Scarica il file in PDF – migranti e missione boat people – dicembre 2022 – sanfelice
MIGRANTI IERI ED OGGI:
dalla missione della Marina Militare di soccorso ai “Boat People” vietnamiti, ai barconi che solcano il Mediterraneo
Amm. Sq. Ferdinando SANFELICE di MONTEFORTE
Introduzione
A distanza di 43 anni, resta vivido nella memoria, non solo di coloro che vi hanno partecipato, ma anche dell’opinione pubblica italiana, il ricordo della missione di soccorso ai “Boat People” sudvietnamiti, compiuta dall’Ottavo Gruppo navale della nostra Marina.
Le navi che componevano questa formazione erano gli Incrociatori Vittorio Veneto e Andrea Doria e la Rifornitrice di Squadra Stromboli, che si trasferirono nelle acque del Golfo di Thailandia e vi operarono dal 26 luglio al 7 agosto del 1979.
Questa attenzione generale per l’anniversario non è casuale: stiamo infatti vivendo anni segnati dal ritorno della guerra, e non solo in Europa, con il conseguente aumento esponenziale di coloro che fuggono dalla propria terra per salvarsi o per trovare condizioni di vita migliori per sé e per i propri cari.
Anche se il fenomeno migratorio che interessa l’Italia è solo una briciola, rispetto alla sua dimensione mondiale (valutata dall’Alto Commissariato ONU per i rifugiati in 89,3 milioni di persone)[1], viene sin troppo naturale paragonare l’attività di soccorso ai migranti attuali con quella svolta a favore dei “Boat People”.
Questo rinnovato interesse, però, non tiene conto del fatto che la missione dell’Ottavo Gruppo Navale, per le circostanze che le diedero vita e per le peculiarità dell’ambiente in cui si svolse, fu profondamente diversa dalle missioni di salvataggio nel Mediterraneo di cui, quotidianamente, danno conto le cronache.
A parte il rischio di dover reagire ad attacchi armati e di dover contrastare i pirati, in quella missione le nostre navi non dovettero addentrarsi in un ambiente, come quello attuale, caratterizzato da troppi interessi di parte, anche in contrasto tra loro, per cui i migranti finiscono oggi per diventare pedine di un gioco più grosso e complicato, vittime di sfruttamento (finanziario e politico) da parte di molti.
Non bisogna dimenticare, infine, che la missione fu importante anche perché migliorò l’immagine internazionale del nostro Paese, che in quel periodo veniva criticato dai nostri amici e alleati, per la sua politica monetaria. Ancora più importante, però, fu il coinvolgimento del popolo italiano in una gara di solidarietà, nei confronti dei rifugiati.
Il suo esito fu un successo, nonostante le difficoltà, rese maggiori dallo scarso preavviso. Non eravamo, però, costretti a improvvisare, dato che avevamo compiuto altre missioni di soccorso, sia pure sempre nel Mare Nostrum, a beneficio di popolazioni rivierasche, colpite da calamità naturali. Avevamo, quindi, una collaudata esperienza negli interventi di soccorso che fummo in grado di mettere bene a frutto.
Ricordare un’azione come quella, che salvò tante vite umane, in un contesto di tensione tra i blocchi che poteva degenerare in qualsiasi momento, è anche un modo per onorare i partecipanti che ci hanno lasciati, a partire dall’Ammiraglio Sergio Agostinelli, il Comandante del Gruppo Navale, e un’occasione per ringraziare tutti i Vietnamiti che si sono integrati da noi, fornendo un contributo prezioso allo sviluppo del nostro Paese.
In conclusione, le peculiarità della missione furono tali che appare necessario raccontare prima come noi marinai delle navi designate l’abbiamo vissuta, e poi accennare a tutto ciò che scoprimmo, durante e dopo la missione, circa il contesto internazionale che le aveva dato origine.
Come l’abbiamo vissuta
Alla fine di giugno 1979, la Squadra Navale aveva appena completato la sua esercitazione semestrale, secondo i programmi stabiliti dallo Stato Maggiore della Marina. Come era abituale, alla conclusione delle attività in mare, gli equipaggi erano stati gratificati da una sosta in porti di Nazioni amiche, per visitare alcune tra le città più belle del Mediterraneo, e contribuire ai buoni rapporti con le popolazioni di Paesi alleati: il Vittorio Veneto, infatti, era in sosta a Tolone, mentre l’Andrea Doria stava sostando a Barcellona.
Sui media, seguivamo con partecipazione il dramma che stavano vivendo i “Boat People”, i Sudvietnamiti che fuggivano a decine di migliaia dalle persecuzioni cui il nuovo regime li sottoponeva, rischiando la vita per attraversare il Golfo di Thailandia su piccole imbarcazioni, alla ricerca di un luogo dove trovare accoglienza. Naturalmente, nessuno di noi immaginava che saremmo stati chiamati in causa direttamente: a parte alcune missioni di “Diplomazia Navale” oltreoceano, operavamo quasi solo nel Mediterraneo: il nostro compito era infatti quello di presidiarlo, partecipando alla gestione della tensione tra i Blocchi, resa più acuta dalla presenza di imponenti forze navali sovietiche nel nostro bacino.
Invece, al terzo giorno della nostra sosta nei porti amici, arrivò all’improvviso l’ordine di rientrare nelle nostre basi di assegnazione per prepararci a una missione di cui sapevamo ben poco. Al tramonto dello stesso giorno, noi dell’Andrea Doria partimmo per arrivare al più presto a La Spezia, navigando alla massima velocità, in modo da essere all’ormeggio all’alba del mattino successivo.
Non appena arrivati, trascorremmo quattro giorni di lavoro frenetico, per trasformare l’hangar e tutta la zona poppiera della nave in alloggio e mensa per i rifugiati. Dovemmo anche imbarcare una quantità notevole di vestiario, di viveri e di medicinali per assistere i fuggitivi che avremmo potuto salvare. Fummo obbligati anche a suddividere l’equipaggio, inviando in licenza un piccolo gruppo di marinai, che poi avrebbero dovuto aver cura della nave, una volta completata la missione.
Imbarcammo, naturalmente, anche un team di medici, che avrebbe fronteggiato malattie e stress dei rifugiati, in modo da fornir loro l’assistenza sanitaria di cui, sicuramente, avrebbero avuto bisogno. Venne anche rinforzato il personale di cucina, per assicurare i pasti a quelle vittime di una guerra che durava ormai da più di trent’anni. Infine, giunsero a bordo alcuni interpreti, forniti sia dal Ministero della Difesa sia dalla Caritas, per agevolare le comunicazioni con coloro che non parlassero né l’inglese né il francese.
Come avviene in simili casi, non ci furono intoppi burocratici, dato il carattere di urgenza della missione, e tutto fu pronto in modo che, il 4 luglio 1979, potemmo partire per la missione. Una volta arrivati nello Jonio, ci ricongiungemmo con il Vittorio Veneto e con lo Stromboli, che avevano lasciato Taranto, dove avevano effettuato analoghi lavori di trasformazione, e procedemmo insieme verso il Canale di Suez.
Sapevamo che il Vietnam aveva minacciato di attaccare le nostre navi, e che avremmo potuto incontrare pirati, nelle acque del Golfo di Thailandia, per cui ci preparammo a reagire a queste possibili minacce anche installando alcune mitragliatrici in punti sensibili della coperta.
Il 23 luglio entrammo a Singapore, per rifornirci e completare i preparativi, e trovammo ad attenderci l’onorevole Giuseppe Zamberletti, Commissario Straordinario per quella missione, affiancato da un piccolo Stato Maggiore, con a capo l’allora Comandante Mario Castelletti.
Questo piccolo team stava già stabilendo rapporti con i governi dei Paesi dell’area e con i delegati dell’Alto Commissario ONU per i rifugiati (UNHCR). Nei preparativi eravamo stati assistiti anche dalla Caritas, che aveva inviato a Singapore un interprete e che, al rientro in Italia, sarebbe stata impegnata, insieme alle nostre autorità, per dare assistenza ai rifugiati dopo il loro sbarco nel territorio nazionale.
Grazie a tutti questi contatti, ricevemmo una serie di informazioni preziose e, a dire il vero, inaspettate. La prima di queste era che tutti i governi dell’area, e in particolare quello malese, dove approdava la maggioranza delle imbarcazioni dei rifugiati, rifiutavano l’accoglienza ai “Boat People”, per paura di alterare il precario equilibrio etnico dei loro Paesi.
Sapemmo, inoltre, che alcune navi, noleggiate da Organizzazioni non-governative (ONG) europee erano state già nella zona, ma se ne erano allontanate per le minacce del governo vietnamita, oltre che per le difficoltà incontrate dalle loro navi nella stagione del Monsone, che era iniziata da poco. Una di queste navi, infatti, per colpa del mare grosso, aveva travolto un’imbarcazione di profughi, causando la morte di molti di loro.
Un inciso, in questo racconto, è più che doveroso. Durante la breve sosta a Singapore, imbarcammo i giornalisti, inviati delle testate italiane più autorevoli, un segno che nel Paese vi era un crescente interesse per la nostra missione. Ci demmo da fare per metterli in condizione di svolgere il loro lavoro e fummo impressionati dalla loro pazienza e dalla loro capacità di adattarsi ai ritmi di vita e al particolare ambiente della nave. A titolo di esempio, malgrado questi nostri ospiti inattesi dovessero trasmettere i loro resoconti via radio, in ore notturne, per non interferire con le comunicazioni operative, nessuno di loro perse la pazienza, anzi tutti si inserirono nella vita di bordo senza alcuna difficoltà. Si venne, quindi, a creare un’amicizia e una stima che durano ancor oggi, basate sul reciproco rispetto.
Il 26 luglio, una volta completati i rifornimenti, iniziammo il pattugliamento nel Golfo di Thailandia. Dopo solo un giorno di navigazione, incontrammo una imbarcazione di profughi, e qui facemmo la prima scoperta: il mezzo, infatti, non veniva direttamente dalla penisola indocinese, bensì dalla Malesia. I sudvietnamiti, infatti, avevano già compiuto una prima traversata, raggiungendo le spiagge malesi, ma erano stati reimbarcati a viva forza e rimorchiati al largo, alla mercè dei pirati. Questi poveracci, oltre 120, furono soccorsi dal Vittorio Veneto, che li prese a bordo.
Parallelamente, i nostri radar localizzarono alcuni aerei che provenivano dal Vietnam, e che seguivano i nostri spostamenti. Bastò, fortunatamente, puntare i sistemi missilistici per farli allontanare. Apparve, quindi, chiaro che il Vietnam non aveva intenzione di colpirci, ma solo di scoraggiarci e tenerci sotto sorveglianza.
Durante il pattugliamento, nei giorni successivi, incontrammo anche una quantità di piccole imbarcazioni che, di notte, tenevano le luci di navigazione spente, e si muovevano a lento moto o addirittura erano ferme in mezzo al mare. Quando ci avvicinammo a loro, pensando che fossero piene di profughi, e le illuminammo con i proiettori, tenendo, naturalmente, le mitragliatrici pronte, vedemmo uscire dal loro interno uomini che alzavano le braccia, in segno di resa. Erano, probabilmente, dei pescatori, alcuni dei quali avevano deciso di “arrotondare” i propri proventi, saccheggiando le imbarcazioni dei “Boat People” per privarli delle poche e misere cose che portavano con loro, un fatto che scoprimmo poi, parlando con i rifugiati che avevamo accolto.
Il terzo giorno, ricevemmo una comunicazione radio da una piattaforma petrolifera, che ci informava di avere nelle proprie vicinanze due imbarcazioni di profughi. L’Ammiraglio inviò noi dell’Andrea Doria a soccorrerli, e così imbarcammo quel gruppo di rifugiati, poco meno di 70 persone.
Il giorno successivo, un nostro elicottero (solo il Vittorio Veneto li aveva a bordo), avvistò alcune motocannoniere malesi che rimorchiavano al largo varie imbarcazioni di profughi, a conferma della politica di respingimento attuata dal loro governo.
Bastò comunicare la nostra disponibilità ad accogliere questi fuggitivi per vedere le motocannoniere tagliare i cavi di rimorchio e allontanarsi in tutta fretta. Fu così che un altro gruppo, circa 300 persone, fu recuperato e suddiviso tra le nostre tre unità.
Infine, il Commissario Zamberletti si accordò con il governo malese affinché circa 400 profughi, ammassati in campi di raccolta improvvisati su alcune spiagge del Paese, fossero consegnati al Gruppo Navale. L’imbarco avvenne in mare, direttamente dalle motovedette malesi, e fu in tal modo saturata la possibilità di alloggio delle nostre navi.
In quei giorni, una vietnamita che avevamo accolto a bordo dell’Andrea Doria in stato interessante, diede alla luce un maschietto, prontamente battezzato con il nome di Andrea. Purtroppo, questa madre aveva subito angherie da parte dei soldati malesi, dopo la sua prima traversata, e il neonato, che evidenziava un’acuta insufficienza respiratoria, morì dopo alcune ore, nonostante gli sforzi dei medici. Fu un momento di cordoglio per tutto l’equipaggio.
Con la saturazione delle nostre capacità di accoglienza, la missione poteva dirsi conclusa e apprendemmo con soddisfazione che la VII Flotta della US Navy sarebbe subentrata a noi, per continuare l’opera di soccorso. Capimmo, quindi, di aver aperto la strada al nostro alleato americano che, senza di noi, sarebbe andato incontro a reazioni ben più energiche, da parte del Vietnam.
Il quadro generale
I racconti dei profughi e le informazioni che ricevemmo dallo Staff del Commissario Zamberletti ci fecero capire che la nostra missione si era svolta in un quadro ben più complesso, rispetto a quanto sapevamo. Come si è in parte già visto apprendemmo, anzitutto, che il nostro governo, che allora aveva a capo l’On. Giulio Andreotti, aveva avviato la missione di soccorso non solo con il pieno appoggio del Presidente Pertini, ma anche dietro sollecitazioni internazionali, e non solo americane.
Il motivo per il quale era stato richiesto all’Italia di avviare la missione di soccorso, era dovuto al fatto che, pochi anni prima, la nostra diplomazia era riuscita a stabilire una linea di comunicazione informale con le autorità dell’allora Nord Vietnam e a favorire quei contatti diretti con gli Stati Uniti che avevano poi portato agli accordi di Parigi del 1973.
Il Vietnam nutriva perciò gratitudine per il contributo che avevamo dato alla fine della guerra, tanto che, quando Saigon (poi ribattezzata Ho Chi Min city) fu occupata, nessun militare vietnamita era entrato nella nostra Ambasciata, che pure era stata lasciata con un minimo di personale.
Inoltre, a parte la dimostrazione effettuata con i propri aerei, sia pure a debita distanza, nei mesi successivi alla missione, il Vietnam dimostrò una notevole apertura nell’agevolare i ricongiungimenti delle famiglie dei profughi, che poterono quindi arrivare in Italia senza problemi.
Per quanto riguarda il rifiuto malese di accogliere i “Boat People”, è da ricordare il particolare ruolo avuto in quel contesto dai delegati dell’UNHCR, che erano quasi tutti giovani, figli di Vietnamiti emigrati vent’anni prima, dopo la sconfitta della Francia, che aveva tentato, senza successo, di rioccupare l’Indocina nel 1946, dopo esserne stata cacciata dai Giapponesi, nel 1941, e la successiva spartizione del Vietnam.
Questi giovani, sorvegliando le spiagge malesi, avevano scoperto che, non appena veniva scoperto uno sbarco di vietnamiti, le autorità isolavano la zona del loro approdo con filo spinato, senza dar loro né cibo né acqua, costringendoli poi per fame a salire su imbarcazioni vetuste che venivano quindi rimorchiate al largo e abbandonate al loro destino. Analogo comportamento fu tenuto dagli altri Paesi le cui spiagge erano bagnate dalle acque del Golfo di Thailandia.
In definitiva, tutti i Paesi dell’area furono ben contenti che fossimo noi italiani a prenderci cura dei “Boat People”, e li portassimo lontani dal loro territorio.
La conclusione della missione
Tornando al racconto di quei giorni, dopo aver sbarcato alcuni profughi, seriamente malati, e i giornalisti a Singapore, dove eravamo ritornati per rifornirci, il Gruppo Navale iniziò la navigazione di ritorno in Patria. Il Monsone, intanto, aveva raggiunto la sua piena intensità, e la traversata dell’Oceano Indiano fu alquanto tumultuosa, causando disagi ai rifugiati, costretti a rimanere all’interno delle navi, per non rischiare di cadere in mare.
Una volta doppiato Capo Guardafui, ed entrati nel Golfo di Aden, il mare divenne benevolo e la navigazione poté procedere spedita, fino alla nostra meta finale, Venezia, dove i due incrociatori si ormeggiarono alle boe del Canal Grande, di fronte a Piazza San Marco.
Immediatamente imbarcarono il nostro Ministro della Difesa, On. Attilio Ruffini, insieme ai Capi di Stato Maggiore della Difesa e della Marina, all’On. Zamberletti e ai rappresentanti della Caritas. Il tutto avveniva nella cornice davvero impressionante delle rive affollate di gente accorsa alla notizia del nostro arrivo. Inutile dire la nostra commozione, di fronte a questa partecipazione di popolo, un segno indimenticabile che non avevamo operato nell’indifferenza generale.
Non poteva esserci una migliore ricompensa dei nostri sforzi!
Considerazioni
La missione dell’Ottavo Gruppo navale mise in evidenza che l’atteggiamento di ostilità verso i rifugiati era, anche in quella parte del mondo, oltremodo diffuso tra i governi interessati dal fenomeno, specie quando questo assume proporzioni massicce. La pratica crudele di affidare questi scomodi ospiti a imbarcazioni fatiscenti, come accade anche nel Mediterraneo, risale a quei tempi ma, purtroppo, è ancora fin troppo utilizzata.
In questo quadro drammatico risalta la concreta solidarietà offerta dell’Italia. Non solo con il soccorso in mare ma anche con l’assistenza successiva, che fu offerta ai profughi accolti nel Paese. Un fatto ancora più importante fu che il governo, con il concorso della Caritas, ebbe cura di agevolare l’inserimento nel mondo del lavoro dei rifugiati vietnamiti, in gran parte persone con un buon livello di scolarizzazione.
Oggi, con un afflusso quotidiano di richiedenti asilo, in numeri ben maggiori rispetto a quanto avvenne allora, non si pensa più a investigare le professionalità di coloro che giungono via mare, e che potrebbero contribuire al nostro sviluppo, beninteso dopo adeguati corsi di aggiornamento. Certo, i numeri sono maggiori, anche se rimangono una percentuale minima rispetto al fenomeno, visto su scala mondiale, ma ci stiamo privando di possibilità di crescita economica non secondarie.
Un’altra differenza, rispetto ad oggi, fu la redistribuzione dei profughi tra i Paesi dove questi desideravano stabilirsi, unendosi alle comunità di connazionali già esistenti. A parte il mal funzionamento del meccanismo di redistribuzione tra i Paesi dell’Unione Europea, oggi la normativa europea non consente agli immigrati scegliere la Nazione dove sistemarsi, unendosi ai connazionali che li hanno preceduti, e che potrebbero agevolarli nell’inserimento nel mondo del lavoro.
Sul piano del rapporto tra l’opinione pubblica e le istituzioni, poi, la missione dell’Ottavo Gruppo navale dimostrò agli Italiani che le navi della Marina non servono solo in caso di guerra aperta, ma sono strumenti preziosi per operare nelle situazioni di crisi e di tensione, senza aggravare la situazione, specie quando vi siano attori internazionali che manifestano una loro contrarietà.
Infine, troppo spesso dimentichiamo che il fenomeno dell’immigrazione in massa è la conseguenza di situazioni di grave conflitto, e non può essere gestita senza curarne le cause che lo hanno provocato. Noi Italiani non dobbiamo dimenticare che, fino a mezzo secolo fa, eravamo un Paese di migranti, che lasciavano la condizione di povertà in cui vivevano per trovare occasioni di lavoro all’estero, e dare alle famiglie un benessere che, da noi, non potevano conseguire. Solo quando le cause di questo disagio sociale sono state curate, abbiamo potuto fornire ai nostri connazionali condizioni di vita migliori (anche se non ancora ottimali), facendo così finire l’emigrazione degli Italiani all’estero.
In definitiva, l’Italia, da decenni, agisce da ponte tra mondi diversi per calmare le tensioni, portare un briciolo di umanità laddove necessario, e si trova, in questo momento, coinvolta in una situazione di migrazione da Sud e da Est che presenta molti lati oscuri. Trovare la via per tenere a bada i malintenzionati, senza perdere il senso dell’umanità, e agevolare l’inserimento degli immigrati – che in gran parte fuggono da discriminazioni e angherie – non è facile, ma fu fatto 43 anni fa, e l’esempio di allora può fornire buoni spunti di riflessione per ciò che si deve fare ai giorni nostri.
[1] UNHCR. Global Trends Report, 2022.