Scarica il file in pdf – Israele – agosto 2022- Lanzara
Mediterraneo e Terre promesse
In Israele per essere realista devi credere nei miracoli (Ben Gurion)
Gino Lanzara
Mediterraneo, quando la salsedine si mescola con la storia
Il Mediterraneo è il mare più affascinante e la sfida geopolitica più complessa che possano proporsi ad un analista; al Mare di mezzo si accede solcando spume bianche ed acque cobalto, sovrastati dal verde e dall’ocra di due continenti per navigare ad est, verso terre aspre, rocciose, diretti ad isole destinate a dee immortali e ad uomini più eterni dei detentori di folgori e venti; uomini destinati ad una morte dolce che sorge dal mare serale[1] colore del vino, che risale le rive con una risacca lenta e ritmica. È il mare dei colori violenti, delle spezie dai colori intensi e dagli aromi inebrianti; è il mare su cui hanno risuonato le invocazioni ad un unico Dio declinato da uomini e civiltà diverse.
Ci muoveremo qui, ad est, tra personaggi anche troppo umani, divinità che hanno illuminato i deserti con colonne di fuoco, e profeti ascesi dalle rocce al cielo, in città millenarie e mai come oggi ancora contese. Lapierre e Collins[2], non a caso, hanno scritto di Gerusalemme, degli avvenimenti che presero vita dal 1947; è una narrazione passionale, serrata, che lascia senza fiato; non conta il tempo trascorso, seguire oggi Israele continua a stupire, a lasciare con il respiro in affanno. È fauda[3], ma è anche scoprire le mille asperità di una realtà su cui è opportuno soffermarsi, e da cui siamo separati da poco più di 1200 miglia nautiche. Nel momento in cui la pandemia ha causato una decrescita planetaria pari a circa l’8%, l’economia israeliana, grazie ad un efficiente servizio sanitario che ha operato in sinergia con forze dell’ordine e Shin Bet[4], è riuscita a garantire non comuni e resilienti capacità.
Economia, tecnologia, armi e unicorni
Se si pensa che con il termine unicorni si categorizzano le imprese che hanno raggiunto un valore superiore al miliardo di dollari, passando dallo status di start up a quello di grande azienda, basta soffermarsi sulla Silicon Wadi – uno dei cluster tecnologici più produttivi al mondo -, per rammentare l’aumento di unicorni, oltre il 10% globale[5], che si è verificato già dal 2020; un incremento di oltre il 20% rispetto al 2019 con il capitale versato alle aziende locali triplicato in sei anni.
Il comparto tecnologico è oggi una delle locomotive del sistema paese israeliano; partito dal settore privato, ha indotto la società civile a richiedere lo stesso livello di servizi nel pubblico, tanto da portare il governo ad investire più razionalmente sulle opere strategiche, con un budget in miglioramento. È stato comunque il bilancio per la difesa a gettare le basi per un’economia basata su ricerca e innovazione, grazie alla crescita di ricercatori altamente qualificati su cui fondare le basi per la Ricerca e Sviluppo, grazie anche alle IDF[6]; fiorenti società di sicurezza informatica annoverano dirigenti che hanno prestato servizio nell’Unità 8200, reparto di élite di intelligence di Tsahal[7]. Già nel 2009, Dan Senor e Saul Singer scrissero Start-up Nation: The Story of Israel’s Economic Miracle, rimarcando il ruolo dell’esecutivo, dell’immigrazione e, soprattutto, della cultura dell’assunzione del rischio d’impresa.
Del resto, è un fatto che ormai esista una technology-diplomacy che permette ad Israele di sfruttare i rapporti commerciali fondati sull’high tech per aggiornare lo schema delle sue alleanze, come sta già accadendo grazie agli Accordi di Abramo. Non c’è dubbio che, oltre agli aspetti strategico militari, l’economia sia assurta ad un ruolo di compensazione tale da far incrociare, con quelle di Gerusalemme, le vie di Ryadh, puntata alla realizzazione di Neom, megalopoli tecnologica. Economia ed energia accompagnano poi il percorso della UE, visto il MoU trilaterale di 9 anni firmato dalla Presidente della Commissione Ursula von der Leyen per l’East Mediterranean Gas Forum[8] con Egitto e Israele per garantire congrue forniture di gas all’Occidente; un accordo che si inserisce nella strategia di diversificazione delle risorse, con l’intento di sganciarsi dal gas russo. La prospettiva più pagante consisterebbe in un collegamento con l’Europa, come un tempo previsto dal progetto EastMed, affetto tuttavia da forti difficoltà realizzative politico economiche dovute anche all’opposizione turca. Il MoU[9] UE-Israele-Egitto ha dunque optato per la modalità più celere e conveniente, ovvero per il trasporto attraverso il Cairo.
Di certo, il nuovo Medio Oriente è più orientato ad investimenti ed a clusterizzazione economica che non a politiche di principii; secondo la Rand Corporation, Israele avrebbe beneficiato degli Accordi di Abramo[10] con una crescita del 2.3% del PIL, a fronte dello 0,8% degli EAU[11]; ha poi intrattenuto rapporti con il Marocco, con cui si evidenzia sia una crescita progressiva degli scambi commerciali dai 13,6 milioni del 2020 ai 19,1 milioni del 2021 sia un principio di collaborazione militare grazie ad un MoU sulla difesa per la cooperazione strutturata[12]; ha cominciato a relazionarsi con il Bahrain, Paese tuttavia ancora frenato dall’ostilità sia verso Tel Aviv sia verso la casa regnante, da parte della sua popolazione a maggioranza sciita; infine si sta confrontando con il Sudan, rallentato dal ritardo degli aiuti del FMI[13] e della Banca Mondiale.
Le imprese israeliane ora sono alle prese con un dilemma commerciale e strategico, dovendo decidere se fare rotta verso il mercato cinese, per ottenere profitti a breve termine, ammesso che la Repubblica Popolare esca dall’impasse finanziaria e di mercato in cui si sta trovando, o verso gli USA, attenti ad impedire che Pechino acquisisca know how tecnologici inediti. È possibile a tal proposito rilevare l’importanza della sicurezza nazionale nelle parole dell’ex primo ministro Naftali Bennett in un discorso del febbraio 2022 tenuto alla Conferenza internazionale dell’Istituto per gli studi sulla sicurezza nazionale, dove si è cominciato a delineare l’impiego del sistema laser di intercettazione blu e bianco, un sistema d’arma ad energia diretta destinato ad integrare la missilistica dell’Iron Dome.
Un esempio di commistione degli aspetti militare ed economico si riscontra nella liaison con il governo greco, che ha scelto Israele come asse portante per l’istituzione sia di una scuola di volo sia per la vendita di aeromobili, un accordo di spessore anche in chiave geopolitica, tenuto conto che già dal 2015 esiste una partnership strategico-energetica, aggiornata nel 2020 con la vendita di armi. La compagnia israeliana Elbit Systems curerà la fornitura di velivoli, assicurandone manutenzione e logistica; interessante notare che tra gli aerei sono annoverati dieci M-346 della italiana Leonardo: il tutto in chiave di contenimento delle proiezioni di Ankara. La tecnologia pervade ogni aspetto, non da ultimo quello che riguarda l’acqua dolce; EAU, unitamente agli USA ancorché impegnati in un ruolo fiancheggiatore esterno, Giordania e Israele hanno firmato l’Energy for Water Initiative, una dichiarazione d’intenti, grazie a cui, con la partecipazione di Abu Dhabi, Amman si è impegnata a realizzare sul proprio territorio un impianto fotovoltaico (Prosperity Green) per produrre energia solare da vendere a Israele, in cambio di un impianto di desalinizzazione per fornire acqua potabile (Prosperity Blue) al Regno Hashemita che, in un’ottica votata alla distensione, intende riconquistare una significativa valenza politica insidiata dagli Accordi di Abramo, e che è tuttavia testimoniata dalle visite del ministro degli esteri Lapid e del Presidente Herzog. Energy for Water, sotto questo aspetto, si inserisce in un trend che sottende politiche connesse a valutazioni di carattere strategico, per cui EAU, Israele ed Arabia Saudita vedono la spinta verso la transizione green come un metodo per ottenere un vantaggio comparato ricardiano[14].
Middle East North Africa: intrecci geopolitici da est a ovest
Passando all’aspetto più strettamente geopolitico della situazione mediorientale, non è possibile non stigmatizzare la percezione araba del ritiro degli USA dalla regione. Pur in presenza di una propria cospicua presenza militare, l’opinione pubblica americana non spende per il Medio Oriente un sostegno significativo, anche alla luce dell’errato convincimento che la induce a ritenersi indipendente dalle forniture petrolifere del Golfo.
Di fatto gli USA, dando più di un’impalpabile percezione di sganciamento dalla regione, hanno preferito mantenere viva, anche se intermittente, l’attenzione sul JCPOA[15], che ha di converso consolidato l’asse tra israeliani, emiratini e sauditi. In un teatro dove la Fratellanza Musulmana appare fin dalle Primavere Arabe in comunione con Hamas, dove l’Egitto cerca di mantenere alta la sua noblesse, dove la Cina[16] intesse legami economici e diplomatici, dove Iran ed Arabia Saudita cercano di bilanciarsi, e dove la Turchia adotta una doppia postura strategica –islamista e nazionalista-, mentre la Russia cerca di occupare le posizioni una volta americane, Israele cerca di contrastare i desideri nucleari di Teheran impegnandosi in una sorta di gestione del conflitto palestinese cercando una sponda in Ryadh, condizionata dalla propria opinione pubblica saudita ancora poco incline alla cooperazione con Gerusalemme.
In ogni caso, in ossequio ai dettami di una più concreta realpolitik, la questione israelo-palestinese, nel 2021, non ha assistito al dispiegamento compatto delle monarchie del Golfo contro Israele a differenza del passato, quando la causa della decolonizzazione era funzionale o a stabilire un primato sugli altri leader regionali, o a dare un segno di esistenza politica; questo, per lo meno, fino all’invasione irachena del Kuwait, che ha visto Arafat prendere le parti di Saddam Hussein. Passando per gli accordi di Oslo del 1993 tra OLP e Israele, il nuovo secolo ha assistito all’avvicinamento progressivo tra Golfo e Gerusalemme, catalizzato dalla convergenza contro la mezzaluna sciita, l’arco di influenza incuneato tra Israele, tutt’ora impegnato in raid aerei contro obiettivi iraniani in Siria, e le monarchie regionali attraverso Iraq, Siria e Libano.
Il quadro, tuttavia, non sarebbe completo se non si considerasse il fatto che l’Arabia Saudita[17], condividendo motivazioni strategiche con gli EAU e il Bahrain per quanto riguarda Israele, ha cooperato segretamente a lungo con Tel Aviv, ma senza poter dimenticare lo status di custode dei due luoghi più santi dell’Islam[18]; interessante unicum dell’area è costituito dall’Oman, che ha adottato un approccio fuori dagli schemi, sostenendo pubblicamente l’Egitto in occasione dell’accordo di pace con Israele nel 1979 e ospitando eminenti funzionari israeliani già a partire dagli anni ’90. Gli EAU interpretano al meglio le dinamiche politiche del Golfo, ritenendo che Israele non sia una minaccia alla stabilità, minaccia ora presente invece nell’espansionismo iraniano e nell’attività dell’islam politico transnazionale della fratellanza musulmana che annovera tra i suoi tutor Turchia e Qatar. L’intesa Arabia Saudita-EAU, tra l’altro, contempla la relazione diplomatica con Israele, con l’Egitto quale partner di pace per Gerusalemme, nonché strumento indiretto per preservare le varie partnership con Washington, unico attore politico nelle cui mani, nonostante tutto, risiede la possibilità di infrangere quest’architettura securitaria. Del resto, la mediazione della tregua con Ḥamās durante l’operazione Guardiano delle Mura, ha fatto riacquistare credibilità al Cairo sia di fronte agli USA sia al cospetto dei Paesi del Golfo, tanto da permettere il consolidamento della posizione del generale al Sisi, forte di un pragmatismo di successo che ha permesso di ricevere, dopo più di un decennio, un primo ministro israeliano, Bennett. Di fatto, Gaza ha costituito l’occasione, per il Cairo, di riproporsi per via esterna agli Accordi di Abramo.
La complessa normalizzazione degli Accordi di Abramo
La normalizzazione delle relazioni costituisce un allontanamento dalle logiche passate, ma pur attestando l’influenza del Golfo sulla regione, non allontana del tutto da rischi futuri.
Dal loro canto, i palestinesi hanno valutato gli accordi di normalizzazione come un tradimento, senza riuscire a farli condannare dalla Lega Araba che ha invece assistito alla riconciliazione di al Ula[19], ovvero all’accordo sostenuto dal Kuwait e siglato tra Arabia Saudita, EAU, Bahrein, Egitto e Qatar, che ha messo fine al blocco commerciale e dei collegamenti imposto a Doha dal 2017. Quel che più rileva è la chiusura della faglia intrasunnita in cui si era incuneata Ankara, repentinamente riavvicinatasi a Gerusalemme, una frattura che richiederà ancora tempo per ricomporsi completamente. In questa prospettiva si inseriscono gli Accordi di Abramo, ovvero quell’unicum che ha condotto Tel Aviv ad intese inedite con Marocco, EAU, Bahrein e Sudan[20], finalizzate al contenimento delle spinte internazionaliste iraniane e turche che tanto stanno operando ora sull’Algeria, in acceso conflitto diplomatico con Rabat.
In merito agli Accordi si può fare riferimento, per una migliore comprensione, alla dottrina periferica[21], una strategia basata sui rapporti bilaterali israeliani con i principali paesi posti ai confini periferici della regione, come Turchia, Iran, Etiopia e alcune minoranze etniche[22]; un approccio rivelatosi efficace nel garantire la sopravvivenza di Israele almeno fino alla Rivoluzione Iraniana del 1979. Successivamente, l’alternanza tra tentativi di engagement e la dottrina periferica, ha fatto da sfondo all’emersione delle nuove asimmetrie polarizzanti ispirate da Teheran[23], che hanno favorito un avvicinamento tra Tel Aviv e le monarchie del Golfo, unite dalle medesime preoccupazioni securitarie.
La ridefinizione della politica estera israeliana ha trasformato il ruolo di Gerusalemme anche nei rapporti con la Turchia[24]; per effetto della nuova assertività strategica di Tel Aviv, e delle difficoltà economiche turche, sono arrivati segnali di distensione che potrebbero permettere di migliorare le relazioni, analogamente a quanto fatto da Ankara con Egitto, EAU e Arabia Saudita nel 2021; una distensione che dovrà comunque superare lo stress test delle elezioni politiche turche del 2023. La visita del Presidente Herzog ad Ankara testimonia sia la ricerca di un dialogo bilaterale, sia una nuova configurazione politica che si inserisce negli Accordi di Abramo, che hanno permesso ad Israele di organizzare una linea deideologizzata e formata su necessità concrete. Di fatto Ankara ha spesso trovato appoggio in Gerusalemme per tutelare i propri interessi, tenuto conto che ambedue i paesi hanno la necessità di gestire paesi ed entità limitrofe chiaramente ostili[25]. Il quadro geopolitico che ha riguardato la difesa palestinese e le interferenze nei settori mediterranei interessati all’estrazione del gas, vede la Turchia in difficoltà costante nei rapporti diplomatici con i suoi vicini Medio Orientali; la visita del Presidente Herzog, non rientra dunque negli eventi imprevisti, ma è stata evocata dalla necessità di Ankara di risolvere problemi securitari comuni sia in Siria, sia per il nucleare iraniano, sia per il contrasto al terrorismo. Gli Accordi di Abramo, con l’alleggerimento dell’impegno americano, consigliano a Gerusalemme di riprendere i contatti con Ankara[26].
Gli Accordi di Abramo stanno dunque promuovendo interessanti sviluppi bilaterali in campo economico, diplomatico, militare, della sicurezza in generale e della sua declinazione cibernetica, la cui attestazione indiretta si è avuta con le ripercussioni provocate dallo scandalo dello spyware israeliano Pegasus, e dall’acquisto marocchino di 3 droni israeliani Heron dell’Israeli Aerospace Industries, utili per combattere le fasce di resistenza sahrawi nel Sahara occidentale, per il quale gli USA non hanno contrastato le rivendicazioni di Rabat.
Il quadro emergente è razionale: l’ascesa iraniana a potenza regionale ha indotto Israele ad una più proficua ricerca di integrazione e cooperazione con tutti i Paesi con cui oggi, a differenza del passato, condivide preoccupazioni comuni. Ma i punti di crisi rimangono; gli attacchi terroristici negli ultimi mesi si sono susseguiti ad un ritmo incalzante scuotendo le fondamenta dell’esecutivo Bennett.
Fauda, fuoco e Striscia di Gaza
Benché Israele abbia conosciuto di peggio, gli attacchi[27] verificatisi recentemente in centri urbani e nell’insediamento di Ariel in Cisgiordania, hanno presentato 3 caratteristiche da non sottovalutare: in primo luogo, l’attentato ad Elad è avvenuto durante la festa del Giorno dell’Indipendenza, esaltandone il simbolismo; in secondo luogo c’è stato un uso decisamente forte delle armi impiegate (asce); in terzo luogo, gli attentati hanno seguito le esortazioni di Yahya Sinwar, leader di Hamas[28] gradito all’Iran, che ha invitato, con qualsiasi arma, alla difesa della moschea Al-Aqsa di Gerusalemme.
Non si può non presumere che, di conseguenza, Israele cambierà strategia nella Striscia di Gaza, vista anche la crisi politica seguita alla decisione di Ra’am[29], di sospendere la sua appartenenza alla coalizione di governo. In quest’ottica, qualsiasi esecutivo deve essere cosciente del fatto che qualunque tipo di operazione a Gaza costringerebbe Ra’am, laddove continuasse ad essere presente anche in un nuovo esecutivo, ad abbandonare la coalizione di governi la cui fragilità potrebbe spingere per un ritorno a destra atto a ricostituire la deterrenza israeliana; tutto questo ricalcherebbe quanto avvenuto in Giudea e Samaria nel 2002 con l’Operazione Scudo Difensivo, seguita all’attentato compiuto alla vigilia di Pasqua al Park Hotel di Netanya, l’attacco più letale della seconda Intifada, che ha indotto a ritenere che Israele avrebbe continuato ad operare all’interno dei Territori malgrado gli Accordi di Oslo.
La scelta del momento non è stata casuale, visto che la violenza si è manifestata pochi giorni prima della protesta per la Giornata della Terra contro l’espropriazione del territorio arabo da parte di Israele, il mese musulmano del Ramadan, e la festa della Pasqua ebraica; come nel 2015-16, gli attacchi non sono stati portati da gruppi con strutture e linea di comando, cosa che, oltre che ad ingenerare l’impressione che le autorità non fossero preparate, ha sottratto a militari, Shin Bet e polizia, degli obiettivi strategici identificabili.
Gli ultimi attentati dimostrano l’esistenza di sentimenti d’odio già affiorati nel maggio 2021, con i disordini scoppiati nelle città miste ebraico-arabe cui associare Gerusalemme est, attentati che hanno indotto ad un massiccio raid nel campo profughi di Jenin, emerso come focolaio e teatro d’operazioni facilmente accessibile per la Jihad islamica. Se gli eventi venissero esaminati come il frutto di una reazione sistemica ed organica, si potrebbe ipotizzare una campagna condotta da Hamas con Jihad islamica, gruppo che non ha però ancora attecchito nella società araba israeliana, e con il supporto iraniano, volto ad unire tutti i fronti palestinesi contro Israele, risvegliando sentimenti anti israeliani in Egitto.
Gli attacchi portati in Sinai[30] dall’ISIS, sostenuto dal media al Naba[31], non è detto che non possano poi suscitare mire contro Israele, visto il mondo musulmano che continua a rivendicare liberazione e protezione della moschea di al Aqsa. Quel che varia, ed impone un’analisi diversa, è Hamas che, nella sua convergenza con l’Iran, non riesce a sviluppare un’azione politica di ampio respiro, visto che anche nel più ristretto ambito palestinese deve puntare ad ottenere risultati concreti dalla lotta per la successione all’ANP, e dunque per il controllo sulla Cisgiordania, ancora tra le mani dell’anziano Abu Mazen.
A Gaza, all’interno, Hamas si propone come rigido interprete politico che adotta metodi repressivi, al di fuori si palesa come entità sovvertitrice dell’ordine, motivo che la porta a schierarsi contro il siriano Asad , malgrado già nel 1999 Ahmad Yasin, uno dei suoi fondatori, avesse dichiarato che il movimento avrebbe accettato la creazione di due stati intorno alle linee confinarie del 1967, una linea di pensiero che fa comprendere perché Israele e Hamas lascino comunque canali politici aperti a cui far partecipare l’Egitto, unico attore capace di mettere allo stesso tavolo Hamas e Fatah. Ma Hamas è anche teoria applicata alla pratica; negli ultimi mesi si è organizzata per presentarsi come un’organizzazione capace di sconfiggere Israele, soprattutto quando le narrazioni non hanno trovato corrispondenza alla situazione oggettiva, giocando con gli aspetti più sottili della guerra cognitiva; di fatto, Hamas sfrutta le rivolte piuttosto che ingenerarle. La campagna ha avuto dunque diversi scopi strategici, come traslare l’asse portante della guerra da Gaza verso Gerusalemme e verso l’interno di Israele grazie ad attacchi indiretti su suolo israeliano senza distinzione tra obiettivi militari e civili, con l’uso inedito di droni suicidi a guida GPS spesso intercettati dal sistema Iron Dome, sovente messo alla prova anche con i razzi Qassam, con la tattica della saturazione continuativa. Israele ha seguito gli approcci dei conflitti precedenti ma, malgrado la superiorità militare, il suo obiettivo non sembra essere stato raggiunto. La Dottrina della Vittoria israeliana, che ha portato ad una tattica basata su un’intelligence più efficiente, continua a fondarsi sull’intervento militare, tenendo in parva considerazione politica ed ideologia, punti strategici di forza di Hamas. Siamo dunque di fronte a quella che è di fatto una tregua, intervallata da iniziative israeliane, portate anche da ultranazionalisti, rintuzzate da continue reazioni come quelle animate dai palloni incendiari palestinesi. Laddove le IDF, non del tutto estranee ad afflati religiosi poco usuali per un’istituzione laica, dovessero essere impegnate in un conflitto di maggior spessore contro antagonisti esterni, sarebbe comunque necessario privilegiare la guerra di manovra incentivando una forza terrestre capace di combinare ritmo operativo, potenza di fuoco e stretto contatto con il nemico sul suo stesso territorio: data la cultura mediorientale, per cui la conquista territoriale ha un significato storico e culturale, solo una veloce guerra di manovra potrebbe esercitare una valida pressione cognitiva in grado di evitare vicoli ciechi[32], pericolosi per chi deve proteggersi dalle insidie del fronte interno.
L’elemento di novità è fornito dalla componente navale, per cui le minacce alla sicurezza stanno inducendo ad un ripensamento della postura israeliana tra Mediterraneo e Mar Rosso, per effetto del confronto con la Marina pasdaran, e con la rivalutazione di Bab el-Mandeb[33]. Agli inizi di febbraio la Marina israeliana ha partecipato alla International Maritime Exercise, esercitazione guidata dagli USA insieme a più di più di sessanta Paesi, compresi Arabia Saudita e Oman; un evento eccezionale, dato che mai prima d’ora le forze israeliane avevano partecipato con omaniti e sauditi ad attività congiunte, data anche l’assenza di relazioni diplomatiche, e che ha confermato la percezione regionale di Israele come soggetto politico costruttivo.
Saif al Quds, Guardian of the Walls, Gerusalemme, leggi fondamentali
Al termine dell’operazione Saif al Quds[34], ribattezzata in campo israeliano Guardian of the Walls, Hamas ha rafforzato la sua immagine di difensore dei luoghi santi di Gerusalemme, Al Aqsa e la Spianata delle Moschee[35], riuscendo ad occultare gli insuccessi operativi; eventi che non possono non impensierire la Giordania, custode dei luoghi santi gerosolimitani, timorosa che le rivolte possano attecchire nel suo territorio.
La politica estera giordana ha sempre costituito un punto fermo per la stabilità mediorientale, tanto che il regno può fregiarsi del titolo di mediatore imparziale benché, a seguito della negoziazione degli Accordi di Abramo, abbia perso di peso politico a vantaggio dei Paesi del Golfo; Israele riconosce la Giordania come partner, forse non più come l’interlocutore privilegiato di un tempo, ma di certo non come un Paese da sottovalutare, tanto da essere stato recentemente oggetto di visita da parte sia del Presidente israeliano Herzog sia del Ministro della Difesa Gantz.
Rimanendo sul tema delle rivolte scoppiate nella regione, rimane da valutare l’uccisione in maggio della giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh; filmati ed immagini, specialmente presso l’ospedale francese di Gerusalemme, hanno contribuito a rafforzare la percezione dell’impreparazione di Tel Aviv, peraltro alle prese con una delicata crisi di governo e con la prospettiva della quinta tornata elettorale in tre anni e mezzo a novembre; una crisi correlata alla scadenza dei regolamenti di emergenza che estendono la legge ebraica ai cittadini israeliani in Cisgiordania, e che consentono ai coloni di vivere sotto l’autorità di Tel Aviv, anche se Gerusalemme non ha annesso il territorio o esteso il governo civile ai palestinesi nelle aree sotto il proprio controllo. In tempi normali, la Knesset avrebbe facilmente fatto adottare questi regolamenti, ma con l’opposizione riluttante a sostenere alcuna legislazione, lo status legale dei coloni israeliani stava per essere capovolto. Bennett ha impedito il crollo della sua coalizione e la decadenza delle norme, avviando nuove elezioni, estendendo automaticamente i regolamenti nel mandato della nuova Knesset.
Confermata l’inferiorità militare palestinese, la strategia di Hamas si è concentrata sull’aspetto ideologico puntando ad esaurire Israele con un conflitto di lungo periodo con continui attacchi terroristici volti a creare danni materiali, a compattare il mondo arabo, a creare disordine politico interno. Il rischio, per Israele, è quello di mettere in crisi la sua stessa idea di sicurezza, malgrado i successi sul Covid, in merito alla normalizzazione indotta dagli Accordi di Abramo, sull’apertura politica agli islamisti di Ra’am, ponendo le basi per un confronto difficilmente sostenibile, verso Gaza, Cisgiordania, verso la popolazione arabo israeliana, in direzione del versante internazionale. Israele si fonda su un universalismo multietnico a contatto con uno spiccato senso di nazionalità; ad oggi in Israele risiedono circa 7 milioni di ebrei e quasi 2 milioni di arabi. Dal 2018 vige la Israel as the Nation State of the Jewish People, una delle basic law[36] che identifica lo stato come la casa della nazione, e che dovrebbe assicurare un bilanciamento tra ebraismo e fondamenti istituzionali.
Mentre l’ebraismo è e rimane elemento fondante di Israele, patria storica della nazione ebraica, con Gerusalemme capitale indivisibile e con l’ebraico quale lingua ufficiale, la crescente demografia araba è vissuta come una minaccia identitaria.
Quel che è certo, è che gli arabo israeliani[37] vivono la legge come l’inflizione di un altro colpo al loro status, cosa che giustifica una sorta di palestinizzazione[38] tra le giovani generazioni, e su cui anche l’ex Presidente Rivlin ha sentito il dovere di esprimere le sue perplessità. Non a caso, durante l’Operazione Guardiano delle Mura, che ha visto contrapposte le IDF ad Hamas, l’attenzione è stata suddivisa tra Gaza ed il fronte interno, scosso da scontri tra popolazione araba ed ebraica, specialmente nelle città miste. Per questo è stata data rilevanza alla Guardia israeliana che, composta da agenti di polizia e riservisti dell’IDF, almeno nella fase iniziale, dovrà fornire supporto alla polizia di frontiera ottimizzando le operazioni a contrasto dei disordini pubblici interni su larga scala.
Allo stesso tempo è tuttavia emersa l’insoddisfazione verso l’attività parlamentare di matrice araba, tanto da indurre ad aspre critiche l’operato di Mansur Abbas, capolista di Ra’am[39], i cui appelli a pragmatismo e moderazione hanno contribuito all’attribuzione di una pesante qualifica di remissività.
La crisi ha di fatto evidenziato un’incapacità, da parte di ambedue le leadership, di riuscire ad influire sulle proprie opinioni pubbliche. Hamas amplia la sua portata internazionale connettendosi direttamente con Hezbollah che ha imposto allo Stato libanese una revisione unilaterale del panorama generale palestinese sul modello anni 70/80; se Hamas consoliderà la sua presenza nel Pese dei Cedri, che gli ha permesso di accedere in sincronia con Iraq e Yemen, dimenticando che nel ‘75 proprio la presenza palestinese ha contribuito alla spirale della guerra civile dopo la violenta espulsione del ’71 di Arafat dalla Giordania, Israele dovrà prepararsi a significative conseguenze, visto che il Libano è divenuto un rifugio[40] per i leader palestinesi dopo che gli ultimi sviluppi regionali hanno loro precluso accesso e permanenza in Siria, Qatar e Turchia.
Ma non è tutto facile: per Hamas cercare la guerra con Israele significa averla evitata con Fatah, che detiene la presidenza dell’ANP, senza contare che, come tutti i moti insurrezionali mossi da volontà popolare, un’altra Intifada potrebbe prendere sviluppi tali da portare al contrasto interno, mentre la crisi politica mediorientale potrebbe confermare la linea per cui i vari leader come Erdogan o Nasrallah parlano di Palestina perché non si guardi al loro cortile. Gli eventi ucraini hanno coinvolto anche Tel Aviv, visto che quasi ogni soggetto politico dell’area MENA condivide con Mosca almeno un interesse strategico[41], e che Israele può contare su una comunità russofona di particolare consistenza ed importanza politica. Di fatto si è registrata un’intensificazione della cooperazione militare con Mosca per cui l’IDF ha potuto colpire in Siria obiettivi iraniani o milizie proxy.
Va da sé che per dare profondità strategica agli Accordi di Abramo perché compendino il maggior numero possibile di Paesi, sarebbe necessaria un’impossibile pace tra Damasco e Gerusalemme, con il crollo dell’asse Teheran-Damasco.
Al momento gli attacchi aerei portati da Israele sulla Siria servono a prevenire un accumulo bellico pro-Hezbollah; a spezzare il trasferimento di armi strategiche da parte iraniana; a danneggiare le infrastrutture degli sciiti nel sud siriano; a creare un cuneo tra Damasco e Teheran. Non si può escludere che, nel corso degli anni, Israele abbia intrapreso azioni incrementali alla guerra per mezzo della campaign between war per mezzo di canali più occulti. Esiste comunque il rischio che gli attacchi israeliani inneschino risposte da parte di Mosca, che non rinuncerà a mettere in mostra la sua potenza in Medio Oriente, senza contare come al Asad abbia consolidato la sua posizione politica, tanto che Giordania, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Bahrain hanno iniziato a normalizzare le relazioni, inaugurando una tendenza parallela a quella di normalizzazione con Tel Aviv, ed in grado di esercitare pressioni perché gli strike vengano ridotti. Non sarebbe così sbagliato né che Israele sviluppasse un’azione includente una campagna cognitiva ad ampio spettro tale da evidenziare la minaccia iraniana nell’ambito della comunità internazionale, né che instaurasse relazioni con le comunità sunnite e druse avverse ad al Asad ed all’Iran.
Gli altri attori
La crisi in est Europa sta risvegliando meccanismi in sonno che potrebbero variare a meno che non si debba assistere ad ulteriori eventi esogeni di particolare impatto nei Balcani o nell’Indo Pacifico, con un riequilibrio americano del pivot to Asia, o magari a sviluppi conseguenti ad un uso apparentemente spregiudicato della diplomazia, come avvenuto con le dichiarazioni del Ministro Lavrov, troppo navigato per aver autonomamente anche solo pensato a provocazioni di particolare intensità che hanno costretto Israele a prendere una forte posizione, asserzioni[42] che fanno il paio con quelle periodicamente rilasciate da Dimitri Medvedev; vanno dunque una volta di più rammentati due aspetti: ovvero, come sia fondamentale per Israele poter disporre della possibilità di battere le posizioni sciite nella Siria controllata dalla Russia, mai così vicina a rendere difficile la vita dello Stato ebraico, e come sia stato quanto meno avventato da parte americana lasciare un vuoto mediorientale. Tanto avventato da permettere al Dragone di arrivare anche su questa porzione mediterranea, piattaforma ideale per ovviare alle dipendenze da Suez, dove l’economia gioca un ruolo preponderante[43], ma dove le liaison incrociate sono particolarmente dangereuses, sia dal lato americano sia da quello iraniano, quest’ultimo in affari con Pechino che strizza l’occhio alla causa palestinese.
In ogni caso la Cina, statalista ed accentratrice, rimane una potenza in ascesa, e Tel Aviv, decentratrice asimmetrica anche nelle questioni economiche di interesse nazionale, un ponte verso ovest a cui è impossibile rinunciare, ma con il quale le situazioni inerenti alla sicurezza vanno regolate con attenzione, così come con Teheran, mai come ora preda dell’ossessione sionista, con il Presidente Biden in visita mediorientale ed impegnato in una (tardiva?) difesa d’ufficio di Gerusalemme, che ha scatenato la rabbiosa reazione degli Ayatollah, pronti per questo a colpire gli USA, e fermi nell’opposizione agli Accordi di Abramo mentre la Royal Navy sequestra armi iraniane di contrabbando, ed i cittadini israeliani sono invitati a lasciare precipitosamente la Turchia per timore di attentati. Del resto, i risultati conseguiti a Gaza dai palestinesi rimangono utili da spendere a beneficio del JCPOA, senza contare l’onnipresente Hezbollah. Gli attriti di Gaza hanno ridato verve al sentimento anti israeliano, permettendo all’Iran di giustificare la rete di proxy in funzione difensiva palestinese contro i Paesi arabi che hanno optato per la normalizzazione dei rapporti con Tel Aviv.
Il debole ritorno di al Asad, il consolidamento di Hezbollah e delle forze sciite in Iraq, porta ad un Levante di ispirazione iraniana, garantito dalla continuità territoriale che unisce Teheran, Damasco, Beirut, Baghdad, con alle spalle il dogma della distruzione di Israele, tarlo della guida suprema Khamenei[44], appassionato ammiratore di Sayyid Qutb.
L’atomo degli Ayatollah e le aquile americane
Per Washington il nucleare iraniano è una minaccia strategica, per Tel Aviv esistenziale, ed Israele sa che le armi nucleari rappresentano un elemento capace di alterare gli equilibri per decenni.
Malgrado tutto, la capacità nucleare israeliana non è stata quasi mai citata da nessuno: ufficialmente non ne esiste riconoscimento. La tattica israeliana si è di fatto sempre palesata saggia: possedere la forza nucleare ma comportarsi come se non esistesse, neanche nei momenti più drammatici.
Inevitabile dunque andare al JCPOA[45] che vede l’Iran, rappresentato da un nuovo team espressione del Presidente conservatore Ebrahim Raisi; Iran forte detentore di riserve missilistiche balistiche ed al centro della querelle che lo vuole richiedente capacità nucleari e già in possesso di quantità di uranio sufficienti alla realizzazione di un ordigno atomico, attento a pretendere che cada la categorizzazione dei pasdaran quale organizzazione terroristica, ma a cui ha risposto da Israele il Presidente Biden che ha affermato che la forza militare statunitense è ancora presente nella regione, tanto da poter essere considerata pronta quale ultima risorsa per impedire all’Iran di acquisire armamento nucleare.
In merito all’approvazione del JCPOA, accolto da sempre con preoccupazione dalle Monarchie del Golfo e Israele poiché ritenuto insufficiente a contenere la minaccia iraniana, la posizione critica di Tel Aviv è sostenuta da David Barnea[46], direttore del Mossad, per cui il problema non consiste nel domandarsi se verrà firmato un accordo, piuttosto quando, visto che dalle prime analisi sembra che per gli attori in gioco non ci siano particolari libertà di scelta: gli iraniani hanno bisogno di veder revocate le sanzioni che strangolano un’economia di per sé asfittica, e l’amministrazione Biden necessita di successi diplomatici e del sostegno popolare per le elezioni di mid-term che già la vedono in forte calo di consensi.
Il capitolo a stelle e strisce non è meno complesso degli altri; malgrado non sia stato ben inteso negli ultimi anni, gli Stati Uniti hanno bisogno di Israele perché argini le ambizioni turco-iraniane, mentre rimane da un lato l’eco del disordinato ritiro dall’Afghanistan, e dall’altro il riverbero trumpiano degli Accordi di Abramo. Washington, di fatto, è spesso lenta ed incerta nel provvedere alle istanze securitarie della regione, alla luce della politica di Teheran, che ha approfittato delle Primavere Arabe per rafforzare il controllo in Libano e Iraq, e diventare uno stato parallelo in Siria e Yemen. Il viaggio di Biden in Medio Oriente[47], nel riproporre il ritorno della leadership americana, ha inteso tutelare il sistema basato sugli Accordi di Abramo, consolidando la sicurezza energetica e proteggendo ad est il fianco europeo.
Ma come si evolverà la situazione, alla luce di un possibile ritorno di Netanyahu sulla scena politica, unitamente alla difficile gestione del dossier saudita con un ostracizzato Principe ereditario[48], proprio quando il supporto del Regno appare così prezioso ma così distante nel contenimento sino russo? Come gestire la riapertura del consolato a Gerusalemme? Come lasciare nitida la certezza che l’aquila americana sia davvero tornata con una stabile realistica e costante politica estera, dopo Obama che ha posto in secondo piano Tel Aviv? Come ovviare alle carenze occidentali di fonti energetiche in compensazione con le necessità alimentari del mondo arabo? Intanto, la presenza statunitense a Gedda[49], in occasione di un vertice del Consiglio di Cooperazione del Golfo[50] non si raccorda con la retorica critica americana basata su democrazia e diritti umani ma distolta dal proprio interno e poco attenta al difficile recepimento di modelli democratici non esattamente attagliabili alla realtà dei vari altri Paesi.
Non bisogna illudersi: il viaggio presidenziale può solo riaccendere un impegno che dovrà essere alimentato nel tempo e con politiche più lungimiranti, anche perché Israele dipende da tempo dalla cooperazione con Autorità Palestinese, Giordania ed Egitto, governi a costante rischio di instabilità, patologia politica di cui del resto lo stesso governo israeliano è affetto: la caduta del troppo eterogeneo governo Bennett ne è l’esempio più evidente, con il ministro Lapid, rafforzato nella sua leadership dalla visita presidenziale americana, e chiamato ad accompagnare il Paese alla quinta tornata elettorale in poco più di un triennio cercando di non cadere nella trappola di un’escalation indotta da azioni palestinesi.
Anche gli Houthi, sostenuti da Teheran, impensieriscono Israele, visto che in passato dallo Yemen sono arrivate precise minacce, visto che Eilat e Beersheba sono punti raggiungibili dai missili, e perché Mar Rosso e Stretto di Bab el Mandeb devono poter vedere garantita la libertà di navigazione. Le minacce nell’area possono essere gestite in via preventiva attraverso azioni mirate, evitando che gli Houthi possano diventare un ulteriore agente proxy iraniano regionale come Hezbollah in Siria. Sarà necessario valutare se per gli Houthi, tatticamente, l’uso di risorse per una guerra contro Israele possa comportare rischi nell’affrontare la minaccia emiratina in quello che diventerebbe il doppio fronte yemenita.
Ultimo teatro, ma non certo per importanza, quello libanese, rappresentativo di uno stato fallito ed ormai inesistente, dove la sfida di Hezbollah, indebolito ma non troppo dalle ultime elezioni, è costante e porta a riconsiderare la politica di moderazione finora adottata. Il casus è rappresentato dalla piattaforma di perforazione gasifera di Karish[51], minacciata dai lanci di UAV[52] iraniani a bassa quota da parte di Hezbollah e dai proclami di Nasrallah, che mettono in discussione il controllo sia della ZEE marittima di Tel Aviv che dei cieli libanesi e del nord di Israele, cosa che obbliga l’IDF a colpire i sistemi di difesa aerea iraniani schierati nel Paese dei Cedri. La strategia di Hezbollah è chiara: presentare capacità di attacco, scagliarsi contro i giacimenti di gas israeliani nel Mediterraneo, aumentare la tensione per quanto concerne la disputa sui confini marittimi tra Israele e Libano con la contestuale distribuzione di risorse energetiche offshore, dissuadendo le compagnie straniere dagli investimenti, che renderebbero meno proficui i vantaggi di Hezbollah nel trasferire il petrolio iraniano attraverso la Siria.
Conclusioni?
Chi ha avuto la pazienza di leggere fin qui, ha sicuramente maturato l’idea di un’area sempre e comunque in ebollizione ormai da 3.500 anni.
Gran parte dei paesi arabi ha la percezione che né Cina né Russia rimpiazzeranno, nonostante tutto, gli Stati Uniti, né si esporranno nel momento del bisogno; tuttavia, la neutralità palesata rispetto al conflitto ucraino indica una perdita di moral suasion regionale americana da parte dei più tradizionali alleati. Competizione, multipolarismo, dinamismo delle relazioni, errori di valutazione, costringono chiunque ad adattarsi alle circostanze cercando la migliore exit strategy, magari evitando (difficilmente ormai) di schierarsi; la visita del presidente Biden è stata vista nel Golfo come la chiave di accesso per il ritorno ad una strategia di copertura.
Quanta cooperazione ci sarà poi nella regolazione dei prezzi energetici in una dimensione sempre più globalizzata, è tutto da vedere, poiché di certo qualsiasi variante politica americana sarà vista come un tentativo di disimpegno che renderebbe nulla qualsiasi promessa.
È dunque evidente il perseguimento di politiche arabe parallele che migliorino le posizioni negoziali con tutti i principali attori politici.
Israele è nelle condizioni strategiche di influenzare le scelte arabe; in ambito nucleare gli sviluppi sauditi interessano, quelli iraniani preoccupano, ed ambedue impongono l’uso attento dell’intelligence. Il vantaggio tecnologico, inoltre dovrà permettere a Tel Aviv di compensare l’accrescimento delle capacità convenzionali di diversi Stati regionali.
Il potenziamento militare egiziano non può non indurre a serie valutazioni, visto anche lo stato dell’economia cairota. L’influenza sino russa in Medio Oriente eserciterà un peso sugli interessi israeliani, e dovrà essere e rimanere al centro delle valutazioni strategiche tra Israele, USA, Germania, Francia e Regno Unito.
La crisi ucraina, nel MENA, offre due spunti interpretativi: da un lato la mancata incisività russa porge ai paesi occidentali la possibilità di rafforzare i legami con i paesi arabi in contatto con Mosca; dall’altro, indica anche la debolezza di un Occidente non sempre pronto a sostenere i suoi alleati. Sotto questo aspetto, si potrebbe valutare in quale misura la capacità tecnologica israeliana sarebbe in grado di distogliere gli attori regionali dall’attrazione verso Mosca e Pechino.
Geopoliticamente, malgrado al momento non ci siano potenze regionali con forza bellica comparabile alla propria, Gerusalemme deve necessariamente elaborare più di una strategia, non da ultimo quella marittima, un contesto multidimensionale da controllare per esercitare una valida deterrenza, in funzione dell’ampliamento di una profondità strategica capace di allontanare la linea rossa dal cuore dello Stato, anche alla luce dell’asse tattico russo-turco-iraniano.
Affacciandosi sia sul Mediterraneo sia sul mar Rosso, Israele deve considerarsi uno Stato medioceanico, dunque in possesso del primo dei sei requisiti, la posizione geografica, grazie a cui Alfred Mahan definiva il potere marittimo.
Non è poi da sottovalutare lo sviluppo dei giacimenti offshore di gas, insieme all’importanza dei cavi sottomarini[53] che garantiscono la connessione internet tra India ed Italia attraverso lo snodo israeliano, tutti elementi che rafforzano la valenza geopolitica dello Stato ebraico.
Oltre al Mediterraneo, giocano la loro partita anche le sponde del mar Rosso, dove scorre un quarto del commercio estero israeliano. In queste acque per Israele è fondamentale preservare la libertà di navigazione con l’Asia, visti i rapporti intercorrenti con Cina e India, che hanno incrementato l’importanza di Bab el Mandeb. Le minacce marittime spaziano dunque dal Mar Rosso, passano al Mar Arabico per approdare al Golfo Persico, dove Israele e Iran combattono una guerra coperta. Politicamente, non ci sono dubbi che Israele sia uno Stato democratico, tuttavia la presenza di partiti a forte connotazione religiosa influisce sui rapporti tra forze politiche.
Pur non mancando chi difende il legame tra religione e laicità, visto anche il dettato delle ultime leggi fondamentali, è rilevante che il governo Bennett abbia incluso, per la prima volta, un partito espressione dei cittadini arabo israeliani, un precedente (forse) utile per i prossimi esecutivi di coalizione. Va tenuto comunque conto che, precedenti elettorali e primi sondaggi, non delineano nessun partito o nessuna alleanza politica prevalenti, vista anche la soglia di sbarramento al 3,25%.
Non c’è dubbio che il processo di normalizzazione con arabi e musulmani debba procedere, e che debba approfondirsi il rapporto con gli Stati firmatari degli Accordi di Abramo. A fronte dell’esperto Netanyahu, e dell’ormai bruciato Bennett, in campo progressista rimane l’alfiere Lapid, leader di un centro composto da almeno 4 partiti che tuttavia corrono il rischio di non riuscire a superare la soglia. In politica estera, sia Lapid che Gantz hanno compreso quanto sia controproducente scontrarsi frontalmente con gli USA, dunque la questione nucleare iraniana può consentire una forte opposizione, ma la linea politica deve seguire gli andamenti di Washington, che peraltro nell’ultimo tour presidenziale ha espresso posizioni piuttosto decise.
Quel che sarà necessario curare sono le relazioni con la Cina, che Israele vede come un potenziale punto di riferimento per la negoziazione di sistemi d’arma avanzati; gli investimenti cinesi si sono concentrati sugli aspetti infrastrutturali, in particolare nel porto di Haifa.
Non c’è dubbio che sia arrivato per Israele il momento di prendere una decisione netta circa quale attore geopolitico privilegiare, senza dimenticare quale possa essere il massimo punto di tolleranza iraniano.
[1] Odissea, Libro XI, Tiresia e il destino
[2] Gerusalemme! Gerusalemme! Mondadori, 1972
[3] Caos in arabo.
[4] Servizio di intelligence interna; ha permesso il tracking dei contagiati secondo i sistemi analitici adottati nella lotta al terrorismo.
[5] Si contano quasi 4.000 start-up attive ed unicorni pro capite con capitali in miliardi di dollari al mondo.
[6] Israel Defense Forces.
[7] Esercito di Israele.
[8]L’ East Mediterranean Gas Forum, o EastMed Gas Forum o EastMed, è un’organizzazione internazionale formata da Cipro, Egitto, Francia, Grecia, Israele, Italia, Giordania e Palestina. Istituito nel 2019, lo statuto dell’organizzazione è stato firmato a settembre 2020.
[9] Memorandum of Understanding.
[10] I vantaggi economici e securitari possono essere duraturi, tanto da indurre altri Paesi arabi o islamici ad aderirvi, in particolare, Indonesia, Mauritania, Oman, Uzbekistan, e, ravvivare auspicabilmente l’interesse di Pakistan e Arabia Saudita. Per dimostrare l’efficacia degli Accordi di Abramo occorre tuttavia che Israele comprenda che, a fronte dell’atteggiamento preclusivo palestinese, gli arabo-israeliani devono comunque trovare un beneficio riscontrabile.
[11] Israele ed Emirati Arabi Uniti hanno firmato un Comprehensive Economic Partnership Agreement; durante la 72esima edizione dell’International Astronautical Congress i due Stati hanno firmato un accordo-quadro di cooperazione nel settore spaziale. Gli EAU hanno poi concluso un accordo da 53 milioni di USD con l’israeliana “Elbit systems”, specializzata in armamenti e sistemi di difesa. Nei prossimi cinque anni gli EAU otterranno un sistema di difesa avanzato per velivoli noto come C-MUSIC, in grado di individuare missili antiaerei sfruttando la tecnologia a infrarossi.
[12] Cyber sicurezza e condivisione di dati e informazioni di intelligence.
[13] Fondo Monetario Internazionale.
[14] Secondo questo principio, un paese tenderà a specializzarsi nella produzione del bene su cui ha un vantaggio comparato, dove la produzione di quello stesso bene ha un costo opportunità minore che negli altri paesi.
[15] Joint Comprehensive Plan of Action.
[16] Con la presenza cinese nel porto di Haifa, adiacente peraltro ad una base in uso alla USNavy, Israele rischia di trovare al confine iraniani e Hezbollah.
[17] Nonostante le possibili aperture da parte del Principe ereditario Mohammed bin Salman, il Re Salman bin Salman, uno dei principali sostenitori della causa palestinese, è contrario al dialogo con Tel Aviv. Questo, tuttavia, non ha impedito nel 2020 di chiedere ad Israele informazioni circa il sistema missilistico Iron Dome.
[18] Le due sacre Moschee di Medina e La Mecca.
[19] Il 5 gennaio 2021, l’antica città saudita di Al Ula ha ospitato il 41° vertice del Consiglio di Cooperazione del Golfo che ha sancito la riconciliazione tra Doha, Riyadh e gli altri Paesi del Golfo.
[20] Rimozione del Paese dalla blacklist terroristica USA.
[21] Dati gli avvenimenti trascorsi, la dottrina si presenta ora in una forma inversa, presentando un ribaltamento dei Paesi ritenuti alleati ed ostili.
[22] Curdi, Iracheni.
[23] Hamas, Hezbollah.
[24] R.T. Erdogan: “Tutti dovrebbero accettare incondizionatamente che Israele è un elemento indispensabile del mosaico mediorientale”
[25] Arabi e Curdi.
[26] Secondo una suggestiva versione Cicero pro domo sua riferita da Abdülatif Sener vice primo ministro, a Davos nel 2009 non si verificò un incidente diplomatico tra Erdogan e Peres, ma si trattò di uno stratagemma atto a rafforzare la Turchia in Cisgiordania, a Gaza e a Gerusalemme limitando le possibilità iraniane ed aumentando così la sicurezza israeliana: quanto riportato è rilevante in funzione dell’importanza conferita alla questione israeliana da parte turca; tuttavia, da parte di chi scrive rimangono forti dubbi circa l’acquiescenza da parte della leadership israeliana. Da ricordare che Netanyahu non ha definito genocidio gli eventi del 1915, mentre l’Armenia ha ritirato il proprio ambasciatore in Israele per protesta contro il sostegno militare fornito all’Azerbaigian.
[27] Tre attentati hanno provocato la morte di undici civili. Due attacchi su tre (Beersheba e Hadera, 22 e il 27 marzo) sono stati rivendicati dall’ISIS, mentre il terzo (Bnei Brak, 29 marzo, vicino Tel Aviv) potrebbe essere stato ispirato dal medesimo gruppo, o dalla Palestinian Islamic Jihad.
[28] Acronimo arabo di Ḥarakat al-muqāwama al-islāmiyya, Movimento di resistenza islamica.
[29] Il partito arabo rappresentante il movimento islamico in Israele; ideologicamente affiliato ai Fratelli musulmani egiziani e ad Hamas
[30] Nella c.d. Wilayat Sina (Provincia del Sinai secondo il Califfato).
[31] Magazine dell’Isis.
[32] Magg. Gen. Tamir Yadai, comandante delle Forze di Terra, e Brig. Il generale Eran Ortal, comandante del Dado Center.
[33] Israele ha stipulato un accordo da 3 miliardi di euro con la tedesca ThyssenKrupp Marine Systems per l’approvvigionamento di tre sottomarini classe Dakar. Il primo battello sarà consegnato entro nove anni, e parte dei costi saranno coperti dal governo tedesco. Il sensibile ritocco dei costi rispetto alle previsioni iniziali lascia immaginare lo sviluppo di un progetto equipaggiato con nuove dotazioni. I sottomarini dovrebbero essere più grandi rispetto ai Dolphin-II attualmente in servizio. La vela più lunga servirebbe a contenere un sistema di lancio verticale in grado di gestire missili da crociera e missili balistici. Con questa configurazione, la marina israeliana sarebbe la prima nel Mediterraneo con battelli a propulsione convenzionale dotati di AIP in grado di lanciare missili balistici, seconda nel mondo soltanto alla Corea del Sud.
[34] Spada di Gerusalemme.
[35] Per gli Israeliani “Monte del Tempio”.
[36] Le Basic Law Sono 11 e riguardano fondamentalmente le istituzioni dello Stato.
[37] Gli arabi di Gerusalemme Est hanno ormai un’identità specifica (almakdesyin) differente da quella dei palestinesi di Giudea e Samaria e da quella dei cittadini arabi di Israele.
[38]All’esecutivo Bennett è stato imputato di non voler risolvere diplomaticamente l’attrito, ma di voler attuare politiche di integrazione palestinese.
[39] Una delle espressioni del Movimento Islamico di Israele.
[40] Vd. I leader palestinesi Khalil al-Hayyeh e Zaher Jabareen.
[41] Israele ha votato la condanna dell’invasione russa all’Assemblea generale NU unendosi al blocco che ha sospeso la Russia dal Consiglio per i diritti umani; ha tuttavia seguito una strada più prudente per le sanzioni che, tuttavia, non ha impedito a Mosca di valutare la chiusura dell’Agenzia Ebraica sul suo territorio.
[42] Da segnalare la richiesta russa di acquisire il controllo del complesso della chiesa di Sant’Alessandro nella Città Vecchia, originariamente acquistato dalla famiglia imperiale per costruire, attorno alla metà dell’Ottocento, l’ambasciata russa e che Netanyahu aveva promesso di concedere come gesto di buona volontà in seguito al rilascio di Naama Issachar nel 2020.
[43] Secondo i dati cinesi il commercio Israele – Cina è arrivato a quasi 23 miliardi di USD nel 2021.
[44] A. Khamenei “La missione della Repubblica Islamica dell’Iran è quella di spazzare via Israele dalla mappa del medio Oriente”
[45] Il direttore generale dell’AIEA, Rafael Grossi, ha pubblicato un rapporto al Consiglio dei governatori dell’agenzia stimando che l’Iran ha sufficiente uranio arricchito per un’arma nucleare, 18 volte di più di quanto consentito dall’accordo del 2015. L’AIEA ha indagato sulle dimensioni militari del programma iraniano e sui siti nucleari non rivelati. Una delle richieste iraniane nei negoziati per rinnovare l’accordo nucleare consisteva nel chiudere l’indagine.
[46]Presumibile originatore della decisione di rivelare l’identità del funzionario iraniano responsabile del piano rivolto contro gli israeliani soggiornanti in Turchia, il capo dell’intelligence del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche Hossein Taeb. Il 23 giugno l’IRGC ha sostituito Taeb con il generale Mohammad Kazemi.
[47] Israele, Palestina, Arabia Saudita.
[48] L’Arabia Saudita presumendo di poter contare su una maggiore assistenza USA per opporsi agli attacchi Houthi, è rimasta sorpresa dalla decisione statunitense di ritirare le difese antimissilistiche e antidroni. Gli EAU sono rimasti colpiti dalle decisioni americane prese in merito alla classificazione terroristica degli Houthi.
[49] Incontro preceduto a marzo dal vertice del Negev a Sde Boker tra l’israeliano Lapid, l’americano Blinken, l’emiratino Abdullah bin Zayed, il bahreinita Abdullatif bin Rashid al-Zayani, il marocchino Nasser Bourita e l’egiziano Sameh Shoukry. Il ministro degli Esteri del Marocco, Nasser Bourita, ha confermato il sostegno di re Mohammed VI a una soluzione a due Stati basata sui confini del 1967 con Gerusalemme Est capitale della Palestina. Prima dell’incontro, Blinken ha incontrato il presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas. Assenti sauditi e giordani.
[50] Emirati, Oman, Qatar, Bahrain, Kuwait e Arabia Saudita, più Egitto, Giordania e Iraq; è stata poi trasmessa una video conferenza cui hanno partecipato Biden e Lapid a Gerusalemme, il Mohammed bin Zayed Al Nahyan negli EAU e il primo ministro indiano Narendra Modi a Nuova Delhi, leader di paesi economicamente e demograficamente evoluti, una sorta di nuovo quad.
[51] Da circa 20 anni Israele ha iniziato a produrre gas sufficiente sia per la domanda locale sia per l’esportazione in Egitto, Giordania ed Europa.
[52] Abbattuti da aerei da combattimento e da missili Barak lanciati da Unità della Marina.
[53] Vd. la realizzazione da parte di Google del cavo in fibra ottica Blue-Raman.