Scarica file in PDF – Gaudino – Saggio migrazioni climatiche MED insecurity – ottobre 2018
Migrazioni e cambiamenti climatici nel Mediterraneo:
una sfida per l’Europa?
Ugo Gaudino
- Introduzione
Dai 173 milioni di migranti internazionali nel 2000 si è verificata un’impennata tale da raggiungere i 258 milioni nel 2017[1]. Tra questi, 68,5 milioni di individui che nell’arco del 2017 sono stati costretti a migrare: ai 25,4 milioni di rifugiati vanno ad aggiungersi 40 milioni di Internal Displaced People (IDP) – sfollati interni per via delle guerre e dei disastri naturali[2] -, aumentati tragicamente di 30,6 milioni nel corso del 2017, secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre[3].
All’interno dei 40 milioni circa di IDP, 18,8 milioni sono stati costretti a migrare per via di calamità naturali, legate in misura diversa agli effetti peggiori dei cambiamenti climatici [4]. Questi numeri forniti dagli esperti del settore hanno contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica e i decisori politici, aumentando la loro percezione di quanto devastante potrà essere l’impatto dei cambiamenti climatici sulla mobilità umana. Un tema di cui però in Italia si è cominciato a discutere solo di recente, più in ritardo rispetto al dibattito proficuo già avviato a livello internazionale, tanto dalle organizzazioni competenti[5], quanto nell’accademia[6].
- Chi sono i migranti climatici?
Questo saggio è stato concepito con l’obiettivo di presentare il dibattito in questione e fare più chiarezza su un argomento che non solo presenta caratteristiche del tutto interdisciplinari, intersecandosi tra l’ecologia, la climatologia e lo studio delle migrazioni sotto il profilo giuridico, geografico, sociologico e politico, ma che nasce plurale già a partire dalla definizione polimorfa dei soggetti e degli eventi analizzati. Molte sono le categorie utilizzate per riferirsi a quelle che in senso più generico sono migrazioni indotte dall’ambiente, che si tratti di eventi stimolati dal cambiamento climatico o meno: migranti ambientali, rifugiati climatici, eco-profughi, disaster-induced migration. In questo lavoro verrà utilizzata la definizione fornita dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni nel 2011, secondo cui i migranti ambientali sono:
“persone o gruppi di persone che, principalmente a causa di cambiamenti improvvisi o graduali dell’ambiente che influiscono negativamente sulle loro condizioni di vita, sono costrette ad abbandonare le loro residenze abituali, o scelgono di farlo, sia temporaneamente che permanentemente, sia nel loro stesso paese che al di fuori di esso”[7].
Essendo questa definizione riferita ad un insieme di soggetti eterogenei, il cui minimo comune denominatore risiede nella migrazione indotta da un cambiamento dell’ambiente circostante, all’interno di questo saggio il raggio d’azione verrà limitato, selezionando solo i migranti che emigrano all’esterno del paese d’origine (privilegiandoli rispetto agli sfollati interni) a causa di cambiamenti climatici. Verrà seguito l’inquadramento analitico della Nansen Initiative, che parla di “disaster-induced cross-border displacement”[8]. Meno facile, invece, è la distinzione tra una migrazione forzata o volontaria, o tra le migrazioni temporanee o permanenti. In questi casi i tentativi di categorizzare gli individui sono sfuggenti per vari motivi, tra cui le decisioni soggettive alla base dei movimenti migratori, le condizioni oggettive di accoglienza da parte dei paesi di destinazione, l’eterogeneità geografica e geopolitica dei vari casi di studio e ovviamente gli eventi ambientali o climatici che possono essere considerati all’origine di alcuni flussi migratori. Gli eventi vengono divisi generalmente in due gruppi: eventi graduali, o slow-onset, come la desertificazione, la siccità e la degradazione del suolo, ed eventi improvvisi, o sudden-onset, come alluvioni e uragani, fenomeni naturali esacerbati dal cambiamento del clima.
Ogni evento ambientale meriterebbe di essere tenuto in considerazione per avere una visione completa delle potenziali migrazioni e per elaborare la risposta giuridica più congrua in base alle esigenze specifiche di un paese. In questo contributo, ci si concentrerà sui disastri ambientali provocati dai cambiamenti climatici antropogenici, lasciando ai margini quei disastri naturali- terremoti, eruzioni vulcaniche – che paiono meno collegabili all’azione dell’uomo sull’ambiente e che allargherebbero eccessivamente i confini mobili di una categoria già poco strutturata. Del resto, come sottolinea l’IOM, metodologicamente i disastri naturali sono una “sottocategoria” di quelli ambientali[9]. Allo stesso modo, non verrà tenuta in considerazione un’altra sottocategoria dei disastri ambientali, cioè quelli interamente attribuibili dall’uomo (es. incidenti, esplosioni, danni da inquinamento), che pure possono essere tra le cause di migrazioni.
L’assunto di base, condiviso dalla stragrande maggioranza della comunità scientifica, è che la temperatura del globo sia aumentata come mai in precedenza nel corso degli ultimi 200 anni (0,8 gradi centigradi dall’inizio della Rivoluzione Industriale), a causa dell’emissione di anidride carbonica provocata dall’uomo[10]. Diversi scenari sono previsti per i prossimi decenni, ma vi è l’opinione diffusa che la temperatura sia destinata a salire di oltre 1,5 gradi, fino a raggiungere, negli scenari più pessimistici, anche i 4 gradi centigradi[11]. Da cui la necessità di agire per mantenere l’incremento quantomeno al di sotto dei 2 gradi, onde evitare gli enormi costi umani ed economici che la mancata prevenzione comporterebbe[12]. L’aumento della temperatura ha arrecato danni evidenti, che potrebbero addirittura manifestarsi con maggiore intensità, tra i quali vanno menzionati[13]:
- innalzamento del livello dei mari, stimato attualmente in almeno 25 centimetri e potenzialmente in 60 centimetri, e maggior numero di alluvioni;
- diminuzione della quantità di acqua e aumento della siccità e delle carestie a seguito del regime di precipitazione meno intenso in molte aree del pianeta – tra cui il Mediterraneo. Ciò comporterà una degradazione del suolo e avrà delle ripercussioni anche sulla sicurezza alimentare di centinaia di milioni di persone;
- possibilità di migrazioni di massa, ad esempio dai cosiddetti microstati insulari che rischiano di essere sommersi da un futuro innalzamento eccessivo del livello dei mari (Kiribati, Tuvalu[14]).
Fare delle previsioni riguardo al numero delle cosiddette “migrazioni climatiche” è un compito decisamente arduo, sia per ragioni legate alla definizione ondivaga del fenomeno, sia per le diverse prospettive da cui lo si considera. Questa ricerca prenderà in considerazione i cambiamenti climatici che la comunità scientifica (quasi all’unanimità[15]) ritiene attribuibili all’azione dell’uomo, e che, potenzialmente, provocano migrazioni. Sono esclusi quindi i disastri naturali non antropogenici così come quelli causati solo ed esclusivamente dall’azione dell’uomo – ad esempio i danni da inquinamento. Partendo dal presupposto che alla base di ogni decisione di migrare ci sono sempre molteplici fattori che agiscono con varia intensità, ad oggi sembra assodato che anche ragioni di tipo ambientale e climatico possano innescare tali dinamiche. Nel rapporto del 2009 intitolato significativamente Assessing the Evidence, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni individuava quattro modi con cui il cambiamento climatico potrà influire sui flussi migratori[16]: 1) intensificazione di disastri naturali; 2) innalzamento delle temperature e siccità, con conseguenze negative sulla produzione agricola e sulla disponibilità di acqua; 3) innalzamento del livello dei mari, che renderà inabitabili determinate zone costiere e sommergerà delle isole (si ricordi poi che il 44% della popolazione mondiale vive entro i 150 km dalla costa); 4) competizione sulle risorse naturali, che potrebbe scatenare conflitti o esacerbare quelli esistenti, finendo dunque per causare sfollamento forzato.
Come si legge nel Fifth Assessment Report dell’Intergovernmental Panel on Climate Change del 2014, il cambiamento climatico “amplifica rischi già esistenti per i sistemi umani e naturali, e può crearne di nuovi”[17]. Ciò si traduce, soprattutto nelle zone più vulnerabili, nel peggioramento delle condizioni di vita e nell’aumento della fragilità, da cui un incentivo a optare per la migrazione. Nel corso del Panel il nesso è stato ampiamente discusso, riconosciuto ma anche ridimensionato: l’evidenza empirica al momento non è ancora assoluta, mancano conferme specialmente in merito agli slow-onset events[18] ed esistono, di fatto, anche casi in cui i disastri ambientali impediscono la mobilità[19]. Nei successivi summit internazionali dedicati al cambiamento climatico, il legame con le migrazioni – e con le implicazioni in tema di diritti umani[20] – è stato riconosciuto nel corso della COP21 di Parigi, del 2015, la cui Decision 49 on Loss and Damages incoraggia la creazione di una task force per prevenire e ridurre gli sfollamenti connessi a disastri naturali (già previsti durante la COP19 tramite il Warsaw International Mechanism)[21].
Non è questa la sede più idonea per soffermarsi sullo stato dell’arte e sui pareri discordanti in letteratura. Il nesso tra cambiamento climatico e migrazioni verrà assunto come punto di partenza per analizzare, in breve, le lacune giuridiche che esistono a proposito del fenomeno. Quindi, il focus prevalente del saggio si dirigerà sull’area Mediterranea e in particolare sul Marocco, paese di emigrazione e di recente immigrazione, in cui sembra ci sia un’evidenza empirica di migrazioni indotte dalla siccità dalle aree rurali del paese, oltre che di movimenti causati dai disastri naturali attribuibili a cambiamenti del clima[22].
- Risposte giuridiche della comunità internazionale e dell’UE
Da un punto di vista giuridico, non esiste nessuno strumento che si rivolga agli individui costretti ad emigrare al di fuori dei confini statali per via delle conseguenze di disastri ambientali o del cambiamento climatico. Nel caso in cui il movimento si verificasse all’interno del paese di appartenenza, gli individui in questione rientrerebbero nella categoria di IDP, godendo di fatto della protezione stabilita dai Guiding Principles on Internal Displacements del 1998[23]. Se invece il movimento implicasse l’attraversamento del confine, allora si potrebbe parlare di “rifugiati” solo ed esclusivamente se, oltre alla ratio ambientale o climatica alla base dell’emigrazione, vi fosse anche uno degli elementi chiave della Convenzione di Ginevra del 1951 e del Protocollo aggiuntivo del 1967, in particolare il criterio della “persecuzione”. Poiché è escluso che tale criterio possa essere applicato e collegato alle conseguenze del cambiamento climatico, sia la dottrina, sia i giudici negano che gli stessi strumenti di protezione possano valere anche per i migranti mossi da altre necessità, seppur impellenti. Lo stesso discorso, d’altronde, vale per quelle economiche.
A riguardo vengono addotte alcune ragioni.
- Tali migrazioni si svolgono secondo modalità così eterogenee da non poter comprendere se esista o meno una coercizione. Il nodo gordiano è costituito dalla tipologia dell’evento naturale. Si può sicuramente affermare che una catastrofe improvvisa rappresenti una costrizione più stringente rispetto ad un cambiamento più lento e graduale. L’eventualità di un futuro sfollamento per via di fenomeni ad insorgenza lenta è non solo difficilmente prevedibile, ma anche foriera di effetti che non possono essere quantificabili con assoluta certezza: la capacità di resilienza o di vulnerabilità delle popolazioni colpite potrebbe limitarne o acuirne la portata distruttiva. Ragion per cui, è inopportuno parlare di “rifugiato climatico” per chi teme oggi che un domani dovrà abbandonare la propria terra per i danni provocati dall’innalzamento delle temperature globali. Del resto, in termini giuridici sarebbe scorretto qualificare come “persecuzione” anche il verificarsi di un cataclisma naturale che determini nell’immediato conseguenze urgenti e drammatiche per la vita umana. Il timore nei confronti del degrado ambientale o del peggioramento delle condizioni climatiche non può essere equiparato alla paura che si materializza di fronte alla minaccia imminente ed evidente di una persecuzione politica[24].
- La combinazione di eventi ambientali e/o climatici in luoghi diversi può determinare varie risposte. Alcuni studi dimostrano che nel caso di catastrofi improvvise la migrazione tende ad essere temporanea e a rivolgersi verso località vicine, in modo da favorire un ritorno a casa appena possibile – solo il 30% dei migranti si sposterebbe definitivamente[25]. Ciò andrebbe a configurare una situazione non proprio conforme alla richiesta di asilo politico e di emigrazione permanente da parte di rifugiati che non possono fare ritorno in patria. L’emigrazione trans-frontaliera di numerosi individui, non aventi altra scelta se non quella di abbandonare il proprio paese, risulta quindi uno scenario futuro al momento ancora remoto, e concepibile solo per particolari territori, come i microstati insulari del Pacifico. Mancano ancora ricerche approfondite e dati disaggregati affidabili sugli eventi slow-onset, ma al momento le rotte migratorie privilegiate restano soprattutto circolari e interne, come accade in Africa sub-sahariana[26].
- Quindi, la domanda a cui bisognerebbe rispondere per arrivare a garantire lo status di rifugiato è chi sia il soggetto responsabile di una tale persecuzione e per quali motivi si sia mosso. La Convenzione del 1951 ha un impianto statocentrico e fu redatta con l’obiettivo di proteggere i rifugiati da uno Stato e per conto di un altro Stato, che avrebbe garantito loro il diritto d’asilo[27]. Seppure ci fosse un elemento persecutorio nel caso di migrazioni causate da disastri ambientali, sembra veramente remota l’ipotesi che uno Stato equipari le loro conseguenze alla minaccia insita nelle forme di persecuzione menzionate nel 1951 e nel 1967. L’unica eccezione potrebbe riguardare il caso di una sovrapposizione tra persecuzione politica e catastrofe ambientale. Ad esempio, nel caso in cui un governo decidesse di attaccare deliberatamente un gruppo etnico o religioso tramite la privazione di risorse naturali o l’induzione di una carestia, ovvero il rifiuto o l’interruzione di soccorsi durante un grave disastro naturale[28]. In situazioni più usuali, l’equivalenza tra rifugiati politici e climatici è invece improponibile. Realisticamente, né gli Stati né le organizzazioni internazionali deputate alla protezione dei rifugiati accetterebbero una riforma che includa anche i migranti ambientali e climatici.
Nonostante la scorrettezza della definizione di “rifugiato”, si ritiene che la normativa esistente possa essere d’ispirazione per concepire dei provvedimenti idonei ad una forma di protezione specifica per chi emigra, in via temporanea o permanente, a causa di cambiamenti ambientali e climatici severi. Ad esempio, nel 2009 l’Unione Africana ha menzionato i profughi ambientali trans-frontalieri nella Convenzione per la protezione e l’assistenza degli IDP in Africa, firmata a Kampala ed entrata in forze nel 2012[29]. La decisione, molto progressista, rende vincolanti i Guiding Principles del 1998 e manifesta la volontà di cercare soluzioni condivise per gli sfollati all’interno di una cornice normativa e politica continentale. A livello europeo, è stato riconosciuto che il cambiamento climatico influirà negativamente sulla pressione migratoria, sottoforma sia di eventi improvvisi sia di quelli a insorgenza lenta, nonostante i legami siano empiricamente difficili da rintracciare[30]. Partendo da questa premessa, si sottolinea però che tanto l’estensione degli scopi della Convenzione di Ginevra del 1951, quanto l’allargamento dei Guiding Principles del 1998 non rappresentano scenari realisticamente percorribili per proteggere i migranti ambientali e climatici. Per tali motivi, sono stati analizzati tre modi per alternativi per rispondere alla sfida[31]:
- la creazione di un framework normativo disegnato su misura. Il progetto più onnicomprensivo è quello di una convenzione internazionale sullo sfollamento ambientale, abbozzata dall’Università di Limoges e giunta ormai ad una terza versione nel 2013[32]. La Convenzione proposta garantirebbe una serie molto ampia di diritti ai migranti, tra cui: assistenza, acqua, cibo, cure mediche, personalità giuridica, diritti civili e politici, alloggio, lavoro, cura e trasporto degli animali domestici e infine il diritto a ritornare in patria o a rifiutare il ritorno. Si tratta pertanto di un programma ambizioso, che in questo momento storico e politico supera di gran lunga le possibilità realisticamente raggiungibili dai policy-maker.
- L’aggiunta di un Protocollo specifico sulle migrazioni climatiche alla Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico (UNFCCC). Come sostenuto da alcuni autori[33], si tratterebbe di un regime di protezione sui generis basato su: ricollocamento pianificato in via preventiva; riconoscimento internazionale di diritti collettivi per le popolazioni locali che saranno più colpite dai disastri; responsabilità comuni ma differenziate. Anche in questo caso, le misure suggerite sono poco praticabili al giorno d’oggi, così come pare altrettanto velleitario ipotizzare la creazione di un’apposita agenzia che si occupi in modo specifico di migrazioni ambientali e/o climatiche [34].
- La terza opzione, più plausibile delle altre, concerne l’utilizzo di varie forme di strumenti di protezione temporanea, a cui ricorrere con la finalità di dare rifugio agli sfollati ambientali, ma che è meno percorribile per chi emigra per il timore di cambiamenti climatici futuri. In questa ipotesi rientrano anche le soluzioni elaborate in senso alle istituzioni comunitarie e ad alcuni paesi europei. Un altro esempio significativo viene dagli Stati Uniti, in cui lo United States Immigration Act del 1990 prevede lo status di protezione temporanea in circostanze come siccità, inondazioni, epidemie o terremoti, se lo Stato d’origine non può assicurare il ritorno a condizioni di vita sicure per i cittadini[35].
A livello europeo si è molto discusso nel corso degli ultimi dieci anni sulla questione, esprimendo timore per i possibili arrivi di cospicui flussi migratori. La prospettiva securitaria ha contribuito ad alimentare un’interpretazione poco favorevole ai migranti, sia da un punto di vista metodologico, sia per quanto riguarda le possibili soluzioni. Ci si è soffermanti fin troppo sul nesso, non sempre scontato, tra migrazione, sicurezza e sviluppo, puntando sugli aiuti economici in loco e preferendo agire all’esterno invece che all’interno del continente[36]. Esistono, comunque, due strumenti principali che potrebbero fornire una cornice per le migrazioni ambientali e climatiche: la Temporary Protection Directive (TPS) e la Qualification Directive.
La TPS[37] fu designata come un meccanismo da innescare solo negli stati d’eccezione, come flussi ingenti di migranti che fuggono da conflitti armati, violenza endemica o violazioni generalizzate dei diritti umani. La redistribuzione dei migranti sarebbe dovuta avvenire promuovendo sforzi equilibrati tra gli Stati membri. Peraltro, l’art.2(C) contiene una lista non esaustiva, per la quale coloro che richiedono la protezione non deve necessariamente rientrare tra gli scopi previsti dalla normativa sui rifugiati, ma da altri strumenti di protezione nazionali o internazionali. Esiste dunque la possibilità che queste disposizioni vengano interpretate in modo non restrittivo, includendo eventualmente anche i profili di chi è stato indotto a emigrare per via dei disastri ambientali o climatici improvvisi[38]. Tuttavia, l’evidente assenza della volontà politica di implementare la direttiva rende oltremodo velleitario pensare ad un aggiustamento in corso. Di fatto, essa non è stata mai applicata neppure per i profili individuati nell’art.2(C), essendo un provvedimento da applicare in via emergenziale che fu concepito in seguito all’esodo di migranti causato dalle guerre balcaniche.
Oltre alla TPS, l’UE dispone anche di un meccanismo d’asilo che potrebbe essere adattato alle esigenze specifiche dei migranti ambientali e/o climatici, cioè la Qualification Directive del 2004, poi modificata nel 2011. Essa ha lo scopo di fornire standard minimi di protezione a cittadini di stati terzi (Third Country Nationals), ad apolidi, a rifugiati o ad altri individui richiedenti protezione internazionale[39]. La finalità iniziale risiedeva nell’armonizzazione dei differenti parametri legislativi degli Stati membri in materia di diritto d’asilo. Analizzandone l’eventuale applicazione per le migrazioni trans-frontaliere, occorre menzionare in primis che l’art.8 prevede che la protezione sussidiaria possa essere garantita soltanto se nel paese d’origine non esiste alcuna internal flight alternative, cioè una zona in cui possa trovare un rifugio sicuro, al riparo «dal timore di essere perseguitato, da rischi reali e da gravi danni»[40]. Nella circostanza in cui l’intero paese non rappresentasse un luogo sicuro, la QD potrebbe allora essere applicata. Ci si domanda, quindi, se la regola possa valere anche nel caso di migrazioni indotte da disastri naturali. Il nodo gordiano va ricercato nell’art.15 e nella definizione di «danno grave» (serious harm), che comprende:
- pena di morte o esecuzione;
- tortura, trattamento disumano o degradante, punizione;
- minaccia grave individuale alla vita civile della persona a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato internazionale o interno.
Apparentemente, sembra palese che nessuna delle fattispecie possa comprendere l’oggetto del nostro dibattito. Peraltro, un commento finale alla disposizione, poi cancellato dalla versione definitiva del testo, chiariva che la parola «trattamenti» doveva essere collegata solo ad azioni compiute dall’uomo e non a disastri naturali o a situazioni come le carestie[41]. L’assenza di riferimenti non esclude, comunque, che a livello potenziale qualsiasi altra violazione dei diritti umani possa essere compresa nell’art.15(b) e considerata alla stregua di «trattamento disumano o degradante». Il dibattito non è stato preso seriamente in considerazione, per via dei risvolti politici e sociali che un’interpretazione del genere avrebbe. Di fatto, l’allargamento di significato degli aggettivi «disumano e degradante» avrebbe l’effetto, giudicato controproducente, di includere la povertà e l’indigenza economica tra gli aspetti per cui un migrante potrebbe chiedere tali forme di protezione. Se è vero che ci sono state alcune sentenze più orientate verso tale direzione, la giurisprudenza europea è tuttavia ancora tiepida nell’esprimersi positivamente a favore dell’equiparazione tra la fattispecie dell’art.15(b) e le privazioni dovute alle migrazioni ambientali e/o climatiche. La chiave di una lettura più estensiva andrebbe ricercata nella violazione dell’art.3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (ECHR) [42], ma questa potrebbe essere causata solo se lo Stato di provenienza sottraesse al migrante qualsiasi supporto socio-economico, ad esempio tagliando le risorse naturali necessarie al suo sostentamento[43]. Essenziali, dunque, sono il ruolo e la responsabilità da parte dello Stato.
Per quanto riguarda gli Stati membri, esistono degli esempi un po’ più virtuosi, i cui parametri normativi potrebbero essere considerati come delle best practices da imitare anche in altri contesti nazionali. Ad esempio, vengono citate spesso Svezia e Finlandia[44], le quali, in linea con il tradizionale progressismo scandinavo, sembrano offrire meccanismi di protezione più avanzati per coloro che sono impossibilitati a far ritorno in patria a causa di danni gravi, tra cui anche quelli relativi a catastrofi improvvise (non ad insorgenza lenta).
Entrambe le normative non sono ancora state sperimentate per una situazione di migrazione ambientale e/o climatica. L’emergenza migratoria del 2015, poi, ha condotto la Svezia a revocare per tre anni (2016-2019) il meccanismo di “protezione alternativa”, mentre la Finlandia ha lasciato in vita solo la sez. 109 dell’Atto e la possibilità di ottenere una protezione temporanea.
In Italia, si sta cominciando a discutere di migrazioni ambientali e climatiche, non solo a livello mediatico ma anche in sede giurisprudenziale. Una recente sentenza del Tribunale di L’Aquila[45] del 18 Febbraio 2018 riconosce il diritto di un cittadino del Bangladesh alla protezione umanitaria in quanto vittima di disastro ambientale che gli avrebbero fatto perdere il terreno agricolo, ossia le alluvioni, un evento catastrofico improvviso che rappresenta nel contempo anche un effetto graduale del cambiamento climatico[46]. Il giudice Roberta Papa ha sottolineato che i danni sono stati acuiti sia da tali cambiamenti sia dalla deforestazione forzata degli ultimi 40 anni e dalle pratiche di land grabbing, attribuendo quindi la fattispecie a chiare cause antropogeniche[47]. La sentenza ha segnato un passo in avanti storico nel contesto italiano, evocando per la prima volta un caso di migrazione climatica. Ciononostante, se n’è parlato solo tra gli esperti in materia e in pochi giornali che hanno interpretato l’episodio usando una retorica securitaria.
Questo è dunque il quadro europeo, caratterizzato da falle che potrebbero essere colmate solo in presenza di una forte e comune volontà politica di riforma degli strumenti giuridici adeguati. Al di là delle forme di protezione giuridica, le istituzioni si sono soffermate soprattutto sulla necessità di affrontare la questione in via preventiva tramite gli strumenti della cooperazione internazionale e degli aiuti allo sviluppo, al fine di aumentare la resilienza delle zone più vulnerabili[48].
- Il Marocco come caso di studio nel Mediterraneo: flussi migratori climatici interni ed esterni
Questo paragrafo è incentrato su un caso di studio specifico, cioè il Marocco, scelto perché interessato contemporaneamente sia dal cambiamento climatico, sia dai flussi migratori diretti verso l’Europa. Anche se mancano solide dimostrazioni sul nesso causale tra cambiamento climatico e movimenti trans-frontalieri, alcuni studi hanno dimostrato che il Marocco sarà tra i paesi più colpiti dal peggioramento delle condizioni ambientali provocato dall’aumento delle temperature. Il Marocco è già diventato, peraltro, uno degli hub delle rotte migratorie provenienti dal Sahel, a loro volta condizionate da motivazioni ambientali[49]. Di conseguenza, è opportuno che il governo di Rabat si prodighi per mitigare ed adattarsi agli impatti più deleteri legati al cambiamento climatico, tra cui anche i potenziali flussi migratori, e che i paesi della sponda Nord del Mediterraneo cooperino per supportare i vicini del Sud che più saranno colpiti da siccità, carestie e salinizzazione dell’acqua di mare.
All’interno del paragrafo verrà fatto ampio uso di approfondimenti sul campo che hanno indagato il legame tra disastri naturali improvvisi ed eventi slow-onset, da un lato, e le migrazioni che dal Marocco si sono dirette verso l’Europa, dall’altro. Sebbene per parlare di migrazioni occorra sempre considerare tre livelli di analisi (macro, meso e micro) e non dimenticare quanto pesi l’agency individuale, si può affermare che fenomeni quali l’aumento delle temperature, la desertificazione e la siccità abbiamo inciso sulla volontà di alcuni gruppi marocchini, spingendoli a emigrare verso la sponda Nord del Mediterraneo. L’analisi è rilevante non tanto per la portata attuale di tali spostamenti – che sono sì ingenti, ma che chiaramente vanno ricondotti in primis a ragioni economiche -, quanto per i futuri sviluppi legati alla capacità dei marocchini di adattarsi o meno ai cambiamenti climatici, che sembrano inesorabili e drammatici. I flussi al momento non riguardano direttamente l’Italia, meno investita rispetto al passato dall’arrivo dei migranti marocchini; non si può comunque escludere che in futuro le coste italiane vengano privilegiate rispetto alle altre mete del Mediterraneo – principalmente spagnole e francesi. Osservando gli arrivi, si può notare infatti che fino all’ottobre del 2018 sono arrivati in Italia 337 marocchini, a fronte dei 5.612 in Spagna. Tuttavia, nel 2017 l’Italia ha superato la Spagna, seppur di poco (6.000 contro 5.500; altri 300 sono sbarcati in Grecia), mentre nel 2016 il divario è stato notevole (5.443 in Italia contro 674 in Spagna)[50].
Il Marocco è stato selezionato anche in quanto paese che sta vivendo un’interessante transizione migratoria, diventando gradualmente la meta di molti migranti dell’Africa sub-sahariana. Sia che venga scelto intenzionalmente, sia che si decida di rimanervi a causa dell’impossibilità di partire per l’Europa, il Marocco emerge come un insieme di esempi e di situazioni che testimoniano dell’eterogeneità dei flussi e della presenza della componente climatica. Quest’ultima, come si vedrà, è presente in una misura anche maggiore in molti paesi del Sahel, epicentro delle maggiori vulnerabilità del pianeta, “ground zero” del cambiamento climatico[51] e origine dei flussi che si muovono a fatica verso l’Europa. Proprio per questo motivo l’Unione Europea farebbe bene a tenere in considerazione la direttrice migratoria che conduce dalle zone più vulnerabili del Sahel alle coste del Nord Africa.
Prima di focalizzare il discorso sul nesso tra migrazione e clima in Marocco, sia dia uno sguardo quindi alle cifre che riguardano tali flussi migratori in generale. Contrariamente a quanto molti cittadini europei percepiscono, lo stock di migranti internazionali africano (pari a circa 14,1 milioni di individui) è inferiore rispetto a quello asiatico (41 milioni), europeo (23,7 milioni) e latinoamericano (14,6 milioni). Sebbene il numero di migranti originari dall’Africa superi i 36,2 milioni, quasi due terzi di questa cifra è emigrata all’interno del continente, mentre circa 9 milioni di individui di origine africana sarebbero stati stimati in Europa al 2017[52]. Le percezioni fuorvianti sono scaturite quasi sicuramente dai flussi di migranti, a tratti incontrollati, che si sono riversati dal 2014 al 2018 sulle coste europee del Mediterraneo[53], soprattutto in Italia (640.308) e in Grecia (1,126 milioni, a causa del picco di 856.723 del 2015). La Spagna, che fino ad ora fronteggiava degli arrivi meno consistenti, si è trovata di recente a dover gestire sbarchi di un numero crescente di migranti – circa 43.418, più dei 40.180 sbarcati nei 4 anni precedenti. Tra questi, 11.110 sono arrivati dal Marocco, ossia il 18,4% del totale[54].
Questi numeri vanno uniti a quelli del passato, che testimoniano di quanto l’emigrazione marocchina verso vari paesi dell’Unione Europea sia sempre stata molto nutrita. Ad esempio, l’IOM ha calcolato, fino al 2015, lo stock di migranti tra il Marocco e l’Italia (circa 400.000), la Spagna (quasi 750.000) e la Francia (tra gli 800.000 e i 900.000) tra i primi 20 “corridoi” originatisi da paesi africani verso altre destinazioni intra- ed extra-continentali[55]. Altre fonti forniscono dati (aggiornati al 2012) ugualmente significativi, stimando la popolazione di origine marocchina (quindi non solo i migranti, ma anche seconde e terze generazioni) in 487.000 per l’Italia, 672.000 per la Spagna, 363.000 per i Paesi Bassi, 298.000 per il Belgio e addirittura 1.147.000 per la Francia[56].
Esiste per l’Europa una posta in gioco strategica molto rilevante nella gestione dei flussi e nel raggiungimento della piena integrazione dei migranti marocchini o di origine marocchina. Anche in vista di ciò, osservare le dinamiche relative al cambiamento climatico e agli effetti deleteri in situ diventa un’esigenza non prorogabile.
4.1. Le vulnerabilità del Marocco
Cambiamento climatico e disastri ambientali sono caratteristiche piuttosto comuni a tutti i paesi dell’area MENA[57] e a moltissime zone dell’Africa sub-sahariana. Nel corso della trattazione verranno citati alcuni esempi tratti dal Sahel occidentale, significativi poiché origine dei flussi diretti verso l’Europa e transitanti per il Marocco, ma non vi sarà spazio per altri casi di studio del mondo arabo-mediterraneo che pure meriterebbero attenzione. Di fatto, alcuni studi recenti ritengono che molti Stati saranno colpiti da aumento delle temperature medie, siccità, riduzione delle piogge, variabilità intensa delle temperature stagionali e innalzamento del livello delle acque del Mediterraneo: tutti fattori che influiranno negativamente sulla produzione agricola e sull’economia di paesi quali Algeria, Egitto, Yemen, Siria e Marocco[58]. Nelle zone desertiche del Nord Africa è stato osservato un trend verso un clima più secco e più caldo nel corso degli ultimi decenni, più pronunciato verso la Tunisia e l’Egitto che in Marocco. Infatti, la Banca Mondiale stima che la temperatura del Regno possa aumentare tra gli 1.1.e i 3.5 gradi entro il 2060[59]: cifre che, pur rappresentando un peggioramento significativo, si mantengono comunque al di sotto dei picchi previsti dall’IPCC – fino ai 6 gradi, entro la fine del secolo[60]. Tuttavia, la diminuzione di precipitazioni che in futuro colpirà il Nord Africa (dal 10% al 20% entro il 2050) dovrebbe abbattersi con più intensità soprattutto in Marocco, durante i periodi invernali[61]. La riduzione delle piogge ha acuito i danni da siccità nel corso degli ultimi decenni e a pagarne le conseguenze sarebbero state circa 275.000 persone dal 1990 al 2014[62].
Oltre ai periodi di siccità, alla graduale desertificazione, al deterioramento delle terre e allo stress idrico – su ciascuno dei quali bisognerebbe condurre specifici studi, indagandone il nesso con i flussi migratori-, il Maghreb e il Marocco in particolare saranno interessati anche da disastri naturali estremi ed improvvisi: si pensi alle inondazioni e alle tempeste[63]. L’IOM riporta in aggiunta alcuni dati dell’IDMC, secondo i quali dal 2008 al 2014 ci sarebbero stati 22.271 sfollati interni a causa di disastri naturali. Nel 2014 le alluvioni avrebbero provocato almeno 32 morti e più di mille evacuati nelle provincie di Agadir-Ida-ou-Tanane e di Guelmim e altri 15 in diverse zone del paese, mentre gli uragani avrebbero colpito addirittura 117.000 persone, dimostrando l’aumento e il potenziale distruttivo degli eventi sudden-onset[64]. Alluvioni ed uragani devono essere associati anche all’innalzamento delle acque marine, che secondo l’IPCC sarà pari a 0,1 entro il 2030 e a 0,17 entro il 2050[65]. Ciò condurrà alla graduale erosione delle coste e a minacciare l’80% della popolazione marocchina, che vive per lo più in agglomerati urbani localizzati lungo la costa[66].
Osservando altri dati, si evince perché il paese è stato considerato come quello più sensibile agli effetti del cambiamento climatico e meno capace di elaborare strategie di adattamento, a causa sia della pressione demografica interna[67], sia dei livelli poco soddisfacenti di sviluppo economico e umano[68], nonostante il miglioramento costante degli ultimi anni non lo renda affatto uno stato fragile. L’aumento delle temperature, l’aridità del clima, il deterioramento del suolo e l’esigua disponibilità di acqua, specialmente nelle zone rurali, avranno esiti catastrofici sull’agricoltura marocchina, che rappresenta circa il 17% del PIL nazionale e che potrebbe subire un calo della produttività pari al 30%, visto che su circa il 90% del suolo arabile le coltivazioni agricole dipendono da acqua piovana[69]. Peraltro, si stima che l’erosione del suolo abbia già deteriorato il 75% dei terreni marocchini[70], provocando ingenti danni soprattutto nelle oasi meridionali. Altri settori di rilievo dell’economia marocchina subiranno le conseguenze negative del cambiamento climatico, come la pesca, per via della salinizzazione delle acque, e la pastorizia.
A proposito di quest’ultima attività si può cominciare a introdurre il discorso sulle migrazioni climatiche in Marocco, in relazione al dibattito in letteratura tra coloro[71] che credono che le attività di transumanza saranno gravemente acuite – spingendo i pastori alla sedentarietà, ad un maggiore stress sulle risorse naturali e a più probabili conflitti – e chi invece ritiene che i movimenti tradizionali e circolari dei pastori possa costituire una strategia di adattamento valida per ovviare alle criticità ambientali[72]. Si nota, pertanto, come nel caso di studio marocchino ritorni uno dei nodi principali che riguarda le migrazioni climatiche, relativamente alla validità degli spostamenti in loco come validi meccanismi di adattamento e di resilienza, riscontrati inoltre in molte indagini sul campo in Africa sub-sahariana[73]. Tali soluzioni manifestano una natura soprattutto temporanea e circolare[74], ma potrebbero anche prevedere l’attraversamento dei confini, in virtù della porosità che è una cifra distintiva della fascia saheliana.
Se, dunque, esiste già un minimo di evidenza empirica sulle migrazioni oltre confine al Sud del Sahara, caratterizzato anche da politiche regionali incoraggianti verso la mobilità transnazionale (es. il Protocollo dell’ECOWAS del 1979), mancano ancora dati in abbondanza sul Marocco, su cui urgono più ricerche[75]. Ciò potrebbe far affermare che le vere migrazioni climatiche di cui fino ad ora si potrebbe parlare nel contesto marocchino riguardano l’immigrazione dagli Stati del Sahel, più che l’emigrazione verso l’Europa. Al netto di queste considerazioni, non è opportuno comunque escludere che i migranti marocchini che si sono diretti e continuano a dirigersi verso l’Europa siano spinti anche dai problemi che sono stati elencati in precedenza, in primis siccità, carestie, degradazione e desertificazione del suolo. È su questi flussi che in futuro dovranno concentrarsi gli approfondimenti, facendo uso sia di metodi quantitativi che qualitativi e cercando di rintracciare possibili nessi tra la decisione di emigrare e una possibile forzatura legata all’ambiente o al clima.
Con la premessa che ogni migrante è un “imprenditore di sé stesso”, che non agisce solo sulla base di eventuali costrizioni strutturali, e che le migrazioni possono anche avvenire all’interno del paese, dalle aree rurali verso quelle urbane. Su quest’ultimo aspetto al momento esistono delle conferme[76]: l’urbanizzazione sregolata a sua volta potrebbe essere causa di criticità e danni ambientali, o subirne le peggiori conseguenze, in una relazione di mutuo svantaggio. Ma secondo alcuni, il trend problematico della crescita demografica eccessiva in Africa sub-sahariana si verificherà a prescindere dalla migrazione proveniente dalle campagne. Si stima che a partire dal 2030 la popolazione urbana pareggerà quella rurale – entrambe di poco al di sotto degli 800 milioni -, mentre entro il 2050 la componente urbana supererà gli 1.2 miliardi, a fronte di quella rurale che si stabilizzerà tra i 750 e gli 800 milioni[77].
In che modo il Marocco sta cercando di prevenire gli effetti più infausti del cambiamento climatico? Esiste una ponderata strategia nazionale? In linea di massima, la risposta è positiva, ma nelle politiche nazionali non viene mai menzionato il nesso tra i suddetti cambiamenti e le migrazioni[78]. Esistono, invece, diversi strumenti che regolano separatamente le migrazioni e la prevenzione dei danni causati dal cambiamento climatico.
Per quanto riguarda il primo aspetto, dagli anni Novanta si è cercato progressivamente di liberalizzare le politiche migratorie, per favorire il consistente ritorno economico rappresentato dalla rimesse della diaspora marocchina. A questo proposito, di centrale importanza è stato il Mobility Partnership firmato con nove Stati membri dell’Unione Europea nel 2013, che, per quanto non vincolante, cerca comunque di regolamentare i flussi, facilitando il rilascio di visti per certe categorie della società marocchina (studenti, lavoratori) e il rimpatrio dei migranti non autorizzati. Un’altra politica del Regno che può essere menzionata è l’elaborazione della National Initiative for Human Development 2005-2010, che è orientata a ridurre la povertà. Pur cercando di combattere alla radice una delle cause delle migrazioni, anche in questo caso mancano dei riferimenti al cambiamento climatico e ai suoi effetti sulla società. Le criticità potrebbero farsi sentire tanto nelle aree rurali quanto in quelle urbane, considerando che l’urbanizzazione procede a ritmi molto rapidi – il 60,2% della popolazione vive in città[79].
Analizzando nello specifico i provvedimenti rivolti a mitigare il cambiamento climatico, l’impegno del Marocco negli ultimi anni è stato lodevole, tanto da ospitare la 22esima Conferenza delle Parti a Marrakesh nel 2016. Già dal 2001 Rabat ha creato un Comitato Nazionale per il Cambiamento Climatico, dimostrando un’elevata sensibilità in materia. Al 2009 risalgono altri due strumenti chiave che auspicalmente consentiranno al paese di sviluppare una maggiore capacità di resilienza:
- il Piano Nazionale contro il Surriscaldamento Climatico (PNRC), per promuovere la ricerca e l’implementazione di risorse rinnovabili e per favorire una serie di misure di adattamento nel settore agricolo, nelle zone costiere e in tutte le aree del paese che saranno maggiormente colpite dalla scarsità di risorse idriche[80]. I riferimenti alle migrazioni non sono del tutto assenti, nella misura in cui il PNRC menziona la necessità di programmare il ricollocamento delle persone colpite da disastri naturali acuiti dai cambiamenti climatici, come le alluvioni.
- la Strategia Nazionale dell’Acqua (SNE), che ha previsto investimenti pari a 7.5 miliardi di euro fino al 2030 per fare in modo che il paese supplisca alla domanda idrica da parte dei cittadini e delle imprese[81]. Inoltre, già dal 2002 è stato concepito un Piano Nazionale per la Protezione dalle Alluvioni, dotato di un sistema di allerta precoce, che al momento però non è riuscito ad evitare alcune tragedie come quelle del 2014 citate in precedenza.
Da ricordare, infine, la Carta Nazionale dell’Ambiente e dello Sviluppo Sostenibile del 2012 e i contributi del Marocco alla UN Framework Convention on Climate Change del 2015, in cui è stato sottolineato l’impegno del paese nordafricano sia per gli investimenti portati a termine di recente – 9% della spesa nazionale tra il 2010 e il 2015 per misure di adattamento al cambiamento climatico – sia per la futura intenzione di ridurre del 32% le emissioni di gas serra[82].
- Cenni sull’emigrazione climatica dal Sahel: il Marocco come destinazione finale e paese di transito
Dopo aver preso in considerazione le mutazioni climatiche graduali e i disastri naturali improvvisi che hanno potenzialmente spinto, o che potrebbero spingere, molti marocchini a emigrare in Europa, nonostante la penuria di studi empirici disponibili al momento, nella prossima sezione verranno discusse in breve le possibilità ben più evidenti e approfondite in letteratura che le migrazioni climatiche partano da alcune zone del Sahel e dell’Africa Sub-sahariana per dirigersi verso Nord. Il Marocco rappresenta una tappa percorsa da molti, sia come paese di transito, sia come meta finale, considerando pure che le esenzioni sui visti concesse tramite gli accordi con alcuni Stati come Mali e Senegal rendono il viaggio meno ostico. Il Regno inoltre sta vivendo un’interessante transizione migratoria[83], confermata dall’aumento dei migranti regolari residenti nel decennio 2004-2014, superiore al 60%: da 51.535 a 86.206, di cui circa il 40% proveniente da paesi europei[84]. La percentuale è pari allo 0,26% su una popolazione di 33.8 milioni e di certo non comparabile a quella dei paesi europei. Eppure, la crescita costante potrebbe continuare nel corso dei prossimi anni e le cifre ufficiali non riportano il numero di migranti irregolari. La maggiore sensibilità verso gli arrivi dai paesi sub-sahariani ha spinto il re e il governo verso la formulazione di riforme in materia di diritto d’asilo, traffico di esseri umani e altri aspetti correlati alle migrazioni, come evidente nella Strategia Nazionale sulla Migrazione e l’Asilo e nella campagna di regolarizzazione dei migranti del 2014, in cui 17.916 domande su 27.332 sono state accettate. Tra l’altro, nel marzo del 2016 l’UNHCR registrava 4.277 rifugiati (in gran parte siriani) e 1.910 richiedenti asilo (quasi tutti dall’Africa sub-sahariana).
Le statistiche decostruiscono le paure europee riguardo alla possibilità che in futuro migliaia di migranti sub-sahariani presenti in Maghreb finiranno per bussare alle porte del continente al momento non sono giustificate, tanto più che in Europa la maggior parte dei migranti africani proviene dai paesi arabi del Nord. Già una decina di anni fa Hein de Haas stimava che solo dal 20% al 38% dei flussi sub-sahariani diretti in Maghreb continuava il percorso verso l’Europa[85]. È indubbio però che questa percentuale è in aumento. Nel Mediterraneo centrale, ciò è scaturito dalla fragilità della Libia post-2011, per cui molti migranti africani che oggi arrivano in Libia lo fanno con il solo obiettivo di imbarcarsi per l’Europa. Nella parte occidentale, il Marocco, nonostante la stabilità del Regno, è diventato terra di partenza per i migranti sub-sahariani che vi emigrano sempre più numerosamente. Per questo, se è vero che i numeri non sono ancora così alti da suscitare allarmismi, non bisogna affatto sottovalutare l’ipotesi che costoro tenteranno di emigrare in Europa, come successo di recente sia via terra, a Ceuta e a Melilla, sia via mare, come dimostrano i dati dell’UNHCR: su 48.807 arrivi nel 2018, solo il 16,6% è marocchino, mentre quasi il 57% viene da 4 paesi sub-sahariani (in prevalenza Guinea, poi Mali, Costa d’Avorio e Gambia)[86].
Queste breve introduzione aiuta a capire la rilevanza che il Sahel riveste nei discorsi dell’Unione Europea sulla gestione dei flussi migratori diretti a Nord, che in futuro potrebbero subire degli aumenti provocati dal cambiamento climatico. Com’è stato già detto, la portata, la tipologia e le conseguenze di tali mutazioni danno luogo a scenari eterogenei, che si manifestano in modo cangiante in base al luogo considerato, alle caratteristiche meso e micro associate alle catene migratorie e alle strategie dei singoli individui. In generale, si possono comunque segnalare delle criticità che colpiranno negativamente molti paesi del Sahel, già affetti da povertà, indici di sviluppo umano molto bassi, accesso insufficiente alle risorse, percentuali preoccupanti di episodi di violenza e terrorismo e altri fattori di instabilità sociale e politica. Il cambiamento climatico provocherà un aumento degli eventi climatici estremi, tra cui siccità e graduale desertificazione nelle aree interne[87] (slow-onset) e alluvioni e tempeste sulle coste (sudden-onset). Ciò acuirà l’insicurezza alimentare, diminuendo la produzione agricola dal 2% al 4% in Africa centrale e occidentale[88]. Peraltro, l’innalzamento del livello dell’acqua determinerà non solo catastrofi improvvise, ma anche la contaminazione della qualità dell’acqua utilizzabile dalle società locali. L’inquinamento delle falde acquifere, l’intensità variabile delle piogge e la percentuale crescente di eventi estremi sono tutti fattori che si accompagneranno a temperature più calde, causando un aumento dell’esposizione alla malaria, fatta eccezione per le zone meno umide, in cui si registrerà un calo[89].
Detto dei principali mali scaturiti dal cambiamento climatico, una delle tesi più condivise dai ricercatori esperti dell’area saheliana sostiene che la scelta di migrare può esserne una conseguenza molto probabile, costituendo una flessibile strategia di adattamento e di sopravvivenza a breve e medio termine sperimentata da decenni. La migrazione chiaramente avviene anche in risposta ad altre variabili riconducibili allo stress ambientale, segue rotte e network già conosciuti e non implica, di solito, l’attraversamento di confini internazionali distanti. Non essendo la sede per indagare tutti i contesti specifici, vale la pena dedicare qualche battuta almeno al Mali e al Senegal, che sono stati studiati a fondo per via della fragilità ambientale e che pesano tra le componenti dei flussi trans-mediterranei. Di fatto, negli ultimi 3 anni sono stati stimati nel Mediterraneo:
- arrivi dal Mali pari a 10.010 nel 2016 (solo in Italia), 7.700 nel 2017 (7.100 in Italia, 600 in Spagna) e 6.799 all’ottobre del 2018 (di cui 5.924 in Spagna);
- arrivi dal Senegal pari a 10.327 nel 2016 e 6.000 nel 2017 (in entrambi i casi solo in Italia), mentre all’ottobre del 2016 si registra una diminuzione netta (1.437 in totale, di cui 1.016 in Spagna)[90].
Per quanto riguarda il Mali, si tratta di uno degli Stati più poveri del pianeta, in cui la crescita demografica (stimata al 3.6% nel 2012, su una popolazione che ha superato i 17 milioni nel 2018) si accompagna alla progressiva urbanizzazione[91]. Considerando che il paese è ancora rurale per il 66%, si prevede che nei prossimi anni l’aumento delle città e delle migrazioni dalle campagne segnerà un trend da non sottovalutare. Questi fattori, uniti alle vulnerabilità ambientali e all’instabilità politica, hanno spinto numerosi maliani all’emigrazione, principalmente diretta verso gli altri Stati africani – l’84% ne 2007 – più che verso l’Europa. Eppure, come accennato in precedenza, migliaia di maliani sono sbarcati sulle coste europee nel corso degli ultimi anni e circa 200.000 vivono in Francia, essendo parte integrante della Françafrique[92]. Di certo la ratio emigrazione può essere ricercata sia nei motivi economici sia soprattutto per l’instabilità politica di un paese che a fatica riesce a uscire dalla guerra civile scoppiata nel 2012. Il cambiamento climatico, in questo caso, andrebbe probabilmente solo ad inasprire delle criticità già esistenti. Ma tanto per il passato, quanto per il futuro, non è da escludere che alcuni fattori quali siccità e desertificazione (nel 57% del territorio arido e semi-arido del Nord del paese), le alluvioni (che nel 2007 hanno colpito circa 50.000 persone) e l’erosione del suolo (che riguarda quasi il 20% della popolazione) saranno decisivi nella scelta della migrazione[93]. Di fatto, uno degli studi pionieristici dimostrò che nel corso delle severe carestie provocate dalla siccità tra il 1983 e il 1985 vi fu un aumento delle migrazioni circolari, scelta soprattutto da parte di donne e bambini come strategia di adattamento, ma non dell’emigrazione dei lavoratori verso la Francia, che invece diminuì[94].
Per quanto concerne il Senegal, paese di 16,6 milioni di abitanti con crescita stimata al 2,5% nel 2012, a differenza del Mali mancano i conflitti e l’instabilità interna che garantirebbero ai migranti lo status di rifugiato. Per cui, oltre alle cause strutturali di un’economia anch’essa tra le meno floride del pianeta, le motivazioni legate allo stress ambientale, ai disastri e ai cambiamenti climatici potrebbero avere un peso rilevante nei trend migratori. I quali, storicamente, sono stati piuttosto frequenti in direzione dell’Europa: un sondaggio per abitazioni del 2004 condotto dal Ministero dell’Economia riportava che il 70% delle famiglie aveva almeno un parente emigrato all’estero, di cui il 46% in Europa, specialmente in Italia, Francia o Spagna[95]. Dunque, in un contesto del genere, già caratterizzato da storici network migratori e da un’evidente vulnerabilità economica, le variabili ambientali e climatiche dovranno essere esaminate con cura. Di fatto, esiste il pericolo che le forti alluvioni e le tempeste colpiscano centinaia di migliaia di persone, come accaduto tra il 1977 e il 1982 e nel decennio tra il 1998 e il 2007, in un paese in cui peraltro, circa il 50% della popolazione vive su un suolo fortemente degradato[96]. Meno frequenti che in altri paesi sono i periodi di siccità, ma anch’essa in passato ha provocato seri danni alla vegetazione, mentre la scarsità d’acqua è un elemento potenzialmente foriero di conflitti al confine con la Mauritania, nelle zone contestate del bacino del fiume Senegal[97]. Considerando che circa il 70% degli abitanti è dipendente dall’agricoltura, e che il land-grabbing da parte degli investitori privati nazionali e stranieri ha sottratto almeno il 17% della terra arabile alla popolazione dal 2008[98], la variabilità del clima e l’alternanza delle stagioni di pioggia e di secca è un elemento cruciale per determinare il successo dei raccolti. Ciò spiega il motivo per cui, come dimostrato da alcuni studi empirici qualitativi recenti, non è tanto l’evento climatico in sé, quanto la percezione di un cambiamento – ad esempio, della quantità di pioggia che ci sarà in un determinato periodo – ad indurre le persone alla migrazione, che non risulta mai come la prima scelta, ma viene tenuta in considerazione man mano che la percezione di un peggioramento si intensifica[99]. Inoltre, uno studio degli anni Novanta ha dimostrato che nel periodo di siccità più drammatico, nella regione di Tambacounda, l’emigrazione trans-frontaliera aumentò, sia verso altri Stati africani, sia verso la Francia, seguendo catene migratorie preesistenti[100].
In sintesi, osservare le dinamiche climatiche e ambientali di alcuni paesi del Sahel risulta di granitica importanza per la consapevolezza anticipata di eventuali flussi che potrebbero essere collegati ad eventi disastrosi improvvisi o a fenomeni di degradazione a lungo termine. Per l’Unione Europea diventa necessario capire a fondo queste correnti migratorie, al fine di prevenire le cause strutturali che sono più associabili agli spostamenti, al netto della agency individuale di ogni migrante. Tuttavia, è necessario adottare punti di vista che evitino di “securitizzare” le migrazioni potenzialmente addebitabili al cambiamento climatico. L’unico rischio alla sicurezza nazionale, di ogni paese sulla Terra, è quella relativa ai cambiamenti del clima che colpiscono le presenti e le future generazioni: da cui, se proprio ci fosse il bisogno di parlare di sicurezza, sarebbe in primis quella umana delle vittime delle catastrofi a dover sollevare interrogativi e suscitare delle risposte adeguate.
- Conclusioni
Il focus geopolitico sull’area del Mediterraneo è stato preso in considerazione da parte della letteratura[101], che ha dedicato pagine interessanti alla possibilità che il nesso tra migrazioni e cambiamenti climatici prenda forma nell’enorme area compresa tra Nord Africa[102], Sahel, Vicino e Medio oriente, estesa potenzialmente fino al Corno d’Africa[103] e a vasti tratti dell’Africa sub-sahariana. Nel saggio, ci si è concentrati solo su uno Stato Nordafricano, il Marocco, e su una porzione della fascia saheliana da cui sono partiti numerosi flussi migratori diretti verso l’Europa – in particolare dal Mali e dal Senegal. I casi paese sono stati selezionati quindi non solo per la disponibilità di studi, ma anche per ragioni che potremmo definire securitarie, dal momento che una buona percentuale dell’emigrazione trans-mediterranea ha cominciato il proprio viaggio da lì. In futuro, sembra ugualmente importate concentrare gli approfondimenti sulla rotta del Mediterraneo centrale e su quei paesi come Libia e Tunisia che potrebbero presentare caratteristiche idonee allo studio: esposizione al cambiamento climatico, vulnerabilità sociale, fragilità politica, tendenza all’emigrazione, luogo di transito per le migrazioni sub-sahariane.
L’Unione Europea sembrerebbe paralizzata di fronte alle migrazioni indotte da disastri naturali, ambientali o climatici. Eppure, il ruolo di leadership assunto col tempo nella lotta al cambiamento climatico è un segnale positivo che potrebbe generare nel medio-lungo termine dei provvedimenti idonei a riguardo. In termini giuridici, e in presenza di una volontà politica al momento assente, l’azione più realistica consisterebbe nell’adozione della TPS e nell’inclusione nell’art.2(C) di coloro che sono stati costretti ad emigrare per via di disastri improvvisi. Premettendo che la TPS non è mai stata seriamente presa in considerazione per i flussi in arrivo negli ultimi anni, si potrebbe ammettere l’ipotesi di una protezione temporanea a livello individuale. Bisognerebbe avere ben chiaro il grado di coercizione che spinge il migrante alla fuga. Affinché questo sia evidente, i rischi del cambiamento climatico devono avere effetti dannosi ed empiricamente misurabili nel loro legame con le migrazioni Gli eventi slow-onset, di conseguenza, sarebbero momentaneamente messi da parte: non perché la desertificazione graduale o l’innalzamento del livello delle acque siano meno legate al cambiamento climatico rispetto ad un periodo di siccità improvvisa o ad un’alluvione, ma per via della dimostrazione empirica più intuitiva del peso dell’evento sulla richiesta di protezione internazionale da parte del migrante.
La decisione di agire solo sul rischio concreto servirebbe, in un certo senso, a trovare un bilanciamento tra la definizione di nuove forme di tutela giuridica e la ricerca di compromessi con politici e opinione pubblica tendenti alla securitizzazione dei flussi. In altre parole, a rassicurare che non ci saranno migliaia di migranti in fuga per via della percezione dell’aumento delle temperature. Allo stesso tempo, l’idea di prendere in considerazione gli eventi della categoria del “rischio” escludono quelli che si configurano come “pericoli”. Se questi ultimi, infatti, sono esogeni, poiché provengono dall’esterno della società ed hanno un’origine del tutto non-intenzionale (es. terremoti, eruzioni vulcaniche etc.), i “rischi” vanno ricondotti ad un insieme endogeno, in quanto “frutto di decisioni di singoli o gruppi che appartengono alla società” che possono scatenare conseguenze inattese, nonostante le intenzioni positive[104].. Sarebbe quindi eticamente più giustificato caldeggiare forme di protezione temporanea per chi è stato colpito da un evento climatico causato direttamente o indirettamente dalle attività umane. A patto di riscontrare nessi empirici evidenti nel presente – mentre le conseguenze peggiori del cambiamento climatico sono attese per le future generazioni –, e di colpevolizzare le società di certi paesi più industrializzati di tali esiti catastrofici.
Considerando quanto lontano e irto di ostacoli è il percorso verso tali soluzioni giuridiche, non resterebbe che cominciare ad agire tramite gli strumenti di policy accennati in precedenza, ossia:
- cercare di combattere le cause strutturali che acutizzano le vulnerabilità dei paesi colpiti dagli eventi sudden e slow-onset, soprattutto a livello istituzionale
- puntare sulle strategie di adattamento e di resilienza in loco, destinando gli aiuti della cooperazione allo sviluppo europei non solo alla classe politica, ma anche alla società civile delle zone che potenzialmente saranno più colpite. Sarebbe importante canalizzare in fondi soprattutto verso le aree rurali e fare in modo che quante più persone possibili abbiano il diritto alla terra;
- elaborare sistemi efficaci di monitoraggio delle crisi e di early-warning e selezionare delle aree di destinazione in cui gli sfollati potranno dirigersi dopo un eventuale disastro causato dal cambiamento climatico, sia all’interno del paese, sia oltre confine. La previsione di canali migratori legali e di “corridoi umanitari” organizzati da ONG potrebbe fornire dei contributi notevoli alla causa.
Sarà dunque il secolo dei migranti (rifugiati, richiedenti asilo o protezione, economici, ambientali, climatici), ma i suoi primi decenni non hanno prodotto risposte adeguate ad un fenomeno ormai strutturale. Comunque, rispondendo alla domanda del titolo, si può affermare che non esiste l’evidenza empirica di consistenti flussi migratori che si sono diretti verso l’UE per ragioni legate al cambiamento climatico, per cui bisognerebbe evitare di securitizzare la questione[105]. Peraltro, alcune cifre pensate in passato – addirittura 200 milioni entro il 2050[106] – sono state criticate per l’assenza di metodi rigorosi e di un’opportuna distinzione tra i diversi driver che conducono alla migrazione[107].
Una soluzione più realistica e lungimirante considera invece come prioritarie le azioni preventive contro l’innalzamento della temperatura globale, nonché la promozione della resilienza delle aree che saranno più interessate dai cambiamenti del clima. Nonostante alcune criticità, tra cui la mancanza di politiche chiare riguardo alle migrazioni climatiche, è inopinabile che l’UE sia l’attore globale che più si sta impegnando nella lotta all’innalzamento delle temperature. Questo grazie alla strategia energetica continentale, agli obiettivi di riduzione delle emissioni (la strategia “20-20-20” entro il 2020) e ad azioni di politica estera multilaterali volte a ridurre i rischi moltiplicati dal cambiamento climatico[108].
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[1] UN/DESA (United Nations Department of Economic and Social Affairs), The International Migration Report[Highlights], New York, United Nations, 2017, p. 1.
[2] UNHCR (United Nations High Commissioner for Refugees), Global Trends: Forced Discplacement in 2017, New York, United Nations, p.2, 2018.
[3] IDMC (Internal Displacement Monitoring Centre), NRC (Norwegian Refugee Council), Global Report on Internal Displacement 2018, May, 2018, p. V.
[4] Le cifre riportate negli anni precedenti sarebbero anche più elevate: circa 22.5 milioni all’anno nel periodo 2008-2014 In: The Nansen Initiative, Agenda for the Protection of Cross-border displaced persons in the context of disasters and climate change, Vol. I. December, 2015, p. 14.
[5] IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), Climate Change: The IPCC Scientific Assessment: Final Report of Working Group I, Cambridge University Press, Cambridge, 1990.
[6] Ad es. nel lavoro di Hassam El-Hinnawi, Environmental Refugees, UNEP, Nairobi, 1985.
[7] IOM (International Organization for Migrations), Glossary on Migration. International Migration Law. No. 25, 2nd Edition. Geneva, 2011, p.33.
[8] The Nansen Initiative, Agenda for the Protection of Cross-border displaced persons in the context of disasters and climate change, op. cit.
[9] IOM, Migration, Environment and Climate change. Assessing the Evidence, Geneva, 2009, p. 250.
[10] Su cui si rinvia a IPCC, Climate Change 2014: Synthesis Report. Contribution of Working Groups I, II and III to the Fifth Assessment Report of the Intergovernmental Panel on Climate Change [Core Writing Team, R.K. Pachauri and L.A. Meyer (eds.)], IPCC, Geneva, Switzerland, 2014.
[11] World Bank, Turn down the heat. Why a 4°C warmer world must be avoided, Washington DC, 2012, p.XVII.
[12] World Bank, Climate Change Action Plan 2016-2020, Washington DC, 2016, p. 7.
[13]Marcello Di Paola, Cambiamento climatico. Una piccola introduzione, LUISS University Press, Roma, 2015, pp. 22-28.
[14] Su cui si veda Jane McAdam, Climate Change, Forced Migration and International Law, Oxford, Oxford University Press, 2012, pp. 119-160.
[15] Esiste circa un 3% di disaccordo scientifico in materia di cambiamento climatico. I negazionisti non vanno confusi tuttavia con coloro che riconoscono il cambiamento climatico ma credono che non vada fatto nulla per contrastarlo. Si veda Marcello Di Paola, Cambiamento climatico, op.cit., pp. 32-37.
[16] IOM, Migration, Environment and Climate change, op.cit., p. 15.
[17] IPCC (International Panel on Climate Change) , Climate Change 2014: Synthesis Report,op.cit.,p.13.
[18] IOM, Migration, Environment and Climate change, op.cit., p. 248.
[19] W. Neil Adger et al., Human security, In: Climate Change 2014: Impacts, Adaptation, and Vulnerability. Part A: Global and Sectoral Aspects. Contribution of Working Group II to the Fifth Assessment Report of the Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC). Cambridge University Press. Cambridge. United Kingdom and New York, p. 766; Foresight, Migration and Global Environment Change. Future Challenges and Opportunity, Final Project Report, The Government Office for Science, London, 2011, p. 12.
[20] Si veda anche Jane McAdam, Marc, Limon, Human rights, climate change and cross border displacement: the role of the international human right community in contributing to effective and just solutions, Policy Report, Universal Rights Group, Switzerland, August, 2015.
[21] IOM, IOM Contributions to Global Climate Negotiations.22nd Conference of Parties to the United Nations Framework Convention on Climate Change (UNFCCC). Marrakesh, 2016, p.3.
[22] IOM, IOM Contributions to Global Climate Negotiations.22nd Conference of Parties to the United Nations Framework Convention on Climate Change (UNFCCC), Marrakesh, 2016.
[23] Jane McAdam, Climate Change, Forced Migration and International Law, op.cit., pp. 250-252.
[24] Luc Legoux, Les migrants climatiques et l’accueil des réfugiés en France et en Europe, Revue Tiers Monde, 4. n.204, 2010, p.61.
[25] Clionadh Raleigh et al., Assessing the impact of climate change on migration and conflict, World Bank, Washington, DC, 2008, p. 37.
[26] Sara Vigil, Climate Change and Migration: Insights from the Sahel, in Carbone, Giovanni (a cura di), Out of Africa. Why People Migrate, ISPI, Ledizioni Ledi Publishing, Milano, p. 62.
[27] Andrea Simonelli, Governing Climate Induced Migration and Displacement. IGO Expansion and Global Policy Implications, Palgrave Macmillan. New York, 2016, p. 77.
[28] In questa fattispecie, si potrebbe fare ricorso anche alla Responsibility To Protect. Cfr. Dorothea Hilhorst et. al., Human security and Natural Disasters. In: Martin, Mary, Owen, Taylor (a cura di), The Routledge Handbook of Human Security, op.cit., pp. 178-179. Citata come rimedio già esistente per gli IDP in IOM, Migration, Environment and Climate change, op.cit., p. 391.
[29]Unione Africana (UA), African Union Convention for the Protection and Assistance of Internally Displaced Persons in Africa, 2009.
[30] European Parliament,‘Climate Refugees’: legal and policy responses to environmentally induced migration, Study requested by the European Parliament’s Committee on Civil Liberties, Justice and Home Affairs, Brussels, 2011, pp. 10-11.
[31] Ivi, pp. 43-47.
[32] CRIDEAU, CRDP, Draft Convention on the International Status of Environmentally-Displaced Persons, Faculty of Law and Economic Science. University of Limoges, 2013.
[33] Frank Biermann, Ingrid Boas, Preparing for a warmer world. Towards a global governance system to protect climate refugees, Global Environmental Politics. Vol. 10, 2010, pp. 60-88.
[34] Andrea Simonelli, Governing Climate Induced Migration and Displacement, op.cit., p. 113.
[35] Jane McAdam, Climate Change, Forced Migration and International Law, op.cit., p. 100.
[36] Margit Ammer et al., Time to Act. How the EU can lead on climate change and migration, Heinrich Böll Stiftung – European Union, Brussels, June 2014, p. 20 e 27; Enza Roberta Petrillo, Environmental Migrations from Conflict-Affected Countries: Focus on EU policy response, The Hague Institute for Global Justice, Working Paper 6, March 2015, p. 9.
[37] Council of the European Union, Directive 2001/55/EC of 20 July 2001 on minimum standards for living temporary protection in the event of a mass influx of displaced persons and on measures promoting a balance of efforts between Member States in receiving such persons and bearing the consequences thereof, OJ L 212, Brussels 2001.
[38] European Parliament,‘Climate Refugees’: legal and policy responses to environmentally induced migration, op.cit., p. 54.
[39] Council of the European Union, European Parliament, Directive 2011/95/EU of the European Parliament and of the Council of 13 December 2011 on standards for the qualification of third-country nationals or stateless persons as beneficiaries of international protection, for a uniform status for refugees or for persons eligible for subsidiary protection, and for the content of the protection granted (recast). OJ L 337/9. Brussels, 2011.
[40] European Parliament,‘Climate Refugees’: legal and policy responses to environmentally induced migration, op.cit., p 51.
[41] Jane McAdam, Climate Change, Forced Migration and International Law, op.cit., p. 104.
[42] Ivi, pp. 65-68, in cui si discute della sentenza D v United Kingdom e della posizione da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che si espresse a favore di un’interpretazione più flessibile dell’’art. 3 dell’ECHR. L’autrice tuttavia non ritiene che la sentenza possa essere un esempio valido.
[43] Ivi, p. 71.
[44] Emily Hush, Developing a European Model of International Protection for Environmentally-Displaced Persons: Lessons from Finland and Sweden, Columbia Law School, September 2017.
[45] Tribunale di L’Aquila, Ordinanza RG 1522/17, 18 Febbraio 2018.
[46] Diversi studi hanno riscontato delle evidenze empiriche sull’innalzamento del livello del mare e sul pericolo crescente di inondazioni. Cfr. Jane McAdam, Climate Change, Forced Migration and International Law, op.cit., pp. 161-185.
[47] Peraltro, ella si è ispirata alla circolare del 30 luglio 2015 adottata dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo del ministero dell’Interno, che menziona le “gravi calamità naturali o altri gravi fattori locali ostativi a un rimpatrio in dignità e sicurezza” tra le ragioni di concessione della protezione umanitaria. Ministero dell’Interno – Commissione Nazionale per il diritto dell’asilo, Ottimizzazione delle procedure relative all’esame delle domande di protezione internazionale. Ipotesi in cui ricorrono i requisiti per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, Circ. Prot. 00003716 del 30 luglio 2015.
[48] European Parliament, ‘Climate Refugees’: legal and policy responses to environmentally induced migration, op.cit., pp. 47-49.
[49] Ulrike Grote, Koko, Warner, Environmental Change and Forced Migration. Evidence form Sub-Saharian Africa, International Journal of Global Warming, January 2010.
[50] Dati ottenuti da UNHCR, Refugees and migrants sea arrivals in Europe. Monthly Update December 2016; UNHCR, Refugees and migrants sea arrivals in Europe. Monthly Update December 2017; UNHCR, Operation Portal. Refugee Situation. Mediterranean Situation, 2018.
[51] Ammonimento di un funzionario ONU riportato in Sara Vigil, Climate Change and Migration: Insights from the Sahel, op.cit., p. 53.
[52] UN/DESA, The International Migration Report [Highlights], op.cit., pp. 9-11.
[53] UNHCR, Operation Portal. Refugee Situation. Mediterranean Situation, 2018.
[54] Ivi, nella sezione dedicata alla Spagna.
[55] IOM, Word Migration Report 2018. Geneva, 2018, p. 47.
[56] Hein de Haas, Morocco: Setting the Stage for Becoming a Migration Transition Country?, Migration Policy Institute Profile, 2014.
[57] Dorte Verner (a cura di), Adaptation to a changing climate in the Arab countries, (Directions in development), Washington, DC: The World Bank, 2012.
[58] Quentin Wodon et al., Climate Change, Extreme Weather Events, and Migration: Review of the Literature for Five Arab Countries, in Laczko, Frank, Piguet, Étienne, People on the move in a Changing Climate. The Regional Impact of Environmental Change on Migration, Springer International Publishing, Dordrecht, 2014, pp. 111-134. Sugli effetti del cambiamento climatico nel Mediterraneo si veda anche Dania Abdul Malak et al. , Adapting to Climate Change. An assessment of vulnerability and risks to human security in the Western Mediterranean Basin, Berlin, Springer, 2017, pp. 1-5.
[59] IOM, Assessing the Evidence. Migration, environment and climate change in Morocco, Geneva, 2016, p.21.
[60] Isabelle Niang et al., Africa, in Climate Change 2014: Impacts, Adaptation, and Vulnerability. Part B: Regional Aspects. Contribution of Working Group II to the Fifth Assessment Report of the Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC). Cambridge University Press. Cambridge. United Kingdom and New York, 2014, p. 1202.
[61] Janpeter Schilling et al., Climate change, vulnerability, and adaptation in North Africa with focus on Morocco, Agriculture, Ecosystems and Environment, 156, 2012, p. 14.
[62] Julian Tangermann, Mariam Traoré Chazalnoel, Environmental migration in Morocco: Stocktaking, challenges and opportunities, MECC Policy Brief Series, 3(2), 2016, p. 2, lavorando su dati World Bank e EM-DAT del 2015.
[63] Ibidem.
[64] IOM, Assessing the Evidence, op.cit., p. 13.
[65] Ivi, p. 24.
[66] Ivi, p. 28.
[67] Dai quasi 35 milioni attuali, si stima che la popolazione supererà i 40 milioni entro il 2050. Si veda George Groenewold, Joop de Beer, Corina Huisman, Population Scenarios and Policy Implications for Southern Mediterranean Countries, 2010-2050, MEDPRO Policy Paper, No. 5, March 2016, p.18.
[68] 123esimo posto nel ranking dell’ UNDP (United Nations Development Programme), Human Development Reports. Morocco, Human Development Indicators, 2018.
[69] Janpeter Schilling et al., Climate change, vulnerability, and adaptation in North Africa with focus on Morocco, op.cit., p. 16 e 20.
[70] Ivi, p. 21.
[71] Ivi, p. 23.
[72] Korbinian Freier, Finckh, Manfred Finckh, UweSchneider , Adaptation to new climate by an old strategy? Modeling sedentary and mobile pastoralism in semi-arid Morocco. Land. 3, 2014, p. 936.
[73] Gunvar Jonsson, The environmental factor in migration dynamics – a review of African case studies. International Migration Institute (IMI), Working Paper n. 21, 2010.
[74] Sally E. Findley, Does Drought Increase Migration? A Study of Migration from Rural Mali during the 1983–1985 Drought, International Migration Review, 28 (3), 1994, pp. 539–53
[75] IOM, Assessing the Evidence, op.cit., p. 30.
[76] Ambika Chawla, Climate-induced migration and instability. The role of city governments, OEF Research Discussion Paper, 2017, pp. 4-5.
[77] Susan Parnell, Ruwani Walawerge, Sub-Saharian African urbanisation and global environmental change. Global Environmental Change, N.21, 2011, pp. 15-16.
[78] Julian Tangermann, Mariam Traoré Chazalnoel, Environmental migration in Morocco: Stocktaking, challenges and opportunities, op.cit., p. 4.
[79] IOM, Assessing the Evidence, op.cit., p. 37.
[80] Ivi, p. 39.
[81] Dania Abdul Malak et al., Adapting to Climate Change, op.cit., pp. 47-48.
[82] IOM, Assessing the Evidence, op.cit., p. 40.
[83] Hein de Haas, Morocco: Setting the Stage for Becoming a Migration Transition Country? op.cit.
[84] Françoise De Bel-Air, Migration Profile: Morocco, Migration Policy Institute, Policy Brief, EUI, Fiesole (FI), Issue 5/2016, pp. 2-3.
[85] Hein de Haas, Irregular Migration from West Africa to the Maghreb and the European Union: An Overview of Recent Trends, IOM Migration Research Series, 2009, p. 9.
[86] UNHCR, Operation Portal. Refugee Situation. Mediterranean Situation, 2018.
[87] Si veda Bruno Barbier et al., Human Vulnerability to Climate Variability in the Sahel. Farmers’ Adaptation Strategies in Northern Burkina Faso. Environmental Management, vol. 43, no. 5, 2009, pp. 790-803.
[88] James Morrissey, Environmental Change and Human Migration in Sub-Saharian Africa, op.cit.,p.86.
[89] Ivi, p. 87.
[90] UNHCR, Refugees and migrants sea arrivals in Europe. Monthly Update December 2016; UNHCR, Refugees and migrants sea arrivals in Europe. Monthly Update December 2017; UNHCR, Operation Portal. Refugee Situation. Mediterranean Situation, 2018.
[91] Diana Hummel, Martin Doevenspeck, Cyrus Samimi (a cura di), Climate change, Environment and Migration in the Sahel. Selected issues with a focus on Senegal and Mali, MICLE Working Paper no.1, Frankfurt/Main, 2012, p. 44.
[92] Ivi, p. 47.
[93] Ivi, p. 34.
[94] Sally E. Findley, Does Drought Increase Migration?, op.cit., p. 539 e ss..
[95] Ulrike Grote, Koko, Warner, Environmental Change and Forced Migration. Evidence form Sub-Saharian Africa, op.cit., p. 18. Si veda anche OCSE (2015), Connecting with emigrants. A global profile of diasporas, Opinion Survey conducted by Gallup, Paris.
[96] Diana Hummel, Martin Doevenspeck, Cyrus Samimi (a cura di), Climate change, Environment and Migration in the Sahel. Selected issues with a focus on Senegal and Mali, op.cit., p. 33.
[97] Ulrike Grote, Koko Warner, Environmental Change and Forced Migration. Evidence form Sub-Saharian Africa, op.cit., p. 18.
[98] Caroline Zickgraf et al., The impact of Vulnerability and Resilience to Environmental Changes on Mobility Patterns in West Africa, op.cit., p. 12.
[99] Ivi, pp. 5-8.
[100] Emmanuel S. Seck, Désertification: effets, lutte et convention. Environnement et Développement du Tiers Monde, ENDA-TM, Dakar, 1996.
[101] Quentin Wodon et al., Climate Change, Extreme Weather Events, and Migration: Review of the Literature for Five Arab Countries, op.cit.
[102] Oli Brown, Alec Crawford, Changements climatiques et sécurité en Afrique. Une etude realisé pour le forum des ministres étrangères d’Afrique du Nord en 2009, Institut International du développement durable, Winnipeg, Canada, Mars 2009, pp. 1-29.
[103] Vikram Kolmannskog, Driven out by drought, Cairo Review, 9/2013.
[104] Fabrizio Battistelli, La sicurezza e la sua ombra. Terrorismo, panico, costruzione della minaccia, Donzelli, Roma, 2016, pp. 34-35, riprendendo il tema della “modernità riflessiva” di Ulrich Beck.
[105] Barry Buzan, Ole Waever, Jaap de Wilde, Security. A new framework for analysis, Lynen Rienner, London, 1998.
[106] Suddivisi regionalmente in 5 milioni nel Sahel, 7 nella parte restante dell’Africa, 6 milioni nella Cina, 2 per il Messico ed 1 milione di sfollati a causa di lavori pubblici. In Norman Myers, Environmental refugees: a growing phenomenon of the 21st century, op.cit.
[107] François Gemenne, Why numbers don’t add up: A review of estimates and predictions of people displaced by climate change, Global Environmental Change, 21, 2011, p. 43.
[108] Richard Youngs, Climate change and EU security policy. An Unmet challenge, Carnegie Europe paper, 2014, p. 7 e 11.