistenti per altre malattie ) ed isolando i soggetti fragili, cioè anziani e malati.
L’Africa non parte, come detto, da un foglio bianco. Negli ultimi anni ha efficacemente tenuto testa a varie malattie infettive, accumulando nel processo un capitale umano specifico. Grazie anche a decine di miliardi investiti da governi e donatori esterni, a partire dai primi anni 2000 la mortalità da HIV/AIDS è decresciuta del 50%, e il numero di nuove infezioni si è contratto del 28% rispetto ai dati del 2010. La malaria ha registrato una diminuzione del 40%. Ancor più importanti risultati sono stati ottenuti nella risposta contro la polio, ormai eradicata dall’Africa. Nel complesso una storia di successo che consente di affrontare il coronavirus da una posizione più forte rispetto a quanto sarebbe avvenuto quindici o vent’anni fa. È importante sottolineare come questa conquista sia dovuta proprio a investimenti sul personale e sulle catene logistiche, informative e di prevenzione .
La risposta dell’Africa potrebbe perciò basarsi sui tre concetti chiave prima menzionati: sorveglianza, contenimento ed isolamento. Una prospettiva certamente meno costosa di un blocco totale ed indiscriminato. Questo piano operativo deve altresì includere una comunicazione chiara del rischio e delle linee guida – in materia di distanziamento fisico – personalizzate in base allo specifico contesto. Una linea di azione che presuppone una reazione rapida e vigorosa da parte delle istituzioni africane . Alcuni segnali sembrano proprio andare in questa direzione. L’Africa Centers for Disease Control – agenzia sanitaria dell’Unione Africana – ha immediatamente assunto, in collaborazione con l’OMS, un riconosciuto e stimato ruolo di guida . Inoltre, molte nazioni hanno deciso di istituire delle task force presidenziali, composte da rappresentanti delle istituzioni, scienziati ed esperti di settore. La prominenza accordata nei comitati a questi professionisti (economisti, virologi, epidemiologi, antropologi) eleva e centralizza una pianificazione basata su dati ed evidenze scientifiche. Anche le comunità economiche regionali, come ad esempio la SADC, si sono rivelate utili, servendo come canali di condivisione di esperienze e lezioni apprese .
Sebbene molto resti ancora da fare, pur in presenza di grandi debolezze e carenze, e nonostante la grande incertezza che si lega a questo virus, non si possono nemmeno sminuire o sottostimare alcuni elementi positivi che potrebbe risultare di grande utilità nella lotta contro il Covid-19. L’esperienza originata dalla lotta contro differenti malattie endemiche e ancor di più la giovane età saranno senz’altro i due punti forza del continente. L’esito di questa sfida sarà determinato nondimeno dai livelli di leadership, pianificazione e cooperazione esistenti fra i governi africani, nonché tra essi e la comunità internazionale, le ONG e i donatori.
Il “contagio” economico
Il Covid-19 rappresenta una sorta di “virus della mondializzazione”: ne colpisce le aree perno, sfruttando i canali di mobilità aperti dalle reti della globalizzazione per diffondersi a macchia d’olio. Il virus, allo stesso tempo, corre lungo i binari della disuguaglianza, impattando più duramente sulle aree geografiche più deboli e marginali. L’Africa, proprio perché inserita nelle strutture economiche globali in posizione subordinata e dipendente, si ritrova ad affrontare in prima linea le nefaste conseguenze del rallentamento economico asiatico ed europeo, il tutto senza la disponibilità di risorse e capacità che contraddistingue l’Europa, gli Stati Uniti e la Cina.
Se l’ambito prettamente sanitario ha lasciato trasparire, sino ad ora, margini di cauto ottimismo, il settore economico evidenzia all’opposto una chiara dinamica di recessione. L’impatto più grave della pandemia potrebbe essere indiretto, slegato dalla sfera sanitaria . L’economia africana ha infatti iniziato a risentire del virus ancor prima che questo si diffondesse sul suo territorio, segnando la prima recessione in 25 anni . Come se non bastasse, il 2020 aveva già portato in dote diverse problematiche, tutte riconducibili al cambiamento climatico: un’invasione “biblica” di cavallette ad est; l’onda lunga delle devastazioni causate dai due violenti cicloni che hanno interessato il Mozambico nella primavera del 2019; e la peggiore siccità degli ultimi decenni in Zambia e Zimbabwe . Non bisogna inoltre dimenticare come il continente continui ad ospitare la maggior parte dei poveri del mondo, (413 milioni di individui nel 2015, pari a circa il 40% della popolazione complessiva) , né va parimenti trascurato come i mali cronici continuino a gravare sul tessuto economico del continente. Si stima che la sola pandemia di HIV/AIDS sia costata all’Africa subsahariana tra il due e il quattro percento del prodotto interno lordo, mentre l’epidemia di ebola del 2014-16 causò una perdita attorno al 12% in Guinea, Liberia e Sierra Leone. Una premessa non certamente positiva.
A pesare è però anzitutto il rallentamento economico globale . In primis quello cinese. Il legame con Pechino è cresciuto enormemente dall’inizio del secolo: oggi la Cina è il primo partner commerciale dell’Africa, vorace acquirente delle sue ricchezze minerarie ed ambientali. Nella direzione opposta migliaia di prodotti “Made in China” sbarcano a Durban, Mombasa o Gibuti per inondare i mercati regionali. Oltre ai manufatti, la Cina ha messo un saldo piede a terra nel continente in due modi: impiantandovi migliaia di imprese (con relativi lavoratori cinesi) e – soprattutto – fornendo agli Stati africani capitali. Negli ultimi vent’anni il gigante asiatico ha prestato qualcosa come 152 miliardi di dollari a 50 nazioni del continente. La relazione sino-africana riveste un’importanza centrale per tutti i pesi massimi africani: dall’Angola, alla Nigeria, all’Etiopia. La contrazione produttiva cinese, causata dall’introduzione della quarantena, si è pertanto immediatamente riverberata sul tessuto economico dell’Africa, in particolare sulla domanda di materie prime.
L’espansione globale del coronavirus ha ulteriormente frenato l’economia provocando una generalizzata interruzione delle catene produttive e commerciali internazionali, innescando una ancor più netta flessione della domanda e dei prezzi delle commodities. Le prospettive non sono certo incoraggiati per l’Africa . Il solo settore petrolifero garantisce il 40% delle esportazioni totali del continente, pari al 7,4% del Pil regionale. Si ritiene che il basso prezzo del barile causerà almeno 65 miliardi di mancati introiti nel 2020, con Nigeria, Algeria e Angola tra i Paesi più colpiti. Prospettive decisamente negative anche per il settore tessile (4% delle esportazioni africane), alimentare (in particolare caffè, tè, cacao) e della florovivaistica. Un outlook pessimistico anche per il comparto del turismo e dei trasporti aerei che sommati ammontano al 8.5% del Pil africano .
Le rimesse rappresentavano un altro prezioso canale di finanziamento per l’economia africana. Nello specifico, riescono a raggiungere direttamente gli strati sociali più poveri e svantaggiati. Prima della pandemia si ipotizzava che nel corso dell’anno corrente le rimesse avrebbero raggiunto la cifra record di 65 miliardi di dollari, ma ora, a causa dei lockdown in Europa e Stati Uniti, ci si attende un brusco calo delle somme inviate dai lavorati africani verso i loro territori d’origine .
Nel complesso, secondo la Banca Mondiale, l’impatto della crisi provocherà una contrazione del PIL stimabile tra il 2,1% e il 5,1% ; più prudenti le stime delle Nazioni Unite che prevedono una riduzione tra il 1,8% e il 2,6%. Un impatto che, sebbene più ottimistico, spingerebbe nondimeno 27 milioni di individui in una situazione di estrema povertà . Una mancanza di risorse definibile come radicale che si stima possa raddoppiare il numero di persone in stato di necessità assoluta, ovvero bisognose di assistenza alimentare .
Un secondo ordine di problemi concerne le risicate risorse a disposizione dei governi per affrontare la sfavorevole congiuntura. Le capacità di stimolo economico degli Stati africani sono limitate, mentre debito pubblico e deficit sono elevati . Per il Fondo Monetario Internazionale, 16 Paesi su 36 dell’Africa Subsahariana presentavano, già prima della pandemia, una situazione debitoria preoccupante che rischia ora di divenire insostenibile . Tra questi, Zambia, Angola e Ghana sono stati indicati da Moody tra le nazioni più a rischio di insolvenza, dato che tra il 35 e il 45% delle entrate governative vengono assorbite dai soli interessi sul debito contratto.
Le Nazioni Unite hanno sottolineato come siano necessari 100 miliardi di dollari solo per affrontare la prima fase emergenziale – per rafforzare cioè i sistemi sanitari e creare reti di protezione sociale. Una cifra simile sarebbe successivamente richiesta per stimolare l’economia, finanziare il settore privato ed alleggerire la pressione del debito . A tal riguardo i membri del G20 hanno annunciato, a metà aprile, la loro intenzione di sospendere, fino al 31 dicembre, gli interessi sul debito contratto dai paesi a basso reddito: una cifra, nel caso africano, pari a circa 44 miliardi. A questo primo passo, dovranno certamente seguire ulteriori interventi, che secondo alcuni osservatori dovrebbero spingersi fino ad una riduzione o perfino cancellazione del debito pubblico africano . Un’idea caldeggiata anche dal Presidente francese Macron .
L’Unione Europa, nel frattempo, attraverso il pacchetto “Team Europe”, ha mobilitato, in linea con l’impegno della nuova strategia EU-Africa, poco più di tre miliardi di euro a favore dei Paesi africani . A questo prima iniziativa è seguita, a fine aprile, un addizionale stanziamento di 194 milioni a favore del Sahel. Di questi, 112 milioni vengono allocati per rafforzare la sicurezza dei Paesi partecipi al gruppo G5 Sahel, mentre i restanti 82 milioni finanzieranno interventi volti a migliorare le condizioni di vita delle popolazioni locali .
L’impatto politico e sociale
Diversi sono i rischi politici connessi alla crisi. Sono state segnalate in tutto il continente africano resistenze e proteste contro le misure adottate dai governi africani per combattere il coronavirus . Alcuni video mostrano poliziotti e soldati africani colpire manifestanti inermi o perfino tirare ad altezza uomo. Le forme di confinamento introdotte hanno, all’atto pratico, causato tensioni e scontri tra le forze di sicurezza e i civili, causando anche alcuni decessi . Una parte minoritaria dei membri delle forze di sicurezza ha colto l’occasione per abusare delle proprie prerogative e questo uso illegittimo della violenza potrebbe allargare la diffidenza tra autorità e cittadinanza .
Nelle aree segnate dal conflitto il virus rappresenta un ulteriore elemento di instabilità. Fazioni armate e gruppi terroristici traggono evidenti vantaggi se le già limitate e oltremodo sovraccariche forze di sicurezza vengono distorte verso altri compiti e necessità, oppure rallentate o ostacolate dalla malattia. Le organizzazioni jihadiste sono ovunque opportunistiche, abili nello sfruttare confusione e caos. In altre regioni del mondo gruppi affiliati ad al-Qaeda o all’ISIS hanno cercato di impostare una narrazione mediatica ed ideologica della pandemia che confermi la bontà, la giustezza e la validità del proprio progetto . Lo stesso scenario può essere replicato nel Sahel o nel Corno d’Africa dove gli Stati sono incapaci di controbattere efficacemente la perizia dei gruppi jihadisti. Per quest’ultimi, nonostante la pandemia, il business della violenza procede as usual. E anzi a partire da marzo il numero degli attacchi nella vasta area del Sahel è cresciuto . L’area del Lago Chad era fuori controllo ben prima dello sbarco del Covid-19 sul suolo africano, mentre al vicino Mali spetta il ben poco ambito primato dell’ospitare una tra le più mortali operazioni di pacekeeping a livello internazionale. Nel frattempo, nel Mozambico settentrionale il locale franchiser dello Stato Islamico ha messo in atto le più audaci operazioni militari della sua breve esistenza . Un quadro che potrebbe essere aggravato dall’impiego delle forze militari africane a supporto dello strumento sanitario, oppure in appoggio alle forze di polizia per implementare le misure di confinamento sociale . La pandemia inoltre ritarderà il dispiegamento di un addizionale contingente britannico nel turbolento quadrante saheliano ed intralcerà la naturale rotazione dei contingenti schierati. Non va dimenticato a tal riguardo come il virus impatti anche sulle percezioni occidentali. La minaccia portata dai gruppi jihadisti o delle varie fazioni armate alle stabilità regionale ed internazionale è – allo stato attuale – l’ultima della priorità per Washington e le cancellerie europee .
Il virus metterà alla prova gli assetti politici anche in altri modi. Un primo aspetto da considerare riguarda le consultazioni elettorali previste nei mesi futuri. In più di dieci Paesi si dovrebbero infatti tenersi elezioni presidenziali o legislative . Tra questi, sono presenti alcune fra le realtà più fragili del continente – dalla Somalia, alla Repubblica del Centrafrica. Le operazioni di preparazione, così come le stesse procedure di voto potrebbero venir rallentate, alterate o peggio cancellate a causa della pandemia. Un secondo aspetto da tenere in considerazione, come in altre regioni del mondo, riguarda i vertici politici. Anche la classe dirigente africana, nonostante la giovinezza complessiva della popolazione locale, è mediamente formata dai membri più anziani, più esposti al virus . Ad esempio, in Nigeria Abba Kyari, capo di gabinetto di Muhammadu Buhari, è recentemente deceduto dopo aver contratto il coronavirus, e lo stesso Presidente nigeriano con i suoi 77 anni si colloca nella fascia più a rischio. In nazioni fortemente verticistiche come quelle africane, dove la successione si mostra spesso conflittuale, un inaspettato e brusco cambio del vertice politico potrebbe mettere sotto pressione l’assetto di potere interno.
Conclusioni
Ad un cauto – e provvisorio – ottimismo in ambito sanitario, s’accompagna la realtà di una evidente e certa crisi economica che minaccia di cancellare i progressi fatti negli ultimi decenni e che, citando il Presidente ruandese Paul Kagame, potrebbe richiedere un’intera generazione di sforzi per essere superata . Povertà, disoccupazione, sfaldamento delle strutture statali, approfondimento dei livelli di conflitto, sono solo alcune delle problematiche che dovrà affrontare l’Africa. In breve, sono tre i canali del rischio (e dell’opportunità) da considerare: il primo è securitario, il secondo economico e l’ultimo sanitario. Si potrebbe ipotizzare che saranno i primi due ad attirare le maggiori attenzioni ed energie.
Le scelte che la pandemia imporrà possono accelerare – come è stato fatto notare – alcune dinamiche che sottotraccia stavano emergendo e che, senza l’evento perturbatore Covid-19, avrebbero forse richiesto anni o addirittura decenni per emergere compiutamente. Trasformazioni socioculturali, politiche e tecnologiche vengono improvvisamente proiettate sul piano del possibile, o addirittura del necessario. Il virus è sia una minaccia, sia una grande opportunità da cui possono sbocciare cambiamenti utili e positivi. Ne possiamo citare almeno quattro. Innanzitutto, pressati dalle esigenze sanitarie e dal rivolgimento economico, la stragrande maggioranza dei Paesi della regione hanno significativamente dilatato il loro intervento nell’ambito dell’assistenza e della protezione di cittadini e lavoratori. Queste misure, una volta introdotte, possono diventare elementi imprescindibili ed irrinunciabili per il cittadino africano. Un secondo aspetto si lega alle classi dirigenti. Sebbene la pandemia abbia la capacità di alterare la dialettica politica e di erodere i livelli di fiducia tra le istituzioni e la cittadinanza, allo stesso tempo può consolidare quel momento di rottura, osservato negli ultimi anni, rispetto ad un passato caratterizzato da un potere cleptocratico, immobile ed autoreferenziale . Il terzo punto non può che riguardare l’ambito economico e commerciale. La “chiusura” della Cina, degli Stati Uniti e dell’Europa hanno evidenziato, ancor di più, quanto l’Africa necessiti di sviluppare un commercio intra-continentale e potenziare le proprie capacità manifatturiere, oggi pressoché assenti, mentre il crollo dei prezzi delle materie prime ha messo in luce la debolezza intrinseca di un’economia che non produce né beni né servizi ad alto valore aggiunto. In ultimo, il Covid-19, o per meglio dire, il modo in cui lo si affronta, consente di superare certi stereotipi negativi. L’Africa ha risposto, fino ad oggi, meglio di molti Paesi di altri continenti, agendo con velocità e decisione, attribuendo l’adeguata autorità agli esperti sanitari. Una sfida gestita in maniera efficace, soprattutto in rapporto al livello di strutture e capacità.
Innegabilmente, le azioni intraprese in questi mesi, modelleranno l’avvenire di una regione che non include solo il continente. Se l’Africa crollasse di fronte alla pandemia, le conseguenze sarebbero percepite da tutto il bacino del Mediterraneo ed oltre. Per questa ragione sarà necessario un vasto e consistente supporto da parte della comunità internazionale, che si unisca a concrete politiche di cooperazione fra gli Stati del continente, preludio forse ad un generale ripensamento dei caratteri strutturali del sistema economico, e degli assetti politici nazionali e – soprattutto – panafricani. In questo scenario pandemico e post-pandemico l’Europa e l’Italia dovranno essere in prima linea.