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L’ITALIA E IL RITORNO AL MARE
Amm. Sq. Ferdinando SANFELICE di MONTEFORTE
Introduzione
La posizione geografica del nostro Paese, al centro del Mediterraneo, sembrerebbe incoraggiare un orientamento generale della popolazione italiana verso il mare. In realtà, il fatto che, dopo i fasti della Roma imperiale e quelli delle Repubbliche Marinare, per secoli la nostra penisola sia stata suddivisa in più stati, molti dei quali assoggettati a potenze straniere, ha causato una situazione di debolezza generalizzata, con la conseguente vulnerabilità nei confronti delle minacce provenienti dal mare.
Tra gli Stati preunitari, solo i Regni di Sardegna e delle Due Sicilie, e in minor misura il Granducato di Toscana e lo Stato Pontificio, furono in grado di difendersi più o meno efficacemente dalle offese che venivano portate al nostro territorio, inducendo gran parte della nostra popolazione a rifugiarsi sulle montagne dell’interno.
Rimanevano quindi solo alcune comunità costiere, sufficientemente numerose e protette da adeguate fortificazioni contro gli attacchi nemici, mentre le poche comunità più piccole, per sopravvivere, si erano organizzate in modo da potersi rifugiare in montagna, lungo sentieri già predisposti, nel caso in cui una vela sospetta fosse avvistata all’orizzonte.
Fortunatamente, nel XIX secolo, da una parte il declino dei potentati nordafricani, e dall’altra l’unificazione della nostra penisola in un solo Stato, portarono a un miglioramento della situazione, e gradualmente la popolazione iniziò a tornare a popolare le coste del nostro Paese. Non fu uno spostamento repentino, anzi! Si può dire che prima della metà del XX secolo questo processo fosse ancora in fieri, con le comunità costiere ancora minoritarie rispetto alla maggioranza del nostro popolo.
Non eravamo, quindi, un “popolo di marinai”, e la dimostrazione ci era data dalla nostra inadeguatezza a raggiungere i parametri tipici, i cui indicatori erano stati fissati, verso la fine del XIX secolo, dallo studioso americano Alfred Thayer Mahan. Egli, infatti, aveva individuato sei parametri che indicavano quanto un Paese potesse dirsi orientato al mare.
Questi parametri o più precisamente, per usare la sua definizione, “le principali caratteristiche che influenzano il potere marittimo delle Nazioni”[1] erano sei:
“la posizione geografica, la conformazione fisica, che comprende i prodotti naturali e il clima, l’ampiezza del territorio, la quantità di popolazione, il carattere del popolo e il carattere del governo, incluse in questo le istituzioni nazionali”[2].
Basta scorrere l’elenco per notare quanto l’Italia fosse naturalmente dotata per essere una potenza marinara, salvo per il fatto di non avere una sufficiente percentuale della propria popolazione abituata alle attività del mare.
La conseguenza è stata per oltre un secolo la carenza di personale, vuoi per la Marina Militare, vuoi per quella mercantile, che hanno avuto, per lungo tempo, difficoltà a reperire di personale dotato di una conoscenza e di una familiarità con l’ambiente marino, precedente all’arruolamento. L’unica possibilità di reagire a questa carenza era la formazione ex novo e l’istruzione, due attività che hanno costituito – e costituiscono ancor oggi – una priorità per lo Stato e per la stessa Marina, tanto che ora, finalmente, si può dire che una parte adeguata della nostra popolazione sia “marinara”.
Ma la prolungata scarsa familiarità con il mare ha comportato storicamente una scarsa attenzione, da parte dell’opinione pubblica, a tutto ciò che si svolge sul mare, una disattenzione che dura ancor oggi, malgrado la distesa marina che ci circonda sia essenziale, ancor più rispetto al passato, per la nostra sopravvivenza e per il nostro benessere.
La marittimizzazione forzata dell’Italia
Purtroppo, o per fortuna, la forza degli eventi è superiore alla volontà dell’uomo, e il nostro popolo si è ritrovato, negli ultimi due anni, a dover accelerare il percorso di apprendimento sulle questioni marittime che ci coinvolgono.
L’anno appena passato, infatti, ci ha lasciato in eredità una serie di conflitti che hanno spaventato la nostra opinione pubblica, e l’hanno costretta a comprendere alcune verità che, per troppo tempo, erano state sottovalutate o, quanto meno, date per acquisite.
La prima di queste verità è che il nostro benessere dipende, per gran parte, dalla nostra industria manifatturiera. Siamo riusciti a migliorare la qualità di vita di una parte notevole della nostra popolazione grazie a questo indirizzo economico, che fu impostato quasi ottant’anni fa, e che ci ha reso uno dei dieci Paesi più prosperi al mondo.
La seconda verità – più precisamente il corollario di quanto visto prima – è che noi siamo un Paese di trasformazione: non avendo nel nostro territorio né cereali a sufficienza, né materie prime né tantomeno energia in quantità adeguata, dobbiamo importare tutto ciò che ci manca. Grazie a queste importazioni, possiamo anzitutto vivere, poi produrre ed infine esportare prodotti finiti.
La terza e ultima verità – quella in passato più trascurata dai media – è che la nostra attività di import-export avviene per la massima parte via mare. Il commercio internazionale marittimo, quindi, è al tempo stesso la fonte primaria della nostra esistenza e dell’economia nazionale e, per converso la nostra principale vulnerabilità. Chi ci vuol male, quindi, non deve fare altro che chiudere uno dei due accessi al Mediterraneo, gli Stretti di Gibilterra e di Suez/Bab-el-Mandeb, ed il gioco è fatto.
La nostra opinione pubblica e il mare
Pochi sanno che il concetto di “Potere Marittimo” è stato elaborato, per la prima volta, da un ufficiale di Marina napoletano, il comandante Giulio Rocco, il quale lo definì, nel lontano 1814, come “nell’ordine politico una forza somma risultante da quella di una ben ordinata Marina Militare e di una numerosa Marina di Commercio”[3].
Questa definizione, ripresa nei due secoli successivi da studiosi stranieri, come l’americano Mahan e, più di recente, in russo Gorkshov, indica bene la stretta connessione tra la Marina Militare e il commercio internazionale marittimo, ma non si diffuse in modo adeguato al di là dei ristretti circoli di governo.
Alcuni nostri governanti, a dire il vero, avevano chiara la nostra dipendenza dal mare, tanto da istituire, poco dopo la nascita del Regno d’Italia, il Ministero della Marineria, che per decenni si occupò sia della componente marittima militare sia di quella mercantile.
Inoltre, già nel 1914 un nostro Presidente del Consiglio, Antonio Salandra, dimostrò di capire bene le implicazioni strategiche di questa nostra dipendenza, tanto da affermare che, in quell’anno, “non erano venute meno le ovvie ragioni per le quali a noi era impossibile partecipare a una guerra contro Francia ed Inghilterra alleate; non l’estensione delle nostre coste indifese e delle nostre grandi città esposte; non il bisogno assoluto di rifornimenti per via di mare di cose essenziali all’economia nazionale ed alla vita stessa: grano e carbone soprattutto”[4].
Purtroppo, nel primo dopoguerra questa realtà fu trascurata anche a livello politico, tanto che noi ci alleammo alla potenza continentale, la Germania, contro le Potenze marittime. Fu infatti, nella Seconda Guerra Mondiale, un vero miracolo che l’Italia resistesse tre anni, senza importazioni via mare di cibo e di materie prime.
Le Potenze Marittime, infatti, avevano avuto buon gioco nel tagliarci da ogni fonte di approvvigionamento oltremare, con effetti devastanti sulla nostra economia. Valga, a titolo di esempio, l’osservazione dell’Ammiraglio Luigi Rizzo, presidente dei Cantieri dell’Adriatico durante il conflitto, il quale scrisse: “ringrazio Dio che non dobbiamo lavorare sulla (corazzata) Impero, poiché l’impresa sarebbe impossibile avendo gli approvvigionamenti a gocce per poter rispettare i programmi di lavoro”[5]. Ovviamente, se l’industria bellica languiva, ancora più drammatica era la situazione dell’industria in generale, visto che non arrivavano i minerali, ma – quel che è peggio – non arrivava neanche il grano, e la fame divenne ben presto endemica.
Finita la guerra e iniziata la ricostruzione, la nostra opinione pubblica non si accorse che il nostro miracolo economico era in gran parte legato al mare, e si preoccupò solo della minaccia terrestre proveniente dal Patto di Varsavia, attraverso Tarvisio e la “Soglia di Gorizia”.
La frustrazione di chi aveva il compito di proteggere la prima fonte del nostro benessere, il commercio internazionale marittimo, fu tale che un Capo di Stato Maggiore della Marina scrisse, negli anni della Guerra Fredda, a proposito della nostra opinione pubblica:
“le signore sono convinte che il mare serva per farci (sic) i bagni e i mariti credono che fatto e spedito il prodotto, tutto sia finito. Invece l’incerto ha principio proprio in quel momento. Se, arrivato al bagnasciuga, il prodotto non prosegue e non è ricambiato dalla materia prima che consente di continuare a lavorare, si muore di fame”[6].
Fortunatamente, la realtà dei fatti, prima o poi, si impone all’attenzione generale e la nostra opinione pubblica sta acquisendo, sia pure lentamente, una consapevolezza che solo qualche decennio fa non si pensava potesse conseguire.
Il primo aspetto che è balzato all’attenzione generale è che il commercio internazionale è un sistema estremamente fragile, ed è esposto a offese non solo da parte delle Grandi Potenze, le cui Marine militari sono un elemento di pressione notevole, ma anche da piccoli attori, statuali o meno, che possono sfruttare i punti sensibili delle rotte commerciali, in particolar modo le strettoie (in inglese “Choke Points” – strozzature), come è avvenuto pochi anni fa nello Stretto di Hormuz e avviene ora a Bab-el-Mandeb.
Il secondo aspetto, ancora non del tutto recepito, è che il mare è fonte di ricchezza, non solo per le proprie risorse ittiche, ma anche per i minerali e le fonti energetiche ricavabili dai fondali marini, diventati disponibili grazie alle tecnologie di estrazione sviluppate in questi ultimi decenni.
Il terzo e ultimo aspetto è che il fondo del mare viene anche utilizzato per ospitare la rete di cavi sottomarini che consentono le comunicazioni intercontinentali, incluse quelle che ci interessano ogni giorno: quando usiamo INTERNET, ad esempio, non ci rendiamo conto che la possibilità di collegarci con i nostri interlocutori, dovunque essi siano, dipende appunto da questi cavi sottomarini.
Tornando alle rivendicazioni sulle zone di mare costiere, le ricchezze fanno gola a chi non le possiede, o non è in grado di utilizzarle, e questo è vero per gli individui e, soprattutto, per gli Stati, specie in un pianeta sovraffollato come quello in cui ci troviamo.
Da qui la serie infinita di contenziosi tra Nazioni confinanti sull’estensione della piattaforma continentale e della connessa “Zona Economica Esclusiva” (ZEE), che garantisce allo Stato che ne esercita la sovranità il diritto esclusivo di sfruttamento.
Naturalmente, vi sono le Nazioni marittime che cercano di limitare queste rivendicazioni, in nome della libertà dei mari, e altre, invece, che tendono a “territorializzare” le acque prospicienti le loro coste.
A questo proposito, “non bisogna dimenticare che, per alcune Nazioni, i diritti di sovranità sugli spazi marittimi rappresentano interessi vitali, in quanto mettono in gioco la loro sopravvivenza economica, e quindi esse sono disposte a compiere atti che alla controparte potrebbero apparire sproporzionati”[7].
Questa osservazione è ancora più vera se si parla della lotta per ampliare i propri spazi marittimi, rendendoli di uso esclusivo, quando questa rivendicazione non è solo animata da desiderio di ricchezza.
In alcuni casi, infatti, a questa aspirazione se ne aggiunge un’altra, tesa a “santuarizzare” spazi marini, per evitare che potenze nemiche li possano sfruttare a danno dello Stato litoraneo.
Detto questo, è bene vedere in quale situazione si trova la nostra amata Italia, che si sta proiettando sul mare, un elemento ricco di sorprese, non sempre positive, sia per quanto riguarda il commercio, sia per quanto concerne le dispute sulle estensioni marine.
Le rotte del commercio
I mercantili che toccano i porti italiani seguono rotte ben definite, spesso con cadenza settimanale. Tra le navi di maggiori dimensioni, mentre le petroliere e le gasiere vanno direttamente ad attraccare agli appositi terminali, il traffico merci, ormai quasi tutto su container, si divide in due categorie: le navi più grandi passano dall’uno all’altro porto specializzato nello stoccaggio e transito, noto come “nodo” (Gioia Tauro ne è un esempio), dove lasciano un numero elevato di container e ne caricano altrettanti.
Vi sono poi navi di dimensioni relativamente minori che collegano questi nodi ai vari terminali – porti la cui funzione è quella di consentire la distribuzione dei beni nell’entroterra, anche a centinaia di chilometri di distanza. Da notare che i nostri terminali nel Nord del Paese, in Liguria e nel Triveneto, non servono solo il nostro entroterra, ma vengono (o meglio venivano, fino a poco fa) utilizzati per far arrivare le merci nell’Europa centrale, data la loro vicinanza a questa parte del Vecchio Continente.
Le rotte alturiere maggiormente utilizzate per il nostro commercio intercontinentale sono, in primis, quelle che ci collegano al continente americano, nei due emisferi; poi viene la rotta energetica che parte dal Golfo di Guinea, e, soprattutto, la rotta che consente l’interscambio con l’Asia.
Le ultime due, ormai da almeno venti anni, sono sempre più mal frequentate, da pirati o da chi vuole esercitare pressione su di noi interrompendo o rallentando il commercio. Non si tratta, quindi, solamente di un rischio economico, ma spesso le rotte vengono interdette per motivi politici, da parte di nostri avversari.
A questo proposito, noi Italiani, che vogliamo, giustamente, essere in buoni rapporti con tutti, dobbiamo ricordare che l’amicizia è necessariamente bilaterale e reciproca, mentre l’inimicizia e l’ostilità sono, spesso, unilaterali.
Tornando ai flussi di commercio marittimo, la rotta del Golfo di Guinea ha due problemi. Il principale è la vulnerabilità agli attacchi criminali delle navi mercantili, costrette a lunghe soste in attesa di trovare un ormeggio; il secondo riguarda l’attraversamento dello Stretto di Gibilterra, per entrare dall’oceano Atlantico al Mediterraneo, soggetto alle periodiche contese tra Paesi litoranei – Spagna, Gibilterra a nord e Marocco a sud – e al rischio di un riacutizzarsi della potenziale minaccia di organizzazioni terroristiche, come avvenne alcuni anni fa nei confronti dei mercantili in transito[8].
La rotta dell’Asia è ancora più esposta, in quanto presenta una serie di strettoie e di passaggi obbligati, il cui attraversamento avviene a bassa velocità. Dalla vicina costa, quindi, è possibile colpire i mercantili di passaggio con i mezzi più vari, che vanno dai missili costieri ai droni aerei e navali, fino ai gommoni per abbordare una nave e saccheggiarla.
Queste strettoie sono lo Stretto di Malacca, la cui notevole lunghezza espone le navi che lo percorrono a prolungati attacchi dalla costa, lo Stretto di Hormuz, sbocco della rotta del petrolio dei Paesi del Golfo Persico, il Golfo di Aden e lo Stretto di Bab-el-Mandeb, che consentono l’accesso al mar Rosso, e infine il canale di Suez che collega quest’ultimo al Mediterraneo.
Da vari anni, tutti questi passaggi, soprattutto quelli che ci collegano all’Asia, sono stati teatro, sia pure in tempi diversi, di attacchi terroristici o criminali (pirateria). Questo ha costretto le Nazioni marittime a inviare navi da guerra per proteggere i transiti, nel modo migliore possibile. Oltre a questa minaccia, il rischio di un loro blocco per dissidi tra le maggiori potenze non va trascurato.
Anzitutto, la sicurezza dello Stretto di Malacca è curata dai Paesi litoranei, la Malesia, l’Indonesia e Singapore, che hanno finalmente deposto le asce di guerra e hanno costituito l’Organizzazione ReCAAP (Regional Cooperation Agreement on Combating Piracy and Armed Robbery against ships in Asia), collaborando per garantire un transito sicuro ai mercantili.
Va detto, però, che gli Stretti tra Malesia e Indonesia sono essenziali per la Cina, in quanto il suo fabbisogno energetico è in gran parte soddisfatto dagli idrocarburi provenienti dal Golfo Persico. Non a caso l’India, da decenni avversario della Cina, ha militarizzato le isole Andamane e Nicobare, prospicienti gli ingressi occidentali degli Stretti, in modo da bloccare, in caso di crisi, l’afflusso di combustibili al governo di Pechino.
L’attraversamento dello Stretto di Hormuz, poi, è stato più volte bloccato dai Paesi rivieraschi, tanto da dover essere protetto, dal 2020, dalle navi della Missione europea Agénor/EMASOH (European Maritime Awareness in the Strait of Hormuz), dopo gli attacchi a petroliere da parte dei Pasdaran iraniani.
Viene quindi il golfo di Aden, dove operano, fin dal 2008, altre navi europee nella missione Atalanta, per contrastare la pirateria che si era sviluppata oltremodo nel Corno d’Africa. È interessante notare come l’operazione si svolga in coordinamento con navi americane, indiane, cinesi e russe, anche loro impegnate nella protezione dei mercantili nazionali.
Infine, lo stretto di Bab-el-Mandeb è oggetto, da mesi, di preoccupazione crescente, avendo i “Ribelli Houthi”, che occupano la maggior parte del territorio di quello che un tempo era lo Yemen del Nord, ed hanno iniziato ad attaccare giornalmente il traffico mercantile prima in modo selettivo, poi sempre più generalizzato.
Mentre gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno reagito a questi attacchi bombardando le postazioni degli Houthi lungo la costa, nell’ambito dell’operazione “Prosperity Guardian”, e quindi facendo del controterrorismo, l’Europa punta a svolgere una missione, che dovrebbe chiamarsi Aspis (o Aspides), molto più prudente, a carattere puramente difensivo, per la protezione dei mercantili, sulla falsariga delle altre due operazioni in atto (antiterrorismo).
Non va dimenticato, alla fine, il Canale di Suez, che rimase chiuso al traffico per molti anni, nel periodo delle guerre tra Israele e i Paesi arabi, e ora viene talvolta messo in crisi dalla scarsa manovrabilità delle navi che lo percorrono, e periodicamente lo bloccano, mettendosi di traverso nel canale, nei giorni di vento forte.
Inutile dire quali sarebbero le conseguenze di una interruzione prolungata della rotta asiatica sulla nostra economia. Come si è visto prima nel 2008, a causa della pirateria, e ora, in questi ultimi mesi, per gli attacchi degli Houthi, ogni interruzione provoca un brusco aumento dei prezzi di trasporto, per effetto sia dei costi assicurativi, sia dei percorsi più lunghi compiuti dalle navi per evitare le zone di pericolo.
Il percorso alternativo, nel nostro caso, è infatti la circumnavigazione dell’Africa, comunemente chiamata la “Rotta del Capo” di Buona Speranza, che costringe le navi a rimanere per mare altri 7-10 giorni, con conseguente aumento dei costi di trasporto.
Ma quello che noi Italiani dobbiamo sapere è che questa “Rotta del Capo” induce i mercantili ad approdare più di frequente nei porti dell’Europa atlantica, che richiedono un percorso minore. I nostri porti, quindi, perderebbero il vantaggio di cui godono, essendo utilizzati, come si è visto, non solo a fini nazionali, ma anche per rifornire le aree industrializzate dell’Europa Centrale.
Queste ultime, infatti, qualora fosse sbarrata la rotta attraverso il mar Rosso, ricorrerebbero ai trasporti terrestri provenienti dai porti che si affacciano sull’Atlantico, anziché dai terminali marittimi italiani della Liguria e del Triveneto. Il danno per l’economia italiana sarebbe quindi duplice.
Non bisogna, infine, dimenticare le possibili conseguenze indirette, per la stabilità del Mediterraneo, di un ricorso generalizzato alla “Rotta del Capo”. Tra le altre, un calo sensibile dei transiti attraverso il Canale di Suez priverebbe l’Egitto di uno tra i principali cespiti del Paese, causando una crisi economica devastante, simile a quella che colpì la Nazione nel 2008.
Un Egitto nuovamente in crisi, come avvenne in quegli anni, sarebbe una specie di fiaccola capace di dar fuoco alle polveri delle tensioni interne ai Paesi litoranei del Mediterraneo, con effetti drammatici sulla stabilità dei loro governi, proprio nel momento in cui l’Europa e in particolare l’Italia cercano di potenziare l’interscambio con i Paesi africani.
I contenziosi sulle acque litoranee
Un altro aspetto da considerare è la infinita serie di contenziosi, non tutti mantenuti a livello diplomatico, tra i Paesi contigui che devono delimitare le rispettive acque territoriali, ma soprattutto i confini delle Zone Economiche Esclusive.
Concentrandoci sui mari vicini a noi, va riconosciuto, anzitutto all’Italia il merito di avere definito – o di essere sulla via della definizione – in modo civile i limiti delle nostre acque territoriali e i confini delle ZEE con i Paesi a noi contigui, anche favorendo le controparti in modo significativo, pro bono pacis.
Pochi altri Paesi mediterranei, purtroppo, hanno seguito il nostro esempio. Il Mediterraneo occidentale vede, anzitutto, il contenzioso tra Spagna e Marocco, che sono arrivati persino a contendersi uno scoglietto, noto come isola Perejil (isola del prezzemolo), posto nelle vicinanze dello Stretto di Gibilterra. A questo si aggiunge proprio la questione di Gibilterra, rivendicata dalla Spagna che la dovette cedere alla Gran Bretagna nel lontano 1703, ma non ha mai rinunciato definitivamente al suo possesso.
Nel Mediterraneo Centrale, poi, è irrisolto il contenzioso tra Libia e Tunisia per la delimitazione delle ZEE, in una zona che è stata esplorata ed è risultata ricca di petrolio sotto il fondale marino. Non vanno poi dimenticati i contenziosi sulle zone di pesca tra noi e la Libia, con periodici sequestri di nostri pescherecci.
Passando al Mediterraneo Orientale, si entra in una miriade di accordi incrociati e di contenziosi senza fine: la Turchia e la Libia, tanto per iniziare da uno dei più recenti episodi, si sono spartite l’enorme zona di mare tra i due Paesi, senza riguardo per i diritti dell’Egitto e della Grecia sull’area.
Vi è poi il contenzioso ormai secolare tra Grecia e Turchia per le acque territoriali e per la ZEE del mare Egeo e delle acque intorno all’isola di Creta.
Vi è quindi la disputa per le acque intorno all’isola di Cipro, quella che riguarda Siria, Israele, Egitto e Libano, per la delimitazione delle rispettive ZEE, in un tratto di mare i cui fondali sono risultati ricchissimi di gas naturale.
Non parliamo poi dei mari lontani. I contenziosi sono tali e tanti che, periodicamente, il Dipartimento di Stato USA pubblica un opuscolo – ormai arrivato alla quarta edizione – nel quale viene indicata la posizione del governo di Washington su ognuna di queste rivendicazioni, citando anche quanto serie siano le dispute con i vicini[9].
Tra queste, come è stato accennato, le più gravi sono quelle che hanno luogo nell’Asia Orientale, perché non hanno solo il carattere di disputa economica, ma rivestono un’importanza strategica per l’intera area.
Uno tra gli Stati che hanno avanzato le rivendicazioni più numerose, alcune delle quali decisamente controverse è la Cina, che sta compiendo sforzi notevoli, anzitutto, per militarizzare gli arcipelaghi delle Spratly e Paracel, una catena di isolotti apparentemente di scarsa importanza, ma che per la presenza di risorse energetiche nei fondali che li circondano sono rivendicati da tutti i Paesi limitrofi, dall’Indonesia alle Filippine, fino al Vietnam.
La Cina pretende il possesso di questi arcipelaghi, in nome di diritti risalenti al Medio Evo. Qualora la pretesa fosse accettata, bisogna dire, la Cina potrebbe rivendicare come acque interne tutto il mar Cinese Meridionale, impedendo il passaggio di navi da guerra di altri Paesi da lei non ritenuti amici. Non a caso, gli Stati Uniti e alcuni loro alleati svolgono periodicamente passaggi in forze con le loro navi, compiendo quelle che vengono chiamate “Freedom of Navigation Operations” (Operazioni per la libertà di navigazione), scontrandosi ogni volta con la Marina cinese che cerca di disturbare il transito.
Appare chiaro, quindi, che questa rivendicazione, insieme alla disputa con il Giappone sulle isole Senkaku/Diaoyutai e alle minacciose dichiarazioni del governo di Pechino nei confronti dell’Isola di Taiwan, rientri non solo nella categoria dei contenziosi economici, bensì nella volontà di creare una fascia marittima di sicurezza intorno alla Nazione, che comprenda quella che uno stratega cinese ha definito, anni fa, la “Prima Catena di Isole”, che – purtroppo per la Cina – è costituita appunto da isole che appartengono o sono rivendicate da altri Paesi.
In definitiva, con buona pace della “Nuova Via della Seta”, tanto reclamizzata dal governo di Pechino come ponte che dovrebbe unire e coinvolgere numerose Nazioni e agevolare relazioni amichevoli, la Cina sta procedendo per accaparrarsi il meglio dei mari del Sud Est asiatico. Questa tendenza ha avuto come effetto l’avvicinamento all’Occidente di quasi tutti i Paesi dell’area, timorosi delle pressioni cinesi.
Un breve cenno, poi, va fatto sui contenziosi riguardanti i mari del Nord e, in particolare, l’Oceano Artico, nel quale la riduzione della superficie ghiacciata ha riacceso le rivendicazioni da parte delle Potenze litoranee, specie dopo che la Rotta del Nord e il Passaggio a Nord Ovest, prima quasi impraticabili, sono aperti per un numero sufficiente di mesi all’anno.
A questo si aggiunge il fatto che, stando a recenti rilevazioni, anche in quell’area le risorse dei fondali sono abbondanti e la voglia di sfruttarle è elevata.
Fortunatamente, i Paesi litoranei si sono convinti sul fatto che l’ambiente artico è estremamente fragile, per cui hanno accettato limitazioni allo sfruttamento delle acque e dei fondali marini. Ciò non toglie che oggi, come ai tempi della Guerra Fredda, i sottomarini nucleari delle Grandi Potenze lo frequentino fin troppo, per assicurare la deterrenza contro l’avversario.
La corsa agli armamenti navali
Non è un caso che la Cina non si limiti a rivendicare tratti di mare e isole in misura sempre maggiore, ma stia preparandosi a sostenere con la forza le proprie pretese, creando una Marina tra le più potenti al mondo.
Questo sviluppo preoccupa non solo i vicini, e in particolar modo il Giappone, la Corea del Sud e Taiwan, ma anche l’Occidente, con gli Stati Uniti in prima fila. A questi si unisce, come si è visto, tra un tentativo di dialogo e una scaramuccia di confine, il governo dell’India, che sta prendendo sul serio la minaccia cinese, e sta costruendo uno strumento navale che sia competitivo con quello avversario, oltre a militarizzare – come si è visto – le isole Andamane e Nicobare, dalle quali si possono agevolmente bloccare lo Stretto di Malacca e gli altri passaggi tra il mar Cinese Meridionale e l’Oceano indiano, attraverso gli stretti indonesiani.
In sintesi, l’Asia sta diventando un settore nel quale la tensione in campo marittimo tenderà a salire nei prossimi anni, e il rumore delle cannonate tra navi delle parti contrapposte potrebbe far fuggire il commercio, chiudendo una rotta che per l’Italia è una tra le più importanti per il benessere della sua popolazione.
Conclusioni
L’attenzione dell’opinione pubblica italiana si è rivolta verso il mare decisamente più tardi, rispetto ad altri Paesi a noi vicini: basti pensare che in Francia si parla da anni di “marittimizzazione dei conflitti” per indicare lo stato sempre più precario dei rapporti tra Nazioni marittime, e in Gran Bretagna si accenna sempre più spesso al “Secolo Blu”.
Queste espressioni, che nascondono situazioni per nulla rassicuranti, devono convincere la nostra opinione pubblica che il mare, più di prima, è un terreno di scontro e, nel migliore dei casi, di competizione. Farlo diventare un’area di collaborazione, come avviene, purtroppo, in casi ancora limitati, è per noi un’esigenza irrinunciabile. Senza pace non c’è commercio e noi da questo dipendiamo per la nostra economia e qualità di vita.
Bisogna ricordare quanto disse, oltre due secoli fa, Giulio Rocco, che avvertiva la necessità di affiancare al naviglio di commercio una flotta da guerra di adeguata capacità, contro i nemici piccoli e grandi del commercio pacifico e del mutuo rispetto in materia di sfruttamento dei fondali.
In questo, con la nostra storia di diplomazia e di mediazione, possiamo fare molto per “calmare le acque agitate”, ma dobbiamo ricordarci che una mediazione senza capacità di pressione con mezzi militari è destinata al fallimento. La nostra Marina, ancora una volta, viene chiamata a svolgere un compito di primaria importanza.
[1] A. T. MAHAN, L’Influenza del potere marittimo sulla Storia, 1660-1783, Edizione Ufficio Storico Marina Militare, 1994, pag.64.
[2] Ibid.
[3] G. ROCCO, Riflessioni sul Potere Marittimo, Ed. Lega Navale Italiana, 1911. pg. 1.
[4] A. SALANDRA, La Neutralità Italiana, Ed. Mondadori, 1928, pag. 92-93.
[5] G. GIORGERINI, DA Matapan al Golfo Persico, Ed. Mondadori,1989, pag. 549.
[6] V. SPIGAI, Il Problema Navale Italiano, Vito Bianco Editore, 1963, pag. 23.
[7] F. SANFELICE di MONTEFORTE, Guerra e Mare. Conflitti, politica e Diritto Marittimo, Ed. Mursia, 2015, pag. 62.
[8] Tanto che nell’ambito dell’Operazione NATO Active Endeavour nel 2003 venne istituita la task force STROG per scortare i mercantili attraverso lo Stretto di Gibilterra.
[9] US DEPARTMENT of STATE, Limits in the Seas. United States response to excessive natopnal maritime claims. 9 marzo 1992.