Scarica il file in PDF – NATO Russia – maggio 2022 – sanfelice
NATO-RUSSIA. UN IDILLIO FINITO MALE
Amm. Sq. Ferdinando SANFELICE di MONTEFORTE
Una transizione traumatica
Una storia non ancora scritta in tutti i suoi aspetti è quella del rapporto – durato 24 anni – tra la NATO e la Federazione Russa. Solo chi ha vissuto questa odissea, partecipando alle riunioni e seguendo gli eventi dagli Stati Maggiori alleati, è venuto a conoscenza delle ragioni di quanto poi è avvenuto. L’origine di questo rapporto tra ex nemici risale a due eventi traumatici, che segnarono la fine della Guerra Fredda, durata oltre 40 anni. Il primo evento ebbe luogo il 1° luglio 1991, quando il Patto di Varsavia decise di sciogliersi, segnando la fine dell’incubo di un possibile olocausto nucleare, per l’Occidente.
L’evento, però, non era avvenuto né in modo indolore, né all’improvviso. Infatti, il ritiro delle truppe russe dai Paesi alleati aveva scatenato, a partire dal 1989, rivolte popolari in questi Paesi, segnatamente in Romania e in Polonia, spingendo gli altri a un cambio di regime. Per le popolazioni interessate, questo ritiro significava la fine di una prassi, seguita fin troppe volte dall’Unione Sovietica nei decenni precedenti, di assicurare la permanenza al potere di regimi a lei favorevoli, domando il dissenso con l’uso della violenza senza limiti. A partire da Berlino, nel 1953, infatti, i carri armati sovietici erano più volte entrati in Paesi alleati in rivolta, soffocando così il dissenso.
Il secondo evento fu la dissoluzione dell’Unione Sovietica, il 25 dicembre dello stesso anno. La repressione russa in Lituania e Lettonia, l’ennesimo, vano tentativo di tenere le Repubbliche baltiche legate alla Madre Russia, aveva diffuso in Occidente la consapevolezza che tutti i popoli, alla periferia dell’Impero sovietico, fino ad allora costretti a far parte dell’URSS, non avevano più intenzione di rimanere soggetti al governo di Mosca.
Dagli eventi di quegli anni la mappa politica dell’Europa Orientale ne uscì ridisegnata. Ma l’instabilità che si era creata, e coinvolgeva anche i governi comunisti nelle aree immediatamente all’esterno del Blocco sovietico, come la Jugoslavia e l’Albania, faceva intravedere rischi non secondari di uno scoppio generalizzato di lotte intestine e contenziosi, a lungo congelati, tra le varie componenti di quell’immenso spazio.
Mentre l’Europa cercava di mettere a punto quella che fu poi chiamata la “European Neighbourhood Policy”, per portare aiuti economici ai Paesi dell’Est e fermare il massiccio flusso di immigrati che tentavano di sfuggire alle guerre civili e alla povertà, la NATO, nel tentativo di imbrigliare la temuta instabilità, decise di creare il “Consiglio di Cooperazione del Nord Atlantico, il 20 dicembre 1991, quale forum per il dialogo e la cooperazione con gli ex avversari della NATO, appartenenti al Patto di Varsavia”[1].
Pochi giorni dopo, come si è accennato, il 25 dicembre 1991, si giunse allo scioglimento dell’Unione Sovietica. Il tentativo di sostituirla con la Comunità degli Stati Indipendenti (CSI) non raccolse l’unanimità dei consensi, tra le repubbliche della morente Unione: mentre l’Armenia, l’Azerbaijan, la Bielorussia, la Georgia, il Kazakstan, il Kirghizistan, la Moldavia, il Tagikistan e l’Uzbekistan aderirono, l’Ucraina e il Turkmenistan non ratificarono mai il trattato, rimanendo come associati.
Infine, le Repubbliche Baltiche dichiararono la propria indipendenza, insieme alla volontà di non far parte della nuova organizzazione. Qualche anno dopo, nel 2006, anche la Georgia si staccò dalla comunità, iniziando un lento, doloroso percorso verso la totale indipendenza da Mosca.
La creazione del Consiglio di Cooperazione del Nord Atlantico (NACC), da parte dell’Alleanza, non era intesa come una sorta di contrapposizione alla neonata CSI, tanto è vero che tutti i Paesi membri di quest’ultima organizzazione furono invitati a entrare nel Consiglio. La Georgia e l’Azerbaijan, seguiti poco dopo dall’Albania e dalle Repubbliche Centro-Asiatiche, aderirono all’invito, mentre la Russia mantenne lo status di osservatore.
Il NACC si poneva un compito immane: l’instabilità e i conflitti derivanti dalla serie di rivendicazioni territoriali e rivalità etniche che erano state, per decenni, congelate, senza che si arrivasse a una soluzione accettabile per le parti erano molto più numerose e profonde di quanto fosse stato ipotizzato. Uno dei pochi esempi positivi di soluzione a queste rivalità accantonate per decenni fu la firma del trattato di cooperazione tra Romania e Ungheria[2], anche se erano stati necessari ben sei anni di negoziato, a partire dal 1991, affinché il governo di Budapest accettasse in modo definitivo la cessione della Transilvania del Nord alla Romania. Il fatto che, alla notizia dell’avvenuto accordo, vi furono imponenti manifestazioni di protesta, seguite dalle dimissioni del governo, da elezioni anticipate e da un radicale cambio di maggioranze indica quanto questo passo fosse stato doloroso.
Non fu possibile, in effetti, regolare pacificamente la maggioranza di queste divergenze, specie quelle più profonde. I conflitti di quegli anni, dal Nagorno-Karabak alla Cecenia, fino all’implosione dell’ex Jugoslavia, dimostrarono che la tendenza generale, nel mondo ex sovietico, era quella di regolare con la forza i contenziosi pendenti. La NATO, in base a realistiche considerazioni di fattibilità, si concentrò nel ristabilire, su invito dell’ONU, la stabilità solo nei Balcani, rinunciando a intervenire più lontano, e in questo i Paesi del NACC furono di notevole ausilio.
Ma non erano questi conflitti le uniche conseguenze del rivolgimento degli anni precedenti. Chi partecipava alle riunioni del NACC, come chi scrive, notò ben presto che, mentre nelle sessioni plenarie i rappresentanti di USA e Russia si scambiavano complimenti, promettendosi amicizia e collaborazione, nei gruppi di lavoro i delegati dei Paesi ex Sovietici ed ex alleati dell’URSS facevano mettere agli atti il loro desiderio di entrare a far parte della NATO, per essere difesi dalla Russia, che costituiva per loro la principale minaccia alla loro stessa esistenza.
All’origine di queste richieste, che col tempo divennero sempre più pressanti, vi erano i rancori e i timori degli ex satelliti ed ex membri dell’Unione Sovietica, dovuti alle angherie subite per decenni, su ordine del governo di Mosca. Non si trattava solo dell’invio di forze corazzate, per domare le rivolte, ma altri misfatti, sia pure minori cominciavano a venire alla luce, nel corso di queste riunioni, apparentemente cordiali, e che – come si vedrà – segneranno gli anni successivi, in modo drammatico, fino ai giorni nostri.
Queste pressioni, unite a quelle esercitate dalle comunità di rifugiati nelle Nazioni occidentali, spinsero la NATO – riluttante ad allargarsi includendo questi Paesi – ad ampliare le finalità del NACC, trasformandolo nel “Partenariato della Pace” nel gennaio 1994, ammettendo, quali membri aggiuntivi, gli Stati neutrali europei (Austria, Svezia, Finlandia), insieme alle Repubbliche ex sovietiche dell’Asia Centrale.
Il partenariato era costituito da una serie di accordi bilaterali tra ogni Nazione aderente e l’Alleanza, in ognuno dei quali si delineavano le aree di cooperazione e, per chi lo desiderasse, si avviavano programmi preparatori per il successivo ingresso nell’Alleanza.
Il rapporto “ad hoc” con Mosca
La Russia non volle entrare a far parte di questo organismo, volendo un trattamento particolare. Per legarla all’Alleanza, visto anche che il governo di Mosca aveva collaborato nella soluzione di quella che sarebbe poi stata definita “la prima crisi della ex-Jugoslavia”, fu negoziata una dichiarazione congiunta, il c.d. “Founding Act on Mutual Relations, Cooperation and Security between NATO and the Russian Federation”[3], firmata poi a Parigi il 27 maggio 1997. Va ricordato che, il 9 luglio successivo, a Madrid, fu firmato un analogo accordo ad hoc con l’Ucraina, che portò alla costituzione della “NATO-Ukraine Commission”. Anche il governo di Kiev, quindi, pur professando in quegli anni una stretta amicizia con Mosca, vedeva già allora nella Russia una minaccia potenziale alla propria esistenza.
Nell’atto fondativo con la Russia, in particolare, vi erano alcuni passi che impegnavano quest’ultima a perseguire un approccio aderente alla Carta dell’ONU, profondamente differente da quello che l’Unione Sovietica aveva praticato nei decenni della sua esistenza. Si iniziava, anzitutto, con l’affermazione che le due parti non erano più nemiche, e si indicava come scopo dell’atto “la determinazione della NATO e della Russia di dare una concreta attuazione al loro impegno condiviso di costruire un’Europa stabile, pacifica, indivisa, intera e libera, a beneficio di tutte le sue popolazioni”[4].
Seguivano poi i principi che le parti si impegnavano a seguire. Essi erano:
- “lo sviluppo, sulla base della trasparenza, di un partenariato forte, stabile, durevole e paritetico, e di una cooperazione per consolidare la sicurezza e la stabilità nell’area Euro-Atlantica;
- il riconoscimento del ruolo vitale che la democrazia, il pluralismo politico, la legalità e il rispetto per I diritti umani e le libertà civili e lo sviluppo di economie libere di mercato giocano nello sviluppo della prosperità comune e della sicurezza in tutti i suoi aspetti;
- astenersi dalla minaccia o uso della forza reciproca, nonché verso ogni altro Stato, la sua sovranità, integrità territoriale o indipendenza politica, che sia in qualsiasi modo in contrasto con la Carta delle Nazioni Unite e con la “Dichiarazione dei Principi guida delle relazioni tra Stati partecipanti”, contenuta nell’Atto finale di Helsinki;
- il rispetto della sovranità, dell’indipendenza e dell’integrità territoriale di tutti gli Stati e del loro diritto a scegliere I modi per assicurarsi la propria sicurezza, l’inviolabilità delle frontiere e il diritto dei popoli all’auto-determinazione, come indicato nell’Atto Finale di Helsinki e in altri documenti dell’OSCE;
- la trasparenza reciproca nel creare ed attuare le dottrine di politica di difesa e militari;
- la prevenzione dei conflitti e la risoluzione delle dispute con mezzi pacifici, in accordo con i principi dell’ONU e dell’OSCE;
- il sostegno, caso per caso, alle operazioni di mantenimento della pace (peacekeeping) svolte sotto l’autorità del Consiglio di Sicurezza ONU o sotto la responsabilità dell’OSCE”[5].
L’organismo designato per l’attuazione pratica di questi intendimenti comuni fu definito “Permanent Joint NATO-Russia Council” (Consiglio Permanente Congiunto NATO- Russia), poi noto con l’acronimo PJC. Gli accordi di dettaglio, infine, prevedevano che, oltre alla rappresentanza permanente di Mosca a Bruxelles, una delegazione russa, a livello militare, fosse ammessa nel comprensorio del Comando Supremo dell’Alleanza, SHAPE[6], per il coordinamento delle operazioni congiunte.
Il difetto del PJC divenne palese quando furono ammessi nell’Alleanza, in qualità di membri, i Paesi ex-Patto di Varsavia ed ex-URSS, tra il 1999 e il 2004. Come si è visto, la NATO aveva a lungo esitato, di fronte alle loro domande e alle potenti pressioni che venivano dalle loro comunità di rifugiati nei Paesi dell’Occidente, ma alla fine capì che non poteva lasciarli in una situazione di incertezza strategica e di insicurezza totale. La soluzione fu quella di stabilire un percorso di avvicinamento all’Alleanza, durante il quale i Paesi candidati dovevano prendere provvedimenti di tipo politico e organizzativo, in modo da rendere i loro sistemi statuali compatibili con quelli dell’Alleanza, e le loro forze militari interoperabili con quelle occidentali. Va detto che altrettanto fece, in quegli anni, l’Unione Europea.
In pochi anni, in pratica, tutta l’Europa Centro-Orientale, dai Paesi Baltici alla Romania, era passata armi e bagagli all’Occidente. L’ingresso di questi Paesi nell’Unione Europea, in quegli stessi anni, completò questa transizione. Va detto che – a ragione o a torto – la Russia aveva sempre tentato di influenzare, se non dominare, quella parte del Vecchio Continente, adducendo motivi di sicurezza, tanto che, nel 1919 un profondo geografo britannico, Sir Halford Mackinder, aveva osservato che “era una necessità vitale che ci fosse una fila di Stati indipendenti tra la Germania e la Russia”[7]. Da una parte, quindi, il governo di Mosca soffriva per la perdita di quello che aveva considerato uno “scudo sacrificale”, e dall’altra, i rappresentanti di quei Paesi riversarono sulla NATO le frustrazioni collettive dei loro Paesi, a lungo represse.
Quindi, durante le sedute del PJC, i rappresentanti di queste Nazioni iniziarono a sfogare tutto il loro livore, nei confronti degli omologhi russi, bloccando la maggior parte delle attività congiunte che la NATO aveva concepito per incrementare il livello di interdipendenza, e quindi di comprensione reciproca con Mosca, e cercava di mettere in atto, a beneficio delle parti interessate.
A poco valse il vertice di Pratica di Mare del 2002, che sostituì il PJC con un altro organismo, il “NATO-Russia Council” (NRC), definito come “un meccanismo di consultazione, creazione del consenso, cooperazione, decisioni ed azioni congiunte, nel quale i singoli Stati membri della NATO e la Russia lavorano come partner paritetici su un ampio spettro di questioni di sicurezza di interesse comune”[8]. Anche questo nuovo organismo prendeva il già citato “Founding Act” del 1997 come proprio riferimento.
La novità, stando alla dichiarazione finale del vertice era “lo spirito degli incontri (che) era profondamente cambiato nel NRC, nel quale la Russia e gli Stati membri della NATO si sarebbero riuniti pariteticamente su aree di comune interesse, invece che nel formato bilaterale “NATO + 1”, caratteristico del PJC”[9].
Il nuovo formato, purtroppo, non si rivelò sufficiente a eliminare la cortina d’odio che separava gli ex sudditi dell’URSS dal governo di Mosca, e che chi scrive ha più volte notato. La Russia, quindi, a forza di essere messa ogni volta alle strette nelle riunioni del NRC, a poco a poco perse interesse nella collaborazione con la NATO, e iniziò a considerare di essere stata raggirata. Da quel momento iniziarono le polemiche, da parte del governo di Mosca, sull’allargamento della NATO, e sul più volte citato accordo verbale, secondo il quale la NATO si sarebbe impegnata a non dislocare le proprie forze nei nuovi Paesi membri, confinanti con la Federazione Russa.
Il graduale allontanamento russo
L’intervento della NATO in Kosovo, per fermare la repressione serba contro l’etnia albanofona, che aveva causato l’esodo di 400.000 rifugiati, approfondì il divario tra le due organizzazioni, con la Russia che si schierò apertamente in favore della Serbia, pur potendo fare poco per aiutarla.
L’invio di forze russe in Kosovo, per proteggere le comunità serbe, concordato faticosamente con la NATO, non bastò a occultare il fatto che numerosi “volontari” russi erano già stati inviati, nei mesi precedenti, a sostegno della repressione serba in quella Nazione.
Da allora si moltiplicarono le occasioni di divergenza. Il massiccio attacco informatico contro l’Estonia, nel 2006, portò più di un membro della NATO ad accusare il governo di Mosca; come se non bastasse, l’incremento delle attività aeree russe, che violavano gli spazi aerei delle Repubbliche Baltiche e dell’Islanda, spinse l’Alleanza a garantire la sicurezza dei cieli di questi membri, dislocando, a rotazione, caccia intercettori dei Paesi membri in quegli Stati, con le conseguenti polemiche, per fortuna solo verbali, da parte del governo russo.
La guerra in Georgia, nell’estate del 2008, approfondì il divario tra le due organizzazioni, anche se – a dire il vero – la Russia era intervenuta a difesa delle due repubbliche secessioniste dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud e, almeno formalmente, non aveva aggredito nessuno, anche se – negli anni precedenti – aveva provocato un esodo forzato delle comunità non russofone da quelle regioni.
Solo, quindi, quando ebbe luogo l’occupazione della Crimea da parte della Russia, nel 2014, si ebbe la prima, palese, violazione degli impegni presi a suo tempo con il Founding Act, tanto che si arrivò alla sospensione del NRC e all’incremento della cooperazione a livello militare tra la NATO e l’Ucraina.
Non meraviglia, quindi, che in questi ultimi anni, come ormai noto, la NATO sia stata più volte additata dal governo di Mosca come la causa di tutti i suoi mali, specie quando – man mano che le minacce russe ai vicini diventavano più violente – la NATO organizzava esercitazioni nei Paesi balcanici e baltici, membri dell’Alleanza.
L’invasione dell’Ucraina, da parte della Russia, iniziata lo scorso 24 febbraio, ha posto fine definitivamente alla collaborazione, con la NATO che ha ormai, come fine principale, la difesa degli Stati Membri dall’aggressività del governo di Mosca.
Nel tentativo di prevenire il conflitto, nell’imminenza dell’invasione, il Segretario Generale della NATO Stoltenberg, in occasione della Conferenza di Monaco sulla Sicurezza, il 19 febbraio 2022, aveva proposto la riattivazione del NRC, e aveva dichiarato che “la NATO è un’alleanza difensiva; noi non minacciamo né la Russia né nessun altro, ma prenderemo tutte le misure necessarie per proteggere e difendere tutti gli Alleati. Per questo, in risposta all’insieme delle azioni aggressive della Russia abbiamo rafforzato la nostra deterrenza e difesa entro l’Alleanza, in modo da evitare errori di calcolo o equivoci sul nostro ferreo impegno a difenderci gli uni con gli altri. Per questo, se lo scopo del Cremlino è di avere meno NATO ai confini della Russia, otterrà solo di avere più NATO, e se vuole dividere la NATO, otterrà solo un’Alleanza più unita”[10]. Questo è appunto ciò che sta avvenendo, in questi giorni.
In conclusione, da quanto emerge da quanto detto finora, i tentativi di cooptare la Russia entro l’Occidente, per il tramite della NATO, sono falliti per tre motivi. Il primo è l’odio feroce che i Paesi a suo tempo alleati o sottomessi all’Unione Sovietica nutrono verso il loro antico padrone, in alcuni casi da secoli.
In Occidente noi conosciamo i fatti più eclatanti, primo fra tutti lo sterminio di alcuni milioni di Ucraini, privati del cibo per consentire l’eliminazione della piccola proprietà e l’affermazione della collettivizzazione delle terre, negli anni tra il 1930 e il 1932.
I calcoli degli storici, data l’assenza di dati resi pubblici dal governo di Mosca, valutano le morti per fame tra i 3 e i 6 milioni di persone[11]. In effetti, a riprova della validità di queste stime sta il fatto che la popolazione ucraina ne uscì decimata a un punto tale che, quando “il censimento del 1937 mostrò un tasso di mortalità spaventosamente alto, Stalin fece fucilare i principali responsabili delle rilevazioni”[12].
A questi delitti eclatanti, a quanto riferito dagli interessati, si aggiungevano le angherie più diverse, a partire dalla prassi di destinare i militari, provenienti dai Paesi sottomessi, nelle regioni più remote dell’URSS, fino al minamento delle spiagge del Baltico, per evitare la fuga di persone dal “Paradiso Sovietico”.
Questa “Cortina d’Odio” che oggi circonda la Russia è destinata quindi ad aumentare, anziché svanire, anche quando l’attuale invasione russa dell’Ucraina avrà trovato, bene o male, una soluzione politica.
Il secondo motivo del fallimento è la “sindrome dell’assedio” che affligge l’attuale dirigenza russa, unita all’errata convinzione che l’Occidente stia cercando di asservirla, se non distruggerla. Questa insicurezza, secondo alcuni studiosi un fenomeno comune a tutti i Paesi che hanno confini solo terrestri, ma è particolarmente vivo in Russia.
Come osservava, infatti, uno di loro “L’insicurezza è la quintessenza delle emozioni della Russia”[13], dovuta al fatto che “la piattezza (del territorio della) Russia, che si estende dall’Europa all’Estremo Oriente, con poche frontiere naturali, ha per lunghi periodi causato un panorama di anarchia, nel quale ogni gruppo era permanentemente insicuro”[14].
A nulla è valsa l’affermazione, da parte di studiosi di strategia, che la sicurezza della Russia risiedeva nella sua immensità degli spazi, atta a garantire un’efficace difesa in profondità, come d’altronde fu confermato dagli insuccessi delle invasioni napoleonica e – oltre un secolo dopo – tedesca. Fin dall’epoca degli Zar, la parola d’ordine è sempre stata “espandersi o morire”. Il risultato è appunto la “Cortina d’odio” che non si limita ai Paesi dell’Europa Centro-Orientale, anzi!
Il terzo motivo, ancora più foriero di conseguenze, è la constatata inaffidabilità della Russia, dopo la violazione da parte del suo governo degli impegni presi a suo tempo con il Founding Act.
Di fronte a questa palese violazione, che conferma il vizio russo di usare la forza con eccessiva disinvoltura, in dispregio della Carta dell’ONU, l’Occidente, non a caso, sta prendendo atto dell’impossibilità di mantenere rapporti “normali” con la Russia, e lo testimoniano non solo le sanzioni decise dai governi, ma soprattutto la fuga di imprese e di imprenditori occidentali dal Paese. Questa fuga, che alla lungo comporterà una perdita di interdipendenza, è foriera di una situazione di ostilità – o quantomeno di sospetti – a livello permanente, tra l’Occidente e la Russia, e una progressiva limitazione dei rapporti commerciali e culturali.
Anche se è vero che altri Paesi, e in particolare la Turchia e la Cina, cercheranno di riempire il vuoto lasciato dalle imprese occidentali, questa penetrazione non farà altro che aggravare la situazione della Russia, che si troverà a dipendere dai suoi “nemici naturali”, le cui rivendicazioni territoriali non sono certo state accantonate, anche se vengono perseguite con metodi da “strategia indiretta”.
Solo se la Russia capirà che “il potere dell’attrazione batte quello della coercizione, (e, di conseguenza) il soft power dovrebbe essere il cuore della politica estera della Russia”[15], sarà possibile al governo di Mosca smontare, sia pure gradualmente, la cortina d’odio che la circonda e trovare un’alternativa ai legami che sta stringendo con i suoi peggiori nemici – appunto la Turchia e la Cina – legami che finiranno per soffocarla.
[1] NATO Background Briefing. NCC, 30 gennaio 2017.
[2] HUNGARY-ROMANIA. Treaty on understanding, cooperaation and good neighborliness. Timisoara, 16 Sept 1996. In “International Legal Materials”, Vol. 36 n° 2 pagg.340-353.
[3] Vds. NATO e-Library. Founding Act on Mutual Relations, Cooperation and Security between NATO and the Russian Federation. Official text, last updated 12 Oct 2009.
[4] Ibid.
[5] Ibid.
[6] SHAPE: Supreme Headquarters Allied Powers Europe.
[7] H. J. MACKINDER. Democratic Ideals and Reality; a study in the Politics of Reconstruction. Ed. Constable and Co. 1919 pag. 205.
6 NATO e-Library. About NATO- Russia Council.
[9] Ibid.
[10] NATO news. Remarks by NATO Secretary General Jens Stoltenberg at the Munich Security Conference session ”Hand in hand: Transatlantic and European Security’‘.
[11] O. SUBTELNY. Ukraine, a History. University of Toronto Press, 1988, pag. 413.
[12] Ibid. pag. 415.
[13] R. KAPLAN, The revenge of geography. Ed. Random House, 2012, pag. 159.
[14] Ibid.
[15] Ibid. pag. 178.