Scarica il file in PDF – tesi spata APPROFONDIMENTI SUL TERRORISMO
Nuovi scenari del TERRORISMO INTERNAZIONALE:
il terrorismo fai da te
Valentina Spata
(tesi Master in “Analista del Medio Oriente”, Università degli Studi Niccolò Cusano UNICUSANO – a.a. 2018-2019 – relatore Prof. Laura Quadarella Sanfelice di Monteforte)
INTRODUZIONE
Capitolo 1. Il terrorismo Internazionale jihadista. Un nemico che cambia
1.1 Definizione del termine Terrorismo
1.2 Lo scenario e le dinamiche del terrorismo prima dell’11 settembre 2001
1.3 Il terrorismo internazionale di matrice islamica
1.4 Il jihad globale: Al Qaeda e Islamic State
Capitolo 2. La minaccia del terrorismo “fai da te”. Nessuno è a rischio zero.
1.La nascita del terrorismo “fai da te”
Capitolo 3. La propaganda del terrorismo “fai da te”: dalle riviste agli strumenti telematici e del web
1 La comunicazione logistica e la comunicazione propagandistica
2 Il meccanismo di propaganda ai tempi dei social e l’effetto “Werther”
3 Le riviste come guida pratica del terrorismo “fai da te”
Capitolo 4. Il terrorismo suicida e la radicalizzazione jihadista. Foreign Fighters, Homegrown e Lone Wolf
1 Radicalizzazione e terrorismo suicida
2 Foreign fighters, homegrown e lone wolf
- Gli attentati terroristici in Europa
Conclusioni
Bibliografia
Introduzione
A diciannove anni dal terribile attentato dell’11 settembre, sono ancora presenti in ognuno di noi le immagini delle Torri Gemelle in fiamme e delle persone che si lanciano dalle finestre.
L’America si ferma e piange i quasi tremila morti tra vigili del fuoco, poliziotti, soccorritori e comuni cittadini. I loro nomi non sono scolpiti sulle fontane a Ground Zero, ma sono ugualmente vittime della strage terroristica che mise in ginocchio l’America.
Sono le 8.45 dell’11 settembre 2001. Sul cielo di New York si abbatte il terrore: il volo AA11, partito da Boston, si schianta contro la Torre Nord del World Trade Center. Si pensa ad un incidente, ma solo 17 minuti più tardi, quando anche un secondo aereo, il volo UA175 anch’esso proveniente da Boston, esplode in diretta televisiva contro la seconda delle Torri Gemelle. Il mondo capisce che gli Stati Uniti sono sotto attacco. Da quel momento la storia americana e del mondo occidentale è cambiata ed il terzo millennio cominciava con l’attacco ai simboli del potere americano macchiati di sangue e orrore.
In realtà l’11 settembre è stato sia una conseguenza che un inizio, la cui origine come in tutti gli avvenimenti della storia, va ricercata lontana nel tempo e nello spazio.
Questo elaborato, infatti, presenta un quadro sistematico dell’evoluzione storica del terrorismo, con particolare attenzione alla nuova forma di terrorismo “fai da te”.
Nel primo capitolo, si affronta la questione della definizione del termine “terrorismo” e della Comunità Internazionale che non ha ancora individuato una definizione universale dello stesso, in quanto la concezione del fenomeno non è percepita da tutti, in particolare dagli Stati arabi, allo stesso modo.
Se per qualcuno il terrorismo è un atto criminale, per altri è un modo per difendere un popolo dalla sovranità inappropriata degli Stati di appartenenza.
Si analizza, quindi, ampiamente la nascita del terrorismo partendo dalla radice etimologica del termine che fa riferimento al periodo del “terrore” in Francia e che indica, quindi, uno Stato europeo come origine stessa del fenomeno, nonostante ci siano radici ancor più lontane degli atti di terrore commessi contro sovrani e governi.
Partendo dal presupposto che ˂˂tutti i terroristi sono fondamentalisti ma che non tutti i fondamentalisti sono terroristi e che non tutti i terroristi sono musulmani>>, questa tesi fornisce un quadro ampio dello scenario e delle dinamiche del terrorismo prima e dopo l’11 settembre 2001, analizzando il passaggio dal terrorismo politico alle nuove forme di terrorismo globale.
Tuttavia, gli Stati non hanno previsto le conseguenze della globalizzazione, sicché le modalità di cooperazione interstatuale in materia penale sono rimaste frammentarie e sostanzialmente inefficaci rispetto ai nuovi metodi impiegati dal terrorismo transnazionale. Pertanto, è opportuno precisare che la globalizzazione è caratterizzata dall’eliminazione delle barriere temporali e spaziali e dall’accresciuto accesso pubblico all’informazione, alla tecnologia e alle comunicazioni. La globalizzazione ha particolarmente favorito i gruppi terroristici, permettendo ai membri e ai sostenitori di tali gruppi di attraversare i confini statali, di acquisire e trasferire equipaggiamenti, ottenere informazioni, comunicare l’uno con l’altro, trasferire fondi a livello transnazionale con molta più facilità, potendo contare sui media per divulgare in tutto il mondo messaggi, cause ed operazioni. La globalizzazione ha anche permesso ai gruppi terroristici di creare insieme delle reti, dando loro la possibilità di sviluppare alleanze strategiche con altri gruppi impegnati nella criminalità transnazionale, di sviluppare sinergie e di massimizzare le rispettive capacità.
Uno dei paragrafi del primo capitolo è poi dedicato ai due network terroristici, al Qaeda e Islamic State, alla loro organizzazione tenendo in considerazione che hanno obiettivi simili ma utilizzano metodi differenti e soprattutto alla loro competizione che è l’origine di una lotta interna alla galassia jihadista.
L’Islamic State e al Qaeda, che vengano spesso associati e confusi ma sono due organizzazioni molto diverse e in competizione tra loro, condividono lo stesso obiettivo: la creazione di uno Stato islamico sul modello di quello creato dal profeta Maometto e dai suoi successori, i califfi, ma differiscono su quasi tutto il resto, a partire dai metodi da usare.
Per al Qaeda, fondata nei primi anni Novanta dallo sceicco saudita Osama bin Laden e, dopo la sua morte, guidata dal medico egiziano Ayman al Zawahiri, la creazione del califfato è un obiettivo distante nel tempo. Per raggiungerlo, al Qaeda intende utilizzare la classica strategia del terrorismo: colpire i nemici in modo da causare una reazione violenta che a sua volta spinga gran parte della popolazione civile a schierarsi con il gruppo.
Il nemico, in questo caso, sono gli Stati Uniti e i regimi che governano molti paesi arabi, quello dell’Arabia Saudita in particolare. La strategia di al Qaeda è quella di compiere attacchi terroristici così gravi da spingere gli Stati Uniti a intervenire nei paesi arabi e i regimi musulmani a portare la repressione ad un livello intollerabile per la popolazione.
In questo modo, i qaedisti vogliono provocare un’insurrezione generale dei musulmani che porterà alla creazione di uno Stato islamico. L’ISIS ritiene che questa fase si sia già compiuta e che comunque non debba precedere la creazione dello Stato Islamico. Secondo l’ISIS, il califfato è già una realtà e ora è dovere di ogni buon musulmano accorrere in sua difesa.
Quello dell’ISIS è un messaggio considerato oggi da molti jihadisti molto più “attraente”, anche grazie ai successi militari ottenuti nell’estate del 2014, con cui i miliziani dell’ISIS sono riusciti a conquistare rapidamente molti territori in Iraq e in Siria, lo Stato Islamico è di fatto riuscito a eclissare al Qaeda.
Nonostante i colpi subiti da entrambi i network, ultimo l’uccisione del leader dell’ISIS, la galassia jihadista costituisce continuamente una minaccia ed un pericolo per la società occidentale e per il mondo intero.
Nel secondo capitolo di questa tesi, si intende approfondire una nuova forma di terrorismo chiamata “terrorismo fai da te”.
L’obiettivo del nuovo terrorismo è quello di selezionare i propri obiettivi con lo scopo di esasperare la paura collettiva e dimostrare la vulnerabilità del potere governativo e la sua incapacità di provvedere alla sicurezza ed all’incolumità pubblica.
Nella cultura politica occidentale si è affermata l’idea che il “terrorismo globale” esprima la volontà dei Paesi non occidentali, in modo particolare del mondo islamico, di annientare la civiltà occidentale assieme ai suoi valori fondamentali: la libertà, la democrazia, lo Stato di diritto, l’economia dei mercati. E si sostiene che il terrorismo esprima la volontà profondamente irrazionale di ottenere questo risultato nel modo più spietato, distruttivo e violento, senza il minimo rispetto per la vita.
La figura del terrorista suicida, affermatasi in Palestina, sarebbe l’espressione emblematica dell’irrazionalità, del fanatismo e del nichilismo terrorista, perché la vita del kamikaze perde ai suoi stessi occhi ogni valore.
Il terzo capitolo intende approfondire il ruolo dei media nella comunicazione terroristica partendo da una analisi approfondita della differenza sostanziale tra la propaganda nel jihadismo moderno e post-moderno. Attraverso la propaganda, i due network terroristici hanno potuto compiere diversi attentati in tutto il mondo, Europa compresa. Oltre a sottolineare la differenza tra una comunicazione logistica e una comunicazione propagandistica, ci si sofferma anche sul target a cui faceva, e fa tutt’ora, riferimento la propaganda jihadista.
In questo capitolo, vengono altresì analizzati gli strumenti di propaganda a partire dall’utilizzo di canali come telegram, youtube, facebook, fino ad arrivare alla descrizione delle riviste con cui i due network terroristici diffondono il loro agire.
Particolare attenzione viene posta su quello che viene definito l’effetto “Werther”, ovvero un effetto a cascata capace di provocare a catena un certo numero di eventi analoghi. Si tratta di un effetto psicologico di massa, secondo cui la pubblicazione da parte dei mass media di una determinata notizia può provocare altri attentati.
Nel quarto capitolo, entriamo nel merito del terrorismo “fai da te” analizzando prima di tutto il cosiddetto terrorismo suicida che ha origini molto lontane e che oggi rappresenta il maggior motivo di preoccupazione del mondo. A generarsi è la necessità di interpretarne costantemente la mutazione del fenomeno: laddove le strutture associative non sono più riconducibili a un cliché statico e ordinario del concetto di organizzazione. Il terrorismo a “chiamata individuale”, ovvero quello “fai da te”, delinea una nuova forma di partecipazione che mette in crisi quello stesso concetto strutturale organizzativo e quanto vi si connetteva sotto il profilo non solo investigativo e persecutorio, quanto di individuazione e riconoscimento delle entità, individuali o associative, predisposte a porre in essere atti terroristici.
La radicalizzazione ha un ruolo determinante su questo livello e tipologia di terrorismo.
Non esiste un consenso generale sulla definizione di soggetto radicalizzato. Gli approcci teorici alla radicalizzazione, come pure le analisi empiriche sui profili individuali dei foreign fighters o dei lone wolf, descrivono un fenomeno complesso che interessa diverse fasce generazionali, sia uomini che donne, e rendono un’interpretazione pressoché individualizzata del militante jihadista che non consente, per quanto necessaria, una facile standardizzazione di un profilo univoco del radicalizzato homegrown.
A fronte di queste difficoltà, studi mirati ci hanno permesso di approfondire in questo capitolo l’identificazione di tale fenomeno su tre livelli: quello individuale, quello ambientale e quello organizzativo. Si analizza, in particolare, il profilo psicologico degli attentatori, i caratteri soci-demografici ed economici e le motivazioni individuali che spingono numerosi giovani ad emularsi per la causa.
Il livello organizzativo, invece, interessa le organizzazioni che ricorrono alla tattica degli attacchi suicidi e dei metodi utilizzati per la radicalizzazione degli attentatori.
L’ultimo capitolo viene dedicato agli attentati terroristici in Europa, partendo da una distinzione fondamentale: gli attacchi di Parigi e Bruxelles dal 2014 al 2016 e gli attacchi di giugno e luglio del 2016. Per ogni attacco viene sottolineata la strategia utilizzata e la modalità di rivendicazione di uno dei due network, nonché i legami tra gli attentatori e i due network ed il grado di autonomia degli attentatori.
Cap. 1 – IL TERRORISMO INTERNAZIONALE JIHADISTA: UN NEMICO CHE CAMBIA
Il fenomeno del terrorismo solleva, da sempre, numerose questioni di diritto che spesso trovano il loro presupposto nella questione della definizione. Di fatto, definire cosa sia il terrorismo risulta essere difficoltoso, nonostante i numerosi tentativi nell’ambito della Comunità internazionale, in quanto non è facile trovare una definizione organica ed universalmente concepita.
Ebbene precisare che la nascita del termine “terrorismo” non coincide con la nascita del terrorismo.
Il termine terrorismo è stato utilizzato con riferimento alla strategia dei Governi per sottomettere la popolazione; poi, all’uso sistematico della violenza ai danni delle entità statali da parte di organizzazioni clandestine con finalità politiche.
Alcuni hanno sostenuto che il terrorismo sia un fenomeno complesso in quanto legato all’ambito criminologico, all’ambito politico e connesso ai concetti di guerra, di propaganda e di religione[1]. Altri, hanno teorizzato che quando si parla di terrorismo è necessario guardare alle motivazioni, alla personalità e alla strategia del terrorista: i gruppi terroristici di matrice separatista sono mossi da ragioni politiche, come l’indipendenza dal proprio territorio da una nazione cui non sentono di appartenere o il cambiamento dell’ordine sociale; altri gruppi nazionalisti di stampo religioso appaiono più pericolosi perché spesso privi di un chiaro piano politico[2]. Pertanto, la letteratura sul fenomeno è di ampia produzione e tutt’oggi non ha fornito una definizione unica del termine.
La radice etimologica del termine terrorismo va, invece, ricercata nell’esperienza storica del “terrore” nella Francia rivoluzionaria[3]. Secondo la lettura più diffusa, l’assunto appare per la prima volta nel supplemento del 1798 al Dictionnaire de l’Académie Francaise: “systeme, régime de la terreur”. Già qualche anno prima, i giacobini usavano questo termine per etichettarsi nei loro scritti e nei loro discorsi: nel lessico politico sono state introdotte le nozioni di terrorisme e terroristes, nonché del verbo terroriser, cioè la volontà determinata di ispirare il terrore. Robespierre e Saint-Just, massimi teorici del fenomeno, considerano il terrorismo una “virtù” attraverso la quale tener a bada la Res Publica ricorrendo al terrore per combattere i nemici[4].
Il termine terrorismo, pertanto, nasce in Europa e da qui viene poi esportato in tutto il mondo. Per cui la storia della parola è una storia europea ed è in Europa che il termine terrorismo si forma e assume le sue principali caratteristiche.
Tuttavia, c’è da dire che si tratta di una differente dimensione rispetto al fenomeno che oggi spaventa ed influenza la politica internazionale.
A inizio ‘900, la Società delle Nazioni diede una prima definizione degli atti terroristici: «fatti criminali diretti contro uno Stato e i cui fini o la cui natura è atta a provocare il terrore presso determinate personalità, gruppi di persone o di pubblico[5]».
The U.S. State Department, nella relazione annuale intitolata “Patterns of Global Terrorism” definisce il terrorismo come: «una violenza politicamente motivata, perpetrata contro obiettivi non combattenti da gruppi subnazionali o da agenti clandestini, usualmente diretta ad influenzare un’audience».
Queste due definizioni richiamano i due principali significati del termine. La prima connota il terrorismo come un atto criminale, la seconda come una forma di guerra. Le implicazioni sono diversissime. Alla guerra si replica solitamente con la guerra (mobilitazione militare, giurisdizione di emergenza, ecc.). Il reato viene invece represso entro un quadro giuridico esistente ed è individuato in base all’atto, non in riferimento al soggetto che lo ha compiuto: pertanto una strage di civili si può definire “terrorista” sia se determinata dalla bomba di un kamikaze, che dalla bomba sganciata da un aeroplano.
Dopo i tragici eventi dell’11 settembre, molto si è dibattuto se tutti i Talebani, e non soltanto i militanti di Al Qaeda, dovessero considerarsi terroristi e se, addirittura, il terrorismo fosse legato strettamente ad alcuni Paesi, ad alcune culture e ad alcune popolazioni.
Si pensi alla convinzione di quei popoli, meglio di quelle persone, che credono che il terrorismo sia legato alla cultura islamica e che quindi considerano tutti i popoli islamici terroristi senza avere la minima idea del fatto che la maggior parte degli attentati terroristi avvengono in zone di crisi del Medioriente, per cui sono proprio i popoli islamici di quelle aree geopolitiche ad essere vittime del terrorismo. Non tutti gli islamici sono terroristi, per cui bisogna mostrare attenzione quando si attribuisce un significato al termine “terrorismo”.
Il tema è talmente sensibile e suscettibile che potrebbe provocare seri incidenti diplomatici. Basti pensare che un’organizzazione internazionale come la NATO, di cui è membro anche la Turchia, si trova ad essere costretta ad esprimere parole evasive per evitare l’utilizzo di aggettivi di carattere religioso legati all’islam quando nei documenti ufficiali si parla di attentati e di terrorismo.
Gli sviluppi del conflitto israelo-palestinese hanno spostato l’attenzione su altri importanti profili. Se pensiamo ai più oltranzisti tra i paesi islamici che rifiutano di considerare atti di terrorismo gli attacchi contro i civili operati dalle “bombe umane” palestinesi, capiamo perché ad oggi non c’è una definizione del fenomeno del terrorismo. Fu proprio la qualificazione dei kamikaze palestinesi ad impedire ai paesi membri dell’Organizzazione della Conferenza Islamica, nell’aprile del 2003, di accordarsi sulla definizione flessibile di terrorismo, idonea ad includere i palestinesi suicidi.
Pertanto, la Comunità internazionale non è ancora riuscita a trovare una definizione di terrorismo giuridicamente riconosciuta e riconoscibile, considerando peraltro che il forte legame con la “causa palestinese” diventa l’ostacolo maggiore che ha fatto arenare tutti i progetti volti a realizzare una Convenzione universale contro il terrorismo e a trovare una definizione a livello di Nazioni Unite.
Ciò che è terrorismo per alcuni, è eroismo per altri (˂˂what is terrorism to some is heroism to others>>)[6], dichiarava M. Cherif Bassiouni alla conferenza di Siracusa del 1973.
Effettivamente, in sede di discussione, se per i Paesi occidentali il terrorismo è inteso come un metodo per diffondere terrore, per i Paesi arabi quegli atti sono intesi come metodo di difesa e/o di ribellione. Inoltre, la stessa percezione del fenomeno del terrorismo, soggettiva (un atto può essere percepito da alcuni come tipica espressione di terrorismo, da altri come motivo di protesta e/o resistenza), è mutevole a seconda del contesto socio-politico al quale si fa riferimento.
Sul piano del diritto internazionale il punto è cruciale: dire che cosa si intenda per terrorismo significa stabilire i confini del fenomeno, con riferimento non solo ai reati comuni dello stesso tipo ma anche, e soprattutto, rispetto a condotte che il diritto internazionale considera illegittime o, comunque, disciplinate da strumenti internazionali diversi dalle convenzioni penali sul terrorismo e, segnatamente, dal diritto umanitario internazionale.
La questione della definizione di terrorismo costituisce, quindi, il presupposto di qualsiasi analisi di diritto internazionale condotta in questo settore: ad esempio se gli atti di terrorismo siano in sé “illegali” secondo il diritto internazionale e su quali basi; in quali circostante uno Stato-vittima possa legalmente rispondere con le armi ad atti di terrorismo e nei confronti di chi (terroristi individuali, Stati che sostengono i terroristi o che li tollerano). Qui è coinvolta la delicatissima questione della giustificabilità degli atti di terrorismo, anche da un punto di vista strettamente penale: si pensi al rilievo della questione della motivazione politica della condotta ed alle conseguenze in tema di estradizione.
Gli eventi dell’11 settembre hanno, d’altra parte, determinato l’accelerazione di un processo che però non si è concluso, lasciando un vuoto giuridico internazionale su un tema cruciale come quello del terrorismo.
Detto ciò, sapendo che non esiste allo stato attuale una definizione universale di terrorismo elaborata dalla comunità internazionale, nonostante gli atti di condanna e l’adozione di numerose Convenzioni internazionali settoriali per “reprimere le singole modalità operative utilizzate”, è possibile convenire ad una definizione del termine terrorismo inteso come ˂˂metodo giuridicamente inquadrabile come fattispecie criminosa a forma libera (qualsiasi modalità operativa) attraverso la quale si misura, nell’immediato, a raggiungere l’obiettivo di spargere in terrore in una determinata comunità (interna o internazionale) per il conseguimento, in un secondo momento, di uno scopo ulteriore, che si concretizza normalmente in un cambiamento politico, sociale o religioso>>[7].
Durante gli ultimi due secoli, tutte le nazioni hanno dovuto far fronte a questa problematica in qualche momento della loro storia.
Facendo un passo indietro, però, va analizzato anzitutto il terrorismo nella sua evoluzione storica.
Come già accennato, il terrorismo è un fenomeno noto fin dall’antichità (basti pensare alle congiure di palazzo ai tempi dell’Impero romano) e nel Medioevo, ove il terrorismo ha avuto un suo precedente nel tirannicidio, rinverdito nel Rinascimento (si pensi all’uccisione nel 1537 a Firenze di Alessandro de’ Medici da parte di Lorenzino de’ Medici, che poi rivendicò il gesto come doverosa difesa della libertà repubblicana) e, nel corso delle guerre religiose del sec. XVI, dalle teorie dei monarcomachi luterani, calvinisti e cattolici (che trovarono per esempio attuazione nell’assassinio del re di Francia Enrico IV, nel 1610, a opera del fanatico cattolico Ravaillac).
Dopo la svolta rappresentata dal giacobinismo robespierrista, il terrorismo rimase appannaggio degli eserciti, da quelli napoleonici a quelli avversi a Napoleone, e delle forze della Restaurazione (“terrore bianco”), ma nelle aree del dissenso cessò di essere teorizzato soltanto come strumento di liberazione da un despota per divenire invece elemento di una più ampia lotta politica. In questo senso il terrorismo appare un fenomeno radicato nell’Ottocento, quando si diffuse l’immagine del rivoluzionario in armi pronto, se necessario, ad agire anche isolatamente. Come tale fu rivendicato dai populisti russi, che lo giustificarono in quanto reazione obbligata alle misure repressive estreme del potere zarista e assunse il senso specifico di ribellione da parte di minoranze organizzate che passavano dalla cospirazione all’intervento armato. Sempre più, pertanto, venne differenziandosi sia dalle forme di violenza estrema messe in atto dagli apparati statali, nel quadro di un sistema giuridico o anche in violazione di esso, sia dalla guerra condotta da eserciti regolari, sia dalla guerriglia.
Nel corso del sec. XIX il terrorismo s’intrecciò con le teorie insurrezionaliste anarchiche ed ebbe particolare diffusione con la serie di attentati compiuti da giustizieri anarchici contro regnanti di vari Paesi. Si sviluppò un terrorismo nazionalista, rivoluzionario o controrivoluzionario, a rilevanza interna, esploso in luoghi diversi dell’Europa continentale (dall’attentato parigino di F. Orsini contro Napoleone III del 1858, alla lotta armata dei separatisti irlandesi), dei Balcani e del Medio Oriente, dove crebbe negli anni della prima guerra mondiale a opera di varie organizzazioni (Mano Nera serba, Organizzazione rivoluzionaria interna macedone, sionisti palestinesi).
In questo contesto, il terrorismo è stato perseguito dalla Comunità internazionale a livello statale anche se a volte vi erano elementi di estraneità rispetto allo Stato di riferimento[8].
Solo dopo l’attentato a Napoleone III, nella seconda metà del XIX secolo, ed al problema legato alla non applicabilità dell’istituto dell’estradizione ai reati politici, tra cui il terrorismo era annoverato, la Comunità internazionale iniziò ad avere interesse nel perseguire il fenomeno in ottica differente. Erano numerosi i casi rilevanti per il diritto internazionale a causa della fuga all’estero degli autori o della diversa nazionalità tra i soggetti attivi ed i soggetti passivi degli attentati.
Il XX secolo, caratterizzato dallo sviluppo industriale, dalla nascita delle televisioni, dai mass media, è anche l’epoca dello sviluppo bellico che vedrà il suo apice con la creazione di armi chimiche e delle bombe atomiche, ed è in questo contesto che quel fenomeno “interno” chiamato terrorismo, spesso usato dagli Stati per controllare il popolo o dalla stessa popolazione (spesso gruppi di anarchici) per sovvertire, mettere in crisi, destabilizzare l’ordine sociale interno, vedrà tramutarsi in una fattispecie criminosa sovranazionale.[9]
Tra gli anni trenta e quaranta, le azioni terroristiche cominciarono ad affacciarsi fuori dal Vecchio continente europeo: la Fratellanza Musulmana ed altre formazioni di destra, come il Partito del Giovane Egitto, uccisero due primi ministri e diversi alti funzionari. Nella Palestina del Mandato britannico, i gruppi sionisti Irgun e Lehi optarono per una lotta terroristica individuale contro il colonialismo britannico, così come fecero per la stessa motivazione altri gruppi autoctoni di Cipro e Aden.
In questi anni, la Comunità internazionale si rese conto che un singolo Stato non avrebbe mai potuto affrontare e combattere da solo un fenomeno così complesso come il terrorismo ma si deve invece aspettare l’attentato di Marsiglia del 9 ottobre 1934, che costò la vita ad Alessandro di Jugoslavia ed al Ministro degli Esteri francese Barthou, per vedere l’inizio dei lavori per la stesura di un progetto di convenzione internazionale contro il terrorismo ad opera della Società delle Nazioni[10].
Pertanto, in occasione delle conferenze internazionali per l’unificazione del diritto penale, si iniziò ad elaborare un progetto di convenzione che si adeguava alla fattispecie criminosa in questione.[11]
Con la Risoluzione del 10 Dicembre 1934, il Consiglio della Società delle Nazioni Unite istituisce un comitato di esperti per l’elaborazione di una convenzione globale sulla repressione e prevenzione del terrorismo, tale convenzione sarebbe poi stata approvata nel 1937 quando ci sarebbe stata una nuova Conferenza Diplomatica sul tema ma la difficile situazione diplomatica causata dall’imminente secondo conflitto mondiale ne determinò il fallimento[12].
A partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, la centralità del conflitto araboisraeliano e dei metodi terroristici utilizzati dal movimento di liberazione nazionale palestinese (tra le nuove “armi” utilizzate ritroviamo i dirottamenti aerei) le Nazioni Unite dovettero sviluppare un “sectoral approach”[13] (convenzioni settoriali) per rispondere alle nuove modalità operative di volta in volta utilizzate dal terrorismo islamico.
Pertanto, se prima l’idea che i terroristi muovevano all’assalto del monopolio della violenza statale presupponeva che la loro minaccia fosse considerata interna ai confini di uno Stato, in seguito questo assunto perde consistenza con la diffusione del terrorismo internazionale che ha la sua punta di diamante nell’azione dei vari gruppi collegati alla causa della popolazione palestinese e, successivamente, del terrorismo globale. Difatti, questa nuova dimensione irrompe sulla scena europea nel settembre 1972, con l’attacco del gruppo Settembre Nero alla delegazione israeliana alle Olimpiadi di Monaco[14].
In questa fase il terrorismo palestinese si configura come una strategia per internazionalizzare il conflitto, ottenere udienza presso i paesi occidentali forzando un loro intervento, “emanciparsi” almeno in parte dai paesi arabi e dal controllo a cui li hanno sempre sottoposti. In questo caso, il terrorismo viene pensato come “arma dei deboli” e moltiplicatore mediatico dello scontro locale.
Contestualmente assunse rilievo il modello libico di destabilizzazione mondiale con gli attentati del 21 dicembre del 1988 (Lockerbie in Scozia) e del 19 settembre del 1989 (aereo francese esplose nello spazio aereo della Nigeria).
Il fenomeno, quindi, tende a sfuggire, dal punto di vista delle modalità operative ma anche da quello delle strategie, degli obiettivi e dunque del suo significato complessivo, alla logica politica moderna e territoriale fondata sull’esistenza di frontiere rigide e sulla compartimentazione fra Stati nazionali. Questo cambio di “trend” viene sottolineato dall’allora Segretario delle Nazioni Unite, Waldheim, che chiese di affrontare tale problema all’ordine del giorno della ventisettesima sessione nei seguenti termini: ˂˂Measures to prevent terrorism and other forms of violence wich endanger or takes innocent human lives or jeopardize fundamental freedoms[15] >>. Tradotto, veniva chiesto di prevedere delle misure di prevenzione del terrorismo e di altre forme di violenza che mettono in pericolo vite umane innocenti o mettono a repentaglio le libertà fondamentali.
Il 1979 rappresenta una data cruciale per l’evoluzione del terrorismo, è l’anno della Rivoluzione iraniana e dell’intervento della Russia in Afghanistan, eventi segnati dall’uscita dei movimenti islamici radicali sciita (gli Hezbollah in Libano) e sunniti (Hamas, Al Qaeda ed altri) e l’entrata in scena degli Stati Uniti nel finanziamento e nel sostegno dei combattenti afgani (Talebani), per procurare una sconfitta militare all’Unione Sovietica.
In parte intrecciato con la questione mediorientale, dagli anni Settanta rinasce un forte integralismo religioso in quasi tutti i paesi di cultura musulmana.
Il fondamentalismo islamico, teorizzato da ideologi come il pakistano Mawdudi, l’egiziano Qutb e l’iraniano Khomeini, punta su un ritorno all’essenza del Corano e su una sua interpretazione quanto mai restrittiva e letterale, nonché sulla proclamazione della jihad, cioè la guerra santa da condurre in nome di Dio contro tutti “i corrotti” e “gli infedeli”[16] .
Nel 1979, appunto, la rivoluzione iraniana detronizza lo Scià e porta Khomeini al potere. Negli anni successivi il movimento islamico si organizza attorno a due poli: quello radicale che ha come riferimento Khomeini stesso e quello conservatore che si identifica con la dinastia saudita, custode dei luoghi sacri della Mecca e di Medina che con i petrodollari governa la penisola arabica.
Gli anni Ottanta sono caratterizzati dalla guerra scatenata contro l’Iran di Khomeini dall’Iraq laico di Saddam Hussein e dall’invasione, alcuni anni dopo, del Kuwait da parte di Saddam.
Khomeini sceglie l’arma del terrorismo internazionale e del rapimento di occidentali per ribaltare a suo favore i rapporti di forza nel mondo arabo ed esportare la sua rivoluzione islamica indirizzata soprattutto contro “il grande satana” americano.
L’altro terreno di scontro per le due anime del fondamentalismo islamico è, nello stesso arco di tempo, l’Afghanistan: a finanziare questa nuova jihad, che ha come obiettivo la cacciata delle truppe sovietiche entrate a Kabul nel dicembre del 1979, ancora l’Arabia Saudita affiancata questa volta dalla CIA.
Per la parte conservatrice dell’Islam la guerra in Afghanistan ha un altro significato: spostare le attenzioni dei militanti radicali dall’Occidente “corrotto” al pericolo sovietico. Sull’Afghanistan si accentra l’attenzione di tutte le correnti dell’islamismo. «In Afghanistan combattono, oltre ai mudjahidin originari del paese, jihaidisti venuti da Egitto, Algeria, penisola arabica, sud e sud-est asiatico, che si riuniscono in brigate internazionali. Super addestrati alla guerriglia, elaborano, negli ambienti chiusi in cui vivono, una variante ideologica islamica incentrata sulla lotta armata e su un estremo rigorismo religioso» (Gilles Kepel)[17].
Dal 1989 il movimento islamico che si è concentrato in Afghanistan, in funzione anti-sovietica, comincia ad esportare il suo fondamentalismo e la sua ideologia religiosa, sfuggendo così al controllo sia dei servizi segreti statunitensi e pakistani, sia ai condizionamenti finanziari dell’Arabia Saudita.
In breve tempo la concezione vincente della guerriglia afghana comincia a dilagare: in Algeria nasce il FIS (il Fronte Islamico di Salvezza); in Sudan gli islamisti prendono il potere con un colpo di stato; in Palestina la prima Intifada subisce l’egemonia di Hammas ai danni dell’OLP di Yasser Arafat.
Intanto, con il crollo del muro di Berlino, comincia il disfacimento dell’URSS che libera le energie represse degli Stati musulmani dell’Asia centrale e del Caucaso, mentre da lì a poco, con l’esplosione della Jugoslavia, il fondamentalismo metterà piede in Europa attraverso la Bosnia.
Ulteriore catalizzatore del fondamentalismo islamico e della sua deriva terroristica sarà la guerra del Golfo condotta da una coalizione internazionale a guida americana contro Saddam Hussein, che da quel momento, pur tra mille ambiguità, si ergerà a paladino della causa islamica rivoluzionaria contro la corruzione e l’egoismo dei signori del petrolio. La guerra del Golfo sedimenterà un senso di rancore in tutto l’Islam rivoluzionario. Chi farà le spese di questa guerra non sarà tanto lo sconfitto Saddam, quanto la vincente Arabia saudita che vede cancellata la sua legittimità religiosa di taglio conservatore, anche perché incapace di impedire che truppe “infedeli” calcassero il sacro suolo dove sorgono i luoghi sacri dell’Islam stesso: la Mecca e Medina.
Dopo la guerra del Golfo al fondamentalismo islamico non rimarrà che la strada di un’ulteriore radicalizzazione: la vittoria afghana sull’Unione Sovietica aveva convinto i movimenti più estremi che quella esperienza di jihad, di guerra santa, meritava di essere esportata contro il mondo occidentale intero, contro tutti i regimi “cattivi” del pianeta. Ma la sconfitta del movimento è già dietro l’angolo: la presa di Kabul, da parte dei mudjahidin prima e dei talebani poi, non si sposerà mai con altrettanti successi in Bosnia, in Algeria, in Egitto, in Indonesia, in Sudan, in Pakistan, tutti paesi dove il movimento islamico verrà a più riperse sconfitto nella sua lotta per il potere. Perfino in Iran dove ha regnato per anni un islamismo rivoluzionario ma di segno diverso perché promosso dagli sciiti, in eterna rivalità con i sunniti afghani, l’ascesa al potere del moderato Kathami produce un’inversione di tendenza.
A metà degli anni Novanta al fondamentalismo islamico non resta che prendere atto dei propri fallimenti politici: sarà allora che il radicalismo comincerà a percorrere i sentieri del terrorismo più spietato: dagli attacchi alle ambasciate americane in Africa, fino agli aerei lanciati come bombe sugli Stati Uniti. È un capitolo che si apre ufficialmente a partire dal 1998 e che sembra molto lontano dal concludersi.
Pertanto, facendo un passo indietro, la nascita del terrorismo estremista islamico va ricercata in tre avvenimenti importanti del 1979: la rivoluzione in Iran, l’invasione sovietica in Afghanistan e la rivolta presso la Grande Moschea de La Macca[18]. Si tratta di avvenimenti strettamente connessi tra loro, che modificarono gli equilibri dell’intera regione, fomentarono il fanatismo religioso e trasformarono un problema locale in un problema globale: la questione palestinese da lotta di indipendenza di un popolo divenne lotta di tutti gli arabi contro l’Occidente ed i suoi valori.
Con la fine del colonialismo ed il conseguente instaurarsi di regimi autoritari nella Penisola araba e nel Maghreb, il gioco delle due superpotenze, USA e URSS nello scacchiere geostrategico dei paesi a cultura e tradizioni islamiche, ha caratterizzato buona parte della seconda metà del XX secolo che ha visto la forte contrapposizione tra i due blocchi. In questo contesto, si colloca quindi l’avvenimento che ha pesantemente contribuito alla nascita del terrorismo di matrice islamica radicale, l’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979. Il dar alislam (il territorio dell’islam), infatti, secondo la visione jihadista, era in quel momento minacciato dalle orde dell’ateocrazia moscovita al punto da sollecitare molte energie nella difesa della causa dei fratelli afghani. In quel periodo si trasferirono in Afghanistan e nel vicino Pakistan, numerosi personaggi di rilievo del fondamentalismo islamico provenienti anche dalla Palestina, come Abdullh Jusuf Azzam[19] e dall’Arabia Saudita, tra cui lo stesso Osama Bin Laden[20]. Proprio Osama fu uno dei principali organizzatori e finanziatori dei mujaheddin, infatti il suo Maktab al Khadamat (MAK, Ufficio d’Ordine) incanalò verso l’Afghanistan denaro, armi e combattenti musulmani da tutto il mondo, creando i primi campi di addestramento dei militanti jihadisti.
Nel 1988 Bin Laden abbandonò il MAK insieme ad alcuni dei suoi membri per formare Al Qaeda, con lo scopo di espandere la lotta di resistenza antisovietica e trasformarla in un movimento fondamentalista islamico. In questo periodo si saldò il rapporto tra Osama Bin Laden ed il medico egiziano Ayman al Zawahiri che predicava una visione della guerra santa che non si limitasse a contrastare i nemici esterni di al dar Alislam, ma che sovvertisse i regimi corrotti ed apostati dello stesso mondo musulmano. L’Afghanistan assurse così ad un ruolo centrale nella strategia jihadista, divenendo il simbolo del successo che favorì la radicalizzazione di molti combattenti jihadisti che condividevano le tesi di al Zawahiri, ovvero che i regimi arabi erano collusi con gli infedeli, cui svendevano le ricchezze petrolifere.
Furono create tutte le condizioni per cui l’Afghanistan divenisse il luogo principe ove lo shaykh saudita, Osama Bin Laden, potesse installare la base per la sua rete terroristica, Al Qaeda attiva nell’addestramento e nell’incentivazione del fondamentalismo islamico che sfociò nel terrorismo, incrinando così i rapporti con gli USA.
Lo sceicco Bin Laden, mise a disposizione della “causa” la sua fortuna personale e le relazioni con il mondo economico e finanziario della penisola arabica che gli derivavano dalle attività del suo giro familiare, facendo così nascere una vera confraternita che sembrerebbe tuttora far capo a centinaia di finanzieri.
La fine del blocco sovietico e l’affermarsi del processo di globalizzazione hanno reso anacronistiche le classiche lotte politiche e ideologiche, ma sono la causa dell’emergere di nuove forme di terrorismo internazionale più fluide che sono andate a esacerbare il fenomeno del colonialismo e dell’invasore occidentale.
Il terrorismo medio orientale fu caratterizzato dall’impossibilità di delimitare i confini. Tutto il mondo era potenziale complice del nemico sionista e quindi anche legittimo obiettivo da combattere. Ricordiamo che nella guerra dei sei giorni (luglio 1967), intrapresa da Israele contro Egitto, Siria e Giordania, i governi di molti Paesi arabi sostennero i nascenti movimenti palestinesi che avevano già avuto una loro prima aggregazione con la costituzione dell’OLP.
La tattica operativa adottata tra il 1968 e il 1986, ebbe l’intento di raggiungere i popoli schierati direttamente o indirettamente dalla parte sionista: in questo periodo si contarono 565 azioni terroristiche fuori da Israele con 418 morti e 1783 feriti. La distribuzione degli attentati fu significativa: 64 episodi in Italia; 61 in Francia; 52 in Germania occidentale; 35 in Grecia e 32 in Gran Bretagna[21].
Il periodo 1991-1993 corrisponde, invece, al mutamento verificatosi all’interno dell’Afghanistan. «Da strumento della Guerra fredda utilizzato dagli Stati Uniti con il fine di indebolire l’Unione Sovietica, l’islamismo radicale, perseguendo la sua dinamica e i suoi fini, diventa, in parte come conseguenza della guerra in Iraq del 1991, un orientamento politico-militare dalle molteplici ramificazioni»[22].
Questi anni coincidono con l’esplosione della jihad, con la partecipazione delle masse islamiche-radicali alle guerre in Bosnia, Cecenia e nel Kashmir, ma anche l’anno del primo attentato al World Trade Center e del grande proclama di Osama bin Laden, il quale intimò agli Stati Uniti di abbandonare «il sacro territorio d’Arabia».
L’attacco dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle di N.Y.C. ed al Pentagono a Washington, segnò naturalmente l’apice della strategia dell’organizzazione di Bin Laden ed intervenne in un momento in cui già era iniziata la “delega” alle strutture regionali e locali, sotto la spinta di al Zawahiri, della messa a punto dei piani terroristici.
Dopo la tragedia americana, profondamente sentita, l’interesse per il terrorismo da parte da parte della comunità internazionale si è reso più evidente. Quell’attacco aveva frantumato il mito di invulnerabilità dei Paesi occidentali, particolarmente sviluppati sotto il profilo economico.
- Il terrorismo internazionale di matrice islamica
Il terrorismo islamico è un fenomeno criminale particolarmente allarmante che, negli ultimi anni, ha intensificato la sua attività portando a termine degli attacchi molto cruenti e di grande impatto mediatico.
Al-Qaeda e l’ISIS, i due grandi network terroristici islamici, con i loro sanguinosi attacchi, hanno reso manifesti al mondo gli obiettivi antimoderni del fondamentalismo e, soprattutto, i mezzi crudeli e sanguinari per conseguirli. I loro attacchi hanno colpito e continuano a colpire le zone di guerra in Medio Oriente e in Africa ma anche le metropoli occidentali seminando distruzione e morte di inermi cittadini.
Sono note a tutti le raccapriccianti immagini delle persone che cercano di gettarsi dalle finestre del teatro Bataclan, immagini che ricordano quelle analoghe dell’11 settembre 2001 quando in tanti si sono buttati giù dalle Torri Gemelle per non finire arsi vivi. Altrettanto raccapriccianti sono stati i filmati di decine di cadaveri tra ombrelloni e lettini sulle spiagge tunisine o dei tanti turisti che fuggono terrorizzati per i corridoi di un museo mentre si odono spari. Si tratta dei più recenti e tragici attacchi dell’ISIS, che sta seminando morte e panico in Medio Oriente e fuori dal mondo arabo.
Per comprendere meglio cosa rappresenta il terrorismo di matrice islamica è necessario capire che alla base degli attacchi dei gruppi terroristici di matrice jihadista è riscontrabile una componente geopolitica ma quella preminente è la componente religiosa[23]. Pertanto, per capire le ragioni dell’attuale terrorismo jihadista è necessario guardare al conflitto interno al mondo sunnita e tenere in considerazione che non si può parlare dell’Islam al singolare ma bisogna tenere conto che esistono vari islam in lotta tra loro, sia dal punto di vista politico che religioso[24].
Il credo islamico è caratterizzato da un rapporto diretto fra Dio e il credente e, pertanto, non esistono istituti ecclesiastici o sacerdozi ma sono presenti delle guide spirituali, i cosiddetti mullah o ulema (i “dotti”) la cui funzione è quella di studiare e interpretare i testi sacri[25].
La disputa tra sunniti e sciiti risale a questioni di successione all’indomani della morte di Maometto dove sono iniziate le scissioni all’interno del mondo musulmano in concomitanza con le rivalità per la successione al profeta nella guida religiosa e politica della comunità islamica.
Si narra che i più fidati compagni di Maometto, tra cui Abu Bakr (suocero del profeta) e Umar (amico del profeta) si riunirono e decisero che Abu Bakr sarebbe stato il primo successore (Khalifa=califfo) di Maometto. Il califfo però non era considerato alla pari del profeta ma sarebbe stato il capo della comunità dei musulmani che aveva il dovere di preservare la fede islamica e di difendere ed espandere i confini del mondo musulmano.
Di contro, secondo gli sciiti, quando Maometto era ancora in vita nominò Ali Abi Talib, suo cugino e marito della figlia Fatima, suo successore.
Attualmente, quindi, le correnti principali sono costituite dai Sunniti, ovvero i musulmani rimasti fedeli alla sunnah (tradizione), che rappresentano la maggioranza degli islamici (oltre l’80%) e condannano ogni tipo di innovazione alle regole di condotta contemplate dalla stessa sunnah e gli Sciiti, ovvero i seguaci di shi’a’, il partito di Alì, che sono una moltitudine di correnti varie che reputano il cugino e genero di Maometto, Alì, l’unico erede del profeta e la guida legittima della comunità musulmana.
Il mondo islamico, pertanto, è una realtà molto frammentata e ciascuna corrente o sottocorrente asserisce di essere depositaria della verità contemplata nel Corano. Questa è la ragione primaria per la quale esistono interpretazioni del tutto differenti di ogni singolo passo del libro e per cui si configurano conflitti all’interno del mondo musulmano.
I versetti del Corano 38, 39 e 84, ritenuti di un’importanza fondamentale per gli integralisti islamici, testualmente recitano:
«O voi che credete! Che avete, che quando vi si dice “lanciatevi in battaglia sulla via di Dio rimanete attaccati alla terra? Preferite forse la vita terrena piuttosto che quella dell’Oltre? Ma il godimento della vita terrena di fronte alla Vita dell’Oltre non è che poca cosa! … Se non vi lancerete in battaglia, Dio vi castigherà di castigo crudele, vi sostituirà con un altro popolo, e voi non gli farete alcun danno, perché Dio è su tutte le cose potente! … Combatti dunque sulla via di Dio perché solo della tua anima ti sarà chiesto conto. E incoraggia i credenti perché forse Dio respingerà il coraggio degli infedeli, perché Dio è di più violento coraggio, più violento a esemplari castighi».
Il versetto 246, poi, è l’inno alla “guerra santa” (jihad) per i fondamentalisti più estremisti in quanto è il Dio guerriero a parlare per incitare i fedeli a combattere in suo nome, condannando invece chi si rifiuterà di combattere. Uno dei doveri principali del buon credente è costituito proprio dal jihad, la “guerra santa”, da condurre per difendere i confini del mondo sottomesso ad Allah contro ogni possibile aggressione. Esso consiste in una duplice lotta: da una parte contro se stessi al fine di sconfiggere le tentazioni ad abbandonare la strada segnata, i propri vizi e le proprie debolezze; dall’altra, contro gli islamici che non seguono la sunnah originariamente, pertanto, non vi è alcuna connessione tra la “guerra santa” e i popoli stranieri.
Attualmente, per una parte minoritaria del mondo islamico, quella fondamentalista, il jihad ha assunto un significato di guerra d’offesa da combattere con modalità terroristiche, mentre, secondo gli insegnamenti coranici, si tratta di una guerra da combattere solo con finalità difensive.
I fondamentalisti hanno distorto la dottrina mutandola a loro uso e consumo, il jihad, pertanto, diviene una lotta per diffondere la legge di Allah e per allargare i confini territoriali dell’Islam, dividendo il mondo in “territorio islamico” (dar al-Islam) e “territorio della guerra” (dar alharb)[26].
Come abbiamo già detto nei paragrafi precedenti, il terrorismo islamista ha assunto una dimensione rilevante solo nel secondo dopoguerra, in particolare a seguito dell’irrisolta “questione palestinese”. Varie organizzazioni collegate direttamente o indirettamente alla liberazione della Palestina hanno iniziato a ricorrere a metodi di lotta palesemente terroristici come gli attentati dinamitardi, i rapimenti, i dirottamenti aerei, gli attentati suicidi.
Verso la fine degli anni Settanta, il fondamentalismo islamico, sotto la spinta della rivoluzione islamica iraniana (1979), ha iniziato a diffondersi in tutto il mondo musulmano con l’intento di restaurare la società dei primordi dell’Islam. Una gran massa di persone incominciava ad irrobustire le fila del fondamentalismo, ritenuto l’unica e reale opposizione ai regimi che si erano susseguiti nel tempo, accomunati da un lento e costante logorio sociale dovuto alla diffusa corruzione ma fu in Afghanistan, nel periodo caratterizzato dall’organizzazione complessa di un fronte antisovietico, che iniziano a distinguersi figure individuali le quali rivestiranno un’importanza basilare nel panorama del terrorismo islamista dei decenni futuri. Abdallah Azzam si è occupato della preparazione ideologica dei mujaheddin, mentre Osama bin Laden, leader nascente del fronte de quo, coordinava le operazioni dimostrando una notevole capacità organizzativa e tattica; più specificamente, ha creato un sistema integrato che si prendeva carico dei guerriglieri dal reclutamento sino al loro impiego nei campi di battaglia. Accanto ad Osama giungeva un altro personaggio di grande spessore che diverrà il suo “braccio destro”: il pediatra egiziano al-Zawahiri.
Questa è stata una fase di grande fermento e maturazione del cosiddetto jihadismo militante dove sono sorti i primi contrasti ideologici: Azzam era convinto che l’impegno dei mujaheddin non doveva arrestarsi dopo la lotta contro l’impero sovietico ma che doveva proseguire, in sintonia con le teorie di Sayyid Qutb, divenendo uno scontro globale con la jahiliyya. Dopo il consolidamento della situazione afghano-pakistana, il jihad doveva estendersi alle altre realtà musulmane corrotte sino a colpire l’Occidente empio e materialista[27].
Ancora più radicali erano le posizioni di Bin Laden ed al Zawahiri persuasi che la “guerra santa” doveva diventare subito senza quartiere e aggredire contemporaneamente i sovrani empi presenti in molti Paesi islamici, come la famiglia reale saudita e il presidente egiziano Mubarak, oltre a uomini e interessi occidentali, ovunque questi si trovavano.
Il 1989, infatti, è un anno fondamentale per comprendere l’evoluzione del concetto di “guerra santa” islamica:
la strenua lotta dei mujaheddin, gli aiuti esterni e una serie di condizioni politiche favorevoli, in primis l’ascesa al Cremlino di Michail Gorbaciov, fautore di una politica estera nettamente più distensiva, hanno condotto alla sconfitta dell’Unione Sovietica che ritira le proprie truppe dal territorio afghano;
la morte di Azzam in un attentato ha lasciato campo libero all’”ala dura” di Bin Laden e al-Zawahiri, divenuti ormai i veri leader dei mujaheddin;
l’inizio della disgregazione dell’”impero” sovietico, con la conseguente caduta del Muro di Berlino, consentivano all’ummah islamica di estendere i propri confini inglobando le altre regioni europee musulmane (come la Bosnia ad esempio).
Osama Bin Laden e i suoi adepti hanno percepito la sconfitta dell’Unione Sovietica come una vittoria epocale, in grado di dimostrare che il jihad, voluto da Allah, può travolgere anche una superpotenza. All’epilogo del conflitto russo-afghano non corrisponde, però, la fine della struttura militare realizzata per porre un freno alle mire espansionistiche sovietiche ma di fatto, inizia la fase di costruzione di un nuovo network composto da uomini, quasi 20.000 mujaheddin “indottrinati” e addestrati militarmente[28], fondi, mezzi, armi, campi d’addestramento e know-how al quale può attribuirsi il nome di al-Qaeda.
Quando si parla di Al-Qaeda si fa riferimento ad un’organizzazione che riproduce ed estende molto la struttura embrionale creata in Afghanistan negli anni Ottanta. In questi anni, al-Qaeda, oltre a fornire sostegno ai movimenti fondamentalisti locali, ha iniziato a realizzare i primi attentati terroristici contro gli U.S.A., come a Mogadiscio nel 1993 e al campo di Khobar in Arabia Saudita: questi sono stati i primi attentati direttamente attribuibili all’ideologia mondiale e panislamista di al-Qaeda proprio perché si è trattato di attacchi completamente svincolati dalle logiche tribali, etniche e nazionaliste che, sino a quel momento, avevano contraddistinto il jihad nel mondo.
La struttura di al Qaeda ha cominciato in questo periodo a ordinarsi su tre livelli: un nucleo centrale, posto al vertice dell’organizzazione, denominato anche hardcore e composto da veterani jihadisti, provenienti per lo più dal conflitto russo-afghano che godevano della completa fiducia di Bin Laden; i “gruppi intermedi” i quali rappresentavano l’elemento eventuale di congiunzione tra l’hardcore e la base; infine, la base stessa composta dalle “cellule” dislocate quasi in tutto il mondo[29].
Nel 1996, Bin Laden, a causa delle pressioni internazionali (in primis degli Stati Uniti), è costretto a lasciare il Sudan per ritornare in Afghanistan dove ha trovato uno scenario a lui estremamente favorevole: dopo il ritiro dei sovietici, una sanguinosa guerra civile era terminata con la vittoria dei Talebani guidati dal mullah Omar. I Talebani offrivano grande sostegno a Osama insieme agli altri mujaheddin che accorrevano a Jalalabad, quartier generale di al Qaeda, per riprendere il jihad. In cambio, Bin Laden e i suoi fedelissimi sostenevano Omar nella lotta contro il suo nemico principe, l’Alleanza del Nord con a capo il comandante Massoud.
Il periodo intercorrente tra il 1996 e il 2001 ha costituito la fase di maggior compattezza strutturale di al-Qaeda.
L’11 settembre 2001 ha cambiato in profondità la storia di al Qaeda, quando 19 attentatori gravitanti nell’orbita del network jihadista di Osama, hanno dirottato 4 aerei civili e, con un’azione kamikaze, li hanno portati a schiantarsi contro le Torri Gemelle di New York e contro il Pentagono a Washington. Si tratta del più grave attentato terroristico della storia che ha causato circa 3.000 morti e un numero incalcolabile di feriti fra civili, vigili del fuoco e agenti di pubblica sicurezza.
La reazione degli Stati Uniti è stata molto dura e volta in varie direzioni: in ambito legislativo si è avuto un particolare inasprimento della normativa in materia di terrorismo, sicurezza e immigrazione (Usa Patriot Act); in ambito militare sono state ingaggiate delle vere e proprie campagne (c.d. operazione Enduring Freedom) in diversi Stati e regioni, ritenuti responsabili di coprire o favorire al-Qaeda o altre fazioni ad essa affiliate.
La campagna principale è stata condotta in Afghanistan ma le truppe statunitensi vengono inviate anche nelle Filippine, nel Corno d’Africa e in altri Paesi in linea con la teoria della “guerra preventiva”.
In Afghanistan, in particolare, c’è stato un uso massiccio della forza bellica. Qui, infatti, si era consolidata la centrale di Bin Laden, il cui impatto americano ha “polverizzato” al-Qaeda.
I jet militari statunitensi hanno raso al suolo quasi completamente le infrastrutture qaediste, i campi d’addestramento vengono distrutti e i depositi di armi e di mezzi resi inservibili. Tanti militanti di al-Qaeda vengono uccisi negli scontri e molti altri sono fatti prigionieri dalle truppe terrestri che hanno passato al setaccio gran parte del territorio afghano.
Il cuore operativo del network qaedista è scomparso e gran parte dei suoi membri ha perso la vita[30]. Tutto ciò, però, non ha rappresentato la fine dell’organizzazione ma solo un suo momento di transizione e di profonda ristrutturazione delle sue strategie. Ciò che è rinato dalle ceneri di al-Qaeda va considerato la sua naturale evoluzione o forse qualcosa di profondamente nuovo. Di certo, a partire dal 2002, il volto del terrorismo islamico è radicalmente cambiato.
I membri dell’hardcore che sono scampati alla morte hanno cercato di adattarsi alle mutate condizioni ambientali lottando per la sopravvivenza dell’organizzazione. Sono divenuti “nomadi” alla ricerca di nuovi scenari più consoni alla loro essenza e ai loro obiettivi, intenti tutt’altro che semplici in un contesto di guerra globale al terrorismo.
Per diversi anni, il network jihadista non è riuscito a trovare contesti geo-politici che permettessero la creazione di campi di addestramento, di scuole e di infrastrutture in generale, nonostante ciò, al-Qaeda non è scomparsa ma è divenuta una sorta di “nebulosa” i cui vertici hanno operato in clandestinità e senza sede servendosi abilmente dei mezzi mediatici.
Nonostante questa radicale metamorfosi inerente l’hardcore qaedista, in Europa vengono realizzati due grandi attentati: il primo a Madrid, l’11 marzo 2004, alla stazione Hatocha, che ha causato 192 morti e 1800 feriti; il secondo, dopo oltre un anno dai fatti di Madrid, è avvenuto a Londra il 7 luglio 2005 (i morti sono stati 52 e i feriti 700).
A partire dal 2007 si è avuta un’importante reviviscenza di al-Qaeda al confine tra Afghanistan e Pakistan dovuta allo spostamento delle attenzioni statunitensi dal contesto afghano a quello iracheno: la relativa apertura della “morsa” militare ha prodotto, per i terroristi, una situazione locale di maggior distensione nella quale qaedisti e talebani hanno ripreso ad organizzarsi.
Il network ha dimostrato la capacità di rigenerarsi ininterrottamente grazie alla comparsa sulla scena di nuove leve e di emergenti personalità carismatiche[31].
Il 2 maggio 2011, un commando dei corpi speciali statunitensi fa irruzione in un compound di Abottabat (Pakistan) e uccide Osama bin Laden, barricato lì con i suoi fedelissimi. I consistenti contrasti sorti all’interno e la morte del suo leader storico fanno sì che, per al-Qaeda, inizi una fase di declino. Al declino della rete qaedista non corrisponde, però, un declino altrettanto importante del jihadismo militante e del terrorismo islamista.
Nel frattempo, ad esercitare un’irresistibile attrattiva per i nuovi jihadisti è un’altra organizzazione ancor più spietata e sanguinaria: l’ISIS.
La prepotente ascesa dell’autoproclamato «Stato Islamico» (Is) in Siria e Iraq, così come la sua capacità di infiltrarsi in molteplici teatri operativi e di colpire duramente ben al di fuori della sua tradizionale area di azione, hanno dimostrato al mondo la vitalità di una causa jihadista che aveva avuto nel 2011 un vero e proprio annus horribilis.
L’ISIS, in arabo Daesh (acronimo di al-Dawla al-Islāmiyya fi alIrāq wa I-Shām), costituisce l’organizzazione terrorista di matrice islamico-integralista, al momento più attiva e più temibile. Essa è balzata agli onori della cronaca mondiale negli ultimi anni con gli attacchi violenti e sanguinosi in Tunisia e in Francia. Le origini dell’organizzazione terroristica, però, risalgono al decennio precedente.
Solo qualche anno fa, infatti, l’iniziale successo delle «primavere arabe» metteva in discussione la pretesa supremazia del jihad armato sugli altri strumenti di «transizione» verso un mondo islamico libero dalle catene che lo avevano schiacciato negli ultimi decenni, sottolineando come il cambiamento tanto atteso potesse essere realizzato ricorrendo a sollevazioni in buona parte pacifiche.
In un momento in cui, da una parte, i regimi mediorientali venivano scossi da un’ondata capace di provocare la caduta di dittatori lasciando però un vuoto di potere enorme, dall’altra, il modello di «islamizzazione dal basso» proposto dai Fratelli musulmani pareva avere il sopravvento, la galassia jihadista era scossa da una crisi interna che ne metteva in discussione la stessa ragion d’essere ma allo stesso tempo ha beneficiato dell’instabilità e della trasformazione di parte delle popolazioni in gruppi armati.
La morte di Osama bin Laden (maggio 2011) e il ritiro delle forze statunitensi dall’Iraq (dicembre 2011), in questo senso, erano divenuti l’emblema della fine di un’era che aveva avuto nel leader saudita uno dei propri simboli più significativi e nel conflitto iracheno uno dei teatri operativi in assoluto più importanti, capace di impantanare Washington in una guerra asimmetrica che avrebbe segnato la fine del suo momento unipolare.
Eppure, proprio nell’ora più buia, emergeva nella cosiddetta «terra dei due fiumi» un leader che sarebbe riuscito ad imprimere una svolta epocale alla corrente jihadista, dando vita a un processo che avrebbe portato a dichiarare la rinascita del «califfato». Proprio la proclamazione di Abu Bakr al-Baghdadi a «nuovo califfo», dovuta in gran parte alla fama che deriva tra i jihadisti dall’essere stato prigioniero degli USA dopo l’invasione in Iraq[32], ha rappresentato il ritorno in grande stile del «jihad globale» sul panorama internazionale[33].
Al-Baghdadi, dal vertice della branca irachena, stringendo una forte alleanza con i militari dell’ex esercito di Saddam Hussein, ha iniziato la lotta contro la comunità sciita irachena e spostato i suoi obiettivi verso la Siria, provando ad annettere la Nursa all’IS senza alcun successo e rinominando il gruppo con l’acronimo ISIS (Islamic state in Iraq and Sham), per poi estenderlo all’intera terra della Ummah, rinominando il gruppo semplicemente in Islamic State, senza alcuna delimitazione geografica[34].
Le differenze con l’era precedente non erano però residuali: laddove al-Qaeda puntava a essere al tempo stesso avanguardia e punto di riferimento per i diversi gruppi di mujaheddin, lo Stato Islamico si era presentato sin dal principio non solo come un modello da replicare, ma anche come l’unica forma di autorità legittima per l’intera umma, movimenti jihadisti inclusi. Una posizione ben esposta dal portavoce del movimento: «Precisiamo che con questa proclamazione del califfato tutti i musulmani sono tenuti a giurare fedeltà al califfo Ibrahim [alias al-Baghdadi] e a sostenerlo (che Allah lo conservi)>>[35].
A dispetto della pretesa supremazia dello Stato Islamico, però, la galassia jihadista presenta un grado di differenziazione per certi versi persino superiore a quello registrato ai tempi di Bin Laden. Al-Qaeda, seppur gravemente indebolita, non si è piegata al diktat di al-Baghdadi e ha avviato un processo di riorganizzazione interna che le ha permesso di differenziarsi dal «califfato» e di opporsi all’«opa» che il gruppo ha lanciato sulle ali più estreme della corrente islamista. Da questo momento nasce una forte competizione tra i due pesi massimi della galassia jihadista.
I piani sui quali si gioca la competizione tra i due network della galassia jihadista, sono principalmente due: il giuramento di fedeltà da parte dei gruppi nei confronti di uno o dell’altro network ed il richiamo di tutti i giovani del mondo alla partecipazione alla causa e alla lotta ˂˂portata avanti da entrambi nei teatri di crisi di varie zone del mondo e, in Occidente, con il cosiddetto terrorismo fai da te[36]>>.
In merito al reclutamento di nuove leve jihadiste, c’è da dire che mentre al Qaeda ha sempre avuto un sistema rigido nell’accreditare gruppi e/o persone come propri affiliati, l’Islamic State ha affidato il proprio marchio a chiunque volesse sposare la causa e costituire una Wilayah (Provincia), creando un vero e proprio franchising del terrore anche se la sua condotta non ha risposto ai canoni dell’Islam. Per questo motivo, le fila dell’IS si sono ingrossate di molto negli ultimi tempi.
Entrambi i network, quindi, cercano di attirare il più grande numero di giovani, nonostante c’è da dire che AQ ha subito pesanti perdite a causa dell’avanzata dell’IS.
A tal proposito è importante comprendere che AQ, dopo la morte del suo leader Bin Laden, ha dimostrato non solo una forte capacità di adattamento ma ha trasformato la sua organizzazione in network del radicalismo islamico, ovvero ˂˂un fenomeno a cerchi concentrici il cui nucleo resta l’organizzazione con sede tra Afghanistan e Pakistan ma accanto al quale si trova l’anello dei gruppi ufficialmente affiliati, come al Qaeda nella penisola Arabica (AQAP) e al Qaeda nel Maghreb islamico (AQMI) e più esternamente l’anello dei gruppi jihadisti che si rifanno semplicemente alla sua metodologia e ai suoi metodi>>[37].
Rispetto all’IS, c’è da dire, che una politica palesemente espansionistica, affiancata dal lancio di operazioni terroristiche e dal sostegno di movimenti politici affini in tutto il mondo, richiede certamente un continuo flusso di denaro. Per questo motivo, un elemento chiave per comprendere a fondo la scalata al potere dell’organizzazione è quello economico. Il fabbisogno di soldi, peraltro, cresce esponenzialmente quando, oltre al terrore, si deve anche gestire una fazione che intenda controllare e amministrare un territorio.
Secondo un importante studio della Rand Corporation, pubblicato dal New York Times ma anche da diversi articoli del quotidiano italiano “Il Sole24ore”, i proventi dell’ISIS del 2014 vanno così ripartiti: 20 milioni di dollari dai riscatti per i rapimenti di occidentali o di personalità locali appartenenti a famiglie agiate; oltre 500 milioni di dollari provenienti dagli assalti alle banche delle città conquistate; oltre 600 milioni di dollari dalle “tasse” e dalle estorsioni alle comunità locali 56 e 100 milioni di dollari dal commercio, o meglio contrabbando, del petrolio. Un’altra fonte economica importante è l’Hawala, un sistema informale gestito da intermediari e corrieri che portano all’organizzazione le donazioni raccolte in tutto il mondo da associazioni e privati, il danaro contante, con una serie di passaggi che si fondano su un sistema di fiducia e di garanzia e pertanto “non tracciabili”, percorre come una staffetta tutto il mondo sino ad arrivare in Iraq e in Siria. Vi è poi la gestione delle dighe e dei pozzi in quanto, in una regione con scarse riserve idriche come la Mesopotamia, il controllo dell’acqua garantisce potere.
Le intenzioni, insomma, non si fermano alla volontà di governare un potentato che comprende i territori posti tra l’Iraq e la Siria, il jihad non ha confini, la rivoluzione fondamentalista va esportata, dalla Mesopotamia alla Penisola arabica, a tutto il Maghreb e oltre.
Cap. 2 – LA MINACCIA DEL TERRORISMO FAI DA TE. NESSUNO E’ A RISCHIO ZERO.
Quando parliamo di terrorismo “fai da te” ci riferiamo ad un nuovo fenomeno che rappresenta una vera minaccia per i nostri Paesi e che, di fatto, sta modificando le nostre abitudini, sia a livello statale che di ogni singolo individuo.
L’origine del terrorismo “fai da te” risale a più di dieci anni fa, nel momento esatto che furono organizzati, sotto la direzione di AQ, i primi attacchi a Madrid nel 2004 e a Londra nel 2005 da parte di giovani ragazzi apparentemente integrati nella società europea che, conoscendo i punti deboli del contesto in cui sono nati e cresciuti, si son attivati con una certa autonomia. Seppur in quel periodo, questa tipologia di autonomia era comunque molto limitata, per la prima volta emergeva una nuova tipologia di terrorismo che registrava ˂˂lo sviluppo della strategia legata ai cosiddetti homegrouwn, ovvero giovani che vivono in Occidente da anni, se non addirittura dalla nascita, e che facilmente dopo brevi soggiorni nei campi di addestramento di AQ o addirittura utilizzando semplici manuali scaricabili da siti internet, si trasformavano in self made terrorist, andando alla ricerca del martiro per colpire le società presso le quali non si erano riusciti ad integrare>>[38].
Si tratta di una tipologia di terrorismo sviluppata soprattutto da al Qaeda nella Penisola arabica e sostenuta quasi da subito anche dall’Islamic State.
Nel 2013 alla maratona di Boston esplosero delle bombe che i fratelli Tamerland avevano negli zaini. In questo caso non vennero provati i collegamenti con i gruppi jihadisti infatti si può affermare che le azioni furono del tutto autonome.
La parola “autonomia” utilizzata per gli attacchi “fai da te” risulta però essere inappropriata laddove esistono legami tra gli attentatori e i network terroristici di riferimento sia per quanto riguarda la fase di radicalizzazione, sia quella di realizzazione dell’attacco se non in entrambe le fasi. Ad ogni modo c’è sempre un grado di autonomia, almeno iniziale, nell’essere parte di una causa che vede gli attentatori accostarsi a persone, riviste, siti internet che radicalizzano la persona in questione e che ha comunque un grado di autonomia assoluta nella scelta dell’azione da compiere. Inoltre, esiste anche un grado di autonomia realizzativa da parte dell’attentatore anche nei casi in cui esso è coordinato dai network terroristici. Ogni attacco è diverso dall’altro per cui ogni attentatore è differente dall’altro.
In pochi anni, pertanto, si giunse alla nascita del terrorismo “fai da te”, il cui ideatore di fatto è l’imam al Awlaki, uno dei leader di AQAP che ha generato la nascita di Inspire, la prima rivista jihadista in lingua inglese che si rivolge ai giovani che vivono in Occidente, sia essi immigrati, di seconda o di terza generazione.
Questo tipo di metodologia di terrorismo nasce da un motivo profondo: l’odio che al Awlaki nutriva per gli Stati Uniti e a cui attribuiva la violazione dei valori musulmani ed il tradimento nei confronti di tutta la popolazione musulmana in territorio statunitense e nei territori della ummah. Fu così che il nuovo terrorismo “fai da te” ebbe origine, a partire dal 2010, grazie alla diffusione on line della Rivista Inspire che venne fatta propria anche dallo stesso al Zawahiri a partire dal settembre 2013[39].
Nel frattempo, però, alcuni fattori come il livello relativamente limitato della minaccia, i miglioramenti nella prassi della polizia e dell’intelligence, la morte di Osama bin Laden e, infine, le alte aspettative generate in Occidente dalle cosiddette “primavere arabe”, inducevano molti osservatori a ritenere che il jihadismo fosse una problematica governabile, forse persino in declino.
Queste illusioni sono svanite con gli eventi verificatisi dopo il 2011 in Medio Oriente e, presumibilmente come conseguenza, anche in Occidente.
Secondo i dati forniti dall’Europol nel suo report annuale “Terrorism Situation and Trend”[40], negli ultimi anni in Europa si è assistito ad un impressionante aumento di attacchi terroristici e di arresti.
Nel 2011 nel continente sono stati compiuti 122 arresti per accertati legami con il fenomeno del terrorismo di ispirazione jihadista.
Negli Stati Uniti e in Canada, la mobilitazione jihadista non ha subito quell’eccezionale impennata osservata nel Vecchio Continente. In entrambi i paesi, però, sono comunque aumentati in modo piuttosto significativo i casi di individui che hanno viaggiato (o hanno tentato di viaggiare) all’estero per scopi terroristici, nonché quelli che sono stati accusati di aver fornito un qualche supporto logistico allo Stato Islamico ed altri gruppi jihadisti o di pianificare attacchi per loro conto[41]. Per esempio, prendendo in esame il contesto statunitense, si nota che, mentre nei 13 anni trascorsi tra l’11 settembre 2001 e il 2013 erano stati denunciati circa 200 individui, nel più breve intervallo temporale coincidente con l’ascesa dello Stato Islamico, dal marzo del 2014 sino al marzo del 2017, i soggetti incriminati erano 117[42].
Se le dinamiche variano a seconda della dimensione locale (ossia a seconda del paese di riferimento) e di quella temporale (cioè nel corso del tempo), è presumibile che questa imponente crescita del numero di arresti e attacchi in Occidente sia stata influenzata da due fenomeni, strettamente intrecciati:
i successi militari ottenuti dallo Stato Islamico e la sua proclamazione del Califfato, nel giugno del 2014;
la massiccia mobilitazione dei combattenti stranieri (foreign fighters) dai paesi occidentali verso la Siria e l’Iraq.
Questa dinamica è emersa già verso la metà del 2012, quando le proteste pacifiche nei confronti del regime siriano di Bashar al-Assad si erano lentamente trasformate in una guerra civile. Vari gruppi militanti con tendenze jihadiste, sicuramente meglio organizzati ed equipaggiati rispetto alla maggior parte delle altre formazioni siriane, avevano iniziato a registrare notevoli successi sul terreno, sia contro le forze governative, sia contro i gruppi armati rivali.
Il gruppo legato ad al-Qaeda, Jabhat al-Nusra, è riuscito a occupare porzioni di territorio relativamente ampie nell’Ovest della Siria, ma tali successi sono stati eclissati da quelli conseguiti dallo Stato Islamico in Iraq e Siria (Isis). Quest’ultimo, che presto avrebbe ingaggiato una guerra fratricida contro Jabhat al-Nusra, aveva infatti cominciato a espandersi non solo in ampie parti nel Nord e nell’Est della Siria, ma anche in vaste porzioni delle aree a maggioranza sunnita del vicino Iraq, verso la fine del 2013[43].
A metà del 2014 la spinta propulsiva dello Stato Islamico sembrava inarrestabile, raggiungendo il suo apice alla fine di giugno, con la proclamazione della restaurazione dello storico Califfato ed il contestuale invito ai musulmani di tutto il mondo a giurare fedeltà al nuovo Stato e alla sua leadership. Con la sua escalation inarrestabile, anche l’IS quindi abbraccia questa nuova tipologia di terrorismo “fai da te”, diffuso capillarmente dall’apparato di propaganda dello Stato Islamico.
Il portavoce ufficiale del gruppo, Taha Sobhi Fahla, meglio conosciuto come Abu Mohammed al-Adnani, nel suo discorso dal titolo “In verità il tuo Signore è sempre vigile”[44], adotta un approccio su due livelli di pubblico: quello occidentale e quello composto dai fedeli musulmani.
Nel primo livello, quello rivolto al pubblico occidentale, Adnani minaccia direttamente la sicurezza occidentale:
… Oh Americani ed Europei, lo Stato Islamico non ha iniziato una guerra contro di voi, diversamente da quanto i vostri governi e i vostri media vogliono farvi credere. Siete stati voi ad aver iniziato l’offensiva e pertanto la colpa è vostra e pagherete un caro prezzo. Pagherete un caro prezzo quando le vostre economie collasseranno. Pagherete un caro prezzo quando i vostri figli saranno mandati a combattere la guerra contro di noi e torneranno alle vostre case mutilati, dentro le bare o malati di mente. Pagherete un caro prezzo quando avrete paura di viaggiare in qualsiasi luogo. O, piuttosto, pagherete un caro prezzo quando camminerete per le vostre strade, guardandovi in giro, con il timore dei musulmani …
… Con il permesso di Allah l’Eccelso, conquisteremo Roma, spezzeremo le vostre croci e faremo schiave le vostre donne. Questa è la Sua promessa per noi; Lui è il Glorioso, e non tradisce la Sua promessa. Se noi non riusciremo a raggiungere questo obiettivo, saranno i nostri figli e nipoti a farlo e venderanno i vostri figli al mercato degli schiavi …
Per quanto riguarda i musulmani nel mondo e, soprattutto, quelli che risiedono nei paesi occidentali, Adnani utilizza invece parole di incitamento, a volte tentando di far leva sul loro senso di orgoglio, affinché sostengano lo Stato Islamico colpendo l’Occidente:
… Oh Muwahhid, dunque sollevati. Sollevati e difendi il tuo Stato, ovunque tu sia … ….Oh Muwahhid, ovunque tu sia, dunque cosa farai per sostenere i tuoi fratelli? Vi sono due schieramenti e ogni giorno la guerra si infiamma sempre più: che cosa stai aspettando? Oh Muwahhid, ti esortiamo a difendere lo Stato Islamico …
… Lascerai che i miscredenti dormano al sicuro nelle loro case, mentre le donne e i bambini musulmani sono terrorizzati giorno e notte dal frastuono degli aerei dei crociati, che volano sopra le loro teste? Come puoi goderti la vita e dormire tranquillamente senza aiutare i tuoi fratelli, senza instillare il terrore nel cuore degli adoratori della croce, senza rispondere ai loro attacchi con molti più attacchi? Dunque, oh muwahhid, ovunque tu sia, opponiti a chi vuole ferire i tuoi fratelli e il tuo Stato quanto più ti è possibile. La cosa migliore che tu possa fare è impegnarti al massimo per uccidere qualsiasi miscredente, sia costui francese, americano o di qualsiasi paese loro alleato …
Adnani, infine, prosegue il suo intervento suggerendo varie tattiche ai potenziali attentatori in quelle che poi diventano proprie del terrorismo “fai da te”:
… Dunque, oh muwahhid, ovunque tu ti trovi, non mancare alla battaglia. Devi colpire i soldati, i sostenitori e le truppe dei tawāghīt. Colpisci i membri delle loro forze di polizia, di sicurezza e di intelligence, così come i loro agenti traditori. Distruggi i loro letti. Avvelena le loro vite e tienili impegnati. Se puoi uccidere un miscredente americano o europeo – specialmente un malvagio e immondo francese – o un australiano, o un canadese, o qualsiasi altro fra i miscredenti che stanno combattendo la guerra, tra cui i cittadini dei paesi che si sono uniti alla coalizione contro lo Stato Islamico, allora affidati ad Allah, e uccidilo in qualsiasi modo. Non chiedere consiglio e non cercare il parere di alcuna persona. Uccidi il miscredente, sia costui civile o militare, per entrambi vale lo stesso giudizio: sono miscredenti.
… Riempi le loro strade di esplosivi. Attacca le loro basi. Fai irruzione nelle loro case. Taglia le loro teste. Non lasciare che si sentano al sicuro. Inseguili ovunque siano. Trasforma la loro vita mondana in paura e fiamme. Allontana le famiglie dalle proprie case, e in seguito falle esplodere… Se non riesci a procurarti un ordigno esplosivo improvvisato o un proiettile, allora trova un miscredente americano, francese o alleato e spaccagli la testa con una pietra, oppure massacralo con un coltello, oppure investilo con la tua automobile, o fallo precipitare da un punto elevato, oppure soffocalo, o avvelenalo …
Adnani aveva ripetuto tali esortazioni in diverse occasioni prima di essere ucciso da un bombardamento statunitense nella provincia di Aleppo nell’agosto del 2016.
Fatte queste premesse, è necessario fare chiarezza su alcune questioni rilevanti, in particolare sulla minaccia specifica che AQ e IS rivolge ai paesi occidentali, tra cui l’Italia.
Premesso che, i due network terroristici intendono colpire il cuore della popolazione per fomentare la polarizzazione sociale, nonché per stimolare la mobilitazione, la radicalizzazione e il reclutamento jihadista e che negli ultimi anni i militanti jihadisti hanno compiuto 51 attacchi terroristici in Europa e Nord America, nessuno di questi episodi ha toccato l’Italia.
Il nostro Paese non ha subito attacchi terroristici letali sul proprio territorio, a differenza di quanto accaduto in Francia, Regno Unito, Germania, Spagna, Belgio e in altri paesi europei. In Italia, se non si contano alcuni attentati pianificati e abilmente sventati dalle nostre autorità antiterrorismo, l’unico atto di violenza di chiara ispirazione jihadista risale, di fatto, al 2009, anno in cui il cittadino libico Mohamed Game[45] fece esplodere un ordigno artigianale di fronte alla caserma Santa Barbara di Milano, ferendo sé stesso e in maniera lieve due soldati. C’è da dire che, in generale, nel caso italiano i fenomeni della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista hanno tratti e portata differenti rispetto a quelli della maggior parte dei paesi europei e occidentali[46].
Chiaramente, di fronte alla minaccia del terrorismo internazionale di matrice jihadista nemmeno in Italia il rischio è pari a zero. Nella propaganda estremista, per esempio, i riferimenti al nostro paese, solitamente generici, si sono fatti più frequenti negli ultimi anni. In particolare, l’incitamento alla “conquista di Roma”, elevata a simbolo dell’Occidente cristiano, è uno degli slogan più importanti del cosiddetto Stato Islamico.
A tal proposito, va chiarito, che molto di ciò che viene propagandato dai network terroristici non viene quasi mai attuato, sia per mancanza dei mezzi, sia per mancanza di un piano definito di azioni terroristiche. Se poi, guardiamo all’IS e alla diffusione di una carta dei confini che il Califfato mira a raggiungere, ci rendiamo conto che si tratta di territori che al momento rappresentano la massima espansione islamica[47] e che nulla ha a che fare con l’Italia.
Pertanto, gli atti di terrorismo perpetrati ai danni delle popolazioni occidentali (e non solo), hanno valenza esclusivamente mediatica.
I network terroristici, a tal fine, sfruttano le azioni di homegrown e foreign fighter che agiscono in branco secondo manovre dirette da AQ e IS oppure da soli, ispirati dai due network terroristici ma utilizzando materiale presente su internet.
Da un punto di vista operativo, possiamo distinguere gli attacchi in due macro-categorie:
attacchi terroristici perpetrati da individui che hanno ricevuto ordini direttamente dai network terroristici;
attacchi terroristici perpetrati da individui privi di connessioni con i network terroristici o altri gruppi jihadisti, ma ispirati dal loro messaggio.
Entrambi possono essere annoverati al terrorismo “fai da te” considerando che ˂˂gli elementi di autonomia sono sempre presenti nella radicalizzazione e nelle azioni di giovani ragazzi che in Occidente decidono di attaccare il Paese in cui sono nati o comunque vivono da anni>>[48].
Detto ciò, è necessario ripetere che ˂˂ in primis si attacca l’Occidente per prevalere sui nemici interni all’Islam, e ottenere così l’egemonia sulla ummah, la Comunità dei fedeli>>[49].
Se analizziamo gli attacchi in Europa, eseguiti tra l’autunno del 2015 e l’autunno del 2016, possiamo distinguere gli attacchi condotti, in modo coordinato ed organizzato, dalla cellula di Bruxelles-Parigi agli attentati avvenuti in modo apparentemente autonomo a partire dalla primavera del 2016 in numerose città francesi e tedesche. Nel primo caso si fa riferimento ad attacchi terroristici che hanno ricevuto ordini direttamente dai network, nel secondo caso si fa riferimento ad attacchi terroristici organizzati da individui che, con mezzi propri, si rifanno al messaggio dei due network.
Come si fa a sapere se sono attacchi autonomi o coordinati? Basti pensare che gli attacchi compiuti a novembre del 2015 e quelli compiuti a marzo 2016 dalle cellule di Parigi-Bruxelles, sono stati rivendicati in pochissime ore dagli organi mediatici ufficiali del Califfato con dettagli specifici sugli attentati e dopo pochi giorni, il gruppo di al Baghdadi ha diffuso numerose immagini degli attentatori con la mimetica, per dimostrare la loro presenza nei mesi antecedenti nella terra del Califfato. Solitamente, quando si tratta di attentati annoverati al “terrorismo fai da te”, come gli attentati compiuti tra il giugno ed il luglio del 2016, c’è la rivendicazione ma senza i dettagli e senza le immagini che dimostrano un filo conduttore tra gli attentatori e il Califfato. La rivendicazione, in questo caso, è avvenuta attraverso gli organi ufficiali del Califfato ma con comunicati diffusi su Telegram dall’Agenzia Stampa AMAQ, considerata molto vicina a IS.
˂˂I comunicati, che non contenevano alcun riferimento particolare agli attentatori o alle modalità con cui l’attentato era stata condotto, si caratterizzano per l’utilizzo di alcuni termini ed alcune espressioni chiave: innanzitutto, si usano i termini “soldati” o “combattenti” del Califfato; inoltre, appare la strana formula iniziale “secondo fonte interna”, che attribuendo ad una fonte la veridicità della notizia non screditerebbe IS nel caso questa si rivelasse inesatta, e rende la rivendicazione quasi un’adesione piuttosto che una proclamazione di responsabilità. L’espressione presente nelle rivendicazioni sulla quale dobbiamo fermarci maggiormente è «executed the operation in response to calls to target nations in the coalition fighting the Islamic State», o «executed the operation in response to calls to target countries belonging to the crusader coalition», espressione con cui IS afferma che i giovani attentatori hanno agito in risposta all’appello lanciato da Adnani in maggio affinché venissero commessi attentati durante il mese di Ramadan>>[50].
Amaq, l’agenzia di Stampa del Califfato, dopo due giorni al massimo ad eccezione del caso di Nizza, ha diffuso un video in cui gli attentatori prima di entrare in azione giuravano fedeltà al Califfato o direttamente ad al – Baghdadi, come risposta alla chiamata dell’IS.
Facendo riferimento all’attentato di Nizza, invece, possiamo affermare che c’è una terza categoria di attentati e rivendicazioni, ovvero quelli che agiscono senza lasciare nulla a testimonianza della fedeltà nei confronti del Califfato. Ecco, l’attentato di Nizza sul lungomare, nella sera del 14 luglio 2016, viene addirittura rivendicato e lodato anche da AQ che gli dedicò l’Inspire Guide.
Pertanto, è noto che il terrorismo “fai da te” rappresenta un rischio effettivo per i nostri Paesi. Il problema, infatti, non è tanto che AQ e IS minacciano l’Occidente ma il rischio reale che va considerato e affrontato è quello che deriva dall’imprevedibilità degli homegrown terrorist radicalizzatisi in Occidente, e/o dei foreign fighter di ritorno dai teatri di crisi.
Cap. 3 – LA PROPAGANDA DEL TERRORISMO FAI DA TE: DALLE RIVISTE AGLI STRUMENTI TELEMATICI E DEL WEB
1 La comunicazione logistica e la comunicazione propagandistica
L’espansione ideologica e territoriale dei network terroristici è dovuta principalmente alla propaganda che ha permesso agli attivisti di programmare attentati anche in assenza di una strategia da parte di AQ e IS.
Appare importante, quindi, evidenziare quale sia la differenza sostanziale fra la propaganda nel jihadismo moderno, corrispondente al periodo che precede l’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre 2001 e quella dell’efferato attacco alla redazione del periodico satirico parigino “Charlie Hebdo” del 7 gennaio 2015, che potremmo definire “jihadismo post-moderno”, considerato l’inizio della strategia di guerra globale del terrore dichiarata dall’autoproclamato stato islamico (IS).
Perché post-moderno? Perché il rapporto fra l’evoluzione della propaganda e il passaggio all’azione si è dimostrato così veloce, se non immediato, da far considerare il “tweet del giorno prima” un concetto ideologico, ma anche investigativo, obsoleto e superato.
Ai tempi di Al-Qaeda la propaganda a chi si rivolgeva? 1 Il target cui faceva riferimento la propaganda jihadista moderna, era rappresentato da una fascia di individui sensibili a un’ideologia radicale islamica sofisticata, che richiedeva una certa base culturale che consentisse di recepirne i contenuti anche simbolici. Non a caso, il responsabile del commando che ha portato a termine il più sanguinoso attentato terroristico della storia era un ingegnere con ottime referenze e una solida conoscenza della religione.
I messaggi e i proclami diffusi dai leader di Al-Qaeda, Osama bin Laden (appartenente a una delle famiglie più ricche dell’Arabia Saudita) e Ayman al Zawahiri (un affermato medico egiziano) contenevano passaggi raffinati e pregni di simbologie che oggi non potrebbero essere recepiti con facilità dalle masse cui si rivolge invece lo “staff mediatico” dell’IS, impegnato nel reclutare ogni sorta di “manovalanza” potenzialmente utile alla causa terroristica.
La propaganda dell’IS, infatti, non contiene più elaborati passaggi del Corano ma specifici inviti a “sgozzare”, “bruciare”, “investire”, comunque “eliminare” ogni infedele incontrato sul proprio cammino.
Altrettanto presumibile può sembrare il livello culturale di chi fa la propaganda terroristica, ovvero se prima vi erano figure carismatiche rappresentate da autorevoli “vecchi saggi” dall’elevata formazione, oggi la propaganda si affida, anche per i metodi più rapidi ed efficaci, ai giovani semplicemente violenti ma la cui preparazione informatica è stata capace di tenere in scacco gli onerosi apparati di monitoraggio e sorveglianza del cosiddetto occidente.
Detto ciò, nel cosiddetto jihadismo post-moderno, emerge una differenza concettuale fra la comunicazione logistica e la comunicazione propagandistica che porta, a sua volta, ad una distinzione fra piattaforme, metodi e platee di riferimento relative ai due sistemi.
La comunicazione logistica è intesa come complesso di azioni che si concretizzano ogni qual volta si pianifica un’azione offensiva ed è quindi rivolta a coloro che la dovranno preparare, sostenere e portare a termine, cioè a individui già radicalizzati e in procinto di agire. In questo caso, non vi è la necessità di raggiungere un ampio numero di utenti e diventa quindi evidente che l’esigenza di segretezza nello scambio di messaggi informativi sarà massima, in contrapposizione all’assoluto bisogno della più ampia diffusione di una comunicazione propagandistica. Anche se la pianificazione ostile non viene portata a termine, questo non significa che un’estesa attività di comunicazione tesa a realizzarla non sia stata veicolata attraverso i canali ritenuti più sicuri come, ad esempio, dalle chat di Telegram spesso luogo di scambio degli ordini operativi, al Deep Web, quest’ultimo maggiormente utilizzato per reperire materiali.
Altro sistema di comunicazione logistica utilizzato ampiamente dagli esperti dell’IS, ma in passato anche da quelli di Al-Qaeda, è il sistema della stenografia, ovvero l’inclusione di messaggi crittografati mediante specifici software all’interno di immagini innocue liberamente pubblicate sui social.
La comunicazione propagandistica[51] potrebbe intendersi, invece, come il proposito di raggiungere la più ampia platea di potenziali seguaci attraverso gli strumenti più diffusi in un determinato periodo storico. Nell’era in cui viviamo, le possibilità offerte dal web sono infinite e diventano lo strumento principale per diffondere messaggi di propaganda, di reclutamento e di incitazione di stampo terroristico.
La comunicazione rivolta a individui già radicalizzati non sembra aver bisogno di cospicui supporti audiovisivi né di sostanziosi contenuti verbali di matrice religiosa, in quanto il destinatario del messaggio risulta, in genere, già permeato dal fervore jihadista e non ha bisogno di essere “convinto” da forme di propaganda ritenute possibilmente più adatte al reclutamento di nuove leve. Se ne potrebbe dedurre, quindi, come forme di messaggistica più brevi quali ad esempio Twitter, che per la sua natura tecnica consente di veicolare esclusivamente messaggi stringati, risultino maggiormente indicati a diramare informazioni sintetiche e più facili da decodificare dai destinatari, fino ad arrivare a vere e proprie “comunicazioni operative” destinate a individui in procinto di commettere atti ostili e, pertanto, già disinteressati dall’essere oggetto di eventuali intercettazioni o localizzazioni frutto delle attività investigative.
Maggiormente impegnativa sembrerebbe, invece, la comunicazione propagandistica che si prefigge lo scopo di reclutare nuovi seguaci alla causa del jihad, giovani genericamente insoddisfatti o meno giovani delusi dalle circostanze socio-culturali in cui vivono. Per raggiungere costoro, diventa forse necessario elaborare delle forme comunicative che possano avvalersi della possibilità di trasmettere contenuti attraverso supporti audiovisivi anche dalle forme testuali estese, quali ad esempio sermoni o intere pubblicazioni. Si parla quindi di piattaforme social quali Facebook e YouTube[52], considerate delle vere piazze virtuali che consentono di mostrare senza limiti o restrizioni sia il fervore religioso che la violenza jihadista.
In tal caso, per evitare la rimozione di contenuti violenti da parte degli amministratori, i fruitori del materiale si astengono spesso dall’esternare commenti, in modo da non consentire la rilevazione delle parole chiave pre-determinate che generano gli alert propedeutici alla chiusura dei canali web. Questo semplice ma valido sistema ha consentito la diffusione mediatica di una serie di azioni sanguinarie commesse nel teatro siro-iracheno e delle loro farneticanti rivendicazioni, forse più finalizzate al “lavaggio di coscienza collettivo” che alla propagazione di un contenuto ideologico concreto e sostenibile.
Il meccanismo di propaganda dell’IS sembra utilizzare YouTube per promuovere lo “stile di vita” del califfato, con scene di vita quotidiana di quello che appariva, o voleva apparire, come uno Stato organizzato ed efficiente, nato e cresciuto sotto i dettami della Sharia.
L’indiscusso successo di questa strategia combinata ha verosimilmente contribuito a creare un appeal che ha generato, insieme ad altri fattori di ampia genesi, il fenomeno dei foreign fighter la cui maggioranza è formata da giovani e giovanissimi che hanno creduto e credono in un falso modello autoreferenziale, generato ad arte nel web e rapidamente rimbalzato ai quattro angoli del globo terrestre proprio in virtù delle potenzialità di diffusione espresse dalla rete.
La ricercatezza nell’elaborazione del testo che si trova nella galassia qaedista, lascia quindi il posto alla tecnica quasi perfetta dei montaggi video a opera dei tecnici dell’IS, perfetti nella regia e nell’accurata disposizione dei particolari scenici, oltre che caratterizzare il testo verbale in un vero e proprio incitamento all’emulazione. Analogamente, anche nei testi dei messaggi diffusi dagli esponenti dell’IS sembrano notarsi chiare incitazioni alla violenza indiscriminata e diffusa, senza alcun riguardo alle eventuali implicazioni religiose che vadano oltre i semplici concetti di “martirio”, “infedele”, “croci.
Tutto questo, potrebbe risultare vantaggioso in funzione della necessità di raggiungere uno scopo privo di un progetto politico, quale sembra essere quello della creazione di uno “Stato islamico indipendente”. L’obiettivo è quello di creare una sorta di “effetto Werther”, ovvero un effetto a cascata capace di provocare a catena un certo numero di eventi analoghi. Diffondere determinati messaggi, invocando lo sposalizio alla causa, potrebbe portare non solo ad un efficace reclutamento di giovani (e non giovani) ma potrebbe creare nuovi attentati in diverse parti del globo.
L’effetto “Werther[53]” è infatti un fenomeno psicologico di massa, secondo cui la pubblicazione da parte dei mass media di una determinata notizia (ad esempio un attentato) può provocare altri attentati.
A questo meccanismo psicologico, è stato dato il nome del protagonista del romanzo di Johann Wolfgang von Goethe, “I dolori del giovane Werther”. Volendo analizzare l’effetto Werther nell’ambito del fenomeno terroristico[54] a levatura internazionale, sembrerebbe porsi in evidenza l’aumento esponenziale, in alcune aree geografiche, del numero di attacchi che si sono succeduti in breve tempo rispetto all’ “attentato zero”. Il fenomeno sembrerebbe quindi facilmente osservabile in Francia, dove dopo la rapida successione delle azioni terroristiche compiute da Mohammed Merah si è innescata una vera e propria escalation tutt’ora in corso che ha lasciato dietro di sé una sanguinosa scia che va da Parigi a Nizza, da Rouen a Carcassonne; in Germania, dove in poco tempo si sono verificati una serie di attentati che hanno insanguinato in sequenza Würzburg, Monaco, Ansbach, Amburgo, fino alla tragica strage dei Mercatini di Natale a Berlino. In questo caso, la serie emulativa è ancor più impressionante se si tiene conto della natura dei responsabili, tutti “lupi solitari” più o meno pre-radicalizzati.
Quella appena analizzata, potrebbe configurarsi come la prova dell’efficacia dell’effetto Werther in un ristretto ambito geografico, ma la già osservata velocità di diffusione della propaganda, potrebbe aver amplificato l’effetto emulativo in ogni angolo del mondo, rendendo il triennio 2015-2017 il più sanguinoso della storia recente in materia di terrorismo internazionale “fai da te”.
Forme di social media nel web quali Twitter, YouTube, blog e forum funzionano proprio come una vasta “comunità telematica” dove le osservazioni private, le opinioni e i passa-parola si espandono attraverso il “popolo virtuale” come un incendio incontrollabile. La propagazione di notizie, si diffonde attraverso un meccanismo alimentato dai link di Internet. Questi possono diventare una sorta di “magazzino digitale” di pettegolezzi, sdegno ed escalation, ampliando l’impatto di questo meccanismo non ufficiale.
Il detto “il terrorismo è un modo di comunicare” suona come un monito che ci mette in guardia dal messaggio che l’atto terroristico vuole veicolare in modo diretto. Da questo si può dedurre una minaccia ben più ampia di violenza indiscriminata, ipoteticamente rivolta contro tutti in modo indiretto. “Senza comunicazione non vi sarebbe terrorismo” è il concetto che il sociologo canadese McLuhan ha espresso in tempi non sospetti, quando ancora non esisteva Internet e i grandi canali di comunicazione mediatica muovevano i primi passi nel mondo dell’informazione globalizzata.
Se è vero che per il terrorismo l’obiettivo è raggiungere il maggior effetto destabilizzante con il minimo impegno di risorse, è altrettanto vero che nell’ultimo decennio questo scopo è stato raggiunto soprattutto grazie ai nuovi mezzi di comunicazione di massa. È infatti con l’avvento di Internet che la simmetrica strategia comunicativa dei network terroristici ha raggiunto l’apice comunicativo.
Nella strategia mediatica online dell’IS assume un ruolo importante l’utilizzo della piattaforma di messaggeria Telegram. Benché, come abbiamo già visto, l’utilizzo di applicazioni alternative si stia diffondendo in alcune aree geografiche ad alto tasso di radicalizzazione islamica, i jihadisti in Internet utilizzano Telegram come “via maestra” e come fonte primaria della propaganda ufficiale delle diverse organizzazioni radicali islamiche, a renderlo noto è una ricerca della George Washinton University che ha esaminato 636 canali di Telegram adoperati dall’ISIS. Il Report intitolato “Encrypted Extremism” fa luce sul complesso ecosistema di comunicazioni basato su Telegram che viene ampiamente sfruttato dagli aderenti al gruppo terroristico dello Stato Islamico. Inoltre, la cronaca recente evidenzia come la competizione del 2013 fra i due maggiori gruppi terroristici operanti nel teatro siro-iracheno, Jabhat al-Nusra e l’autoproclamato stato islamico, causò in quel momento una divisione interna fra le principali piazze virtuali estremiste, creando un gap negativo nella diffusione della propaganda online. Contestualmente, a causa dei numerosi tentativi della cyber-intelligence di oscurare questi fora, il “terzo incomodo”, Al-Qaeda, ha iniziato a utilizzare in modo massiccio piattaforme alternative, in particolare Twitter. L’immediata reazione di questo gigante della comunicazione online, culminata con la chiusura continua degli account delle organizzazioni terroristiche, ha causato l’immediato orientamento della scelta di questi gruppi criminali della piattaforma Telegram che ancora oggi continua a giocare un ruolo vitale nella strategia comunicativa dell’IS. Attualmente, secondo Europol[55], pur in assenza di canali pubblici che facciano endorsement su Telegram all’autoproclamato Stato Islamico, sono stati rilevati numerosi canali e chat room i cui nomi indicano una chiara relazione o mostrano un diretto supporto all’IS. Sempre secondo la suddetta agenzia europea, due dei maggiori fattori che contribuiscono all’appeal di Telegram per i gruppi jihadisti sono l’utilizzo del sofisticato sistema di cifratura ma, soprattutto, la tolleranza dimostrata dal management della App rispetto alle altre piattaforme social circa la diffusione della propaganda violenta ed estremista, malgrado qualche sforzo di contrasto compiuto dai tecnici dell’applicazione. Potrebbero individuarsi tre fasi principali nella strategia di diffusione della propaganda dell’autoproclamato stato islamico, dove l’applicazione Telegram sembra protagonista in ognuna delle tre, a causa della velocità di diffusione che risulta peraltro selettiva poiché offre la possibilità di essere indirizzata a distinte chat room tematiche, oltre che alla già citata cifratura quasi inviolabile. La prima fase è quasi una forma di pubblicità, si potrebbe chiamare coming soon, tesa a generare aspettative di curiosità nel pubblico cui si rivolge. Spesso è supportata dalla ripetizione in altre piattaforme meno popolari ma considerate egualmente strategiche dai responsabili della propaganda mediatica dell’IS. La seconda fase è quella della diffusione vera e propria dell’argomento della propaganda: il launch. Qui vengono caricati online i contenuti di quello che è il focus del momento deciso dall’establishment dell’IS. Per fare questo ci si avvale dei fidati canali Telegram utilizzando molteplici account “specchio” o account “dormienti” appositamente creati in precedenza, capaci di garantire la diffusione prima che intervengano le contromisure dei gestori delle piattaforme e degli organismi investigativi. La possibilità di veicolare senza difficoltà anche contenuti video, contribuisce ad elevare il gradimento di Telegram da parte delle organizzazioni terroristiche che al momento della diffusione compendiano il contenuto con le indicazioni di tutte le url e delle piattaforme nelle quali la propaganda verrà replicata. Il tutto senza particolari sforzi economici e in alta definizione, compresa la possibilità della visione su apparati mobili. La terza e ultima fase della strategia di comunicazione, echo, è la rilevazione del riscontro che la diffusione ha avuto nel pubblico cui era indirizzata e la disponibilità dei contenuti in vari formati. L’echo è cresciuta dal momento in cui le maggiori pubblicazioni (Dabiq, Rumiyah, Inspire, etc.) hanno iniziato ad essere tradotte in inglese, francese, tedesco e talvolta in italiano, allo scopo di consentirne l’assimilazione dal maggior numero possibile di seguaci che a loro volta possono incrementare il loop propagandistico attraverso canali di altre piattaforme gestiti localmente. Inoltre, le capacità informatiche dei vertici comunicativi dell’IS fanno sì che si rendano disponibili le pubblicazioni in ogni tipo di formato elettronico allo scopo di non rischiare che seguaci meno dotati tecnologicamente siano esclusi dal messaggio. In questo modo, a poche ore dal lancio, e con un impiego di risorse veramente esiguo, la propaganda terroristica ha raggiunto una consistente platea di individui che, a loro volta, continueranno a rendere disponibile per altri internauti il messaggio di violenza.
Ne potrebbe conseguire che la scelta di un mezzo di comunicazione anziché un altro, venga dettata dalla platea che ci si prefigge di raggiungere con il messaggio; ovvero, tanto più ristretto è il numero dei target, tanto più si propenderà a utilizzare piattaforme di messaggeria criptata di difficile localizzazione e intercettazione o social media a basso e ristretto impatto quantitativo. Viceversa, al fine di diffondere quel tipo di propaganda destinata a un più ampio pubblico globale, si tenderà a utilizzare dei veicoli di diffusione virale e pubblica. Da un documentario, recentemente, ad esempio, è stato rilevato un crescente interesse per la pubblicistica jihadista anche da località del Sud America e dell’area caraibica. Questo dà una precisa idea della potenza dei messaggi veicolati attraverso il web e della difficoltà di contenerne gli effetti: è infatti noto come a ogni singola chiusura di pagine Facebook, account Twitter, canali YouTube corrisponda un’immediata riapertura dello stesso spazio virtuale, caratterizzato però da una piccola variazione nell’indirizzo web da raggiungere.
L’evoluzione della pubblicistica jihadista, si potrebbe riassumere nell’analisi delle differenze che caratterizzano i due maggiori magazine dei network del terrorismo globale, Inspire “edita” dalla rete mediatica di Al Qaeda e Dabiq la rivista di punta dell’autoproclamato Stato Islamico, diventati dei veri e propri best seller del radicalismo religioso online.
Si parla quindi di un arco temporale che abbraccia il periodo compreso tra la tragedia delle Twin Towers e i giorni nostri. Un’evoluzione testuale e grafica unita dal denominatore comune del Web, il veicolo di diffusione che, come già descritto, ha soppiantato i tradizionali metodi di diffusione.
Con l’attentato dell’11 settembre 2001 e la conseguente, macabra pubblicità globale che ha reso tristemente famosa Al Qaeda, gli strateghi della rete terroristica hanno avvertito l’esigenza di “evolversi” e di conseguenza hanno creato la possibilità di propagandare odio religioso attraverso la regolare diffusione dei loro trend terroristici. Nasce così nel primo decennio del nuovo secolo la rivista Inspire, il cui fondatore, Samir Khan, è stato ucciso da un drone americano subito dopo la pubblicazione del sesto numero della rivista, senza che ciò abbia interrotto la pubblicazione nella rete, proseguita anche dopo la sua morte.
La rivista Inspire[56], la prima in lingua inglese che si rivolgeva ai musulmani in Occidente, è nata come mezzo di propaganda di AQAP che all’epoca aveva condiviso il sentimento antioccidentale creato e diffuso da Anwar al Awlaki, un imam yemenita-statunitense.
Il nome della rivista deriva dallo scopo di inspirare i giovani musulmani in occidente e quindi la nascita di nuovi terroristi direttamente nei paesi occidentali, ed in particolare negli Stati Uniti ed in Gran Bretagna. Più specificatamente, Inspire è un nome che si rifà ad un versetto del Corano nel quale Allah comanderebbe a Maometto ˂˂and inspire the believers to fight>>[57].
Un approfondimento contenuto nel primo numero rendeva perfettamente l’idea dell’obiettivo primario del magazine, reclutare potenziali seguaci: costruire una bomba nella cucina di tua mamma: ˂˂make a bomb in the Kitchen of your Mom>>[58].
Un cambio di passo che ha portato la redazione della rivista a prediligere un tipo di propaganda più tecnica. La necessità primaria è, infatti, quella di convincere il più alto numero possibile di soggetti influenzabili ad aderire alla causa, nel minor tempo possibile e in ogni luogo, provando anche a creare mezzi nei luoghi più intimi (la propria abitazione) e con materiali già in uso e facilmente reperibili.
Ciò che in origine caratterizzava maggiormente la rivista qaedista era la ricercatezza del messaggio, che culminava nel raffinato linguaggio di leader carismatici con alle spalle un passato di predicazione sintetizzato, talvolta, in vere e proprie pubblicazioni ideologico religiose (jihadismo moderno). In seguito, i redattori del periodico hanno affiancato al messaggio religioso violento contenuti tecnici, i primi manuali del terrorista “fai da te” (jihadismo post-moderno). Consigli pratici sull’assemblaggio di ordigni ma anche su come organizzare il reclutamento che in precedenza avveniva soprattutto attraverso il fenomeno della “moscheizzazione” che, anche a causa dell’azione positiva delle forze di polizia e di intelligence ma anche del cosiddetto “Islam moderato”, è andato via via affievolendosi riducendo il flusso dei mujahidin a un rivolo insufficiente allo scopo degli strateghi dell’organizzazione.
Quindi, l’inarrestabile galoppata tecnologica e il mutato scenario del terrorismo globale che hanno dato genesi al fenomeno dell’Islamic State, hanno parallelamente contribuito alla nascita di un nuovo tipo di pubblicistica, che oggi possiamo osservare proprio nel più diffuso periodico on line, oltre a tanti altri, dell’IS: Dabiq, un concentrato in lingua inglese di messaggi brevi e violenti, di tecnologia grafica d’avanguardia che può veicolare propaganda anche solo attraverso la semplice pubblicazione di immagini, lasciando poco spazio al tentativo di indottrinare ideologicamente il lettore. Anche la rivista Dar al-Islam, cui nome ad impatto fa un richiamo diretto all’islam, risulta essere molto significativa per la propaganda dell’IS. Si tratta di una rivista in lingua francese che ha, appunto, la Francia quale oggetto interlocutore di riferimento.
Da quanto si evince dai numerosi articoli giornalistici italiani, sia la rivista Dabiq, che la rivista Dar al-islam, sono state integrate nel settembre 2016 da un nuovo periodico online, Rumiyah, pubblicato in lingua inglese e turca dove appaiono spesso incitazioni a uccidere i non musulmani in Europa e altrove nel mondo. Rumiyah, continua sulla linea ideologica di Inspire e Dabiq fornendo indicazioni anche di tipo pratico – operativo per “compiere atti terroristici ed esecuzioni”. Nella rivista, infatti, viene raccomandato ai possibili “tagliagole” di “avere sempre a portata di mano un coltello per gli sgozzamenti (vengono anche precisate le caratteristiche che il coltello deve avere) manette per limitare eventuali reazioni e musica da tenere ad alto volume, radio o televisione, per coprire le urla dell’ostaggio”. Vengono inoltre indicati, con alcune efficaci immagini, i target da colpire per suscitare le diverse reazioni desiderate.
Gli esperti hanno anche scoperto documenti contenenti le istruzioni per rapimenti e tecniche di tortura. Nel mese di Dicembre 2015, presunti membri dello Stato Islamico hanno lanciato una nuova rivista di guerra informatica per i jihadisti intitolata Kybernetiq che istruisce i militanti sull’uso della tecnologia. Gli autori stessi la definiscono come la prima rivista in lingua tedesca “per Mujahedeen”, specializzata in tecnologia dell’informazione, comunicazione e sicurezza. Ad esempio, rispetto alla rivista Dabiq, che ha esaltato l’utopia sociale di coloro che erano orientati ad aderire all’Isis in Siria, sulla rivista Kybernetiq si leggono tentativi di sfruttare l’estetica del cyberpunk. Ciò accade con le organizzazioni terroristiche che puntano a reclutare gli specialisti nel settore delle alte tecnologie, i quali, per queste loro conoscenze, sono l’obiettivo di tale propaganda mirata.
L’editoriale di apertura della rivista, a firma dell’alias iMujahid, lancia una vera e propria chiamata alle armi per i fratelli jihadisti: ˂˂È molto importante per noi che i nostri fratelli e sorelle imparino la corretta gestione di software e hardware. Una volta che il progresso tecnologico e scientifico dell’Occidente sarà stato bandito come opera del demonio, avremo maggiori possibilità di distruggere il lavoro degli infedeli>>.
La rivista si propone di istruire i jihadisti alla guerra cibernetica contro gli infedeli occidentali. I membri dell’ISIS considerano la tecnologia uno strumento fondamentale nella lotta contro i suoi avversari e la rivista Kybernetiq spiega beneficiarne. Uno degli articoli del primo numero della rivista spiega l’importanza dell’utilizzo della crittografia per la protezione delle comunicazioni. Gli articoli inclusi nella rivista Kybernetiq illustrano anche come proteggere l’anonimato in rete evitando le intercettazioni e spiegando come le agenzie di intelligence utilizzano i metadati per rintracciare i terroristi.
Kibernetiq segna il consolidamento delle capacità tecniche e strategiche in ambito cyber dei jihadisti e ancor di più, evidenzia come tra le fila dell’organizzazione terroristica ci siano esperti in questioni informatiche capaci di utilizzare le maglie (larghe) del web per fini di propaganda e coordinamento di azioni terroristiche.
Mi ha colpito particolarmente anche Beituki, la rivista dedicata esclusivamente alle donne: come diventare la perfetta moglie di un jihadista di al -Qaeda, facilmente consultabile su internet. Il sesto numero è stato pubblicato a maggio del 2018.
Beituki, non è sicuramente un manuale per il terrorismo fai da te ma è il mezzo attraverso il quale radicalizzare le mogli dei terroristi e/o dei futuri terroristi considerate elemento fondamentale nella causa generale.
Si tratta di un magazine a colori che si discosta totalmente dalle immagini forti contenute nella produzione jihadista classica disponibile sulla rete. Cuoricini, lettere d’amore, arredamento e ricette su Beituki prendono il posto alle decapitazioni ed alle guide per compiere attentati. L’opera consta di diverse guide e rubriche non superando mai le venti pagine, sicuramente per una veloce lettura. I sei numeri possono essere ancora oggi consultati o scaricati da chiunque e con estrema facilità su diverse piattaforme. Il linguaggio è semplice, il riferimento religioso non è mai invasivo, costante l’utilizzo dei pronomi.
Il sesto numero è stato intitolato ˂˂Armiamoci di una buona lettura>>. Si tratta di uno stratagemma che al Qaeda ha preso in prestito dall’Isis, sfruttando il testo Media Operative, You Are a Mujahid, Too. Così come l’Isis, al Qaeda annulla la distinzione tra supporto ed appartenenza. Al Qaeda spiega che ˂˂il più alto onore per una sposa jihadista è quello di crescere i futuri guerrieri>>.
Su Beituki, al-Qaeda elargisce “consigli” alle donne, chiamate spose jihadiste. Non che il network terrorista sia particolarmente attento alla donna nel suo essere e nella sua identità ma esclusivamente alla sua importanza quando opera all’interno del nucleo familiare interessato e quindi al destino della donna legato alla causa.
La sposa jihadista non deve mai allontanarsi dal suo tradizionale ruolo di donna musulmana come capo della sua famiglia in assenza del marito impegnato in guerra e deve fare in modo di non far sentire la sua mancanza al guerriero che combatte per la causa.
Presente fin dal primo numero, la rubrica dedicata alle ˂˂Lettere degli innamorati>>: una presunta corrispondenza tra i guerriglieri al fronte e le proprie mogli rimaste a casa ad aspettarli (o meglio ad attendere il loro destino previsto dal piano celeste). E’ certamente la sezione più romantica ed ironica dell’intero magazine.
Nel pensiero jihadista, inoltre, le azioni fisiche sono soltanto il mezzo per raggiungere l’obiettivo spirituale. La rubrica fornisce rassicurazioni e spiegazioni filosofiche al concetto dogmatico della giustizia divina che giustifica le azioni in vita.
Nella rubrica ˂˂C’è romanticismo dopo i quaranta?>>, dove al Qaeda suggerisce alla sposa jihadista di alimentare costantemente il rapporto di coppia ˂˂poiché senza acqua anche il fiore più bello appassisce>>. Sembrano frasi innocue, ma l’utilizzo dei pronomi è essenziale per conferire il grado di appartenenza ed importanza nella scala gerarchica familiare. E’ il concetto del paradiso sulla terra, espresso fin dal primo numero di Beituki e costantemente riproposto seppur con diverse sfumature.
Nella rubrica ˂˂Idee e consigli>>, al Qaeda suggerisce, addirittura, alla sposa jihadista di viziare il proprio santo guerriero: ˂˂Il miglior modo per salutare il proprio santo guerriero? Una cioccolata>>.
Sembrerebbe una rivista che valorizza il ruolo della donna all’interno del network ma il vero significato della rivista, al di là dei temi affrontati, è un altro. Beituki, diventa uno strumento per la propaganda interna (non è tradotto in inglese) strutturato sulla visione conservatrice che al Qaeda ha sulla donna.
Il fine è evidente: identificare la lettrice ed istruirla non dando consigli per la sua affermazione ed il suo benessere ma per la causa che sta sposando. La donna è al servizio della causa jihadista: servire il marito, accudire i figli ed abituarli alla purezza del suono. La centralità della sua posizione non deve trarre in inganno: è un subdolo riferimento al suo ruolo confinato tra mura, figli e marito.
Anche negli ultimi numeri della rivista di Rumiyah, gli autori dedicarono ampio spazio alle donne ma con lo scopo di ricordare ad esse quella benedizione ricevuta nel vivere e crescere all’interno dello Stato islamico. Qui l’Isis, a differenza di al- Qaeda, si rivolge alla donna anche con toni molto forti creando paure e timori per coloro che tradiscono la causa e offendono Dio. Si fa un vero e proprio monito al nucleo familiare e di riflesso anche alle donne. Nessuno può abbandonare la strada rivelata ed imposta da Dio.
Cap. 4 – IL TERRORISMO SUICIDA E LA RADICALIZZAZIONE JIHADISTA. FOREINGH FITHERS, HOMEGROWN E LONE WOLF
Il suicidio come arma politica e militare è molto più antico rispetto alla più recente tecnica del cosiddetto “terrorismo suicida”.
Per quasi tre decenni i movimenti di liberazione della minoranza indù Tamil, si sono scontrati con le forze del governo. Il più forte e spietato tra questi gruppi, le Tigri Tamil, ha fatto largo uso di attacchi suicidi, compreso un attacco contro la capitale Colombo effettuato con aerei imbottiti di esplosivo, simile all’attentato dell’11 settembre 2001.
Dai trecento spartani che si sacrificarono per fermare l’esercito persiano alle Termopili, fino ai 47 ronin della tradizione giapponese, tutte le culture e tutte le epoche ebbero figure più o meno leggendarie che si immolarono per una causa superiore. Comprese quelle religiose.
Nell’antica Palestina, i sicarii, una fazione di ebrei estremisti, si opponevano alla dominazione romana uccidendo i funzionari imperiali e gli ebrei che consideravano loro collaboratori, attaccandoli in pieno giorno e spesso finendo uccisi insieme a loro.
La stessa tattica suicida venne usata nel Medioevo dalla setta sciita degli Assassini, che compì una serie di spettacolari omicidi di leader cristiani e musulmani in tutto il Medio Oriente, compreso l’assassinio in pieno giorno del re cristiano di Gerusalemme, Corrado di Monferrato.
Nell’epoca moderna il primo vero e proprio attacco terroristico suicida risale al 1881, quando lo zar Alessandro II fu assassinato da un anarchico rimasto ucciso dalla stessa bomba che aveva lanciato contro la carrozza dell’imperatore. Gli attacchi anarchici contro monarchi e ministri erano abbastanza frequenti alla fine del secolo e quasi tutti erano anche missioni suicide.
La tradizione cristiana è piena di figure di martiri e, anche se in genere si trattava di autoimmolazione di chi sceglieva di farsi uccidere piuttosto che rinnegare la fede, non mancano curiose eccezioni, come la setta dei Circoncellioni del Quarto e Quinto secolo, i cui membri cercavano il martirio attaccando quelli che ritenevano nemici della fede.
Le numerose guerre di liberazione in Africa, le guerriglie in Sudamerica e i conflitti in Asia Orientale produssero un ridottissimo numero di attacchi di questo tipo (con alcune eccezioni, come l’assalto all’ambasciata americana di Saigon, in Vietnam, nel 1968). L’utilizzo del suicidio come arma ricomparve per la prima volta negli anni Ottanta, durante la lunga guerra civile libanese, un complicato conflitto che vide contrapporsi numerose fazioni politiche locali e l’intervento di diverse potenze straniere.
Nel dicembre del 1981 si verificò il primo attacco suicida nelle modalità che oggi associamo a questo termine: un militante di un gruppo estremista sciita guidò la sua automobile carica di esplosivo fino a sotto l’ambasciata irachena nella capitale Beirut e si fece esplodere. Morirono 61 persone e altre 110 furono ferite. Due anni dopo, il Libano entrò definitivamente nella storia del terrorismo suicida quando militanti sciiti attaccarono con autobombe l’ambasciata americana di Beirut e poi una caserma dei marines. Morirono 241 militari americani e 58 francesi in quello che è ancora oggi il giorno più sanguinoso per le forze armate americane dalla fine della Seconda guerra mondiale.
Il successo e la diffusione dell’attacco suicida si deve soprattutto a due fattori. Il primo, rende più semplice la pianificazione poiché non è necessario trovare vie di fuga per chi porta avanti l’attacco, e contemporaneamente si possono avere maggiori probabilità di successo, in quanto essendo lui stesso ad immolarsi può spostarsi e quindi cambiare la rotta in qualsiasi momento. Il secondo fattore è più di tipo psicologico, ovvero le tattiche suicide destabilizzano persone ed interi paesi mostrando che, anche le forze più deboli possono essere, in un momento quasi imprevedibile, più forti.
L’attacco suicida, pertanto, è «efficace ed economico» e trasforma l’attaccante in una «perfetta bomba intelligente», ha scritto Bruce Hoffman, docente alla George Town University, in un interessante articolo per il settimanale The Atlantic pubblicato nel 2003, e gli effetti psicologici di questi attacchi «lacerano il tessuto che tiene unita una società».
Sono l’arma perfetta in situazione di conflitto asimmetrico, quando una delle fazioni è sproporzionatamente più forte e la più debole è sufficientemente determinata. Queste caratteristiche, scrisse Hoffman, rendono gli attacchi suicidi universali in ogni epoca e luogo, dall’Iraq alla Siria, dalla Turchia a Israele, dalla Cecenia allo Sri Lanka.
Dagli anni Duemila in poi, il numero di attacchi suicidi compiuto ogni anno è aumentato di sei volte[59], raggiungendo punte di oltre seicento attacchi l’anno. Più di tre quarti di questi attacchi si sono verificati in Afghanistan, Pakistan ed Iraq.
Il numero degli attacchi fluttua con l’andamento dei conflitti in quelle regioni e una buona notizia è che ha mostrato una rapida diminuzione quando si verifica un parziale ritorno all’ordine, come nel periodo 2007-2010 in Iraq.
Con la sconfitta delle Tigri Tamil nel 2009, negli ultimi anni il terrorismo suicida è di fatto diventato una prerogativa esclusiva dei gruppi fondamentalisti islamici.
Pertanto, non vi è ombra di dubbio che tra le diverse forme assunte dalla strategia del terrorismo, quella degli attacchi suicidi è di particolare rilevanza, oltre che di enorme preoccupazione.
Gli attentati suicidi rappresentano oggi un’arma molto potente legata alla diffusine semplice e capillare in molte aree del mondo.
Per attacco suicida si intende ˂˂un atto di violenza politica organizzata in cui l’esecutore della violenza sacrifica la propria vita in maniera intenzionale e premeditata>>[60].
L’attacco suicida associa volontà di morire alla volontà di uccidere ma, mentre la morte dell’attentatore è necessaria per l’attacco suicida, la morte delle vittime è un fatto contingente che può verificarsi nel caso in cui l’attentato riesce, oppure non può verificarsi nel caso in cui l’attentato non miete vittime a cui è destinato l’atto. L’obiettivo è in sintesi: morire per uccidere.
Il metodo degli attacchi suicidi è di facile adozione in quanto non prevede consistenti ostacoli di natura economica in quanto l’utilizzo di questa forma di violenza non richiede spese ingenti.
Invece possono essere salienti gli ostacoli di carattere organizzativo. Per utilizzare il metodo degli attacchi suicidi si deve necessariamente avere una capacità e delle risorse organizzative non trascurabili in termini di elaborazione strategica e dimensioni organizzative. Per attivare questa tipologia di attacchi ci vogliono persone che sposano la causa, indi per cui è necessario porre particolare attenzione alla motivazione e all’indottrinamento degli aspiranti “martiri” destinati a sacrificare in modo del tutto volontari la propria vita in una missione di non ritorno.
Possiamo affermare, sicuramente, che l’attacco suicida è un metodo efficace ed efficiente sia per la funzione materiale che svolge, intesa come atto a provocare danni immediati all’interno di una determinata comunità; sia per la funzione simbolica che ricopre in termini di spettacolarizzazione del terrore.
In riferimento alla funzione materiale, non vi è ombra di dubbio che gli attacchi suicidi riescono a colpire anche quei Paesi che adottano misure di sicurezza elevate. L’attacco alle Torri Gemelle del 2001 non sarebbe stato possibile senza il ricorso al sacrificio da parte dei diciannove attentatori.
Sul piano simbolico, gli attacchi suicidi attirano l’attenzione: spettacolarizzazione del terrore. I terroristi, infatti, per dirla con le parole dello studioso Brian Jenkins, ˂˂non vogliono che molti muoiano, ma che molti guardino>>. Attraverso all’attenzione che tutto il mondo rivolge agli attentati, viene legittimata la causa.
L’attacco violento richiede solitamente la partecipazione attiva di tre soggetti: l’attentatore suicida che decide di emularsi per la causa alla luce di differenti motivazioni (non necessariamente politiche), un’organizzazione terroristica che utilizza il sacrificio per raggiungere i propri obiettivi e la comunità (anche quella virtuale) che riconosce, come metodi legittimi, gli attentati nella forma del martirio.
La maggior parte degli studiosi degli attacchi suicidi, propongono l’identificazione di tale fenomeno su tre livelli: quello individuale, quello organizzativo e quello ambientale cui corrispondono rispettivamente l’attentatore suicida, il gruppo armato e la comunità di sostegno virtuale.
Per quanto riguarda il livello individuale, ebbene porre l’attenzione sul profilo psicologico, sui caratteri scio-demografici ed economici e sulle motivazioni individuali.
Rispetto al profilo psicologico, possiamo affermare che la ricerca della propria identità ed il bisogno di appartenere ad una cultura, provoca disagi psicologici seppur si tratta di persone assolutamente “normali”.
Per usare le parole di Martha Crenshaw «la straordinaria caratteristica comune dei terroristi è la loro normalità».
I caratteri socio-demografici ed economici degli attentatori suicidi sono classificabili in età e stato civile, sesso e status economico e grado di istruzione. L’età anagrafica registra una netta prevalenza di giovani tra i 8 e i 30 anni. Nel complesso, la grande maggioranza degli attentatori suicidi è di genere maschile. In molti paesi islamici, come in Palestina, il “martirio” femminile è un fenomeno recente e ancora minoritario, invece in paese come la Turchia con il PKK e lo Sri Lanka con le LTTE, ed anche in alcuni contesti dove la violenza non è priva di ispirazioni religiose, come in Cecenia, il ricorso alle donne è molto frequente: si pensi, in particolare, al caso delle “vedove nere” cecene[61].
Tutte le statistiche dicono che i 20 milioni di musulmani che vivono in Europa, in media, hanno un grado di istruzione, un livello di reddito, un tasso di partecipazione politica più bassi e quindi condizioni socio-economiche inferiori alla media generale, ma ciò non provoca il fenomeno della radicalizzazione. Se pensiamo che nelle banlieu di Parigi (caratterizzate da disoccupazione, emarginazione, mancanza di prospettive, razzismo, islamofobia, paura), da questa emarginazione e frustrazione possano nascere i jihadisti, dobbiamo tenere presente che in alcuni casi può succedere ma non sempre. Molti jihadisti radicalizzati non sono affatto poveri, non hanno bassi livelli di istruzione (uno degli attentatori di Madrid del 2004 aveva fatto il dottorato di ricerca). Numerose ricerche, nelle Scienze sociali e politiche, hanno mostrato invece che ci sono anche attentatori che appartengono alle classi medie ed hanno elevati livelli di istruzione, oltre al fatto che godono di una condizione economica soddisfacente. Si pensi al ragazzo chiamato “l’attentatore delle mutande”[62] sul volo di Natale del 2009, il nigeriano Abdul Faruk Abdulmutallab che, come ha detto agli inquirenti, aveva ricevuto da Al Qaeda un paio di mutande dove erano stati cuciti sia un pacchetto di polvere esplosiva, sia la siringa contenente un liquido da usare come detonatore. Ecco, si tratta del figlio di una delle famiglie più ricche della Nigeria. Così come Abaaoud, la mente degli attacchi di Parigi, proveniva da una famiglia di imprenditori e aveva frequentato scuole private. Diversamente, i fautori degli attacchi di Parigi e Bruxelles sono dei ragazzi di Molenbeek che vivono in un contesto economico disagiato e che hanno un livello culturale basso.
Pertanto, il disagio psicologico è comune a tanti giovani, a prescindere da una serie indicatori socio-economici. Il loro malessere, li spinge ad una ˂˂ricerca di appartenenza ad una cultura, per loro che non sono pienamente occidentali ma neanche pienamente musulmani e da entrambe queste società non si sentono completamente accettati, ad entrambi non sentono di appartenere>>[63].
Diviene necessario, a mio avviso, parlare dell’identità e della sua formazione all’interno dei contesti in cui gli attentatori vivono, riflettendo sul senso di appartenenza che diventa una ricerca perenne che si risolve con il processo di radicalizzazione.
L’identità non è qualcosa di “innato” ma è un costrutto che viene rivendicato, nascosto o mutato in base agli avvenimenti storici, politici e sociali.
Non è nemmeno un’essenza monolitica ma è costituita, come dice Amin Maalouf, da una moltitudine di elementi, come: l’appartenenza religiosa, politica, nazionale, etnica, professionale, istituzionale ecc[64]. L’identità è formata da più elementi e non bisogna scegliere a quale elemento appartenere poiché si deve essere l’unione di questi.
Questo concetto è ancora poco consolidato e Maalouf fa un esempio esplicativo:
«Un giovane nato in Francia da genitori algerini porta in sé due appartenenze evidenti, e dovrebbe essere in grado di assumerle entrambe. Ho detto due per chiarezza del discorso, ma le componenti della sua personalità sono assai più numerose. Che si tratti della lingua, delle credenze, del modo di vita, delle relazioni famigliari, dei gusti artistici o culinari, le influenze francesi, europee, occidentali si mescolano in lui a influenze arabe, berbere, africane, musulmane un’esperienza arricchente e feconda se il giovane si sentisse libero di viverla pienamente, se si sentisse incoraggiato ad assumere tutta la propria diversità; al contrario il suo percorso può risultare traumatizzante se, ogni volta che si dichiara francese, certuni lo considerano come un traditore, addirittura come un rinnegato, e se, ogni volta che afferma i suoi legami con l’Algeria, la sua storia, la sua cultura, la sua religione, si trova esposto all’incomprensione, alla diffidenza o all’ostilità».
Quando ci si sente smarriti, quando non si riesce ad avere una identità o quando si è costretti a rinunciare ad uno degli elementi che costituiscono la vera identità, il rischio in cui può incorrere un individuo è il radicamento degli atteggiamenti settari, intolleranti, dominanti e suicidi, fino ad arrivare alla trasformazione in terroristi o sostenitore di questi.
Pertanto, le motivazioni che spingono gli attentatori suicidi ad emularsi per la causa sono tante e differenti. A tal proposito è possibile individuare tre tipologie di motivazioni individuali, seguendo la classica tipologia dell’agire sociale di Max Weber[65]: gli interessi personali; i valori; egli affetti e gli stati d’animo.
Sembra essere molto strano pensare che una persona possa sacrificare la propria vita per un interesse personale, eppure questo ipotetico “interesse” gioca un ruolo strategico nella radicalizzazione di giovani attentatori suicidi. Mi viene in mente la storia, ascoltata personalmente a Pozzallo, di un giovane maliano fuggito dalla sua terra dopo essere stato contattato da un gruppo di jihadisti che volevano farlo arruolare alla loro causa. Il ragazzo è un omosessuale, indi per cui gli è stata promessa una sorta di “riscatto” e un sicuro “perdono” rispetto ad un codice culturale che, secondo loro, aveva tradito. Di questi casi ce ne saranno tantissimi. Che siano omosessuali, prostitute, trasgressori dell’Islam o di altre leggi interpretate.
Così come i ragazzi di origine marocchina del quartiere di Molenbeek, di cui abbiamo parlato prima, che sono nati e cresciuti a Bruxelles, quindi in Europa, ma non hanno la possibilità di beneficiare di tutte le opportunità che i loro coetanei europei hanno a disposizione. Sono musulmani nati in Europa ma non si sentono di appartenere né a questa Europa, né ai paesi originari dei loro genitori[66].
La condizione di vulnerabilità, pertanto, è strettamente legata al grado di radicalizzazione di un individuo. In questi casi, quale sarebbe quindi l’interesse personale? Ovviamente il fatto stesso di essere perdonato o salvato dalla sua colpa, oppure la ricerca della propria appartenenza.
D’altra parte, in riferimento ad un altro tipo di interesse personale, la partecipazione all’attacco suicida assicura alla famiglia del “martire” un sostegno materiale da parte dell’organizzazione responsabile dell’attacco, attraverso appositi fondi provenienti da donatori esteri.
Il tema sui valori è molto vasto. Il cosiddetto attentatore, agisce in base alla sua convinzione sull’importanza della causa superiore che lo spinge ad emularsi.
Tra i tanti valori, è opportuno soffermarsi sulla fede religiosa. Quella della fede, è una motivazione che spinge un individuo a diventare un attentatore suicida per un alto dovere morale al servizio della religione. Un atto di “martirio” che viene premiato con la salvezza eterna e con i piaceri del paradiso islamico.
Ad ogni modo, la morte a beneficio di una causa o in nome di Dio ˂˂implica una forma di razionalità, sebbene diversa da quella strumentale. Si tratta di quella che Weber chiamava la razionalità rispetto al valore, connessa alla «credenza consapevole nell’incondizionato valore in sé – etico, estetico, religioso, o altrimenti interpretabile – di un determinato comportamento in quanto tale, prescindendo dalla sua conseguenza>>[67].
Gli affetti, gli stati d’animo e le emozioni possono assumere un ruolo importante nel processo di radicalizzazione degli attentatori.
Di particolare rilevanza sono i sentimenti di vergogna, di umiliazione, di colpa, di frustrazione, di vendetta che non rappresentano una “anormalità” dell’individuo ma semplicemente un disagio emotivo e psicologico strettamente collegato all’interesse personale. Il senso di umiliazione è, ad esempio, un disagio che un individuo prova quando sente offese e lese la sua personalità e la sua dignità. In Pakistan a suscitare umiliazione potrebbero essere stati i droni statunitensi a favorire il reclutamento di attentatori suicidi da parte dei talebani e di al Qaeda.
Anche la frustrazione, quindi il mancato appagamento rispetto ad un bisogno o ad una aspettativa, può portare l’individuo ad una insoddisfazione tale che può provocare l’insorgenza di fenomeni violenti e quindi l’esigenza di applicarli sposando una causa volta a raggiungere l’obiettivo.
La vendetta, inoltre, secondo studi specifici è un sentiment che spinge l’individuo a realizzare un attacco suicida per ricambiare un danno e/o un torto subito personalmente e/o inflitto ad un membro della sua famiglia o della comunità a cui appartiene.
Pertanto, per descrivere il significato di radicalizzazione utilizzerò la definizione data da Farhad Khosrokhavar:
«Il termine radicalizzazione, usato correttamente nelle scienze sociali negli studi su violenza politica e terrorismo, descrive il processo mediante il quale un individuo o un gruppo mettono in atto forme violente d’azione legate a un’ideologia estremista di contenuto politico, sociale o religioso. […] Gli studi sulla radicalizzazione, almeno nelle declinazioni più attente alla dimensione sociologica, psicologica, antropologica, cercano, di mettere in risalto le dimensioni soggettive, identitarie e psicologiche che conducono a quel tipo di militanza. Nell’intento di giungere a quella comprensione dell’atteggiamento e delle motivazioni degli individui che aderiscono a un’ideologia, e a un gruppo, che legittimano e praticano la violenza. In questo approccio, il concetto di radicalizzazione diventa una chiave per la comprensione dei mutamenti che avvengono nella società. Perché ci sia radicalizzazione occorre che una serie di fatti e fenomeni sociale legati tra loro, o interpretati come tali, produca un mutamento che investe progressivamente l’individuo. La radicalizzazione ha carattere processuale: non si manifesta improvvisamente. Se non agli sguardi di quanti colgono il fenomeno quando i suoi effetti sono già irreversibili. Il percorso che conduce a quell’esito apparentemente improvviso avviene in tempi lunghi. Perché ha a che fare con le motivazioni profonde dell’individuo, che si innescano quando questi incrocia particolari avvenimenti storici. La radicalizzazione avviene quando una traiettoria personale interagisce con un ambiente favorevole e una particolare contingenza storico-politica>>[68].
Uno dei grandi problemi dell’epoca moderna risiede nel tema dello sradicamento, delle radici perdute, sia per effetto delle emigrazioni, sia per le cause intrinseche alla globalizzazione, che spingono l’uomo alla ricerca di queste. Dunque la radicalizzazione è un prodotto della globalizzazione.
Il forte impatto della radicalizzazione islamica non lo si deve solo ai media ma anche al fascino che caratterizza l’azione del martirio.
Il radicalismo islamico rifiuta la cultura europea e utilizza come collante la religione islamica che tiene unite persone con storie ed origini diverse, ma con una sola convinzione ovvero: che tutti i nemici sono da ricollocarsi nell’occidente e attraverso l’impegno nel radicalizzarsi la loro vita acquisterà un senso.
L’attenzione che viene posta, da molti studiosi, sulle seconde generazioni che cambiano il modo di percepire l’immigrazione e l’emigrato; con esse si propongono problemi relativi al degrado e al funzionamento, o meno, delle politiche di assimilazione.
Maurizio Ambrosini, in Italiani col trattino: figli dell’immigrazione in cerca di identità, afferma che ˂˂le seconde generazioni sono più ingombranti delle prime>>[69] e per coglierne il motivo bisogna studiarle separandole dai problemi che hanno caratterizzato la prima immigrazione, tenendo però ben presente che il loro futuro dipende da come i loro genitori sono entrati nella società ospitante, dalle difficoltà riscontrate nel loro percorso migratorio. La ricerca dell’identità è una tappa fondamentale per i figli degli emigrati. Il passaggio dall’adolescenza all’età adulta è una fase complessa per tutti, ma soprattutto per quest’ultimi, infatti l’opposizione tra il desiderio di autonomia e indipendenza e quello di vicinanza alla propria famiglia, tipico di questa fase della vita, diviene maggiormente difficile per le seconde generazioni per via del “trapasso culturale”. Questa ricerca costante di una identità, può far nascere certamente delle “dissonanze” a livello individuale tra aspettative, quadri cognitivi e risorse e, a livello aggregato, possono produrre disagio e tensioni sociali.
Il primo ambito di dissonanza, quello più tangibile, è relativo al mercato del lavoro e viene definita “dissonanza occupazionale”. In essa si manifesta in tutta la sua forza lo squilibrio tra aspettative e possibilità reali dei figli dei migranti rispetto agli autoctoni, infatti nei paesi europei i livelli di disoccupazione delle seconde generazione sono elevati, e questo ci da conferma di tale dissonanza.
Un ulteriore dissonanza è quella “generazionale”, relativa alle relazioni famigliari dalle quali possono sorgere conflitti intergenerazionali. Questi conflitti nascono dall’equilibrio, talvolta precario, che si è venuto ad istaurare all’interno delle famiglie immigrate una volta stabilitesi nel paese ospite dopo aver abbandonato il loro paese d’origine e cercando di ricreare il nucleo famigliare, ma i giovani sono spesso chiamati ad elaborare e metabolizzare forme di conciliazione o di reciprocità tra culture, valori e costumi molto spesso differenti. Questo provoca una sorta di “rovesciamento dei ruoli”, dove i figli attraverso la conoscenza linguistica assumono maggiori responsabilità all’interno della società ospitante rispetto ai loro coetanei autoctoni in quanto sono loro ad accompagnare i genitori a fare le commissioni, dal medico ecc. tutto questo può indebolire l’immagine dei genitori.
A livello politico-civile si trova un’altra dissonanza che riguarda la cittadinanza, che ancora oggi è fonte di forti discussioni e non viene goduta a pieno. La nascita delle seconde generazioni all’interno delle comunità emigrate, come afferma Ambrosini, rappresenta la presa di consapevolezza del proprio status di minoranza ormai appartenente ad un contesto sociale diverso. Sorge dunque l’esigenza di definire e
trasmettere il patrimonio culturale e di ripensare ai modelli di educazione famigliare, che imbattendosi in una nuova realtà, assumono sfumature nuove, differenti e questo crea conflitto interno e spesso una scarsa comprensione.
Per quanto riguarda il livello ambientale (o sociale) si fa riferimento alle condizioni storiche, politiche, sociali, culturali, religiose, economiche che consentono il perpetrare la violenza tramite attacchi suicidi, con particolare riferimento al ruolo della comunità di sostegno virtuale cui appartengono l’attentatore suicida e l’organizzazione violenta.
Sono tanti gli studi che hanno indagato le condizioni culturali e religiose degli attacchi suicidi, sottolineando l’importanza di una vera e propria «cultura del martirio», costituita da una rete di presunti elementi del passato (codici di onore, riti, miti), talvolta di origine religiosa, che vengono rielaborati e adattati, fornendo modelli per l’emulazione e l’ispirazione, in combinazione con tecniche moderne tipiche del terrorismo “fai da te”.
˂˂Nell’Islam le origini culturali degli attacchi suicidi contemporanei possono essere collegate alla recente re-interpretazione in senso politico della nozione religiosa di martirio nel mondo sciita; questa nozione si è poi trasferita nel mondo sunnita, saldandosi ad una visione estremista del concetto di jihad. La pratica dell’attacco suicida viene definita socialmente come una forma di “martirio” (shahada) o, più propriamente, di “auto-martirio” (istishad), massimamente onorevole e (secondo questa interpretazione radicale) conforme alla tradizione islamica, in contrapposizione al comune suicidio (intihar), massimamente riprovevole, proibito dall’Islam e punito con la dannazione eterna>>[70].
Le condizioni ambientali fanno capo, pertanto, alla comunità di sostegno virtuale di cui le organizzazioni responsabili degli attacchi suicidi pretendono di rappresentarne gli interessi.
C’è da dire, però, che né gli attentatori suicidi né i gruppi e le cellule responsabili della violenza suicida del modello transnazionale, mantengono legami stretti con una singola società di riferimento. Tale modello si caratterizza infatti per l’assenza di una comunità di sostegno intesa in senso tradizionale, riunita fisicamente in una determinata area geografica. Attentatori e gruppi della galassia jihadista sono costantemente in contatto tra loro attraverso i mezzi di comunicazione moderni. In questo senso, l’atto di sacrificare la propria vita per uccidere altre persone in nome di una causa superiore, viene considerato dall’intera comunità come un atto onorevole e addirittura doveroso nei confronti di tutta la comunità.
Alla base della cultura del martirio vi è, come afferma Hoffman, un «senso invertito della realtà»: la violenza, anche nella forma estrema degli attacchi suicidi contro civili, diventa uno strumento lecito ed addirittura meritorio per perseguire le proprie rivendicazioni.
La cultura del martirio, quindi, è il prodotto di articolati processi di socializzazione che coinvolgono le principali agenzie di socializzazione della società, dalla famiglia, alla scuola, alle associazioni religiose. Come dimostra il caso del fondamentalismo islamista, l’ideologia e la simbologia religiosa sono particolarmente adatte alla costituzione di una cultura del martirio perché includono l’idea di un sacrificio richiesto dalla divinità con conseguente ricompensa nell’aldilà.
Il livello organizzativo interessa le organizzazioni che ricorrono alla tattica degli attacchi suicidi.
L’intervento di organizzazioni formali si riduce con la proliferazione di piccole cellule debolmente connesse tra loro, accomunate dalla lotta per una causa di portata transnazionale che mira ad obiettivi finali ambiziosi ed elusivi in una commistione dichiarata di aspirazione politica e visione religiosa.
Le singole comunità di sostegno fisicamente aggregate in aree geografiche delimitate vengono infine sempre più sostituite da una comunità virtuale basata sull’accesso a internet e alle emittenti televisive che richiama l’ideale della umma musulmana.
Le recenti analisi sulla radicalizzazione si basano su elementi salienti rispetto, appunto, alla modalità di azione violenta in cui sono diventati comuni fenomeni come il martirio, dimostrando che non si è più in presenza solo di una rete organizzativa e centralizzata più o meno estesa, ma di un sistema in grado di attivare iniziative singole incentivate da una forte propaganda in favore della radicalizzazione che ha nel web (e nelle carceri), più che nelle moschee, il principale canale di diffusione. In questo modo, il fenomeno terroristico odierno diventa un nemico ancora più difficile da sconfiggere, sempre più imprevedibile e potenzialmente presente ovunque.
Radicalismo, radicalizzazione, coinvolgimento nel terrorismo sembrano, dunque, rimandare a una serie di processi diversi. Avere idee radicali e abbracciare ideologicamente una causa non significa impegnarsi concretamente in atti terroristici. ˂˂Possiamo dire, pertanto, che mentre è corretto dire che tutti i terroristi che abbracciano il terrorismo fai da te jihadista sono giovani estremisti che si sono radicalizzati, non tutti i radicalizzati sono dei terroristi>>[71].
La scelta terroristica dunque verrebbe a configurarsi non come una condizione ma come un processo. Infatti, come afferma Borum, dato che ogni percorso è diverso e influenzato da molteplici fattori, la radicalizzazione non deve essere considerata come «il prodotto di una singola decisione, ma il risultato finale di un processo dialettico che spinge progressivamente un individuo verso un impegno alla violenza nel tempo».
Il processo di radicalizzazione è fortemente legato ai foreign fighter e agli homegrown terrorist che si convincono che il sacrificio della propria vita è utile per purificare la loro vita. ˂˂E non si ha paura di morire se ti convincono che Dio ti ha prescelto per la causa, se ti convincono che Dio ti sta aspettando, se ti convincono che obbedendo e sacrificando la tua vita sarai libero e vincente>>[72].
Se da una parte c’è la volontà di uccidere, dall’altra parte la volontà di morire per la causa.
Le organizzazioni jihadiste sfruttano le azioni dei foreign fighter e degli homegrown che agiscono in branco, a volte direttamente manovrati da AQ e ISIS, altre volte agiscono ispirandosi ai due network ma senza specifico contatto diretto.
L’azione dei foreign fighters, i combattenti che lasciano i loro paesi di origine per unirsi a gruppi armati in teatri di crisi come la Siria, l’Iraq e la Libia attratti dall’idea di far parte del Jihad abbracciandone ideologie e metodi di combattimento a promessa di una vita migliore in uno Stato che promette giustizia sociale e benessere, è il pericolo più temuto del nostro tempo[73].
La minaccia dei foreign fighters può essere considerata ancora più grave nel momento in cui l’esperienza territoriale del sedicente Califfato dello Stato islamico appare più fragile dopo i colpi subiti e a seguito della recente uccisione del suo leader.
Detto ciò, è necessario sottolineare che tale fenomeno non è un fatto inedito se si considera che questi “combattenti”, anche di ispirazione jihadista, si sono spostati in zone come l’Afghanistan, la Bosnia e l’Iraq e se si pensa alla mobilitazione dei mujaheddin verso la Siria e l’Iraq: 60.000 combattenti provenienti da 110 paesi.
I foreign fighters sono terroristi “fai da te” perché ˂˂si sono autonomamente radicalizzati in internet prima di decidere di partire per il fronte e poi al ritorno decidono, in modo più o meno autonomo, quando e dove devono colpire>>[74].
Probabilmente i foreign fighters trovano nell’Isis un’ideologia forte, un motivo per cui combattere, nonché la prospettiva di una nuova vita in cui possano affermarsi anche dal punto di vista personale. Esemplare è la storia del primo ragazzo statunitense morto combattendo per lo Stato Islamico: Douglas Mc Arthur McCain, un ragazzo americano che a vent’anni si converte all’Islam e al Jihadismo per ingrossare le fila dei combattenti islamici e per poi morire in nome del suo nuovo ideale.
I foreign fighters, infatti, si identificano con la Jihad, spesso per dare un senso alla propria esistenza: dall’Europa (e non solo) partono per l’addestramento in Medio Oriente per poi far ritorno e, spesso, colpire il mondo dal quale provengono.
Il timore, infatti, è quello ˂˂dell’effetto blowback>>[75], ovvero del ritorno di questi soggetti nel loro paese, forti dalla loro esperienza e dei loro contatti acquisti in territorio di crisi, per organizzare attacchi terroristici. Esattamente come è accaduto nel caso della cellula di Parigi e Bruxeles, in merito agli attentati del 13 novembre 2015 e del 22 marzo 2016 che comprendeva diversi ex foreign fighters tra gli autori.
Sono circa 60.000 i foreign fighter che da tutto il mondo (110 paesi) si sono recati in Siria e Iraq per unirsi allo Stato Islamico e/o ad altre formazioni jihadiste. Recenti stime[76] indicano come il 30% del contingente europeo sia tornato nel proprio paese di residenza.
Per tale motivo, il rientro dei foreign fighters jihadisti dalle aree di conflitto diventa un problema di rilevanza internazionale soprattutto dopo il crollo dello Stato islamico in Siria e Iraq e dopo l’uccisione del suo leader.
Un rischio che si teme molto, infatti, è quello dei veterani jihadisti, tra i foreign fighters, che possano diventare jihadi entrempreneurs[77], ovvero imprenditori del jihad, attorno alla quale si possono avvicinare nuove leve.
Rispetto a tale pericolo, è doveroso porre l’attenzione sui rimpatri dei “propri” combattenti e quindi all’intercettazione degli stessi.
Recentemente il Presidente statunitense Donald Trump ha riportato l’attenzione sul tema, gli Stati europei a rimpatriare i “propri” combattenti catturati in Siria dalle forze a maggioranza curda, alleate degli Stati Uniti.
La questione riguarda ovviamente anche l’Italia. Secondo gli ultimi dati ufficiali, i combattenti stranieri legati a vario titolo al nostro Paese, e per questo monitorati dalle autorità nazionali, sono 138. Un numero decisamente inferiore rispetto a quelli partiti dalla Francia (circa 1.900 individui), dal Regno Unito e la Germania (poco meno di mille ciascuno) e dal Belgio (circa 500). Oltretutto, soltanto 25 di questi 138 soggetti hanno la cittadinanza italiana. Inoltre, almeno 48 di questi “combattenti” legati all’Italia hanno già perso la vita nell’area del conflitto e 26 sono rientrati in Europa (non necessariamente in Italia); di quasi la metà si sta provando a ricostruire la “sorte”.
Il data base degli individui analizzati da Francesco Marone e Lorenzo Vidino nel report pubblicato nel libro ˂˂Destinazione jihad. I Foreign Fighters d’Italia>>, riferisce che molti di questi “combattenti” sono andati nei teatri di crisi per unirsi a formazione estremiste come l’ISIS, il Jabhat al-Nusra e altri gruppi jihadisti. Dal complesso di questa analisi emerge che questi “combattenti” non sono solo immigrati di prima generazione nati e cresciuti all’estero ma anche autoctoni (homegrown), ovvero immigrati d seconda generazione di origine italiana (19,2 %).
Interessante è anche lo spunto di riflessione che il report ci fornisce: in termini di residenza emerge che questi “combattenti” provengono dalle regioni del nord e del centro e che la Regione di maggiore provenienza è la Lombardia; il 90,4% dei foreing fighters sono uomini; l’età media nel momento della partenza verso le aree di conflitto è di 30 anni ma risalta agli occhi la presenza di una donna di 16 anni.
In questo contesto, particolare attenzione merita il caso di Monsef El Mkhayar, giovane marocchino partito dalla provincia di Milano con un amico nel 2015. El Mkhayar, catturato due mesi fa dalle milizie a maggioranza curda delle SDF (Syrian Democratic Forces), ha chiesto di ritornare in Italia per iniziare “una nuova vita”, dicendosi deluso dal modo in cui l’idea del Califfato si sia effettivamente realizzata.
Il cosiddetto jihadismo homegrown è diventato una questione centrale nella lotta contro il terrorismo. Stiamo parlando di terrorismo dall’interno, di una forma di terrorismo commesso da individui imprevedibili.
Gli “homegrown” infatti sono terroristi che spesso sono immigrati di seconda o terza generazione che ricercano le proprie origini nell’estremismo ideologico e nel messaggio qaedista, difficili da identificare prima che passino all’azione. Si sono radicalizzati e addestrati, quindi, in Occidente senza andare all’estero ma scaricando manuali da internet o da altre fonti.
Sono per lo più di giovani, spinti da un senso di frustrazione e da una continua ricerca della propria identità in cui riconoscersi. Giovani divisi da due mondi, quello occidentale dove sono nati che non ha dato loro l’opportunità di integrarsi perfettamente e quello originario della loro famiglia che non conoscono e a cui non sentono di appartenere. Per questo si trasformano in ˂˂self made terrorist>> alla ricerca di un martirio volto a colpire, a casa sua, l’infedele che non li ha accettati per quello che sono e per quello che avrebbero voluto essere.
L’ efficienza degli attacchi per mano degli homegrown è molto forte perché abbiamo a che fare con gli individui all’ interno della società.
Gli attori dell’azione violenta hanno una straordinaria conoscenza della città, hanno una conoscenza estremamente profonda della città. Possono muoversi nello spazio perché non sono rilevabili. Muovendosi nello spazio, hanno più libertà di scegliere impunemente luoghi strategici. I luoghi di funzionamento rimangono lo spazio pubblico perché, invece di un atto isolato, l’atto di distruzione dello spazio pubblico è simbolicamente più importante. Che si tratti della metropolitana o di una piccola cittadina, l’obiettivo è quello di dimostrare la forza dell’atto di rivendicazione.
Ormai non si parla più di una struttura verticistica ma di un vero e proprio terrorismo spontaneo che genera imprevedibilità e difficoltà di intelligence per l’individuazione di cellule o di singoli che senza più collegamenti con gruppi strutturati entrano in azione anche in assenza di direttive a livello gerarchico.
Lone wolf è una espressione che indica qualcuno che agisce da solo (lupo solitario) o quantomeno in autonomia rispetto ad una organizzazione terroristica. E’ un terrorista fai da te che potrebbe essere sia un foreign fighters, sia un homegrown.
Le espressioni “homegrown terrorist”, “foreign fighters” e “lone wolf” non sono tra loro solo diverse ma agiscono su piani differenti[78]. Con le prime due esperessioni si indicano le modalità con le quali i giovani si sono radicalizzati ed addestrati, mentre, con l’ultima, si indica la modalità di azione che sarebbe quella che associamo ai cosiddetti “lupi solitari”.
Parlando di radicalizzazione come ricerca di identità, è importante approfondire il caso dei giovani marocchini in Belgio che abbiamo già citato. Si tratta della comunità da cui sono partiti il maggior numero di foreign fighters per il teatro siro-iracheno e per quello libico e rappresenta la più grande cellula che abbia mai colpito in Occidente.
- Gli attentati terroristici in Europa
A dare un’idea di quanto il fenomeno del terrorismo sia drammatico, e dove e quando sono stati compiuti questi attacchi, è il New York Time[79] che ha fornito sia una mappa che una timeline degli attentati avvenuti in Europa fino al 2017 e il report di Europol sul terrorismo “European Uninon, Terrorism, Situation and Trend Report 2019”[80].
Lo stato Islamico si conferma di gran lunga il gruppo terroristico maggiormente attivo nel mondo, grazie alla sua capacità di muoversi trasversalmente sui cinque diversi continenti: Asia, Africa, Europa, Nord America e Indonesia, sfruttando la straordinaria capacità di reclutamento della gioventù sunnita (e non solo), direttamente nei luoghi di origine.
Se Al- Nusra ha saputo muoversi, oltre che in Siria anche sul territorio turco, l’Isis è riuscita a colpire il cuore dell’Europa. Londra, Parigi, Bruxelles sono gli ultimi capitoli del terrorismo jihadista: attacchi spesso “fai-da-te”, condotti da soldati del Califfo “last minute”, arruolati online e non addestrati, ma che lo stesso amplificano la paura, anche quando non provocano vittime. E l’Italia, che non è stata finora colpita, anche per l’opera di prevenzione attenta delle forze dell’ordine, non si sente sicura.
Dal report di Europol, emerge che nel 2018 il terrorismo ha continuato a costituire una seria minaccia per gli Stati membri dell’Unione Europea uccidendo tredici persone e ferendone molte di più.
Il terrorismo quindi, continua a mietere vittime dividendo il mondo e diffondendo odio e paura nelle nostre società.
Tra le vittime del terrorismo nel 2018, il report di Europol, ricorda il tenente colonnello della Germanderia nazionale francese, Arnaud Beltrame, che ha perso la sua vita in un supermercato a Trèbes preso da assalto dai terroristi. Il poliziotto si offrì spontaneamente di sostituirsi ad un ostaggio, una donna, preso da un terrorista.
Dal report emerge, altresì, che nel 2018 si è registrata una diminuzione degli attacchi terroristici in Europa ma, tuttavia, le trame di attacchi terroristici fallite sono aumentate sostanzialmente. Da considerare che nel 2017 in soli dieci attacchi sono state uccise sessantadue persone.
Il livello della minaccia terroristica non è quindi diminuito, nonostante la sconfitta di IS e, per ultimo, l’uccisione del suo leader. All’interno della galassia jihadista attori multipli di motivazione e fedeltà stanno tramando da soli o in convergenza con altri.
Non dimentichiamo però, che il terrorismo agisce in un numero sempre più crescente di luoghi al di fuori dell’Europa. In paesi che sono paradisi sicuri per il terrorismo, la Siria, la Libia, il Mali, l’Afghanistan, lo Yemen, la popolazione civile è esposta a continue minacce e pericoli per la propria vita.
Pertanto, la sensazione di grande insicurezza che i terroristi infondono nelle nostre società deve essere analizzata e tenuta in considerazione, soprattutto alla luce del fatto che la propaganda dei network terroristici, oltre a diventare preda della voglia di riscatto di molti aspiranti che vivono nei teatri di crisi, ha raggiunto con estensioni senza precedenti anche il cuore dell’Europa.
Dopo l’11 settembre 2001, l’Europa è stata colpita più volte da sanguinosi attentati terroristici, tutti di matrice islamista. Ecco in breve l’elenco dei più significativi.
11 marzo 2004, Madrid (Spagna): una serie di bombe posizionate sui binari e sui treni regionali della capitale spagnola nelle stazioni metro di Atocha, El Pozo e Santa Eugenia uccidono 192 persone. L’attacco è rivendicato da Al Qaeda.
7 luglio 2005, Londra (Regno Unito): sono 52 i pendolari uccisi in 4 attentati suicidi che colpiscono tre diverse stazioni della metropolitana della capitale britannica sulle linee Circle e Piccadilly e un autobus che, partito da Marble Arch, si trovava a Tavistock Square. I feriti sono 700. Gli attacchi sono rivendicati da un gruppo legato ad Al Qaida.
2 novembre 2011. Gli uffici della redazione di Charlie Hebdo a Parigi sono distrutti da una bomba molotov dopo la pubblicazione di una vignetta satirica sul profeta Maometto, nessun ferito.
11-19 marzo 2012, Tolosa e Montauban (Francia): 7 morti, tra cui 3 militari e 3 bambini, 6 i feriti. Il terrorista franco-algerino Mohamed Merah uccide a tre riprese: prima un militare, poi altri due, e infine attacca una scuola ebraica. Viene ucciso dalle teste di cuoio francesi del Raid, asserragliato nel suo appartamento. Gli attacchi vengono rivendicati da un gruppo affiliato ad Al Qaeda.
22 maggio 2013, Londra (Regno Unito): due estremisti di Al Qaeda uccidono a colpi di machete un soldato di 24 anni reduce dell’Afghanistan nella capitale inglese.
24 maggio 2014, Bruxelles (Belgio): alla vigilia delle elezioni europee e legislative belghe, 4 persone sono uccise al Museo ebraico di Bruxelles per mano di un uomo armato di kalashnikov. L’accusato è Mehdi Nemmouche, un 32enne francese di origini algerine legato all’Isis.
7 gennaio 2015, Parigi (Francia): due uomini armati, i fratelli Kouachi, francesi di origine algerina, attaccano la redazione del settimanale satirico francese ‘Charlie Hebdo’ a Parigi, uccidendo 12 persone e ferendone altrettante. L’attentato è stato rivendicato da Al Qaeda , branca yemenita.
9 gennaio 2015, una poliziotta è uccisa appena fuori Parigi il giorno dopo da un altro uomo legato ai Kouachi, il francese di origine maliana Amédy Coulibaly, che successivamente prende alcuni ostaggi all’interno di un supermercato kosher, 4 dei quali moriranno prima del blitz delle forze di sicurezza. Il bilancio finale delle vittime è di 17 morti e 22 feriti.
14 febbraio 2015, Copenhagen (Danimarca): 2 vittime e 5 feriti, nel corso di tre diverse sparatorie. In un centro culturale dove si teneva un dibattito su Islam e libertà di espressione, viene prima ucciso il regista Finn Norgaard, poi l’attentatore, un 22enne palestinese-giordano nato in Danimarca e simpatizzante dell’Isis, si dà alla fuga per uccidere, nei pressi della Sinagoga grande nel centro della capitale danese, un giovane della comunità ebraica che festeggia una bar mitzvah. La polizia danese lo uccide in uno scontro a fuoco all’alba nei pressi della stazione Norrebro.
13 novembre 2015, Parigi (Francia): 130 morti (tra cui l’italiana Valeria Solesin) in attentati multipli in contemporanea, presso la sala concerti Bataclan, in diversi bar e ristoranti nel X e XI “arrondissement” parigini e allo Stade de France. La serie di attacchi terroristici sono sferrati da una cellula belgo-francese dell’Isis. All’alba del 18 novembre, le forze speciali assaltano a Saint-Denis un appartamento occupato da alcuni dei terroristi coinvolti nell’organizzazione degli attentati e in procinto di organizzare un nuovo attacco alla Défense. Cinque persone vengono arrestate, altri due restano uccise tra cui Abdelhamid Abaaoud, il presunto organizzatore. Il 18 marzo 2017, nel corso di un’operazione della polizia belga a Bruxelles, viene arrestato l’unico sopravvissuto della cellula di Parigi, Salah Abdeslam, francese di origine tunisina ma cresciuto a Molenbeek, uno dei presunti coordinatori operativi degli attacchi di Parigi e di Bruxelles.
22 marzo 2016, Bruxelles (Belgio): 32 morti (tra cui la belgo-italiana Patricia Rizzo) e 340 feriti a seguito dell’esplosione di due bombe all’aeroporto di Zaventem e una alla stazione della metropolitana di Maelbeek, nel cuore del quartiere europeo. Gli attentati sono rivendicati dall’Isis. A compiere la strage, una cellula legata a quella di Parigi, composta dai fratelli belgi di origine marocchina Ibrahim e Khalid El Bakhraoui, e da Najim Laachraoui, “l’artificiere” già intervenuto per gli attacchi di Parigi, anche lui giovane belga di origini marocchine. L’8 aprile viene arrestata la “mente” del gruppo, il cosiddetto “uomo col cappello”, Mohamed Abrini, ugualmente belga di origini marocchine e secondo uomo più ricercato, dopo Salah Abdeslam, per gli attentati di Parigi.
14 luglio 2016, Nizza (Francia): durante i festeggiamenti per la festa nazionale francese un camion si getta sulla folla lungo la Promenade des Anglais e provoca la morte di 86 persone (tra cui 6 italiani) ferendone altre 434. L’autista, il tunisino residente in Francia Mohamed Lahouaiej Bouhalel, viene bloccato e ucciso dalla polizia. Il 16 luglio l’Isis rivendica l’attentato.
26 luglio 2016, Rouen (Francia): presso la chiesa di Saint-Etienne-du-Rouvray, due uomini fanno irruzione durante la messa del mattino e prendono 5 ostaggi (tra cui 2 suore). Il sacerdote Jacques Hamel, 84 anni, muore sgozzato. Gli aggressori, entrambi cittadini francesi, vengono poi uccisi dalla polizia. L’Isis ha rivendicato l’attacco.
19 dicembre 2016, Berlino (Germania): un tir va a schiantarsi volontariamente contro la folla in un mercatino di Natale nel quartiere di Charlottenburg, vicino alla Chiesa del Ricordo, causando 12 morti (tra cui l’italiana Fabrizia Di Lorenzo) e 56 feriti. Nella serata di martedì 20 dicembre arriva la rivendicazione dell’Isis.
22 marzo 2017, Londra (Regno Unito): 4 morti e circa 40 feriti davanti al Parlamento di Westminster, nel cuore politico del Regno Unito. L’attentatore Khalid Masood, 52 anni, nato in Inghilterra e abitante a Birmingham, falcia con un Suv diverse persone sul ponte di Westminster che attraversa il Tamigi davanti al Big Ben. Poi si dirige a piedi verso il Parlamento, dove aggredisce a morte con un coltello un poliziotto di guardia, prima di essere ucciso a colpi di pistola da due agenti in borghese. L’Isis ha rivendicato l’attentato, attraverso l’agenzia Amaq, organo di propaganda del gruppo jihadista.
7 aprile 2017, Stoccolma (Svezia): 5 morti e 15 feriti in pieno centro città, nella zona commerciale di Drottninggatan, dove un camion si è gettato sulla folla in una strada pedonale per schiantarsi contro la vetrina di una catena di supermercati. Alla guida del camion, rubato, un richiedente asilo uzbeko simpatizzante dell’Isis, il 39enne Rakhmat Akilov, la cui domanda era stata respinta ed era ricercato per essere espulso.
20 aprile 2017, Parigi (Francia): in tarda serata, sugli Champs-Élysées vicino all’Arco di Trionfo, un uomo armato di kalashnikov apre il fuoco contro degli agenti di polizia colpendo mortalmente uno di loro e ferendone altri 2. La sparatoria cade a pochi giorni dal primo turno delle elezioni presidenziali, mentre è in onda l’ultimo confronto fra i candidati in vista del voto della domenica successiva. L’autore dell’attacco terroristico, Karim Cheurfi, 39 anni, tenta di darsi alla fuga a piedi ma viene ucciso dalle forze dell’ordine. L’Isis rivendica l’attacco poche ore dopo. Il poliziotto ucciso è la 239esima vittima di attentati terroristici in Francia dal 2015.
22 maggio 2017, Manchester (Gran Bretagna): almeno 22 morti e 120 feriti, tra cui molti bambini e giovanissimi. Una bomba esplode al termine del concerto della pop star amata dai teenager Ariana Grande all’interno della sala concerti Manchester Arena. L’Isis rivendica l’attentato.
3 giugno 2017, Londra (Gran Bretagna): intorno alle 22 locali, tre uomini a bordo di un furgoncino prima investono i pedoni sul marciapiede del London Bridge, uno dei ponti più celebri della capitale britannica, in pieno centro, per poi schiantarsi contro il pub Barrowboy and Banker. I tre uomini, armati di coltelli, proseguono quindi a piedi verso Borough Market, a ridosso del London Bridge sulla riva meridionale del Tamigi, area affollata di bar e locali frequentata anche da molti turisti, accoltellando i passanti. I tre, che indossano cinture esplosive false, vengono poi uccisi dalla polizia. In totale si contano 8 morti, mentre i feriti sono 48. L’Isis ha rivendicato l’attentato tramite la sua agenzia di stampa, Amaq. Gli attentatori sono stati identificati: Khuram Butt, 27 anni, cittadino britannico di origine pachistana, residente nel quartiere londinese periferico di Barking, poi Rachid Redouane, marocchino-libico anch’egli residente a Barking, e il 22enne italo-marocchino Youssef Zaghba, già sotto osservazione dell’intelligence.
19 giugno 2017, Londra (Gran Bretagna): poco dopo la mezzanotte un furgone piomba su un gruppo di fedeli musulmani a Finsbury Park a nord di Londra, vicino a una moschea dalla quale escono le persone radunate per le preghiere del Ramadan. Una vittima e almeno 10 feriti, tutti di fede islamica. Nella zona, Seven Sisters Road, ci sono almeno quattro moschee. L’attentatore, Darren Osborne, viene arrestato. Originario del Galles, dove viveva con la moglie e quattro figli in un sobborgo di Cardiff, era animato da odio per i musulmani. L’attentato è stato rivendicato dall’ISIS.
19 giugno 2017, Parigi (Francia): Adam Loft Djaziri, trentenne francese conosciuto dai servizi segreti per sospetta radicalizzazione, si schianta con la macchina contro un furgone della polizia posteggiato sugli Champs Elysées di Parigi. Gli agenti hanno estratto l’assalitore privo di sensi dall’abitacolo prima che questo prendesse fuoco. Il terrorista è morto pochi minuti dopo. Il terrorista si era definito “soldato del Califfato”.
17-18 agosto 2017, Barcellona e Cambrils (Spagna): nel pomeriggio un camioncino investe la folla sulle Ramblas, nel cuore della capitale catalana, mentre la sera verso mezzanotte un’Audi A3 si schianta contro i pedoni sul lungomare di Cambrils, prima che la polizia intervenga e uccida i terroristi in una sparatoria. In totale, si contanto 15 morti e un centinaio di feriti. Tra le vittime anche 3 italiani, i giovani Luca Russo e Bruno Gulotta, e l’80enne Carmen Lopardo residente in Argentina. La cellula della strage, che preparava un attacco più grande contro la Sagrada Familia con 120 bombole di gas, è stata smantellata: uccisi dalla polizia l’autore della strage sulle Ramblas, Younes Abouyaaqoub, e i terroristi di Cambrils. Morti in un’esplosione accidentale mentre preparavano bombe la mente del gruppo, l’imam di Ripoll Abdelbaki Es Satty, e altre due persone, mentre sono finite dietro le sbarre ulteriori 4 membri del gruppo terroristico.
18 agosto 2017, Turku (Finlandia): un uomo armato di coltello, marocchino di 18 anni, colpisce alla cieca i passanti nella zona centrale del mercato, facendo 2 morti e 8 feriti tra cui un’italiana. La polizia riesce a fermarlo sparandogli alle gambe, e nella notte arresta altre 5 persone.
23 marzo 2018, Trèbes (Francia): l’assalitore, Redouane Lakdim, marocchino di 25 anni, ha preso in ostaggio numerose persone all’interno di un supermercato della cittadina dell’Occitania ed è stato ucciso dopo circa quattro ore dalle teste di cuoio. Alla fine, il bilancio dell’attentato è di tre morti e 16 feriti due dei quali gravi.
12 maggio 2018, Parigi (Francia): un uomo di 21 anni, Khamzat Azimov, ha accoltellato cinque passanti nel quartiere Opéra di Parigi, gridando «Allah Akhbar». Morto un ragazzo di 29 anni, ferite le altre quattro persone. Il terrorista è stato ucciso dalla polizia. Nato in Cecenia e poi naturalizzato francese, l’uomo era incensurato anche se schedato come a rischio radicalizzazione islamica (“S”) in quanto era in contatto con il marito di una donna partita per la Siri. I suoi genitori sono stati arrestati e interrogati per capire se abbiano avuto un ruolo nell’attentato; arrestato anche un amico a Strasburgo.
29 maggio 2018, Liegi (Belgio): il belga Benjamin Herman, 31 anni di Rochefort, ha ucciso due poliziotte e uno studente a Liegi al grido di ‘Allahu Akbar’, risparmiando un’altra donna che aveva preso in ostaggio perché di fede musulmana. L’attentatore è poi stato a sua volta ucciso dalla polizia. La sera prima il killer, uscito dal carcere di Marche-en-Famenne per un permesso di reinserimento, avrebbe ucciso anche un amico ex detenuto a colpi di martello. A distanza di ventiquattr’ore, l’Isis ha rivendicato la strage attraverso l’agenzia Amaq.
30 maggio 2018, Schiedam (Olanda), Flensburg (Germania): la psicosi dei lupi solitari, all’indomani del terrore in Belgio, si è diffusa anche in Olanda e in Germania. A Schiedam, vicino Rotterdam, la polizia ha ucciso un uomo che, con un’ascia in mano, urlava ‘Allahu Akbar’ dal balcone di casa, mentre a Flensburg un uomo ha ferito gravemente due persone con un coltello sul treno Intercity ed è stato poi ucciso dalla polizia tedesca.
14 agosto 2018, Londra (Regno Unito): un 29enne britannico di origine sudanese, Salih Khater, a bordo di una Ford Fiesta ha investito alcuni pedoni e ciclisti alla guida di un’auto prima di schiantarsi contro le barriere di protezione del palazzo del parlamento di Westminster. Il bilancio è di 3 feriti lievi. Scotland Yard ha formalizzato il sospetto di terrorismo nei confronti di Khater, che non collabora. Il presunto attentatore è residente a Birmingham, una della città più islamiche della Gran Bretagna, dove successivamente sono state perquisite due case, con un terzo blitz condotto nella vicina Nottingham. Era noto alla polizia locale delle Midlands, ma non agli 007 dell’MI5. Stando a Neil Basu, vicecomandante di Scotland Yard, la sua è stata “un’azione deliberata”, anzi premeditata: da cui l’accusa di terrorismo.
12 dicembre 2018, Strasburgo (Francia): 5 morti e 11 feriti, sei sono gravi: è il bilancio provvisiorio dell’attentato al mercatino di Natale di Strasburgo, messo a segno dal 29enne radicalizzato Cherif Chekatt, sfuggito alla cattura. Tra le vittime, anche il giovane giornalista italiano Antonio Megalizzi, di Europhonica.
29 novembre 2019, Lonra (Regno Unito): l’incubo ha ancora una volta le sembianze del lupo solitario, entrato in azione con un coltello in mano e indosso un finto giubbotto esplosivo a seminare paura e morte tra la folla di London Bridge, prima di essere freddato dalla polizia. Il bilancio è di due persone uccise e 8 feriti, come ha confermato Scotland Yard, attribuendo all’episodio tutti i connotati del “grave atto di terrorismo”. L’aggressore aveva 28 anni e si chiamava Usman Khan. Era stato rilasciato in libertà vigilata l’anno scorso, dopo aver scontato sei anni per reati di terrorismo. Khan era stato condannato nel 2012 e rilasciato a dicembre 2018 “su licenza”, il che significa che avrebbe dovuto soddisfare determinate condizioni o sarebbe tornato in carcere. Diversi media britannici hanno riferito che indossava un braccialetto elettronico alla caviglia. Prima dell’attacco Khan stava partecipando a un evento a Londra ospitato da Learning Together, un’organizzazione con sede a Cambridge che lavora nell’istruzione dei carcerati.
Per meglio comprendere a quale categoria appartengono gli attentatori, è necessario classificare gli attentati in:
Attacchi di Parigi e Bruxelles (2014 – 2016);
Attacchi di giugno – luglio 2016
Se analizziamo gli attentati tra il maggio del 2014 ed il marzo del 2016, tra Francia e Belgio, emerge che gli attentatori erano giovani ragazzi con passaporto europeo (belga o francese) e di origini nord-africane. Gli autori degli attentati si conoscevano e facevano parte delle cellule che hanno agito, in quegli anni, tra la Francia ed il Belgio insieme ad altri giovani che non avevano mai lasciato l’Europa ed altri che, invece, erano andati nei teatri di crisi come quello siro-iracheno.
La Dott.ssa Laura Quadarella Sanfelice di Monforte, ci fa notare un elemento significativo, ovvero come l’attentato avvenuto a gennaio del 2015 alla redazione di Charlie Hebdo è l’unico ad essere stato rivendicato dal portavoce di AQAP in un video dopo sei giorni dall’attacco, mentre gli altri commessi nei due giorni successivi sono stati rivendicati da ISIS.
Nonostante non ci sia stato un coordinamento e una pianificazione diretta da AQAP e IS, gli attentatori in analisi erano simpatizzanti dei due network e i fratelli Kouachi, uno dei quali era stato in Yemen diversi anni prima, conoscevano Koulibali, ovvero l’autore degli attacchi avvenuti nei giorni successivi.
La differenza tra gli attentati rivendicati, in questo periodo, da al Qaeda e dall’Islamic State è che i primi non hanno colpito vittime civili ma solo obiettivi mirati.
I ragazzi che, invece, sono stati gli autori degli altri attacchi farebbero parte di una rete di cellule con sede in Belgio costituita anche da foreign fighters tornati dal teatro siro-iracheno e da homegrown loro amici e/o parenti. Il legame che alcuni di questi foreign fighters avevano con il Califfato emerge ben prima dell’attacco del novembre 2015 ed è palesemente visibile in alcuni articoli della rivista Dabiq dove gli attentatori erano i protagonisti a partire dalla figura di Abdelhamid Abaaoud in cui se ne parlava in un lungo articolo apparso sul numero 7 di Dabiq già nel febbraio del 2015.
Se analizziamo gli attentati del gennaio 2015 a Parigi, emerge un rapporto diretto tra gli attentatori e AQAP, come nel caso dell’attacco alla redazione di Charlie Hebdo e tra gli attentatori e IS, come nel caso del supermercato ebraico. La particolarità che viene rilevata è sicuramente il legame che c’era anche tra gli stessi attentatori: si conoscevano tra loro.
L’attentato di Charlie Hebdo è stato rivendicato nel 14 gennaio 2015 da Nasser bin Ali al-Ansi, leader di AQAP ucciso da un drone nell’aprile dello stesso anno. Era stata la rivista n. 10, della primavera del 2013, ad indicare gli autori di Charlie Hebdo come degli obiettivi da colpire.
La Dott.ssa Quadarella, nel suo libro “Perché ci attaccano. Al Qaeda, l’Islamic State e il terrorismo fai da te”, pone una riflessione sul tipo di attacco che è stato oggetto di analisi del numero 14 della rivista Inspire dove si evince il carattere dell’attacco ˂˂inteso come una specie di omicidio mirato nei confronti di chi, a detta di AQAP, è colpevole di aver offeso il Profeta>>[81].
Nell’immagine riportata dalla rivista viene raffigurata una matita spezzata sopra il nome di Charlie Hebdo e una serie di attentati precedenti e successivi che indicano una sorta di punizione per chi offende il Profeta.
Così le vignette di Charlie Hebdo sono state considerate un atto di guerra dell’Occidente, ce lo riferisce anche l’imam britannico Anjem Choudary ai microfoni del Tg1: ˂˂ Chi offende il Profeta è condannato a morte. Onorare il Profeta è una questione di vita o di morte, la punizione per questo tipo di offese è la sentenza capitale>>.
Ritornando agli attacchi terroristici del gennaio 2015, il francese di origini maliane Amedy Coulibaly, autore dell’attacco al supermercato Khoser (ed il giorno precedente ad una poliziotta) era invece legato a IS come dimostrano il video, diffuso l’11 gennaio, da lui stesso registrato in più fasi nei giorni dell’attacco. Nel video Coulibaly giura fedeltà al Califfo Ibrahim e ad IS e spiega il motivo degli obiettivi scelti e la coordinazione con le azioni dei fratelli Kouachi.
Analizzando gli attacchi del novembre del 2015, nella rivista Dabiq n. 7, pubblicata nel febbraio 2015, si vede raffigurato Abdelhamid Abaaoud (capo delle cellule di giovani vicini all’IS) mentre si trova nel teatro siro-iracheno. Questa è la prova del suo legame e di quello di altri autori degli attacchi di Parigi del novembre 2015 con l’IS. In questo caso siamo di fronte ad attacchi terroristici per mano di foreign fighters ritornati dai teatri di crisi dove si sono addestrati e hanno combattuto.
Gli attacchi delle cellule di Parigi – Bruxelles, sono stati rivendicati in poche ore da organi mediatici di riferimento del Califfato. Quasi immediata è stata la pubblicazione di numeri della rivista Dabiq con ampi spazi dedicati agli attacchi ed agli attentatori[82], addirittura nel novembre 2015 uscì un numero elogiativo degli attacchi di Parigi dal titolo ˂˂Just Terror>>. A gennaio, nel numero successivo si dava ampio spazio agli attentatori raffigurati in mimetica sullo sfondo di Parigi. Nell’aprile del 2016, invece, il numero 14 della Rivista Dabiq dedicava una parte agli attentatori di Bruxelles rappresentati in mimetica correlata da una breve biografia. Interessante, anche la rivista in lingua francese del Califfato Dar al Islam dove nella settima edizione pubblicava uno speciale sugli attacchi di Parigi correlato da numerosissime foto. Nell’ottava edizione della stessa rivista, invece, viene data attenzione ai componenti della cellula e alle loro esecuzioni eseguite nel periodo della loro presenza nel teatro di crisi siro-iracheno.
Gli attacchi del giugno e del luglio del 2016 si distaccano da quelli realizzati dalle cellule di Parigi – Bruxelles sia per le modalità di azione che per le rivendicazioni da parte dello Stato Islamico.
Tenendo in considerazione il discorso di Adnani, di cui si è già parlato nei precedenti capitoli, che invitava ad agire usando qualsiasi tipologia di arma per colpire gli infedeli nei loro Paesi senza chiedere il permesso ma giurando pubblicamente fedeltà al Califfato, vediamo come questi attacchi sono accomunati dal fatto che gli attentatori si ispirano ai network terroristici ma agiscono in modo autonomo.
Tutti gli attentati sono stati rivendicati dallo Stato Islamico ma se analizziamo l’attacco avvenuto tra l’11 ed il 12 giugno ad Orlando, in Florida, quando Omar Mateen, giovane statunitense originario dell’Afghanistan, è entrato in una discoteca gay uccidendo cinquanta persone. In questo caso, nonostante la rivendicazione dello Stato Islamico, c’è da dire che dal materiale rinvenuto in casa del giovane si evince che il giovane è stato ispirato sia dall’IS che da AQ.
L’attentato del 13 giugno in un sobborgo di Parigi, Magnanville, dove un giovane di origine marocchine, Larossi Abballa, ha sequestrato e ucciso una coppia di funzionari della polizia lasciando in vita il loro bambino di tre anni che si vede in fondo al video che l’attentatore ha pubblicato su facebook. In questo caso, l’attentatore riferisce di aver risposto all’appello di Adnani di agire in Europa e negli USA.
Di questa serie di attentati, è significativa l’analisi di quello avvenuto a Nizza in Francia, durante la festa Nazionale francese del 14 luglio, quando un giovane franco-tunisino, Mohamed Lahouaiej Bouhlel, ha trasformato l’isola pedonale in un cimitero di corpi travolgendo la folla con un TIR. Muoiono ottantaquattro persone sul colpo e altri due dopo due settimane.
In questo caso, l’IS ha rivendicato l’attacco dopo due giorni in quanto, la modalità di attentato era stata pubblicata nel 2010 sulla rivista n. 2 di Inspire di Al Aqaeda, per cui sicuramente il Califfato ha atteso una rivendicazione da parte di AQAP.
Gli attacchi del giugno e del luglio 2016, a differenza di quelli di Parigi – Bruxelles, non sono stati rivendicati attraverso gli organi ufficiali del Califfato ma con comunicati diffusi su Telegram o per mezzo dell’Agenzia Stampa AMAQ, vicina allo Stato Islamico.
Rispetto a questa tipologia di attacchi è necessario ricordare che nell’attentato di Nizza, non essendo pervenuto alcun video in merito ad un ipotetico giuramento dell’attentatore, l’Islamic State lo ha rivendicato dopo qualche giorno in quanto non erano certi se l’attentatore abbia agito per loro o per AQAP.
Le rivendicazioni, quindi le parole utilizzate per le stesse, utilizzate dall’Agenzia AMAQ sono assolutamente diverse da quelle utilizzate per gli attacchi di Parigi e di Bruxelles e fanno pensare ad attacchi di lone wolf che autonomamente decidono di colpire rispondendo ai proclami dello Stato Islamico ed in particolare al discorso di Adnani, In tutti gli attacchi, ad eccezione appunto di quello di Nizza, a seguito della rivendicazione viene pubblicato il video di giuramento di fedeltà allo Stato Islamico, indi per cui si pensa che ci sia stato un legame minimo tra gli attentatori e lo stato Islamico, anche solo per via email.
Conclusioni
Dall’analisi della letteratura sul terrorismo emerge innanzitutto una osservazione piuttosto evidente: il terrorismo è un fenomeno complesso. La letteratura a riguardo è infatti estremamente vasta.
Il terrorismo in generale ed il terrorismo “fai da te”, analizzato in questo elaborato, è solo una parte degli studi che prendono in considerazione le root causes del terrorismo. Le analisi sulle root causes inoltre, se pur estremamente rilevanti, non esauriscono le ricerche sul terrorismo, che hanno infatti analizzato altri fenomeni di primaria importanza, come il ruolo degli aiuti nel combattere il terrorismo, i costi del terrorismo e delle attività preventive e il ruolo dell’opinione pubblica.
La letteratura è quindi caratterizzata da svariate sfaccettature che non sempre sono separate le une dalle altre, ma molte volte si sovrappongono e rendono difficile trovare un’opinione dominante e condivisa. Nonostante ciò, è possibile concludere, dicendo che le condizioni economiche sembrerebbero non essere rilevanti nel determinare l’incidenza/origine di attacchi terroristici in un paese. Questa visione è confermata dai modelli presi in considerazione in questa tesi, più precisamente a quei casi di terroristi che appartenevano a famiglie e a contesti ricchi (l’attentatore delle mutande), dove si ipotizza che non sia tanto rilevante guardare alle condizioni economiche, ma piuttosto sia necessario osservare le motivazioni che spingono gli autori alla radicalizzazione.
In conclusione, pur sapendo che la strategia per combattere il terrorismo dipende dalla comprensione delle sue cause, è assai complesso identificare anche solo la rilevanza o meno di un singolo fattore, come le condizioni economiche, nel determinare il livello di attività terroristica. Vista quindi l’ampiezza del fenomeno terroristico e i margini di incertezza che circondano ogni possibile risultato, diventa estremamente complicato reagirvi nel modo più appropriato. Ciò non implica che affrontare alle radici il terrorismo sia impossibile, ma che sia difficile riconoscere quale siano le azioni più adatte e corrette da compiere.
La radicalizzazione islamica è un fenomeno complesso che trae le sue origini dalla modernità e dalla globalizzazione; si è difronte a un paradosso che vede musulmani occidentalizzati dichiarare guerra all’occidentale in nome di una neo-umma che trova spazio nel web.
La realtà odierna è caratterizzata da una forte crisi strutturale del modo di produzione capitalistico e della mondializzazione dell’economia, causa delle forti tensioni politiche e militari in corso nei continenti “di colore”. La crisi attuale ha aumentato le disuguaglianze e la polarizzazione tra le classi ricche e povere in occidente come in oriente, producendo nuovi esclusi e dunque nuovi vulnerabili.
In tale situazione abbiamo visto come le religioni diventano una risposta al sentimento di smarrimento dovuto alle politiche neoliberali, che prevedono un ritiro sempre più grande dello Stato dalla società e dunque una riduzione del Welfare; la globalizzazione toglie sicurezza e spinge a cercare conforto nelle religioni e nel terrorismo.
Il razzismo istituzionale trova la propria collocazione in questo scenario producendo leggi discriminatorie e politiche identitarie basate sull’idea che la cultura immigrata costituisca un reale ostacolo all’integrazione; in questo modo viene alimentata la propaganda anti-migrante e anti-musulmana, che si fa sempre più forte a causa degli attentati terroristici che hanno colpito il suolo occidentale.
L’islamofobia attraverso i suoi retaggi, non consente di affrontare con consapevolezza il problema della radicalizzazione e non permette quindi di decostruire il pensiero di staticità della popolazione islamica, idea impressa nell’immaginario collettivo e che viene utilizzata per giustificare i pregiudizi verso il mondo musulmano. Anche l’emergenzialità con la quale viene letto il problema dell’immigrazione è falsata e funzionale a indurre a politiche di maggior controllo e misure repressive verso i migranti.
La negazione in Italia dello Ius soli è un esempio lampante di politiche discriminatorie, percepita come “normale” in quanto riguarda i figli di immigrati, spesso, senza permesso di soggiorno e dunque automaticamente e naturalmente con di meno diritti. Il costante timore trasmesso dai media riguardo una possibile invasione, l’emergenzialità della gestione dell’immigrazione, hanno portato un’integrazione a metà, mantenendo i figli dei migranti in un limbo fatto di incertezza; quasi a renderli invisibili.
Tutto questo può incoraggiare la radicalizzazione islamica nei giovani musulmani in Europa, essendo la componente immigrata più onerosa sul territorio Europeo. Chi si radicalizza, sono per lo più le seconde generazioni poiché sono i principali ricettori dei problemi della nostra società; hanno identità poco chiare in quanto non riconosciute pienamente nel paese ospitante e dunque non accettate, hanno meno possibilità a pari titolo di studio di accedere allo stesso lavoro di un autoctono, hanno visto la frustrazione e la sofferenza nei propri genitori e rifiutano la loro condizione ed inoltre desiderando un riscatto sia per se stessi che per le loro famiglie. Questi giovani sentono la necessità di acquisire un senso e, una piccola parte di questi, lo trovano attraverso il web, incontrando chi fornisce loro una risposta, e oggi questa risposta arriva dai reclutatori dei network terroristici.
Le sofferenze della modernità, come, lo sradicamento e l’anonimato, trovano conforto negli strumenti della modernità stessa e gli adolescenti e i giovani adulti diventano vittime perfette. Esse trovano conforto nel sentirsi i difensori di una umma maltrattata, non rispettata, deterritorializzata; in questo modo la loro vita acquista un significato, il nemico è l’occidente, nel suo insieme.
La pulsione verso la morte (e verso l’attacco suicida), non è tanto attirata dalla miseria sociale ma da un vuoto spirituale e culturale, dall’estremo bisogno di appartenenza e di acquisire un senso profondo.
La cultura della violenza attira le giovani generazioni di tutto l’occidente, con il risultato di anestetizzarle per l’uso spropositato dell’aggressività, della brutalità delle azioni, dell’uso di qualsiasi tipo di armi ecc. Il radicalizzato, prima di diventare tale, si imbatte attraverso i social in questa cultura, ne rimane attratto, ritrova in quell’ambito persone che vivono le sue stesse sofferenze; viene persuaso e stimolato da semplici videogiochi dove il nemico è l’infedele e il neo radicalizzato è colui che deve salvare la neo umma, è qui che diventa un eroe, che si sente un guerriero moderno che conquista una posizione in un mondo così confuso.
La radicalizzazione viene definita come una rivoluzione generazionale rivolta verso i genitori, una rivoluzione non volta a riscrivere la storia, ma piuttosto alla sua cancellazione, raggiunta attraverso l’uso della violenza. A conferma di ciò, dalle testimonianze, emerge il rapporto spesso difficile con le famiglie e il distacco totale prima di compiere la loro jihad, attraverso la quale salvare i loro genitori: coloro che hanno peccato abbandonando l’Islam originario e che hanno accettato situazioni subalterne, quelli che si sono fatti sfruttare, schiacciare.
La stigmatizzazione dell’Islam e dell’uomo islamico ha origini antiche, nel colonialismo, che già all’epoca era funzionale a rendere possibile una reale egemonia su questi popoli, sarà successivamente affiancata e supportata dall’orientalismo.
Sarebbe necessario superare etnocentrismo, ovvero la tendenza a giudicare le altre culture e interpretarle in base ai criteri della propria, proiettando su di esse il nostro concetto di evoluzione, progresso, sviluppo, benessere. L’immagine dell’altro che abbiamo è, infatti, fortemente condizionata dalle idee dominanti.
Bisogna, dunque, lottare contro la visione etnocentrica, che prevede un’evoluzione di pensiero che vada oltre all’egocentrismo; la necessità quindi di riconoscere la parzialità della propria cultura, imparando ad oggettivizzare i propri sistemi di riferimento ammettendo l’esistenza di altre prospettive.
L’intercultura sembra poter essere una base per il cambiamento, essa richiede il mutamento delle rappresentazioni, deve partire dal basso con azioni e da progetti che richiedono più competenze e conoscenze diverse, nel rispetto delle differenze culturali e sociali. Essa rifiuta la logica assimilazionista e la costruzione e il rafforzamento di comunità etniche chiuse, nelle quali può nascere il malcontento, la sofferenza e l’umiliazione ma soprattutto la radicalizzazione.
Credo dunque che le norme anti-radicalizzazione e anti-terrorismo europee e italiane possano diventare davvero efficienti se, a fronte di una reale volontà, disposte ad affrontare il problema non solo sul piano della sicurezza ma anche nel suo poliedrico insieme.
Aumentare le norme di sicurezza può avere senso ma non risolve il problema, lo contiene. Investire nell’istruzione, nella buona informazione è invece qualcosa che potrebbe prevenire, rintracciare e aiutare ragazzi vittime del processo di radicalizzazione. Bisogna decostruire il pensiero dominante e abbracciare le buone pratiche dell’intercultura.
Questa breve riflessione merita un’altra considerazione finale esplicativa del fenomeno poliedrico del terrorismo internazionale, che oggi più che mai attira su di sé l’attenzione dell’intera comunità nazionale ed internazionale. Alla luce dei recentissimi avvenimenti terroristici rivendicati dal terrorismo jihadista facente capo allo Stato Islamico, gli Stati sono stati posti ancora una volta di fronte alle loro debolezze e all’incapacità di contrastare efficacemente ed effettivamente la minaccia terroristica, ricorrendo a strategie difensive carenti.
Al centro del problema vi è la sentita esigenza di una definizione universalmente accolta di “terrorismo” ed una visione di contrasto multidisciplinare, che risolva definitivamente i dibattiti in materia in modo da uniformare la cooperazione internazionale nella lotta al terrorismo. Purtroppo il diritto convenzionale offre un quadro giuridico molto frammentato a causa di strumenti antiterrorismo settoriali e limitati che non sono in grado di rispondere alle molteplici situazioni di violenza ipotizzabili e che escludono dal loro ambito le ipotesi di terrorismo nel corso dei conflitti armati. Sebbene sia emersa una norma consuetudinaria che ha messo in luce alcuni elementi costitutivi del crimine di terrorismo internazionale, quantomeno in tempo di pace, essa non appare sufficiente a ricomprendere le molteplici forme in cui il terrorismo può manifestarsi. In questo contesto si rende auspicabile la convergenza ed il dialogo tra gli Stati per ultimare l’iniziato progetto di una Convenzione globale sul terrorismo internazionale, da quasi vent’anni oggetto di dibattito che riesca così a legiferare in quelle zone grigie rimaste incerte fino ad oggi.
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[1] A.Schemid, Frameworks for conceptualising terrorism,in Terrorism and Political Violence vol 16,n.2,2004.
[2] W.Laqueur,Il nuovo terrorismo,Corbaccio,Milano 2002, pp 102-103
[3] P. Gueniffey, La Politique de la Terreur. Essai sur la violence révolutionnaire 1789-1794. Fayard, Parigi, 2003
[4] Robespierre “Discorso del 18 Piovoso”, 5 Febbraio 1794
[5] A.Cassese, International Criminal Low, 2003, Oxford University Press, p. 148
[6] M. Cherif Bassiouni, Terrorism: The Persistent Dilemma of Legitimacy, 2004
[7] L. Quadarella Sanfelice di Monteforte, Il terrorismo internazionale come crimine contro l’umanità – da crimine a rilevanza internazionale a crimine internazionale dell’individuo, Napoli, 2006, Capp. 1 e 2
[8] L. Quadarella Sanfelice di Monforte, Il terrorismo internazionale come crimine contro l’umanità – da crimine a rilevanza internazionale a crimine internazionale dell’individuo, Napoli, 2006 (Capp. 1 e 2)
[9] Y.TRAPP – KIMBLERL, State Responsibility for International Terrorism. Problems and Prospects, in European Journal of International Law, 2012, p. 1 ss.
[10] L. Quadarella Sanfelice di Monforte, Il terrorismo internazionale come crimine contro l’umanità – da crimine a rilevanza internazionale a crimine internazionale dell’individuo, Napoli, 2006 (Capp. 1 e 2)
[11] M. Sossai, La prevenzione del terrorismo nel diritto internazionale, Torino, 2012, p. 10 ss
[12] A. Gioia, The UN Conventions of the Prevention and Suppression of International Terrorism, in G. Nesi, International Cooperation in CounterTerrorism, Università di Trento, 2006, p. 2 ss.
[13] A. Gioia, The UN Conventions of the Prevention and Suppression of International Terrorism, in G.Nesi, International Cooperation in CounterTerrorism, Università di Trento, 2006, p. 4 ss
[14] S. Quirico, L’Unione Europea e il terrorismo, Storia concetti e istituzioni in PAST n.2 2013 pag.17
[15] SOSSAI , Op. cit., p. 10 ss.
[16] Una buona trattazione delle origini del fondamentalismo islamico è in Paul Berman, Terrore e liberalismo (2003), Einaudi, Torino, 2004, specialmente cap.3.
[17] Le prophète et Pharaon, la formazione del pensiero jihadista egiziano all’epoca di Sadat
[18] L. Quadarella Sanfelice di Monforte, Perché ci attaccano, Al Qaeda, L’islam State e il terrorismo fai da te, Saggistica Aracne, II Edizione
[19] Abdullh Jusuf Azzam, teologo e studioso sunnita noto anche come insegnante e mentore di Osama bin Laden . Predicava a favore del jihad difensiva ed a seguito dell’invasione sovietica dell’Afghanistan emise una fatwa “ la difesa delle terre musulmane è il primo obbligo della Fede”.
[20] Osama Bin Laden,(Riyad, 10 marzo 1957 – Abbottabad, 2 maggio 2011), è stato un militante terrorista fondamentalista islamico sunnita, fondatore e leader di AlQaeda.
[21] De Stefano C., Piacentini L., Trento I.S., I nuovi scenari del terrorismo internazionale di matrice jihadista, Rubbettino, 2011
[22] De Stefano C., Piacentini L., Trento I.S., I nuovi scenari del terrorismo internazionale di matrice jihadista, Rubbettino, 2011
[23] De Stefano C., Piacentini L., Trento I.S., I nuovi scenari del terrorismo internazionale di matrice jihadista, Rubbettino, 2011
[24] L. Quadarella Sanfelice di Monforte, Perché ci attaccano, Al Qaeda, L’islam State e il terrorismo fai da te, Saggistica Aracne, II Edizione
[25] Carnì, M. (2015b). Islam e ministri di culto, in C. Cardia, G. Dalla Torre (a cura di), Comunità Islamiche in Italia. Identità e forme giuridiche, Giappichelli, Torino, 211-243.
[26] Fasbender Jacobitti M. . (2010), Terrorismo islamico. Origini, eventi e strategie, Caravaggio Editore, Vasto.
[27] Guolo R., Il fondamentalismo islamico, La Terza 2002: 197 ss.
[28] Guolo R., Il fondamentalismo islamico, La Terza 2002
[29] Plebani A., Jihad e Terrorismo, da al Qaida all’Isis: storia di un nemico che cambia, ISPI, Mondadori
[30] Plebani A., Jihad e Terrorismo, da al Qaida all’Isis: storia di un nemico che cambia, ISPI, Mondadori
[31] Fasbender Jacobitti M. (2010), Terrorismo islamico. Origini, eventi e strategie, Caravaggio Editore, Vasto
[32]L. Quadarella Sanfelice di Monforte, Perché ci attaccano, Al Qaeda, L’islam State e il terrorismo fai da te, Saggistica Aracne, II Edizione
[33] New (and Old) Patterns of Jihadism: al-Qa‘ida, the Islamic State and Beyond pubblicato nel 2014 dall’ispi.
[34] L. Quadarella Sanfelice di Monforte, Perché ci attaccano, Al Qaeda, L’islam State e il terrorismo fai da te, Saggistica Aracne, II Edizione
[35] De Stefano C., Piacentini L., Trento I.S., I nuovi scenari del terrorismo internazionale di matrice jihadista, Rubbettino
[36] L. Quadarella Sanfelice di Monforte, Perché ci attaccano, Al Qaeda, L’islam State e il terrorismo fai da te, Saggistica Aracne, II Edizione
[37] L. Quadarella Sanfelice di Monforte, Perché ci attaccano, Al Qaeda, L’islam State e il terrorismo fai da te, Saggistica Aracne, II Edizione
[38] L. Quadarella Sanfelice di Monforte, Perché ci attaccano, Al Qaeda, L’islam State e il terrorismo fai da te, Saggistica Aracne, II Edizione
[39] L. Quadarella Sanfelice di Monforte, Perché ci attaccano, Al Qaeda, L’islam State e il terrorismo fai da te, Saggistica Aracne, II Edizione
[40] TE-SAT 2012: EU Terrorism Situation and Trend Report”, Europol, The Hague, Netherlands, 2012, p. 15, https://www.europol.europa.eu/activities-services/
[41] L. Vidino e S. Hughes, ISIS in America: From Retweets to Raqqa, Program on Extremism, The George Washington University, Washington D.C., 2015.
[42] GW Extremism Tracker: ISIS in America, Program on Extremism, The George Washington University, Washington D.C., marzo 2017 (aggiornamento 2017), https://cchs.gwu.edu/sites/cchs.gwu.edu/files/downloads/March%202017%20Snapshot.pdf
[43] G. Cameron, Timeline: Rise and Spread of the Islamic State, Wilson Center, 2016, https://www.wilsoncenter.org/article/timeline-rise-and-spread-the-islamic-state
[44] Islamic State: Abu Muhammad Al-Adnani ‘Killed in Aleppo’”, BBC News, 31 agosto 2016, http://www.bbc.com/news/uk-37224570
[45] Repubblica, Paura a Milano, bomba nella caserma. Un libico si fa saltare con 2 chili di esplosivo, 12 ottobre 2009, https://www.repubblica.it/2009/10/sezioni/cronaca/esplosione-caserma-milano/esplosione-caserma-milano/esplosione-caserma-milano.html
[46] L. Vidino, Il jihadismo autoctono in Italia: nascita, sviluppo e dinamiche di radicalizzazione, Prefazione di S. Dambruoso, Milano, ISPI e European Foundation for Democracy, 2014
[47] L. Quadarella Sanfelice di Monforte, Perché ci attaccano, Al Qaeda, L’islam State e il terrorismo fai da te, Saggistica Aracne, II Edizione
[48] [48] L. Quadarella Sanfelice di Monforte, Perché ci attaccano, Al Qaeda, L’islam State e il terrorismo fai da te, Saggistica Aracne, II Edizione
[49] L. Quadarella Sanfelice di Monforte, Perché ci attaccano, Al Qaeda, L’islam State e il terrorismo fai da te, Saggistica Aracne, II Edizione
[50] L. Quadarella Sanfelice di Monforte, Perché ci attaccano, Al Qaeda, L’islam State e il terrorismo fai da te, Saggistica Aracne, II Edizione
[51]F. Marone, “Digital Jihad. Online Communication and Violent Extremism”, ISPI, 2020
[52]C. BecKett, “Fanning the flames: Reporting terror in a Networked world”, https://www.cjr.org/tow_center_reports/coverage_terrorism_social_media.php
[53] D. Phillips, “The Influence of Suggestion on Suicide: Substantive and Theoretical Implications of the Werther Effect”, American Sociological Review
[54] G.Boratto, “Terrorismo, quei giovani disturbati e l’effetto werther”, Corriere della sera, 24 luglio 2016 http://italians.corriere.it/2016/07/24/terrorismo-quei-giovani-disturbati-e-leffetto-werther/
[55] The importance of Telegram in the Islamic State’s media strategy, fonte aperta Europol 2017.
[56] L. Quadarella Sanfelice di Monforte, Perché ci attaccano, Al Qaeda, L’islam State e il terrorismo fai da te, Saggistica Aracne, II Edizione
[57] L. Quadarella Sanfelice di Monforte, Perché ci attaccano, Al Qaeda, L’islam State e il terrorismo fai da te, Saggistica Aracne, II Edizione
[58] L. Quadarella Sanfelice di Monforte, Perché ci attaccano, Al Qaeda, L’islam State e il terrorismo fai da te, Saggistica Aracne, II Edizione
[59] J. Amble et M. Jensen, Infographic: suicide terrorism, past and present, 25 june 2014
[60] F. Marrone, La politica del terrorismo suicida, Rubbettino, 2013
[61] F. Marrone, La politica del terrorismo suicida, Rubbettino, 2013
[62] L. Quadarella Sanfelice di Monforte, Perché ci attaccano, Al Qaeda, L’islam State e il terrorismo fai da te, Saggistica Aracne, II Edizione
[63] L. Quadarella Sanfelice di Monforte, Perché ci attaccano, Al Qaeda, L’islam State e il terrorismo fai da te, Saggistica Aracne, II Edizione
[64] Amin Maalouf, Identità, Milano, Bompiani, p.69.
[65] F. Marrone, La politica del terrorismo suicida, Rubbettino, 2013
[66] L. Quadarella Sanfelice di Monforte, Perché ci attaccano, Al Qaeda, L’islam State e il terrorismo fai da te, Saggistica Aracne, II Edizione
[67] F. Marrone, La politica del terrorismo suicida, Rubbettino, 2013
[68] Farhad Khosrokhavar,Radicalisation, , Paris, Editions de la Maison des sciences de l’homme, 2014, p.17.
[69] Maurizio Ambrosini, Italiani col trattino: La sfida delle seconde generazioni immigrate, Atti del convegno: Seconde generazioni in Italia, Bologna, 3 maggio 2007. p.1.
[70] F. Marrone, La politica del terrorismo suicida, Rubbettino, 2013
[71] L. Quadarella Sanfelice di Monforte, Perché ci attaccano, Al Qaeda, L’islam State e il terrorismo fai da te, Saggistica Aracne, II Edizione
[72] L. Quadarella Sanfelice di Monforte, Perché ci attaccano, Al Qaeda, L’islam State e il terrorismo fai da te, Saggistica Aracne, II Edizione
[73] F. Marone, L. Vidino, Destinazione Jihad. I foreign fighters d’italia, ISPI
[74] L. Quadarella Sanfelice di Monforte, Perché ci attaccano, Al Qaeda, L’islam State e il terrorismo fai da te, Saggistica Aracne, II Edizione
[75] F. Marone, L. Vidino, Destinazione Jihad. I foreign fighters d’italia, ISPI
[76] F. Marone, L. Vidino, Destinazione Jihad. I foreign fighters d’italia, ISPI
[77] F. Marone, L. Vidino, Destinazione Jihad. I foreign fighters d’italia, ISPI
[78] L. Quadarella Sanfelice di Monforte, Perché ci attaccano, Al Qaeda, L’islam State e il terrorismo fai da te, Saggistica Aracne, II Edizione
[79] New York Time, https://www.nytimes.com/interactive/2017/05/23/world/europe/europe-terror-attacks.html?smid=pl-share, 23 maggio 2017
[80] Europol, file:///C:/Users/Asus/Downloads/tesat_2019_final.pdf, 2019
[81] L. Quadarella Sanfelice di Monforte, Perché ci attaccano, Al Qaeda, L’islam State e il terrorismo fai da te, Saggistica Aracne, II Edizione
[82] L. Quadarella Sanfelice di Monforte, Perché ci attaccano, Al Qaeda, L’islam State e il terrorismo fai da te, Saggistica Aracne, II Edizione