L’ideologia religiosa dello Stato Islamico – Modula Scarica il File in PDF
Lo Stato Islamico e
la creazione di una nuova identità collettiva
Greta Modula
DICEMBRE 2017
Introduzione
Nel 2016 il Global Terrorism Index identificava il gruppo fondamentalista Stato Islamico (IS) [1] come il gruppo terrorista più sanguinario del 2015, con più di 6.000 persone uccise in attacchi terroristici in ben undici Stati diversi[2]. La crudeltà e la violenza del gruppo sono ben note in tutto il mondo grazie alla pubblicazione online di video rappresentanti brutali e terrificanti esecuzioni (per lo più crocifissioni e decapitazioni) di prigionieri eseguite da foreign fighters[3] ma anche da semplici bambini. Lo Stato Islamico è anche ben noto come importante minaccia alle democrazie liberali occidentali, in quanto esso è riuscito ad attrarre un ingente e preoccupante numero di foreign fighters attraverso l’incoraggiamento rivolto a tutti i Musulmani di compiere la hijra per vivere “all’ombra del Califfato”[4] e controllare l’intera regione del Levante[5], oppure invitando i propri sostenitori ad impegnarsi nella jihad in ogni angolo del mondo con qualsiasi mezzo a propria disposizione.
Dato l’ampio numero di sostenitori e combattenti dell’ IS, risulta di grande interesse comprendere come individui provenienti da strati sociali e culturali diversi si uniscano e sostengano un ambiente così violento, combattendo la guerra di qualcun altro, un fenomeno sorprendente. Come riesce lo Stato Islamico ad attrarre un simile numero di combattenti? Come fanno il gruppo ed i suoi membri a motivare e mantenere viva tra i propri ranghi una simile crudeltà verso il prossimo? Ma soprattutto, come giustificano, immaginano e pensano i membri del gruppo del proprio coinvolgimento nella violenza politica?
Un’ideologia religiosa: verso la creazione di una nuova identità
Agli albori, l’IS era un ramo del gruppo jihadista di Abu Musab al-Zarqawi, Al Qaeda in Iraq (AQI). Esso si insediò in Siria durante la guerra civile siriana nel 2011, ma data l’incredibile crudeltà e brutalità dimostrate dal gruppo, il leader di Al Qaeda, Ayman al Zawahiri, decise nel febbraio del 2014 di sciogliere formalmente qualsiasi legame col IS.
Nel 2010 l’estremamente autoritario Abu Bakr al Baghdadi prese il comando del gruppo, ne ricostruì da zero la struttura interna, vi mise ai vertici persone fidate, e si impegnò con estrema violenza a raggiungere il proprio scopo, cioè creare un nuovo Califfato Islamico[6].
Il punto di svolta lo si ebbe il 30 giugno 2014, quando il gruppo proclamò formalmente la creazione del Califfato, con l’emiro Abu Bakr al Baghdadi come nuovo “Califfo Ibrahim”, capo della umma (la comunità islamica). Il Califfato così stabilito si estendeva da Aleppo, in Siria, alla provincia di Salah al Din, in Iraq, e si ergeva forte nel cuore del Medio Oriente, estremamente vicino alle città sacre all’Islam: Mecca, Medina e Gerusalemme. In particolar modo, il Califfato riuscì a cancellare il confine creato con gli accordi di Sykes-Picot, un costante promemoria per il mondo arabo dell’oppressione subita da parte delle potenze occidentali durante il colonialismo.
Fu proprio con la proclamazione del Califfato, nel 2014, che l’ISIS divenne lo Stato Islamico (IS), superò il lascito di AQI, ne implementò la brutalità e ne intensificò la violenza. Inoltre, l’affermazione di Al Baghdadi di aver ricostruito il Califfato è simbolicamente molto importante. Così facendo, egli non voleva solamente rimandare al leggendario passato dell’Islam, ma soprattutto invitare ogni singolo Musulmano ad unirsi al Califfato, giurargli fedeltà, e prendere parte alla lotta contro le democrazie secolari dell’Occidente, in modo tale da rendere l’Islam nuovamente glorioso. Tale messaggio è stato largamente divulgato dal gruppo attraverso diversi mezzi di propaganda. Ad esempio, nel numero di novembre 2014 della rivista online Dabiq[7] è scritto che:
La bandiera di Khilāfah [Califfato] sarà issata sopra Baytul-Maqdis e Roma, anche se gli Ebrei ed i Crociati non lo approvano. L’ombra di questa bandiera benedetta si espanderà finché non coprirà tutti gli estremi orientali ed occidentali della Terra, riempiendo il mondo con la verità e giustizia dell’Islam, mettendo fine alle falsità e tirannie dell’ jāhiliyyah [ignoranza], anche se l’America e la sua coalizione non lo approvano[8].
Una simile narrativa riflette la legge altamente teocratica dello Stato Islamico. Infatti, l’ideologia del gruppo incorpora elementi radicali delle dottrine salafita e wahabita[9]. Esse vengono manipolate in modo tale da regolare e giustificare il ricorso da parte del gruppo alla forza, violenza e jihad. Come scrive il sociologo Alessandro Orsini, lo Stato Islamico utilizza largamente la religione e le interpretazioni estremiste dei testi sacri come giustificazione all’uso della violenza, attraverso una narrativa che incoraggia all’odio e alla vendetta[10]. Orsini la chiama “violenza ideologica”: inizialmente, il gruppo reinterpreta in chiave estremista i testi sacri e le scritture islamiche in modo tale da persuadere i propri membri che l’Islam è oppresso. Poi, sfruttando la narrativa dell’odio, il gruppo costruisce una visione secondo la quale il mondo è diviso in due fazioni contrapposte: il Bene ed il Male[11]. Perciò, tutto ciò che viene definito e descritto come opposto al gruppo viene percepito dai suoi membri come incarnazione del Male. Tale visione del mondo viene confermata anche nel primo numero del giornale Dabiq[12]:
Il mondo è diviso in due campi e in due trincee – il campo dell’Islam e della fede e il campo dei miscredenti e degli ipocriti, il campo dei musulmani e dei mujaheddin e il campo degli ebrei, dei crociati, dei loro alleati e di tutte le nazioni e le ragioni della miscredenza che sono tutte guidate dagli Stati Uniti e dalla Russia, e che sono mobilitate dagli ebrei[13].
Gli elementi principali di questa narrativa dell’odio sono i concetti di takfir, jihad e hijra. La parola takfir indica gli apostati, i miscredenti. Nonostante normalmente sia difficile identificare una simile persona (dato che non è possibile provare con assoluta certezza cosa una persona possa pensare o credere), l’IS condanna con estrema leggerezza colui che con le sue azioni non rispetta le visioni del gruppo e non si conforma al suo fine ultimo. Tale individuo viene brutalmente giustiziato in vere e proprie esecuzioni pubbliche, affinché tutti sappiano che l’IS è intollerante verso il pluralismo e verso chiunque si dimostri non essere un “vero Musulmano”[14]. D’altronde, come sottolineato dai ricercatori Weiss e Hassan, il credo religioso su cui si fonda l’IS si basa sul concetto di wala e baraa, cioè lealtà all’Islam e slealtà verso tutto ciò che non è Islam[15]. Ne consegue che i “veri fedeli” debbano sempre denunciare gli apostati, anche quando essi sono membri della famiglia.
Per quanto riguarda jihad e hijra, essi sono due concetti molto complessi e distinti, anche se a volte possono sovrapporsi, come accade all’interno della narrativa di IS. Il termine jihad fa riferimento a diverse azioni che vanno dalla lotta spirituale al conflitto armato (quest’ultimo giustificabile solamente in situazioni di autodifesa). Ciononostante, IS usa la parola jihad riferendosi al conflitto armato e alla lotta fisica, giustificandone l’uso sostenendo che il gruppo difende i Paesi islamici dagli invasori apostati (facendo spesso riferimento all’invasione americana dell’Afghanistan e dell’Iraq). Dall’altro lato, il termine hijra fa generalmente riferimento alla migrazione di Maometto da Mecca a Medina. IS invece usa il termine per incoraggiare i Musulmani a lasciare i cosiddetti “Stati non-islamici” ed emigrare (anche assieme a tutta la loro famiglia!) verso i territori del Califfato. Perciò, dato che lo Stato Islamico incoraggia a lasciare i propri Paesi, emigrare verso la Siria e l’Iraq, e combattere in nemico, la hijra può essere assimilata alla jihad.
Usando questi concetti come principi fondamentali della propria ideologia, l’IS giustifica l’uccisione di intere popolazioni innocenti (ad esempio i clan sciiti ma anche sunniti) con il pretesto che essi sono sospettati di supportare il nemico e di essere quindi apostati del Califfato. Altrimenti, nel caso in cui vengano ‘inavvertitamente’ uccisi dei civili musulmani, il gruppo ne giustifica la morte come un atto volontario di martirio per l’Islam.
L’uso intelligente e terribilmente lucido di questi concetti, nonché la proclamazione del Califfato, hanno attratto un numero ingente di foreign fighters. Secondo il Professore Peter Neumann, direttore dell’International Centre for the Study of Radicalisation, da gennaio 2015 più di 20.700 combattenti provenienti da Stati esteri si sono uniti ad IS, con il contingente maggiore proveniente dal Medio Oriente e dal Nord Africa, seguito dagli ex Paesi sovietici, i Balcani, la Turchia, il sud-est asiatico, l’Europa, il Canada, gli Stati Uniti, l’Australia e la Nuova Zelanda. Com’è possibile che persone provenienti da ambienti sociali e culturali così diversi tra di loro decidano di raggiungere un territorio altamente instabile e violento, prendano parte agli attacchi terroristici e ne giustifichino il ricorso alla violenza? Dovremmo supporre che siano tutti individui psicopatici e sadici?
Secondo William McCants, responsabile delle politiche del Medio Oriente presso il Brookings Institute a Washington, questi individui non sono pazzi. Essi, piuttosto, seguono una “strada”, una strategia, che permette loro di giustificare anche il più assurdo atto di violenza come logico, razionale e moralmente corretto. Tale “strada” è stata costruita nel dettaglio dalla leadership dello Stato Islamico attraverso una narrativa religiosa che piace moralmente ai membri del gruppo, che attraverso la religione legittimano l’indiscriminato uso della violenza.
Di conseguenza, i combattenti di IS sono moralmente allettati dall’idea di perpetrare la jihad contro i takfir, ed è la stessa ideologia religiosa che li aiuta a percepire il gruppo e le sue azioni come moralmente giuste ed appropriate. D’altronde, come sottolinea lo psicologo Steven Pinker, l’ideologia è “la più consequenziale delle cause della violenza… nella quale i veri credenti e sostenitori intrecciano una vera e propria collezione di motivazioni che diventa a sua volta una credenza e li aiuta a reclutare altra gente per portare a termine il proprio scopo distruttivo”[16]. Tutto ciò che lo Stato Islamico fa, è parte di un piano più grande che trascende il comportamento moralmente etico dei suoi membri. Perciò, la violenza è il mezzo per raggiungere un fine, dove l’ideologia rende il fine idealistico ed il mezzo necessario per raggiungere il bene comune.
Possiamo quindi sostenere che l’ideologia dell’IS è di matrice religiosa, in quanto il gruppo mira a ristabilire un Islam puro, liberandosi di tutti i peccatori e miscredenti con la promessa che così facendo i combattenti avranno accesso al Paradiso. Inoltre, IS manipola la propria ideologia a seconda della volontà e delle necessità del gruppo. Infatti, oltre ad essere indottrinati militarmente e politicamente, i membri di IS vengono sottoposti ad un vero e proprio addestramento religioso con il quale i valori e la fedeltà di ciascun membro verso il Califfato vengono severamente scrutinati e messi alla prova, mentre la loro fede viene costantemente rinforzata attraverso l’uso di riti e preghiere giornaliere.
È inoltre interessante notare come un gruppo che non possiede un’autorità religiosa assoluta (come ad esempio il Papa per i Cristiani), sfrutti largamente predicatori o semplici uomini con una limitata conoscenza teologica. Tali figure rivestono un ruolo fondamentale nell’indottrinamento religioso dei membri del gruppo, in quanto, come testimoniano diversi disertori ed alcuni documenti trapelati, nella maggior parte dei casi gli stessi combattenti e sostenitori di IS (in particolar modo i foreign fighters) non possiedono una grande ed adeguata conoscenza religiosa dell’Islam.
Ne consegue che lo Stato Islamico ha una maggiore facilità nel far loro il lavaggio del cervello, indottrinarli alla violenza della jihad e rendere ai loro occhi la pratica legittima. Perciò, IS ingaggia apposta predicatori che possiedono una buona arte oratoria, hanno una voce calda, una personalità carismatica, e sono soprattutto avvezzi alla versione dell’Islam promulgata dallo Stato Islamico. Ciò spiega come anche i predicatori meno istruiti riescano a condurre efficacemente la formazione religiosa dei membri del gruppo terrorista semplicemente fornendo loro una limitata ed accuratamente selezionata (se non creata ad hoc) letteratura islamica che giustifichi qualsiasi azione commessa dal gruppo, morale o immorale che sia[17].
Ad esempio, il gruppo utilizza spesso gli scritti di Ibn Taymiyyah, un teologo islamico del 14° secolo, il quale scrisse che “la religione si basa su un libro che guida ed una spada che porta la vittoria”[18]. La religione, quindi, è la strategia attraverso la quale IS punisce con la “spada” coloro che sono considerati essere oppositori e nemici del messaggio del Profeta, messaggio che, al contrario, è costruito ad arte ed inculcato ai membri del gruppo come messaggio autentico dell’Islam più puro e vero.
Anche i ricercatori Anne Speckhard e Ahmet Yayla sostengono come, all’interno del gruppo terrorista in questione, ogni azione brutale sia giustificata attraverso l’interpretazione fondamentalista degli ahadit (la collezione dei detti del Profeta), i quali sono stati accuratamente scelti e reinterpretati ad hoc per giustificare qualsiasi azione che altrimenti verrebbe vista come brutale, immorale e non-islamica. Ad esempio, IS è ben noto anche per il suo traffico di esseri umani, dove coloro che vengono etichettati come apostati, non-arabi, non-musulmani, e/o oppositori dei musulmani sunniti, vengono venduti come schiavi sessuali.
In particolare, i Yazidi (una minoranza curda situata nella regione irachena del Sinjar e che IS denuncia adorare il diavolo) sono caduti preda della violenza del gruppo, il quale sostiene che i Yazidi necessitino di una punizione severa, spesso la morte. Generalmente, gli uomini Yazidi vengono barbaramente uccisi davanti alle donne, mentre queste ultime vengono vendute come schiave sessuali ai combattenti di IS, nonostante la legge islamica proibisca ai Musulmani di avere rapporti sessuali prima del matrimonio. Perciò, i teologi del gruppo terrorista hanno trasformato alcuni ahadit proclamando che la schiavitù sessuale non può essere considerata come un vero e proprio atto sessuale ma piuttosto come una punizione per i peccatori, nonché come un obbligo militare e religioso di ogni soldato del Califfato[19]. Tale “obbligo” è stato anche sottolineato nell’edizione di luglio 2014 del giornale Dabiq, dove la pratica della schiavitù viene definita come parte integrante nonché causa che sta dietro alla “Battaglia Finale”.
Di certo essere esposti ad una interpretazione fondamentalista del Corano non implica necessariamente il ricorso alla violenza. Ciononostante, i membri di IS sono sinceramente e religiosamente dediti alle azioni promosse dal gruppo e ricorrono volentieri al suo uso. Il loro credo condiziona le loro scelte. Infatti, come sostiene lo studioso Mark Juergensmeyer, la religione gioca un ruolo importante nella violenza religiosa, “in quanto essa dà una giustificazione morale all’uccisione e fornisce immagini di una guerra cosmica, che permette agli attivisti di credere di agire all’interno di uno scenario spirituale”[20].
Di fatto, le usanze ed i simboli religiosi (in questo caso reinterpretati dal gruppo per adeguarli ai propri fini) sono dei solidi facilitatori. Ad esempio, un importante fattore motivazionale che IS utilizza spesso nella sua narrativa è l’immagine di una “guerra cosmica” tra le forze del bene e le forze del male, una distruzione apocalittica nella quale le leggi morali di ogni giorno non possono essere applicate e dove solamente i veri e puri Musulmani verranno salvati, portati in Paradiso, e ripagati per le loro azioni terrene da devoti fedeli. Ne consegue che attraverso la sacralizzazione della lotta il gruppo legittima l’uso della violenza. Dobbiamo quindi pensare che i membri di IS attraverso la religione subiscano un lavaggio del cervello e quindi agiscano senza avere coscienza delle loro azioni?
Anche se i membri di IS sono stati religiosamente indottrinati, ciò non significa che essi stiano agendo inconsapevolmente: non sono solo marionette che seguono gli ordini, come magari potrebbe sostenere Hannah Arendt con la sua teoria della “banalità del male”[21]. Piuttosto, possiamo sostenere che l’indottrinamento religioso di IS nonché la sua gestione e regolamentazione della vita di ciascun membro mirino a creare un’ “autorità carismatica”, mirino cioè a rafforzare la figura del leader creando un senso di dipendenza da esso. Ciò sarebbe possibile attraverso una “radicalizzazione coercitiva” che costruirebbe forti legami tra i membri, donando loro al contempo un senso di identità, significato ed appartenenza[22]. Di certo il metodo utilizzato non mira a creare il culto della persona di al Baghdadi, ma piuttosto il culto di ciò che rappresenta l’Islam più puro ed aderente alla volontà del Profeta. Perciò, l’IS centra l’ideologia del gruppo sui (debitamente selezionati e reinterpretati) detti ed azioni del Profeta, nonché sulle promesse religiose, quali: la promessa di un Califfato puro, glorioso e duraturo, di guadagnarsi un posto in Paradiso grazie all’adozione della jihad, e la promessa di potersi vendicare degli oppressori nel Giorno del Giudizio. Ecco perché, come sottolineato da Juergensmeyer, i membri del gruppo terrorista sono capaci di qualsiasi cosa: perché, con le loro azioni, sono convinti di seguire la volontà di Allah.
Ciononostante, l’appeal ideologico di IS e la sua giustificazione religiosa alla violenza assieme all’obbligo di rispettare gli ordini e la legge della Sharia, non sono le sole ragioni per cui così tanti combattenti si uniscono al gruppo, ne supportano la violenza e la giustificano come necessaria. Di fatto, l’identificarsi con il gruppo e la sua ideologia, ma soprattutto il sentirsi parte integrante di esso, sono fattori fondamentali per accettare e giustificare il ricorso alla violenza.
Infatti, un gruppo che condivide un’ideologia vede forgiata la propria identità attraverso la stesura di pratiche e credenze comuni. È proprio all’interno dei gruppi che gli individui condividono pensieri, emozioni, credenze e desideri. Soprattutto, si arriva a creare e condividere un’identità ed un senso di appartenenza, dove l’identità del singolo si fonde con quella del gruppo di appartenenza. Ne consegue che gli individui si uniscono razionalmente ai gruppi terroristici e si dedicano alla violenza, in quanto essi vogliono creare un forte ed effettivo legame con gli altri membri del gruppo per scappare da un asfissiante senso di alienazione e trovare quindi un ambiente dove vi sia accettazione e solidarietà sociale[23].
Ad esempio, molti combattenti di IS provenienti dagli Stati occidentali e figli/nipoti di Musulmani immigrati si sono uniti alla causa jihadista perché nei loro Paesi di origine soffrivano di un “doppio senso di non appartenenza” [24]: combattevano una battaglia interiore tra l’entità e l’etnia ereditate, e la loro assimilata identità occidentale. La mancata integrazione nella società occidentale e l’incapacità di rispettarne le norme ha portato questi individui a cercare una nuova identità, una nuova comunità di cui fare parte. Infatti, la percezione di una mancata accettazione da parte della società li porta a sentirsi umiliati e discriminati.
Di conseguenza, essi cercato un modo per ristabilire e ricostruire il loro valore, la loro identità, andando contro all’occidente secolare e globalizzato in cui sono nati e/o cresciuti. In questo contesto, lo jihadismo offre loro le risposte che stavano cercando: una comunità in cui sentirsi accettati e dove forgiare una nuova identità, dove l’uso della violenza è l’unica arma legittima per liberarsi del secolarismo occidentale, proteggere la comunità musulmana e creare un mondo migliore. Quindi, questi individui pur non essendo particolarmente religiosi, sono impegnati in una rivolta generazionale ed usano lo jihadismo e l’Islam come uno strumento per creare un gruppo di appartenenza, ribellarsi contro la società e legittimare il loro ricorso alla violenza[25].
La violenza, quindi, come sostiene il ricercatore Jeffrey Murer, è un “fattore identitario” nonché un’interazione sociale: essa crea un’identità collettiva e allo stesso tempo dona un senso di appartenenza al gruppo. Infatti, la violenza è essa stessa un’azione, e la ragione dietro essa riflette la narrativa del gruppo. Perciò, “certe narrative portano gli atti di violenza all’interno dell’immaginario collettivo, intessendoli all’interno del tessuto identitario del gruppo stesso. Ne segue che la violenza non è priva di significato”[26].
Ciononostante, prima di arrivare a ricorrere alla violenza è necessario creare un immaginario identitario collettivo, cioè stabilire i parametri che definiscano quali siano le similitudini accettabili e quali le differenze inaccettabili all’interno del gruppo. Di fatto, la creazione dell’identità si basa sulla raccolta di caratteristiche simili per forgiare la base dell’unità; similitudine significa affiliazione, la quale crea un senso di autostima, valore ed integrazione nei membri del gruppo. L’appartenenza implica anche pratiche comuni, rituali, un comune linguaggio e modo di vestirsi, ecc.; esse diventano tutte delle caratteristiche che determinano una serie di valori e di norme che regolano le azioni sociali e donano loro un significato. Inoltre, l’accettazione delle norme sociali del gruppo può portare all’identificazione ed integrazione sociale. Allo stesso tempo, tuttavia, queste norme sociali innalzano un confine che separa il gruppo (in-group) da ciò che sta al suo esterno (out-group): polarizza cioè le relazioni tra “noi” e “loro”.
In modo simile, i ricercatori Reicher, Haslam e Rath spiegano attraverso un modello sull’identità sociale come atti inumani possano essere percepiti e celebrati come giusti quando i gruppi sono sottoposti a cinque fasi diverse: (i) identificazione, (ii) esclusione, (iii) minaccia, (iv) virtù, e (v) celebrazione[27]. Quando si forma un gruppo, i membri si identificano con esso, in quanto il gruppo rappresenta la loro identità ed il loro credo. Dopodiché, il gruppo esclude dalle proprie fila tutto ciò che viene identificato come diverso ed esterno al gruppo.
Se ciò che sta fuori al gruppo, l’out-group, viene percepito come una minaccia per il gruppo stesso (in-group), mentre quest’ultimo è visto come virtuoso e giusto, l’in-group può arrivare a giustificare attraverso meccanismi di disumanizzazione l’eliminazione dell’out-group, in quanto l’azione viene vista come un’azione difensiva necessaria. Perciò, il gruppo sceglie consapevolmente la violenza e la considera come giusta. Il gruppo fa, quindi, del male una virtù. Allo stesso modo, lo psicologo Pinker sostiene che “il lato oscuro delle nostre emozioni condivise è un desiderio per il nostro gruppo di dominarne un altro, non importa come ci sentiamo nei confronti dei suoi membri ed individui”[28].
Quindi, quando la violenza è un fattore chiave del concepimento del gruppo ed un concetto condiviso tra i membri di esso, allora lo stesso consenso del gruppo legittima il ricorso alla violenza. Il gruppo lega saldamente a sé i propri membri come parte fondamentale del processo di identificazione. Perciò, come sostiene lo psicologo militare Dave Grossman, se un individuo è legato ai suoi compagni ed egli è assieme al “suo” gruppo, allora le probabilità che l’individuo partecipi in azioni violente aumentano notevolmente[29].
La stessa esecuzione di azioni violente è una dimostrazione di impegno e dedizione. Ad esempio, per far parte dello Stato Islamico non basta giurargli fedeltà: il passato di ogni individuo viene investigato nel dettaglio. Dopodiché, segue un periodo di intenso addestramento militare e religioso, dove gli aspiranti jihadisti diventano avvezzi ai rituali e all’ideologia del gruppo. Alla fine, essi saranno riconosciuti ed accettati come combattenti membri del gruppo solamente dopo il loro “diploma”, ovvero dopo che avranno dimostrato la loro lealtà, devozione e rispetto delle norme sociali del gruppo attraverso l’esecuzione brutale di takfir catturati e imprigionati in precedenza da IS.
Dunque, i membri di un gruppo prendono parte alla violenza politica quando credono che ciò che stanno facendo sia giusto e legittimo in termini di norme sociali. Nel caso dell’IS, tuttavia, bisogna distinguere tra i combattenti siro-iracheni ed i foreign fighters, in quanto le ragioni per cui hanno preso parte al gruppo possono essere molto diverse e variare da caso a caso.
Generalmente, si può distinguere tra fattori interni ed esterni che hanno spinto questi individui ad unirsi all’IS. I primi possono essere riconducibili a difficoltà socio-economiche, situazioni di vita estremamente svantaggiate, oppure il consolidarsi nel proprio paese di conflitti armati. I fattori interni, invece, fanno riferimento ai bisogni e alle credenze di ciascun individuo. Solitamente, i combattenti locali (come i siro-iracheni) decidono di unirsi ad un gruppo terrorista perché soffrono di difficoltà socio-economiche, non vedono vie d’uscita alla loro situazione disagiata e non hanno nient’altro da perdere. Ad esempio, nel caso dello Stato Islamico, la povertà galoppante e la generale impossibilità di trovare lavoro hanno giocato un ruolo decisivo nell’influenzare la decisione di unirsi al gruppo.
Tale situazione è stata creata dallo stesso Stato Islamico, il quale ha estorto ogni cosa alla popolazione attraverso la riscossione di ingenti tasse e multe create ad hoc. Bisogna comunque ricordare che ci sono anche individui che si sono uniti al gruppo terrorista perché credono veramente che l’IS rappresenti un Islam puro e considerano la politica e la dottrina religiosa del gruppo come corrette. Questi ultimi, inoltre, percepiscono essere loro dovere morale unirsi all’IS per combattere i nemici dell’Islam e la minaccia che essi rappresentano per la comunità islamica.
Per quanto riguarda i foreign fighters, le cause della loro scelta di unirsi al gruppo terrorista possono essere leggermente differenti. Infatti, anche se diversi studi hanno dimostrato come essi siano generalmente individui di estrazione sociale povera, non abbiano ricevuto un’istruzione adeguata, e solitamente abbiano difficoltà a trovare un lavoro, ciò non significa che non vi siano casi di giovani con un’ottima formazione scolastica, professionalmente qualificati, che hanno deciso di lasciare le loro vite agiate per unirsi all’IS.
Ciononostante, come sottolineano Speckhard e Yayla, “l’ISIS è un ideale rivoluzionario che attrae coloro che hanno perso fede negli esistenti modelli di governance e non vedono altra via affinché la giustizia prevalga. È un brand che cattura le menti ed i cuori degli individui emarginati, arrabbiati, frustrati, annoiati e dei malati mentali di tutto il mondo”[30]. Anche secondo lo psicologo John Horgan questi soggetti “vogliono trovare qualcosa di significativo per le loro vite… certi cercano l’azione, mentre altri la redenzione”[31]. Inoltre, quest’ultimo sostiene non sia possibile generalizzare il problema e creare un profilo omnicomprensivo del foreign fighter.
Peter Neumann, dall’altro lato, sostiene vi sia un elemento che unisce questi soggetti: la loro incapacità a meglio identificarsi con la società dove sono nati e/o cresciuti. Dopo aver analizzato 700 casi diversi, Neumann divide i foreign fighters in tre categorie: difensori, cercatori e parassiti. I difensori sono coloro che sono andati in Siria con l’obiettivo di proteggere la popolazione sunnita dall’oppressione del regime di Assad, poiché per via della loro (non necessariamente radicale) identità musulmana si sono identificati con la sofferenza della popolazione sunnita. Tuttavia, dopo aver visto con i propri occhi le scioccanti condizioni in cui verteva la popolazione e l’entità del conflitto siriano, si sono radicalizzati.
I cercatori, invece, sono individui in cerca di significato, di un’identità, di una comunità, nonché di sentirsi potenti e virili. In particolar modo, loro sono in cerca di accettazione nonostante le loro passate malefatte. IS fa sì che essi si sentano forti, sicuri di sé, parte di una comunità ed offre loro la redenzione attraverso promesse religiose ed azioni estremamente eccitanti, pericolose e religiosamente significative. In particolar modo, nella maggior parte dei casi i cercatori sono individui con passati criminali che si sentono umiliati dall’Occidente e vedono un futuro migliore all’interno dei ranghi di IS.
Lo stesso gruppo terrorista mira, con la sua propaganda, ad attrarre gli uomini disillusi, offrendo loro una vita nuova piena di avventure dove possano tornare ad essere rispettati. Ad esempio, un poster pubblicato dal gruppo recita: “a volte gli uomini con i passati peggiori creano i futuri migliori”[32]. I cercatori, tuttavia, raramente hanno una vasta conoscenza religiosa dell’Islam. Essi sono principalmente elettrizzati dal progetto politico ed ideologico del gruppo.
Infine, i parassiti sono simili ai cercatori in termini socio-economici e in quanto a bisogno di accettazione, forza, e riconoscimento. Essi, tuttavia, necessitano già in partenza di un legame sociale con un individuo, un piccolo gruppo o un leader. In particolar modo, essi seguono ciò che fa il leader del loro gruppo, il quale è già di per sé una piccola comunità dove i parassiti sono accettati. Di conseguenza, se il gruppo decide di andare in Siria, anche il parassita farà lo stesso pur di non perdere il proprio legame sociale.
Conclusione
Lo Stato Islamico è un gruppo terrorista che si basa su un’ideologia religiosa fondamentalista. Esso divulga l’immagine di un Islam puro al quale aspirare attraverso il rispetto di determinate e violente norme sociali, dove chiunque si trovi in disaccordo è severamente punito o brutalmente giustiziato. IS promuove una visione manichea del mondo, polarizzata tra il Bene ed il Male. Per fare ciò, esso usa una narrativa dell’odio, giustificata dalla reinterpretazione della letteratura religiosa musulmana a seconda di quelli che sono i bisogni, obiettivi e convinzioni del gruppo.
La nuova comunità creata da IS usa la violenza come un mezzo legittimo per i fini del gruppo, ed i suoi membri credono sinceramente nella rettitudine di tali atti grazie all’indottrinamento religioso a cui sono stati sottoposti, accanto al loro desiderio di accettazione ed appartenenza. Infatti, l’ideologia religiosa li spinge a credere che il progetto del gruppo terrorista sia socialmente legittimo, mentre la narrativa dell’odio li aiuta a distanziarsi dalle vittime e dagli atti compiuti. Questi individui credono veramente che ciò che stanno facendo sia giusto e legittimo.
Inoltre, le loro azioni sono accettate dal gruppo, il quale in cambio dà loro un senso di inclusione, cameratismo, eccitamento, e soprattutto, un’identità ed un senso di appartenenza che non hanno mai trovato altrove. Perciò, come scrive Murer, “coloro che commettono violenza non stanno necessariamente prendendo una decisione individuale di essere ‘cattivi’; possono semplicemente rispondere ad un’aspettativa sociale nonché alle norme di un dato ambiente. Stanno rappresentando la propria identità”[33].
Nel caso di IS, la violenza religiosa è ciò che tiene il gruppo assieme, gli dà significato e ne giustifica le azioni. L’accettazione delle norme del gruppo da parte degli individui, invece, è parte integrante della propria identità e della loro devozione al gruppo, come se fosse una famiglia. Questi sono i fattori principali che condizionano il modo in cui i membri di IS giustificano, immaginano e pensano del loro coinvolgimento nella violenza politica.
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[1] Il gruppo è noto anche con il nome di Stato Islamico dell’Iraq e dello Sham (ISIS), Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIL), oppure Daesh (acronimo arabo di ISIS). Tali denominazioni si rifanno alla regione geografica all’epoca sotto controllo del gruppo jihadista. Con la proclamazione del Califfato, tuttavia, Abu Bakr al Baghdadi tolse il riferimento geografico dal nome con lo scopo di ampliare il raggio d’azione del gruppo e rendere così lo Stato Islamico un vero e proprio movimento globale.
[2] Institute for Economics & Peace, Global Terrorism Index, 2016: Measuring and understanding the impact of terrorism, 2016.
[3] Con il termine foreign fighters si intende individui provenienti da diversi stati con lo scopo di impegnarsi nella comune lotta contro il secolarismo occidentale. Secondo il ricercatore Peter Neumann più di 20.700 individui (tra i 13 e 69 anni) hanno risposto alla chiamata dello Stato Islamico raggiungendo la Siria e l’Iraq da oltre 90 paesi. Peter Neumann, Radicalized: New jihadists and the threat to the West, I.B. Tauris, Roma 2016.
[4] Jessica Stern & J. M. Berger, ISIS: The State of terror, William Collin, Londra 2015.
[5] La regione del Levante comprende Israele, Palestina, Iraq, Giordania, Libano e Siria.
[6] Il Califfato è un simbolo caro a tutti i musulmani, in particolar modo ai jihadisti salafiti. Esso, infatti, rappresenta un vero e proprio impero islamico dove la società musulmana segue la Legge della Sharia.
[7] Dabiq era una rivista in inglese che da luglio 2014 IS pubblicava mensilmente online a scopo di propaganda. Da settembre 2016 essa è stata sostituita dalla rivista Rumiyah (dall’arabo “Roma”, la quale rimanda alle terre dei miscredenti occidentali), anch’essa diffusa mensilmente online in nove diverse lingue (inglese, francese, tedesco, russo, turco, indonesiano, pashtun, uiguro, e urdu), anche se, quest’ultima è da due mesi che non viene pubblicata.
[8] Foreword, in “Dabiq”, novembre 2014, p. 3.
[9] L’Islam salafita comprende al proprio interno diversi movimenti difficilmente distinguibili gli uni dagli altri. Essi credono che il mondo islamico sia in declino e che l’Islam stesso sia stato corrotto nei secoli dalle diverse interpretazioni che gli sono state date. Perciò, essi cercando di ritornare alle credenze e pratiche dell’Islam delle origini rifiutando le interpretazioni degli intellettuali ed accademici, mentre il Corano e la sunna (la collezione delle pratiche, azioni e parole del Profeta) sono le uniche fonti accettate e che si pensa determinino la vita del vero Musulmano. L’interpretazione che questi movimenti danno dell’Islam sunnita è molto rigida, perciò spesso ci si riferisce a loro con il termine di “fondamentalisti islamici”. Ciononostante, questi movimenti possono distinguersi in ulteriori fazioni. Ad esempio, vi sono i “quietisti”, i quali vogliono purificare l’Islam senza impegnarsi in alcun modo nella politica. Al contrario, i cosiddetti “politici” sostengono che l’attivismo politico sia necessario per la purificazione. I “jihadisti”, invece, credono che la violenza sia la soluzione alla crisi dell’Islam. Questi movimenti non condividono simili pratiche o credenze (tranne per il fatto che sono monoteiste, credono l’interpretazione degli uomini sia corrotta ed una minaccia e che perciò vi sia la necessità di ritornare all’Islam degli albori), ma piuttosto un atteggiamento verso la stessa religione in risposta ad un mondo in costante evoluzione.
[10] Bisogna tuttavia sottolineare come la propaganda del gruppo jihadista non è meramente violenta. Al contrario, come sostiene Laura Quadarella Sanfelice di Monteforte, la propaganda dello Stato Islamico si distingue a seconda del pubblico a cui essa è diretta: all’interno del mondo islamico essa è narrativa, mentre all’infuori di esso la propaganda jihadista è una vera e propria guerra psicologica verso l’Occidente. Nel primo caso, IS offre al pubblico una visione del mondo ideale, dove gli abitanti vivono felici, godono di servizi sanitari e scolastici gratuiti mentre i vecchi, poveri e malati vengono assistiti. Le tasse ed i sussidi vengono disposti a seconda della disponibilità economica di ciascuna famiglia. IS promette ai ragazzi potere, armi e donne, mentre alle ragazze promette una vita in cui essere mogli devote di nobili combattenti impegnati in una giusta causa, cioè costruire un mondo migliore per i propri figli. Talvolta tale narrativa ha influenzato anche giovani ragazzi e ragazze in Occidente. Al contrario, la propaganda verso i miscredenti occidentali esalta la violenza in tutte le sue forme più estreme, crudeli e spettacolari. Anche questa forma di propaganda mira a fare nuovi proseliti, tuttavia essa è principalmente rivolta a giovani disadattati in cerca di potere e realizzazione. Laura Quadarella Sanfelice di Monteforte, Perché ci attaccano: Al Qaeda, l’Islamic State e il terrorismo “fai da te”, Aracne Editrice, Roma, 2017.
[11] Orsini Alessandro, ISIS: I terroristi più fortunate del mondo e tutto ciò che è stato fato per favorirli, Rizzoli, Milano 2016.
[12] Il nome del giornale deriva dalla città di Dabiq, dove l’IS sostiene avverrà la Battaglia Finale, anche nota come Giorno dell’Apocalisse. Qui, le forze del Bene sconfiggeranno le forze del Male; gli uomini giusti verranno salvati da Allah, mentre gli uomini malvagi saranno sterminati una volta per tutte.
[13] From Hijrah to Khilafah, in “Dabiq”, luglio 2014, p. 10.
[14] I disertori dello Stato Islamico hanno testimoniato che il gruppo tende a condannare di apostasia chiunque vada contro le leggi imposte (atteggiamenti quali bere alcol, fumare sigarette, commettere adulterio, andare contro la legge della Sharia, ecc.), sia sospettato di tradimento, o discordi con la missione del gruppo e/o dei metodi usati da esso per raggiungere il proprio fine. Inoltre, vi sono stati casi in cui i foreign fighters hanno accusato di apostasia altri musulmani sunniti pur di liberarsene e poterne sposare le vedove.
[15] Michael Weiss & Hassan Hassan, ISIS: Inside the army of terror, Regan Arts, New York 2015.
[16] Steven Pinker, The better angels of our nature: A history of violence and humanity, Penguin Books, Londra 2011, p. 613.
[17] Tale interpretazione dei testi sacri permette pratiche che anche il Wahabismo proibisce, come ad esempio la distruzione di luoghi di culto musulmani, la ribellione contro i regnanti, attaccare i sciiti e, in particolar modo, le missioni suicide e le decapitazioni.
[18] M. Weiss & H. Hassan, op. cit., p. 218.
[19] Amnesty International, Escape from hell: Torture and sexual slavery in Islamic State captivity in Iraq, 2014; Anne Speckhard & Ahmet S. Yayla, ISIS defectors: Inside stories of the terrorist Caliphate, Advances Press, McLean (VA) 2016.
[20] Mark Juergensmeyer, Terror in the mind of God: The global rise of religious violence, University of California Press, Cambridge 2011, p. xi.
[21] La teoria della banalità del male sostiene che la gente commette crimini brutali come se fossero azioni parte di una routine accettata dalla collettività, un obbligo che i membri diligenti devono seguire per far sì che le cose seguano il giusto corso ed essi possano così ottenere l’approvazione ed il rispetto dei propri superiori.
[22] Eleanor Beevor, Coercive radicalization: Charismatic authority and the internal strategies of ISIS and the Lord’s Resistance Army, in “Studies in Conflict & Terrorism”, vol. 40, n. 6, 2016, pp. 496-521.
[23] Max Abrahms, What terrorists really want: Terrorist motives and counterterrorism strategy, in “International Security”, vol. 32, n. 4, 2008, pp. 78-105.
[24] Olivier Roy, Globalized Islam: The search for a new ummah, Columbia Press University, New York 2004, p. 193.
[25] David Webber & Arie W. Kruglanski, The social psychological making of a terrorist, in “Current Opinion in Psychology, vol. 19, 2018, pp. 131-134; Anja Dalgaard-Nielsen, Violent radicalization in Europe: What we know and what we do not know, in “Studies in Conflict & Terrorism, vol. 33, n. 9, 2010, pp. 797-814; Olivier Roy, Jihad and death: The global appeal of Islamic State, Hurst & Company, Londra 2017.
[26] Jeffrey S. Murer, Understanding collective violence: The communicative and performative qualities of violence in acts of belonging, in “International Criminal Law and Criminology” (a cura di Ilias Bantekas & Emmanouela Mylonaki), Cambridge University Press, Cambridge 2014, p. 288.
[27] Reicher Stephen, Haslam Alexander & Rath Rakshi, Making a virtue of evil: A five-step social identity model of the development of collective hate, in “Social and Personality Psychology Compass”, vol. 2, n. 3, 2008, pp. 1313-1344.
[28] S. Pinker, op. cit., p. 630.
[29] Dave Grossman, On killing: The psychological cost of learning to kill in war and society, Little Brown and Company, New York 2009.
[30] A. Speckhard & A.S. Yayla, op. cit., p. 331.
[31] Erin Bianco, Why do people join ISIS? The psychology of a terrorist, IBTimes, 5 settembre 2014.
[32] Rajan Basra, Peter R. Neumann, & Claudia Brunner, Criminal pasts, terrorist futures: European Jihadists and the new crime-terror nexus, ICSR, 2016, p. 6.
[33] Murer, op. cit., p. 315.