Scarica il file in pdf – mediterraneo globale – dicembre 2024- sanfelice
L’ITALIA E IL MEDITERRANEO
Dalla Flotta di evasione al Mediterraneo Globale
Amm. Sq. Ferdinando SANFELICE di MONTEFORTE
Introduzione
Il 27 novembre scorso, nel chiudere i lavori della 10 ͣ edizione dei “MED Dialogues”, la Conferenza internazionale organizzata annualmente dal nostro Ministero degli Affari Esteri e dall’ISPI per discutere ai massimi livelli di alcuni dei temi fondamentali per il Mediterraneo e la cooperazione intra-regionale, cui ho avuto il piacere di partecipare, il nostro Presidente del Consiglio dei Ministri, l’On. Giorgia Meloni, ha parlato lungamente di “Mediterraneo Globale”, sviluppandone il concetto e fornendo il crisma di ufficialità a un’espressione utilizzata, alcuni mesi fa, come titolo di un libro collettaneo della Fondazione Med-Or, edito dalla LUISS (Libera Università Internazionale di Studi Sociali)[1].
Come notavano gli autori dell’introduzione, nello spiegare questo titolo, “Il Mediterraneo, che rappresenta in realtà una piccola porzione marittima del globo terrestre, è in realtà uno spazio geo-strategico e geopolitico ben più ampio e importante di quanto potrebbe apparire”[2].
Questa affermazione riecheggiava quanto detto a suo tempo da un grande storico, Fernand Braudel, che affermò: “sulla carta del mondo il Mediterraneo non è che una fenditura della crosta terrestre, uno stretto fuso che si allunga da Gibilterra all’istmo di Suez e al mar Rosso”[3].
Tornando al testo della LUISS, si può notare che l’introduzione, poi, nota che “le dinamiche che interessano questo mare, con i Paesi, le acque, gli stretti a esso collegati, appartenenti a tre diversi continenti, sono il cuore di molte delle più rilevanti e complesse questioni al centro del confronto e della politica internazionale”[4].
In effetti, il libro, e soprattutto il discorso del Presidente del Consiglio, costituiscono un nuovo capitolo di un dibattito che dura da decenni, circa la necessità, per l’Italia, di trovare sbocchi al di là del bacino nel quale si trova la nostra penisola.
Appare, quindi, necessario dare uno sguardo alle caratteristiche geopolitiche di questo mare e ai vantaggi e svantaggi del nostro Paese, derivanti dalla propria posizione nel bacino.
L’importanza del Mediterraneo
Le frasi sopra citate indicano, in modo sintetico, le ragioni dell’importanza del bacino nel quale viviamo, ben superiore alle sue dimensioni fisiche.
Anzitutto, va messo in rilievo il suo clima particolare. Tra le sue tante definizioni, la più significativa fu trovata sempre da Braudel, che disse: “il Mediterraneo si estende dal primo ulivo che si raggiunge arrivando dal Nord ai primi palmeti che si levano in prossimità del deserto”.[5]
Questa definizione spiega bene una tra le principali attrattive del Mediterraneo: il suo clima, infatti, è decisamente meno freddo rispetto alle altre zone del mondo a parità di latitudine.
Questa anomalia climatica è dovuta al fatto che, in corrispondenza del Mediterraneo, l’Equatore termico, definito come la “linea immaginaria che congiunge tutti i punti della superficie terrestre che hanno la massima temperatura media annuale”[6], si innalza di ben 19° di latitudine, rispetto alla sua posizione geografica. Basti pensare che la città di Washington, posta poco più a nord rispetto a Palermo, è soggetta a nevicate annuali, mentre nel capoluogo della Sicilia il riscaldamento centrale delle case spesso non viene installato, essendo ritenuto inutile.
Si sa che questo clima temperato è l’effetto della presenza del deserto del Sahara, che agisce quasi da termosifone nei confronti dell’area mediterranea, scaldandolo per gran parte dell’anno.
Questo clima mite ha quindi attratto popoli, che si sono spostati verso il bacino marittimo sovrapponendosi agli abitanti che popolavano in precedenza le sue sponde, e spesso sterminandoli, ma “i nuovi venuti hanno rapidamente adottato e diffuso le loro tecniche, i loro generi di vita e i loro culti”[7].
La serie di immigrazioni di popoli interi dal nord e dall’est ha creato un ambiente nel quale civiltà profondamente diverse tra loro sono entrate in stretto contatto, con i conseguenti attriti e conflitti, tanto che la Storia del Mediterraneo porta a caratterizzarlo come un luogo di scontro, o quantomeno come un teatro di guerra, con pause anche lunghe ma mai durevoli.
Non si può dimenticare, inoltre, che il Mediterraneo gode di un altro vantaggio di posizione, trovandosi esattamente al centro dei tre continenti, l’Asia, L’Europa e l’Africa, ben definiti, insieme, “L’Isola del Mondo” dal grande Sir Halford Mackinder.
Questa posizione centrale fa sì che, tanto per fare un esempio, la via più diretta per collegare l’Asia sud-occidentale con il Nord America passi per il Mediterraneo. Come accade spesso nella vita, però, insieme ai vantaggi vi sono le vulnerabilità. Per entrare o uscire dal bacino è necessario attraversare dei passaggi obbligati, decisamente ristretti: Gibilterra a ovest e il Canale di Suez a est. Chi domina questi angusti tratti di mare può decidere chi far passare e chi debba essere bloccato. Ma a queste strettoie se ne aggiunge un’altra, nei mesi scorsi balzata agli onori della cronaca: lo Stretto di Bab-el-Mandeb, posto tra la Penisola Arabica e il Corno d’Africa, un percorso obbligato per chi venga o voglia andare nell’Oceano Indiano, diretto ai mercati asiatici.
Si può dire, in definitiva, che il Mediterraneo sia una dolcissima caramella, chiusa alle sue estremità dal suo incarto.
Le visioni italiane del Mediterraneo
Come si pone l’Italia in questo ambiente? Per citare, ancora una volta, il grande Braudel, nel Mediterraneo “l’Italia trova il senso del proprio destino: è l’asse mediano del mare, e si è sempre sdoppiata, molto più di quanto non si dica di solito, tra un’Italia volta a Ponente e un’altra che guarda al Levante. Non vi ha forse attinto per molto tempo le proprie ricchezze?”[8].
Premesso che, come affermava Salvemini, l’Italia nel 1871 occupava “un posto intermedio tra le grandi e le piccole potenze: era la più piccola tra le grandi e la più grande tra le piccole. Inoltre, essa non possedeva né ferro né carbone, cioè mancava delle più importanti materie prime”[9], e questa situazione, sotto certi aspetti, è valida ancor oggi, bisogna riconoscere che il nostro Paese gode di alcuni “vantaggi di posizione”, ancorché non assoluti, che gli hanno consentito di sviluppare la propria economia e diffondere benessere tra la propria popolazione.
In effetti, solo dopo l’unità d’Italia è stato possibile trasformare queste caratteristiche in vantaggi. Ad esempio, la sua posizione, rispetto al continente europeo, è duplice: anzitutto, il fatto che la sua Pianura Padana fosse il collegamento più agevole tra il ponente e il levante europei aveva trasformato per secoli quella parte della nostra Nazione in un campo di battaglia tra le potenze europee. Ora si parla del contestato “Quinto Corridoio”, che comprende la ferrovia Lione-Torino, per il trasporto di merci e passeggeri tra i due capi dell’Unione, mentre nel passato lo stesso tragitto era percorso dalle armate straniere, dall’epoca dei barbari fino all’unità italiana.
L’altro aspetto dell’Italia, nei suoi rapporti con il continente europeo, è quello di fornire uno sbocco alle merci prodotte e alle importazioni dell’Europa centrale: i suoi porti del Tirreno settentrionale e dell’Alto Adriatico svolgono da secoli questa funzione, con benefici non da poco per la nostra economia.
Ma la nostra Penisola è anche un ponte gettato tra la sponda nord del bacino e quella nordafricana a sud: la distanza tra Capo Bon, la punta estrema della Tunisia e la costa siciliana, infatti, è di sole 78 miglia nautiche (145 chilometri).
Ora è noto che i ponti, in genere, sono a doppio senso di circolazione: nel nostro caso, infatti, lo Stretto di Sicilia, che separa il continente africano dalla Trinacria, oltre ad essere, almeno sul piano potenziale, la via di penetrazione commerciale italiana verso sud, è anche, da oltre mezzo secolo, il teatro dei tentativi di immigrazione verso l’Europa, da parte di uomini e donne africani.
Ma lo Stretto di Sicilia è anche un tratto di mare particolarmente tempestoso: attraversarlo, quindi, non è semplice, specie se non si disponga di mezzi adeguati: si calcola che negli ultimi dieci anni, circa 30.000 persone siano morte in mare. La colpa, naturalmente, è da attribuire ai trafficanti di esseri umani, che traggono profitti da questo cinico business utilizzando imbarcazioni in pessime condizioni e timonieri inesperti, visto che questi profittatori non possono riutilizzare né le barche, che vengono sequestrate, né i timonieri, che vengono arrestati.
Solo da poco, dopo molti decenni, i nostri governi hanno iniziata a utilizzare questa nostra caratteristica per proiettare la nostra economia verso la sponda nord-africana. Il “Piano Mattei”, infatti, risponde al requisito di una proiezione di influenza verso Sud, in base alla logica – peraltro ineccepibile – che il benessere del Nord Africa è un nostro interesse precipuo, data la possibilità che il flusso di disperati dal Sud del mondo si riduca in tal modo.
Proiettare la nostra economia non è solo un vantaggio commerciale: come diceva sempre Braudel, “una grande civiltà non può vivere senza un’ampia circolazione. Quando le imbarcazioni si avventureranno sulle acque salate del Golfo Persico o dell’oceano Indiano o del mar Rosso o del Mediterraneo, il passo decisivo sarà compiuto. Ha inizio un miracolo. Beni, merci, tecniche, tutto a poco a poco transiterà attraverso le rotte marittime”[10].
Anche se Braudel si riferiva agli inizi del commercio internazionale marittimo nel Mediterraneo, il messaggio è di carattere generale: commerciare con altri Paesi significa esercitare un’influenza anche culturale, e per questo il nostro commercio internazionale è uno strumento da non sottovalutare.
La penultima caratteristica, già citata da Braudel, è che la penisola italiana spacca in due il Mediterraneo: in tempo di guerra questo era un vantaggio, perché costringeva i nostri avversari a usare la “Rotta del Capo” che circumnavigava l’Africa, per raggiungere il Levante. Ora, in tempo di pace, il nodo container di Gioia Tauro è il primo esempio di come la nostra posizione consenta di utilizzare i nostri porti del Meridione come punto di sosta per i flussi commerciali transoceanici.
Basterà una pur breve visita a questo porto per vedere container che arrivano da (e sono diretti al) mondo intero. Il fatto che altri porti simili non siano ancora stati organizzati nel nostro Meridione, per ampliare questa capacità ricettiva, malgrado i numerosi progetti in tal senso, è un peccato di omissione dei nostri governi nazionali e regionali al quale non si riparerà mai abbastanza in fretta.
L’ultima caratteristica, mai abbastanza messa in rilievo, è quella che il nostro commercio, per poter essere globale, deve transitare attraverso passaggi obbligati, in mano ad altre Nazioni. Il nostro sviluppo, quindi, è condizionato al benvolere altrui, e gli attacchi Houthi a Bab-el-Mandeb ne sono solo l’ultimo esempio.
Questa situazione è stata a lungo studiata dalla nostra Marina, per cui vale la pena dedicarci una pur breve ricapitolazione dell’evoluzione concettuale che ha portato, oggi, al riconoscimento da parte dell’attuale governo, del ruolo globale del Mediterraneo.
La ragione di questa attenzione, che in questi mesi è stata fatta propria, appunto, dal Presidente Meloni, è che il nostro commercio, fin da prima dell’unità d’Italia, si è esteso ai Paesi al di là degli oceani: basti pensare ai nostri commerci con il Sud America, nel XIX secolo, e al fatto che il generale Nino Bixio, dedicatosi all’armatoria privata, dopo una lunga carriera militare e politica, sia morto di colera a Pulau (isola di) Weh, in prossimità dell’isola di Sumatra, mentre comandava una nave mercantile, per capire il bisogno, avvertito prima dalla Marina e ora dal governo, di colmare il divario tra il raggio d’azione delle nostre forze militari e quello dei nostri commerci, che si spingono al di là della protezione che le nostre forze possono garantire.
In effetti, nella seconda metà del XIX secolo, la Marina aveva dislocato in permanenza una Divisione Navale nelle acque dell’America del Sud, e aveva compiuto brevi puntate nell’Oceano Indiano e nel Pacifico, finché non poté disporre di una pur piccola base in territorio cinese, a Tientsin, dal 1900 al 1943, dove sostenere le nostre navi dislocate in Asia.
La Marina e il Mediterraneo
Prima dell’unità, i governi della penisola si erano affidati al benvolere di alcune Potenze marittime. Ad esempio, una delle ragioni dell’amicizia secolare tra il Regno di Sardegna prima, e l’Italia dopo, con la Gran Bretagna era appunto il riconoscimento che il governo di Londra, in possesso degli Stretti di Gibilterra, Suez e Bab-el-Mandeb, condizionava i collegamenti con gli oceani del nostro commercio. Non a caso, nel 1914, il nostro Capo del Governo, Antonio Salandra, affermò che: “non erano venute meno le ovvie ragioni per le quali a noi era impossibile partecipare a una guerra contro Francia ed Inghilterra alleate; non l’estensione delle nostre coste indifese e delle nostre grandi città esposte; non il bisogno assoluto di rifornimenti per via di mare di cose essenziali all’economia nazionale ed alla vita stessa: grano e carbone soprattutto”[11].
Con il progressivo deteriorarsi dei rapporti tra Roma e Londra, tra le due Guerre Mondiali, nel 1936 uno studio dello Stato Maggiore della Marina contemplò due scenari da porre alla base dei programmi di nuove costruzioni: il primo prevedeva “una flotta che assumesse il controllo del Mediterraneo, con una limitata capacità di incursione oceanica”[12], mentre il secondo contemplava “una flotta invece con spiccate caratteristiche oceaniche, appoggiata a idonee basi da costruirsi sulle coste eritree e somale, corrispondente a quella nuova pretesa di potenza mediterranea ed extra mediterranea che emergeva nei discorsi e nelle politiche del Duce”[13].
Questo secondo scenario, rapidamente denominato quello della “flotta di evasione” prevedeva un programma di costruzioni che “mirava ad accrescere il potere marittimo dell’Italia, costituendo una forza che potesse operare anche sugli oceani per un tonnellaggio annuo di nuove costruzioni per 60 000 tons, all’epoca giudicato il massimo raggiungibile dall’industria italiana, per complessive 360 000 tons in sei anni. Negli anzidetti scenari di guerra il concetto fondamentale d’impiego della flotta sarebbe consistito nella copertura delle linee di comunicazione fuori dagli stretti, nell’attacco alle vie di traffico oceaniche del nemico”, e nel “mantenere un controllo indiscusso del nemico nel Mediterraneo.” La flotta sarebbe stata costituita da “un primo nucleo per le operazioni fuori dagli stretti”, da “un nucleo secondario per vigilare il nemico nel settore meno importante”, e su “vari gruppi per i servizi ravvicinati nelle zone di preminente interesse marittimo”[14].
La consistenza della “Flotta di Evasione”, va detto, era notevole, prevedendo, in aggiunta alle unità necessarie per il Mediterraneo, altre 3 corazzate e 11 incrociatori, oltre a 3 portaerei, previste solo per questa contingenza oltre gli Stretti.
È interessante notare che la fattibilità di questo progetto era condizionata non solo dalle risorse finanziarie che mancavano, ma anche dalla necessità di conquistare e successivamente possedere in modo stabile almeno uno degli Stretti che rinchiudono il Mediterraneo. Quindi, o si conquistava l’Egitto, cacciandone gli Inglesi, oppure si attaccava Gibilterra, magari con l’aiuto della Spagna.
Prevedibilmente, il governo rifiutò il programma di costruzioni per costituire la “Flotta di Evasione” decisamente troppo impegnativo sia sul piano militare, sia per le disastrate finanze italiane, per cui persino il progetto dei primi due incrociatori oceanici da 10.000 tonnellate, della classe “Costanzo Ciano” finì rapidamente in un cassetto.
Ma la consapevolezza e il disagio di essere rinchiusi in un bacino controllato dagli altri rimanevano, e diventarono sempre maggiori con l’inizio di operazioni navali al di là degli Stretti. Nel secondo dopoguerra, infatti, si iniziò nel 1979 con l’invio di due dei nostri tre incrociatori per soccorrere i profughi sud-vietnamiti, ribattezzati dalla stampa “Boat People”. Il buon esito della missione portò a considerarla solo un inizio.
Infatti, pochi anni dopo, il Ministro della Difesa, l’on. Lelio Lagorio, dichiarò che “vi fosse spazio per iniziative italiane tendenti a contribuire alla riduzione della tensione in aree come quella mediterranea, ma anche in altre aree dove la nostra presenza è desiderata”[15].
Il consenso di cui aveva goduto la missione di salvataggio dei “Boat People” non diminuì quando inviammo un gruppo di cacciamine per bonificare le acque del Golfo di Suez, dove un mercantile di origine libica era stato sospettato di aver posato mine magnetiche negli approcci meridionali del Canale.
Più controversa, invece, fu la decisione di inviare nostre unità da guerra quale parte del contingente multinazionale durante la Guerra tra Iran e Iraq, per proteggere il traffico mercantile nell’area, attaccato da ambedue i contendenti. La prima reazione di autorevoli esponenti della maggioranza, come l’on. Fanfani, fu decisamente negativa. È rimasta storica la sua risposta, durante un’intervista, sulla eventuale partecipazione italiana alla missione “Non siamo Marines”[16].
A differenza dell’on. Fanfani, l’on. Andreotti, all’epoca Ministro degli Esteri, intervenne in modo più sfumato, quasi aperturista, affermando che “qualsiasi contributo militare dell’Italia a iniziative non-multilaterali era da escludersi”[17]. Decisamente a favore di una partecipazione italiana furono invece il Segretario del PSI, l’on. Bettino Craxi e l’on. Spadolini, secondo i quali “era necessario evitare ad ogni costo di essere messi di fronte a fatti compiuti nelle aree regionali”[18].
Per spingere il Parlamento ad approvare la missione ci volle, anzitutto, l’abbordaggio incruento – da parte dei Pasdaran iraniani – della nostra motonave “Jolly Rubino”, avvenuto il 3 settembre 1987, mentre il mercantile navigava nel Golfo Persico e quindi il lancio di una coalizione, a guida USA, per porre fine agli attacchi, che miravano soprattutto a distruggere le petroliere che caricavano idrocarburi nei porti avversari.
L’epoca delle missioni di peacekeeping comportò un consenso generale alle missioni al di là degli Stretti, visto che i nostri contingenti sul terreno avevano bisogno di disporre di rifornimenti e rinforzi – in termine tecnico di una linea di comunicazione – sicura lungo tutto il percorso.
Questa situazione portò all’elaborazione di un nuovo concetto strategico, soprattutto grazie alla Marina Militare che concepì nei primi anni Ottanta del secolo scorso il concetto di “Mediterraneo Allargato”[19], destinato a sostituire nel tempo quello di Grande Medio Oriente, caro soprattutto alla dottrina statunitense, per indicare quello meridionale dei due “Archi di crisi”[20].
All’inizio, questo concetto prevedeva solamente l’aggiunta al bacino del Mediterraneo del “complesso Mar Rosso/Golfo Persico, la strada dell’oro nero”[21], tra le aree in cui la nostra Marina avrebbe dovuto operare, in linea con il concetto di “Flotta di Evasione” che appunto era focalizzato sulla necessità di crearsi, con la forza, e mantenere uno sbocco verso l’Oceano Indiano.
Con il tempo, però, ci si è resi conto che anche a Ovest dello Stretto di Gibilterra erano in gioco esigenze economiche nazionali da non trascurare. Oltre al risorgere della pirateria nel Corno d’Africa e nell’oceano Indiano, infatti, negli ultimi decenni si sono sviluppate, in modo pericoloso, la pirateria e la rapina armata in mare nel Golfo di Guinea, dove l’ENI estrae idrocarburi e dove le nostre petroliere sono state più volte messe in pericolo da attacchi di tal genere.
Come ben spiegato, di recente, da un valido giornalista, il concetto di Mediterraneo allargato, “nasce dall’esigenza di definire quell’area che ha il nostro mare come bacino principale, ma a sua volta collegandolo a tutti i mari e a tutte le aree che lo circondano e che, apparentemente, non rientrano nel suo ambito. Il Mediterraneo per come lo intendiamo noi è un mare piccolo, semichiuso, fondamentalmente secondario nelle logiche delle grandi potenze internazionali. Ma preso insieme ad altre aree ed altri bacini ad esso vicini o collegati culturalmente, politicamente e geograficamente, il Mediterraneo diventa il centro di interessi strategici fondamentali che ad esso sono connessi. Ecco che allora il Mediterraneo allarga i suoi confini. Non si ferma a Gibilterra, ma arriva all’Atlantico finendo alle Canarie e alla costa occidentale dell’Africa settentrionale. A sud, non c’è più la costa mediterranea a fungere da confine: ma si deve guardare per forza al Sahel, visto che le sue crisi colpiscono direttamente il Mare Nostrum. A nord-est, il confine arriva direttamente in Crimea: il Mar Nero è parte integrante di questo sistema. E infine, ancora più a Est e Sud-est, bisogna fare particolare attenzione a questa “cabina di regia” fra Italia e Stati Uniti”[22].
Dal Mediterraneo Allargato al Mediterraneo Globale
Gli eventi, però, sono spesso più forti della volontà dell’uomo, tanto che negli ultimi anni si è notata la tendenza dei nostri governi e del Parlamento a impiegare le nostre forze, incluse le unità navali, anche al di là del “Mediterraneo Allargato”, in una serie di missioni di carattere diverso tra loro.
In questo momento, infatti, le unità della Marina Militare sono impegnate in missioni antipirateria come “Atalanta” nel golfo di Aden (a guida UE) e “Gabinia” nel Golfo di Guinea (a carattere nazionale), in operazioni di protezione del traffico mercantile, come “Agenor/EMASOH” nel Golfo Persico e “Aspides” nello Stretto di Bab-el-Mandeb (ambedue a guida UE), e fanno sentire la propria presenza anche in Estremo Oriente, dopo quasi un secolo di assenza, sia pure evitando di partecipare alle cosiddette “Freedom of Navigation Operations”, condotte da altri Paesi occidentali, per contestare le rivendicazioni cinesi sul Mar Cinese Meridionale.
Ecco, quindi, la nascita del concetto di “Mediterraneo Globale” che mostra, al tempo stesso, il ruolo che il Mediterraneo svolge su scala mondiale, quale principale arteria di collegamento tra la parte orientale e quella occidentale della “Isola del Mondo”, come Mackinder chiamava l’insieme dei tre continenti Asia-Africa-Europa, ma anche la sua importanza su scala globale per i traffici e le comunicazioni tra le principali civiltà del mondo.
Come detto dal Presidente del Consiglio, nell’introdurre il concetto di “Mediterraneo Globale”, “noi possiamo cercare di cogliere una grande opportunità, quella di fare un importante passo in avanti nella riflessione geopolitica e geostrategica sul ruolo del Mediterraneo e provare a dare corpo e sostanza insieme a una definizione nuova e molto più ambiziosa, che non è più quella di Mediterraneo allargato, ma è quella di “Mediterraneo Globale”.
Dopo aver citato alcune cifre significative sull’importanza del Mediterraneo per i commerci mondiali, quale via di comunicazione tra Oriente e Occidente, il Presidente ha affermato che queste “sono tutti elementi che chiaramente offrono all’Italia un vantaggio straordinario, perché se è vero che il Mediterraneo è tornato al centro del mondo e se è vero che noi siamo al centro del Mediterraneo, la conclusione balza agli occhi, presumo per tutti. E chiaramente la nostra Nazione comprende bene la responsabilità e il ruolo che questo comporta, comprende bene quanto abbia oggi l’occasione di essere centrale nelle dinamiche globali e, particolarmente con questo Governo, credo che lo abbiamo dimostrato, intende fare la sua parte fino in fondo”.
Quale sia il fine che l’Italia vuole perseguire, in questo spazio geopolitico, è stato espresso dal Presidente del Consiglio in questo modo: “parlare di Mediterraneo globale vuol dire anche lavorare per costruire uno spazio geopolitico che deve essere sempre più sicuro e stabile, in un’ottica di cooperazione paritaria, non predatoria, non caritatevole”.
Il fine, o per dir meglio la speranza, indicata con queste parole, va ben al di là di un problema di semplice politica navale, in quanto impone una “Grande Strategia” che includa le componenti diplomatica, economica, finanziaria e culturale. Ma il punto debole è e rimane quello della sicurezza, in un momento storico nel quale i perturbatori dell’attuale assetto geopolitico sono particolarmente attivi.
Nel passato l’Italia ha affrontato il problema della discrepanza tra l’estensione geografica delle nostre attività economiche e quella delle nostre capacità militari, cercando di fare tutto da sola, tanto da rinunciarvi ben presto. Negli ultimi anni, invece, abbiamo capito che influire sugli eventi in aree lontane è possibile solo insieme ai nostri amici ed alleati.
Le missioni NATO e UE al di là degli Stretti, che sono state elencate prima, dimostrano l’efficacia di questo approccio. Il fatto che le nostre forze partecipino a queste missioni di stabilizzazione delle aree marittime più perturbate, come lo Stretto di Hormuz e quello di Bab-el-Mandeb, è un segno che si sta già passando dalle intenzioni ai fatti.
[1] FONDAZIONE MED-OR, Il Mediterraneo Globale. Ed. LUISS, 2024.
[2] Ibid, pag. 17.
[3] F. BRAUDEL, Il Mediterraneo, Ed. Bompiani, 1987, pag. 11.
[4] FONDAZIONE MED-OR. Op. cit. pagg. 17-18.
[5] F. BRAUDEL, Op, cit. pag. 16.
[6] Dizionario Italiano “Il Nuovo De Mauro”, in Internazionale, https://dizionario.internazionale.it/parola/equatore-termico
[7] F. BRAUDEL, Op, cit., pag. 235.
[8] F. BRAUDEL, Op. cit., pag. 12.
[9] G. SALVEMINI. La Politica estera dell’Italia dal 1871 al 1914, Ed. Barbera, 1944, pag. 14.
[10] F. BRAUDEL, Op. cit. pag. 57.
[11] A. SALANDRA, La Neutralità Italiana, Ed. Mondadori, 1928, pag. 92-93.
[12] G. GIORGERINI, Da Matapan al Golfo Persico, Ed. Mondadori, 1989, pag. 378.
[13] Ibid.
[14] A. DE TORO, Dalle Littorio alle Impero, Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare – Marzo 2012 , pag. 18.
[15] L. BERNARDINI, Golfo-1: il dibattito politico e la missione militare, in Quaderno di Scienze Politiche n° 25/2024 dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, pag. 87.
[16] Ibid. pag. 92.
[17] Ibid.
[18] Ibid. pag. 93.
[19] Il concetto venne elaborato per iniziativa dell’Istituto di Guerra Marittimo in concomitanza con la nostra missione di pace in Libano.
[20] Tale espressione, coniata durante la Guerra Fredda da Zbigniew Brzezinski, allora Consigliere per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, indicava il c.d. “Fianco sud” e il “Fianco est”. Il concetto aveva caratterizzato per decenni la dottrina strategica occidentale, oltre naturalmente a quella nazionale.
[21] P.P. RAMOINO, Fondamenti di Strategia Navale, Ed. Forum di Relazioni Internazionali, 1999, pag. 45.
[22] L. VITA, Cos’è il Mediterraneo Allargato, Inside Over, 31 luglio 2018.