scarica il file in pdf – accordi di oslo – dicembre 2023- Lanzara
Oslo, o della pace impossibile
Il conflitto tra Israele ed Hamas nel trentennale degli storici accordi
Gino Lanzara
Quanto accaduto il 7 ottobre, e ancora sta avvenendo, impedisce di scorgere tracce ed elementi degli Accordi di Oslo, che per anni avevano illuso di poter portare ad una soluzione pacifica e definitiva del conflitto israelo-palestinese. Malgrado eventi e personalità succedutesi nel tempo, criticità e punti di faglia sono rimasti ed anzi si sono acuiti ed aggravati rendendo impossibile evitare il deflagrare dell’ennesimo conflitto.
Ricerca della verità e gruppi da battaglia
Trattare di Israele era e rimane materia complessa, avvinta com’è in un tessuto dalla trama fitta e brillante di diversi e violenti colori che si agitano per prorompere ad ogni piè sospinto dal telaio. Tra Mediterraneo, Giordano, Mar Rosso, la più recente declinazione geopolitica, quella umana, trascendendo dalle pur innegabili influenze esercitate dai popoli che lì vivono e lottano, è ancora in cerca di un aletiometro che possa indicare una verità quanto mai aspra e difficile da raggiungere, specie se posta in relazione all’innegabile influsso delle singole e potenti personalità che lì hanno vissuto ed operato. La funzione catalizzante dei singoli, checché se ne possa dire, rimane elemento misterioso, imprescindibile, inevitabile; impossibile dare un giudizio tranchant: tutto va studiato, analizzato, cercando di rivivere riprovando ab imis quanto hanno vissuto e sentito gli attori sul proscenio mediorientale, specialmente quando gruppi navali da battaglia del talassocrate statunitense oltrepassano le Colonne d’Ercole.
Olocausto e Nakba
Quello sionista è un progetto che, cosciente e forte dell’Olocausto patito e delle proprie radici culturali e religiose, sin dai primi vagiti trascende i limites inserendosi in un contesto in cui gli abitanti arabi, quanto meno inizialmente, non trovano essi stessi precisa dimensione se non quando eterodiretta. Israele è soggetto politico nato e forgiato dal fuoco di guerre esistenziali atte a garantirne la sopravvivenza: il giorno successivo alla sua proclamazione come Stato, è attaccato da quattro Paesi, pur a fronte di un piano di spartizione che prevedeva la nascita di due entità statuali, l’ebraica e la palestinese. Se per il popolo ebraico l’Olocausto rimane monito tragicamente eterno ed incancellabile, per i palestinesi il 1948 segna la Nakba, la catastrofe, capace di generare un’onda ruggente di non meno di 700.000 persone, destinata ad infrangersi in Cisgiordania e sulla Striscia di Gaza, allora occupata dall’Egitto; da qui la cronicizzazione di un conflitto e degli sterilmente vani ed iterati tentativi per risolverlo, nessuno degno di generare una pace duratura, viste le guerre deflagrate nel 1956, 1967, nel 1973, nel 2023 e considerata la politica adottata dall’OLP di Arafat, che postula per principio l’illegalità della creazione dello Stato di Israele e conduce attentati di particolare violenza e risalto, come quello compiuto in occasione dei Giochi Olimpici di Monaco nel 1972, una panoplia di eventi che di certo non ha agevolato alcun tipo di liaison conciliatoria.
Guerra, terra, pace
Una parvenza di cambiamento avviene alla fine degli anni ’80, con l’OLP esiliato in Tunisia ed i palestinesi in Cisgiordania e Gaza che insorgono al termine del 1987; lo stato politico di necessità, interno ad ambedue le parti, porta a delineare la necessità di stabilire contatti diretti, secondo un disegno volto ad esaltare esistenza e compiutezza di accordi pattuiti. È qui che nasce il processo di pace di Oslo[1], la città in cui si svolsero in segreto i colloqui, un’alchimia politica destinata ad attraversare l’ultimo decennio del secolo scorso, purtuttavia con prolungato e diluito esito finale infausto.
Negli anni ’90 l’ordine internazionale in MO si riallinea per effetto della guerra del Golfo, dove l’unica voce dissonante ed a sostegno di Saddam Hussein è proprio e solo quella di Arafat, che sostiene le truppe d’invasione irachene; come avrebbe sentenziato Talleyrand, è peggio di un crimine, è un errore tale da determinarne l’ostracismo politico e finanziario. Tuttavia, imprevedibilmente, è proprio in quel frangente che il Presidente George Bush ed il segretario di Stato James A. Baker scorgono uno spiraglio negoziale; nel 1991 USA e URSS ospitano la conferenza di pace di Madrid, cui partecipano le delegazioni d’Israele, Libano, Siria, ed una rappresentanza congiunta giordano-palestinese. Grande assente l’OLP: l’opposizione di Yitzhak Shamir, primo ministro di Tel Aviv, è chiara ed assecondata dai paesi arabi, del resto vincolati alla memoria dei lanci balistici dall’Iraq verso Israele; la disponibilità dell’OLP verso nuovi negoziati ruota intorno all’idea di una soluzione a due stati[2], previa accettazione della risoluzione 242[3] dell’ONU che, se è vero che chiede il ritiro delle forze israeliane dai territori occupati a seguito della Guerra dei 6 Giorni, dall’altro impone il riconoscimento di sovranità ed integrità territoriale di ogni Stato regionale, con ciò includendo necessariamente anche Israele. Il principio è chiaro: terra in cambio di pace e fine delle obliquità interpretative. A Tel Aviv è Yitzhak Rabin che deve mediare la politica sionista portandola oltre il consenso ottenuto con e per la Giordania[4].
Oslo: Rabin e Arafat
Quando a Madrid i negoziati si flemmatizzano, Abu Alaa dell’OLP e Yair Hirschfeld, docente all’Università di Haifa, tentano di riaprire i canali diplomatici, appoggiati da Yossi Beilin, vice ministro degli Esteri israeliano. Alla periferia di Oslo le parti si incontrano in segreto e per 9 mesi convengono di non riesumare il passato; i team negoziali, che includono alti funzionari dell’OLP e del Partito Laburista israeliano, si scambiano bozze di proposte. Mentre Abu Alaa sottolinea l’importanza della cooperazione economica e della soluzione delle querelle più complesse, Rabin e Arafat, l’unico capace di effondere una percezione statuale palestinese nonché capo di un movimento di liberazione senza riuscire a diventare uno statista, cominciano a seguire da vicino i colloqui. Rabin tuttavia avverte come più urgente la reprise diplomatica con la Siria rispetto alla questione palestinese; malgrado abbia ben presente la necessità di un accordo è costretto ad affrontare i problemi connessi all’occupazione ed a destreggiarsi tra le pressioni politiche e la gestione degli insediamenti. L’esitazione di Rabin nel frenare l’espansione dei coloni spossa la fiducia palestinese, fiaccando ulteriormente il loro impegno verso gli Accordi. Molte tuttavia anche le negligenze imputabili ad Arafat, incompiuto uomo di stato, visto il suo dubbio trasporto per gli Accordi e la sua inconsapevolezza per comprendere come questi ultimi abbiano costituito l’occasione unica e irripetibile per patentare sé stesso e l’OLP quali unici titolari dei canali negoziali, cassando così la possibilità di una dialettica più probante. La tara di Yasser è stata sempre quella di non possedere l’intuito politico per comprendere davvero Israele, nemico sì, ma comunque l’unico soggetto politico con la facoltà di concedere l’indipendenza.
Dichiarazioni di principio
La dichiarazione di principi concordata, quella che passerà alla storia come Accordi di Oslo, firmata il 20 agosto 1993, fissa sia i termini per ulteriori negoziati di pace[5], sia l’impegno a definire una risoluzione permanente entro cinque anni, un risultato mai raggiunto prima[6]. Arafat riconosce il diritto all’esistenza di Israele, accettando di rinunciare all’uso di qualsiasi forma di violenza; Rabin[7] riconosce l’OLP come rappresentante del popolo palestinese[8]. Hanan Ashrawi[9], rappresentante della leadership nazionale unificata della rivolta, quella che in Cisgiordania e Gaza ha guidato la prima Intifada, decide di sostenere il processo di Oslo, salvando di fatto un’OLP indebolita. Ma il riconoscimento reciproco stabilito dall’accordo è asimmetrico, desta preoccupazioni da parte palestinese[10]. Il conflitto sotteso non è più arabo-israeliano, ma israelo-palestinese, imperniato su richieste conflittuali di autodeterminazione percepite da entrambi a somma zero; è qui che Israele trova uno dei suoi punti deboli nell’interlocuzione con un soggetto politico diverso da Egitto e Giordania, soggetti politici statuali e dunque titolari del monopolio dell’uso della forza, perché è qui che insorgono altre organizzazioni non statuali come Hamas che punta all’eliminazione di Israele. Di fatto, l’OLP non riesce né a contenere né ad abolire alcuna organizzazione armata.
Alla fine dei conti, gli Accordi non sono propriamente un trattato di pace, ma una sorta di programma di confidence building tra due entità combattutesi da decenni negandosi reciprocamente la legittimità. Oslo doveva dare l’avvio di un processo lungo e graduale durante il quale ambedue i contendenti avrebbero dovuto imparare a rispettare i diritti reciproci rassicurando le rispettive opinioni pubbliche circa la (purtroppo remota) possibilità di pacifica convivenza. Violenza ed estremismo minacciano da subito gli Accordi[11] tanto che, appena 5 mesi dopo la loro firma alla Casa Bianca, nel febbraio 1994, Baruch Goldstein, un colono ebreo di nascita americana, uccide 29 persone, ferendone altre 125, mentre stavano pregando durante il Ramadan nella moschea di Ibrahimi nella città di Hebron, in Cisgiordania.
Se l’ortodossia ebraica impone il dominio su Giudea e Samaria, la Cisgiordania biblica, Hamas rifiuta di rispettare l’impegno sottoscritto da Arafat di rinunciare alla violenza: nell’aprile 1994 Hamas compie un attentato suicida su un autobus ad Afula, in Israele, uccidendo 8 persone, il primo di 12 attacchi susseguitisi nei due anni successivi. Si avverte la mancanza di un soggetto terzo, auspicabilmente statunitense, che garantisca concreta stabilità sul terreno, cosa completamente diversa da quanto fumosamente tentato dalla impotente missione di osservazione creata per l’occasione. Di fatto non esiste un meccanismo atto a risolvere le controversie da parte di terzi.
La politica e le sue impossibilità
Rabin è in difficoltà, e la decisione di andare a Oslo senza il pieno appoggio della destra è disastrosa. Di fatto, i comportamenti di Hamas e dell’estrema destra israeliana minano gli Accordi. L’assassinio di Rabin, l’uomo sul quale puntare, cristallizza tutto, e Peres perde per un soffio il confronto elettorale con il Likud: è il declino del sostegno al processo di Oslo. Netanyahu, da destra, continua con le negoziazioni e nel 1998 firma con Arafat un altro accordo, auspice Clinton, che stabilisce ulteriori ritiri israeliani dalla Cisgiordania a condizione che i palestinesi adottino misure specifiche preventive di attacchi terroristici. Tutto vano: Oslo non crea alcuna fiducia, tutt’altro[12]. L’avvento di Ehud Barak quale primo ministro non cambia le cose, visto il latente scetticismo circa l’applicazione della 242 alla Cisgiordania. Tuttavia, nel 2000 si arriva a Camp David, con una serie di proposte di fatto mai più ripetute; attenzione però, perché gli assetti politici interni sono molto deboli. Visto che Camp David esordisce come una negoziazione one shot, nessuno sembra pronto a gettarsi nei negoziati; Arafat non vorrebbe nemmeno recarsi in America: ci va solo perché costretto dall’egiziano Mubarak. Si manifestano altri due aspetti rilevanti per Arafat: il ritorno dei profughi, a cui tuttavia rinunciare laddove acquisita la sovranità sul Monte del Tempio; ma chi avrebbe accolto i rifugiati se non per correre il rischio di un’ennesima libanizzazione? Ecco che il problema si sposta allora su Gerusalemme, ovvero su quale Dio ritenere sovrano del Monte del Tempio/Spianata delle Moschee. Arafat, senza quello spicchio di sovranità non ha accordi da vendere ai palestinesi. Tuttavia le proposte di Barak[13] sono il massimo che ci si possa attendere in quel momento, il problema però sta nell’intransigenza e nell’incapacità di Arafat di formulare alternative: gli israeliani intendono negoziare, Yasser non è pronto e la presidenza Clinton è delegittimata dalla prossima fine del suo mandato.
Mentre anche Arafat arriva a concludere che per avere uno stato occorra la pace e riconosce gli errori dei rifiuti precedenti, Tel Aviv teme che i palestinesi perseguano una strategia su due fasi: prima ottenere territorio, poi giungere ad uno scontro risolutore, quella che poi negli intenti è stata la Seconda Intifada, nata dal fallimento di Oslo e dalla passeggiata di Ariel Sharon, ritiratosi unilateralmente da Gaza[14] nel 2005, ad Haram al Sharif; gli israeliani reagiscono costruendo nuove colonie in Cisgiordania e riprendendo le armi a più riprese nella Striscia di Gaza.
Trent’anni dopo
Trent’anni dopo gli Accordi l’Autorità Palestinese, nella sua disfunzionalità, ha contribuito ad alimentare insicurezza e instabilità tra i palestinesi, instaurando un regime politico caratterizzato da esangui standard democratici, caratterizzati dai ripetuti rinvii elettorali, al cui vertice vi è Mahmoud Abbas, leader anche dell’OLP e di Fatah che, accentrando il controllo dei territori, ha delegittimato il sistema politico disegnato a Oslo. Dopo la vittoria elettorale di Hamas a Gaza nel 2007, Abbas ha dichiarato lo stato di emergenza sospendendo il Consiglio Legislativo Palestinese, l’organo legislativo dell’AP. Di fatto la leadership palestinese è attraversata da profonde rivalità interne, tanto che, dalla guerra civile del 2007 tra Hamas e Fatah, Gaza e la Cisgiordania continuano ad essere amministrate separatamente. A fronte dei fallimentari tentativi di accordo di Istanbul del 2020, di Algeri del 2022, di el Alamein del 2023, si è incrementato il sostegno alla resistenza armata; l’attrito con Israele ha conferito legittimità e peso ai gruppi pronti ad occupare la posizione politica lasciata vacante dall’AP che, di converso, ha sia proceduto ad arresti di attivisti di Hamas e della Jihad Islamica Palestinese, sia soppresso le ulteriori voci dissenzienti. Anche in Israele il contesto politico è mutato con l’arrivo al potere della coalizione storicamente più a destra, sostenuta da nazionalisti ultrareligiosi e messianici che auspicano la ricostituzione del biblico Regno di Davide: sono loro i più convinti sostenitori degli insediamenti israeliani[15] in Cisgiordania, di fatto non contemplati dagli Accordi.
Oltre al tentativo del piano Peace to Prosperity di Trump, non così accondiscendente verso le istanze palestinesi, almeno fino al 7 ottobre di quest’anno, queste ultime hanno dovuto fare i conti con gli Accordi di Abramo tra Israele, EAU, Bahrein, Marocco e Sudan, che certificano come la questione palestinese non possieda più la stessa forza traente[16]. Anche laddove il divieto di annessione della Cisgiordania divenga condizione per la firma dell’accordo, i Paesi Arabi[17] non fanno molto per contenere l’aumento degli insediamenti nei Territori[18]. Non si è così lontani dalla verità, ipotizzando che l’incertezza ha sempre regnato sovrana, visto che sia centrodestra laico e formazioni religiose israeliane si sono opposti alla ratifica dei vari accordi che si pongono così in un contesto politico segnato da scissioni ed accuse di corruzione, sia per il fatto che il terrorismo già a suo tempo è entrato in una nuova e cruenta fase di attentati né prevenuti né denunciati dalla dirigenza palestinese[19]; da qui il declino della sinistra israeliana e l’elezione di Bibi Netanyahu. Da quel momento, nonostante il supporto occidentale al processo di pace, i palestinesi si sono sostanzialmente resi protagonisti di diverse offensive terroristiche, mentre Israele ha instaurato vicendevoli rapporti con diversi paesi arabi, rompendo così l’isolamento regionale.
Politicamente il trentennale degli accordi ha rammentato che il governo Rabin è stata l’ultima espressione dell’identità fra il movimento dei kibbutz, tra il sindacato Histadrut[20] e il movimento laburista, che aveva retto Israele fino agli anni Settanta e da quel momento in crisi sia per la gestione della guerra del Kippur sia per il fallimento della politica economica. Mentre gli Accordi di Oslo connotano la nuova identità della sinistra, a livello giuridico la Corte Suprema sviluppa un attivismo che, sotto la presidenza di Aharon Barak, garantisce l’originario spirito laburista, intervenendo nelle scelte parlamentari e governative laddove trovate irragionevoli, argomento di quanto mai scottante attualità.
Con il passare del tempo, si sono avvicendate le generazioni; le più giovani hanno da tempo notificato all’Occidente la fine dell’ipotesi politica della soluzione a due stati, rifiutata peraltro da Hamas. Se da un lato il terrorismo palestinese porta costantemente indietro le lancette dell’orologio della storia malgrado l’Accordo di Taba[21], approvato in Israele sia pur con un margine esiguo, dall’altro si solleva la decisa opposizione della destra nazionalista-religiosa, dei coloni e di alcuni stati musulmani[22].
La nascita di un governo palestinese pone in crisi politica Israele, diviso sulla questione della sicurezza, e riduce il contesto palestinese al solo fronte costituito da Arafat e ANP, costretti a riconoscere l’impossibilità di distruggere Israele, dunque volti alla più conveniente ricerca di una coesistenza tra due stati; posizioni politiche che facilitano l’innesco di violenti radicalismi. La vittoria del Likud del 1996, peraltro, conferma le fratture della società israeliana, in quel momento intenta ad inquadrare i suoi fondamenti, quali: sionismo, laicità, status ebraico, bilanciamento tra sicurezza e democrazia interna a fronte delle minacce potenzialmente provenienti da Siria e Libano.
Nella galassia palestinese gli accordi di pace conducono ad un punto di faglia tra gli aderenti al negoziato, volti alla logica del winner winner game, ed il radicalismo religioso ed oltranzista armato, ispirato alla logica del zero-sum game. Dopo la costituzione dell’ANP la spaccatura politica ha condotto ad uno scontro che terminò con le elezioni del gennaio 2006 vinte dall’islamizzante Hamas, così diverso e lontano dalla borghesia palestinese del ‘900, quella via via più vicina all’Occidente, laddove non allontanata, contrapposta agli interpreti del fondamentalismo, aggravato dalla delusione delle masse e dal timore di Arafat di sia di affrontare le frange estremiste della sua fazione, sia di confrontarsi con le élite locali, costantemente delegittimate, e più interessate agli immediati risultati concreti che non alle questioni di principio.
L’attacco di Hamas del 7 ottobre rappresenta un cambiamento strategico regionale, uno sviluppo potenzialmente capace di offrire opportunità significative sia per l’Autorità Palestinese che per Israele; l’ANP può allinearsi con la lotta di Hamas tentando nel contempo di contenere le crescenti tensioni tra l’IDF ed i palestinesi in Cisgiordania e dando così prova di potersi unire ad una nuova amministrazione civile a Gaza, evitando tuttavia interpretare il ruolo del collaborazionista; è dunque strategicamente essenziale per Israele adottare le misure utili a rafforzare una debolissima AP che deve guardarsi sia dalle difficoltà finanziarie, sia dall’azione destabilizzante di Hamas. Senza alcun soggetto politico disposto ad assumersi la futura responsabilità di Gaza, sarebbe opportuno promuovere le condizioni utili a posizionare l’AP per questo ruolo, purché si scrolli di dosso i paludamenti da entità politica fallita.
To be continued…
Intorno al 2000, a processo di pace ormai arenato, Faisal Husseini, un leader dell’Olp, affermò che gli accordi di Oslo erano “un cavallo di Troia indispensabile per raggiungere il fine strategico di una Palestina dal fiume Giordano al mar Mediterraneo”, ovvero una Palestina in luogo di Israele, cosa che porta a ritenere che Oslo non abbia mai prodotto benefici né da un lato né dall’altro, malgrado rango e legittimazione conferiti all’AP.
Insomma, quale Palestina attendersi? Il problema geopolitico e geostrategico della questione arabo-israelo-palestinese ruota intorno alla definizione della dimensione statuale. Il processo aperto ad Oslo ha fatto accantonare una serie di possibili alternative rispetto al mantra “2 popoli 2 stati”, equazione che ha rappresentato la soluzione post ’67 del problema rappresentato dai territori in cambio di pace. Del resto, come considerare una monostatualità che sottende il fatto che tutta la Palestina appartenga agli arabi, forti di quella che loro sostengono essere l’immoralità esistenziale dello stato ebraico? Le varie ipotesi spaziano da un esclusivismo che presuppone l’espulsione ebraica fino ad un’impossibile cantonizzazione[23] o apartheid, figlio degli anni ’30 del 900.
Il problema di fondo degli Accordi di Oslo rimane dunque la proposizione di una soluzione che, meritevole per gli intenti, non ha però tenuto conto del pregresso storico, a partire dal rifiuto arabo della Dichiarazione Balfour, considerata contraria alle leggi umane e divine. La Palestina monostatuale, fin dall’inizio, secondo la visione araba-palestinese ancorché ante litteram, altro non è che uno spazio geopolitico unitario ed esclusivista che, nella sua concettualità, neanche il moderatismo può mitigare. La spartizione tratteggiata dalla risoluzione 181 dell’ONU[24], ed il suo contestuale rifiuto da parte araba, da cui la prima guerra arabo-israeliana del ’48, determinò l’impossibilità di qualsiasi escamotage federale con un rigido posizionamento monostatuale palestinese, mai del tutto abbandonato. Il modello bistatuale entrò nella diplomazia del processo di Oslo quando un riluttante Arafat accettò la nascita sul 22% della Palestina storica mandataria di uno stato palestinese a fianco, ma separato dallo stato israeliano. Con l’evanescenza di Camp David l’immaginario palestinese è tornato alla versione monostatuale ma nella versione teocratica offerta da Hamas, una realtà che mette alla prova la preservazione dei valori di appartenenza ebraica, democratici e liberali di uno Stato, quello israeliano, dove ora più che mai è divenuta certezza la sensazione che non esista soluzione praticabile al conflitto.
Politicamente il MO rimane la dimora della contraddittorietà: mentre da un lato il processo negoziale giungeva alla sostanzialità dell’Accordo di Taba, dall’altra il radicalismo rivoluzionario non accettava la via del dialogo di Arafat mentre il fanatismo islamico nelle sue varie declinazioni riaccendeva la latente avversione al Sionismo convertendola in violenza, cosa che evidenzia ancora adesso l’asimmetria culturale e geopolitica degli Accordi di Oslo, un’asimmetria che esalta l’ineluttabilità del fatto che non esiste alcuna possibile strada se non quella di un ormai impossibile compromesso per cui le convergenze parallele costituiscono al contempo ossimoro e paradosso.
L’attuale conflitto è consustanziale agli Accordi di Oslo, in quanto riproponente in nuce gli stessi irrisolti punti di faglia degli ultimi 100 anni; per Israele questa guerra deve ripristinare la sua deterrenza, pena la perdita definitiva della sicurezza. In MO la necessità di mostrarsi forti è fondamentale: se non lo si è, si spalancano le porte alla sempre incombente aggressione esogena. Hamas, seguendo la logica terrorista del tanto peggio tanto meglio, ha scientemente condotto un attacco che sapeva perfettamente in grado di scatenare la devastante e violenta reazione israeliana, una reazione inevitabile da parte di un Paese che porta le stigmate della persecuzione.
Secondo Robert A. Pape su Foreign Affairs, Hamas, nella Striscia, è più potente di prima; secondo altri comincia invece a diffondersi una marcata insofferenza contro, in quanto organizzazione ritenuta partecipe nell’imperdonabile colpa, date le attività di governo degli ultimi 16 anni, di aver scatenato l’ennesima tragedia utile, a fini politici interni, per rivendicare la leadership screditando definitivamente l’ANP, per allontanare i paesi arabi dalle liaison con USA e Israele, per indurre Hezbollah ad attaccare a nord. Ora come allora, i paesi arabi, per mero dovere di firma, hanno fatto le loro rimostranze da cancelleria, ma si sono ben guardati dal sostenere concretamente i palestinesi, specie in un momento marcato da una recessione economica ovunque sempre meno occulta.
Guardando al recente passato, visto che non sono state adottate reali sanzioni economiche afflittive nei confronti di Israele e che Teheran, oltre al consueto repertorio verbale e diplomatico, ha per il momento evitato qualsiasi atto ostile palese optando per azioni di disturbo ad opera di proxy regionali, Hamas ha scatenato un conflitto, ancora una volta, per ottenere risultati palesemente discutibili.
Strategicamente, anche la condotta israeliana ha avuto momenti nebulosi, che contrappongono la vis verbale di Netanyahu all’oggettivo realismo delle possibilità, a cominciare dallo scindere la popolazione dai combattenti di Hamas, a meno che Bibi non intenda cavalcare, pro domo sua ed il più a lungo possibile un’onda che, come sempre in questo lembo orientale di terra, appare ancora estesa, spumeggiante, pericolosa.
[1] I colloqui furono avviati nel 1992 a Londra, dove si programmò un’ulteriore negoziazione a Zagabria; contemporaneamente, agli inizi del 1993 i colloqui furono avviati in modo riservato ad Oslo. I promotori furono Johan Jørgen Holst, ministro norvegese degli affari esteri, Terje Rød-Larsen e Mona Juul. I negoziati per l’OLP furono condotti da Ahmed Qurei, in contatto diretto con Arafat; per Israele dal direttore generale del ministero degli esteri Uri Savir, che riferiva al ministro Shimon Peres. I colloqui si conclusero il 20 agosto ed il 9 settembre furono siglate le lettere ufficiali di riconoscimento.
[2] Un’alternativa consiste nella creazione di un unico Stato con pari diritti per tutti i cittadini. Mentre molti palestinesi hanno sostenuto tale ipotesi, gli israeliani l’hanno avversata temendo di non poter competere in uno scontro demografico che porrebbe fine all’identità di uno Stato a maggioranza ebraica. Da rilevare la già marcata volontà di entrambi di ricorrere al conflitto aperto: solo il 31% dei palestinesi ed il 30% degli israeliani hanno optato per il raggiungimento di un accordo di pace, mentre il 40% dei palestinesi intraprenderebbe una lotta armata contro l’occupazione israeliana con il 26% degli israeliani convinto dell’inevitabilità di una guerra definitiva con i palestinesi.
[3] Votata il 22 novembre 1967 dal Consiglio di sicurezza delle NU dopo la guerra dei sei giorni, è stata emanata sulla base del VI capitolo della Carta delle NU, relativamente alla risoluzione pacifica di dispute, e ha dunque natura di raccomandazione non vincolante. La risoluzione ribadiva uno dei principi chiave del diritto internazionale moderno, ovvero l’impossibilità dell’acquisizione territoriale per effetto dell’uso della forza. Stabiliva inoltre due condizioni: un ritiro militare israeliano ed il reciproco riconoscimento tra gli stati secondo una dottrina spesso riassunta nelle formule pace in cambio di territori o territori in cambio di pace. L’OLP giudicò negativamente la risoluzione, poiché non affrontava la questione del diritto all’autodeterminazione palestinese, ma non tenne conto che la risoluzione non contiene alcun accenno esplicito alla questione palestinese dato che è insorta successivamente, mentre fa esplicito riferimento alla questione dei rifugiati. I principi enunciati dalla risoluzione 242 verranno poi riaffermati nella risoluzione 338 votata in seguito alla guerra del Kippur, costituendo il principale riferimento internazionale per il processo di pace israelo-palestinese dagli anni 80 sino ai colloqui di Taba.
[4] Il 17 ottobre 1994, dopo la non belligeranza firmata in luglio a Washington, Rabin e Re Hussein firmavano il trattato di pace trascritto nove giorni dopo alla presenza del presidente Clinton; ciò permise a Hussein di acquisire un’area di oltre 300 kmq superiore all’estensione della Striscia di Gaza e di ricalcare le linee del cessate il fuoco del 1949.
[5] Le questioni cruciali vengono rimandate ad una seconda fase di trattative, soffermandosi solo su un accordo più generico riguardante esclusivamente la definizione del territorio palestinese in tre Aree, A, B e C, che avrebbero dovuto presentare tre rispettivi livelli di controllo amministrativo, civile e militare. L’Area A sarebbe stata sotto esclusivo controllo militare e civile dell’ANP. Comprendeva una porzione corrispondente a circa il 3% della Cisgiordania, l’accesso alla quale sarebbe stato vietato a tutti i cittadini di nazionalità israeliana. L’Area B prevedeva il controllo civile da parte palestinese e quello congiunto israelo-palestinese per la sicurezza, corrispondente a circa il 23-25% del territorio della Cisgiordania. L’Area C, infine, avrebbe incluso circa il 60% della Cisgiordania e la sua amministrazione, civile e militare, sarebbe stata esclusivo appannaggio israeliano. Gli accordi prevedono la creazione di un’autorità palestinese, un’entità provvisoria destinata nel 1999 a lasciare spazio a uno stato indipendente. Uno dei successi più importanti fu la creazione dell’Autorità Palestinese che, concepita secondo il modello di gradualità, avrebbe dovuto essere un’organizzazione ad interim per amministrare un limitato autogoverno palestinese in Cisgiordania e a Gaza per cinque anni, durante i quali si sarebbero dovuti svolgere i negoziati sullo status definitivo.
[6] Dopo due giorni di dibattito la Knesset, il 23 settembre 1993, espresse il voto di fiducia necessario all’approvazione per gli Accordi. Anche le reazioni dei palestinesi non furono omogenee: al Fatah accettò gli Accordi, ma Hamas, il Movimento per il Jihad islamico in Palestina e il Fronte popolare per la liberazione della Palestina si opposero, respingendo l’esistenza di uno Stato sionista. I reciproci dubbi sulle reali intenzioni dell’altro diffondevano un clima di diffidenza.
[7] In quel periodo Israele e la Santa Sede sottoscrivono a Gerusalemme un accordo che sancisce il reciproco riconoscimento dopo 50 anni. Il 1994 si apre poi con la ripresa dei negoziati israelo siriani e il 9 febbraio Peres e Arafat siglano al Cairo due documenti e una serie di mappe sulla questione dei passaggi di frontiera e sulla protezione degli insediamenti ebraici che aprono all’autonomia di Gaza e Gerico.
[8] L’accordo prevedeva anche la promessa del ritiro israeliano da Gaza e da parte della Cisgiordania, di elezioni per l’autogoverno palestinese e di una risoluzione permanente basata sul principio della terra in cambio di pace.
[9] Successivamente guidò l’opposizione al personalismo di Arafat; si dimise dall’incarico di ministro del turismo nel rimpasto governativo del 1998. Con l’opposizione denunciò nella dirigenza dell’ANP l’assenza di qualsiasi proposito di avviare i processi di rinnovamento e trasparenza richiesti dalla popolazione palestinese pronta quindi ad ascoltare e far propri gli appelli del leader spirituale di Hamas, Ahmed Yassin, accolto nel 1998 come un eroe a Teheran, Damasco e Khartum.
[10] Rabin ha affermato nel 1994 alla Knesset : “Credo che i sogni degli ebrei per 2.000 anni di tornare a Sion fossero quelli di costruire uno stato ebraico e non uno stato binazionale, perciò vedo la coesistenza pacifica tra Israele come stato ebraico – non su tutta la terra di Israele, sulla maggior parte di essa, la sua capitale è la Gerusalemme unita, il suo confine di sicurezza è il fiume Giordano – accanto ad esso un’entità palestinese, meno di uno stato, che gestisce la vita dei palestinesi. Non è governata da Israele. È governata dai palestinesi“.
[11] Shlomo Ben Ami, ministro degli esteri israeliano tra il 2000 e il 2001, ha dichiarato che il trattato peccava sia nella concezione che nell’attuazione, sottolineando che l’intento israeliano sull’espansione degli insediamenti ebraici in Cisgiordania, territori designati per un futuro stato palestinese, vista la mancanza di meccanismi per rendere Israele responsabile, rappresentavano altre gravi lacune. “Nessun impegno israeliano a fermare l’espansione degli insediamenti, per non parlare della loro eliminazione, era incluso negli Accordi di Oslo”
[12]Nel 2006 Ziyad Abu ʿAyn, di al-Fatah, durante un’intervista, dichiarò: “Gli accordi di Oslo non sono stati ciò che il popolo palestinese sognava. Il sogno del popolo palestinese è il ritorno, l’autodeterminazione, la fondazione di uno Stato palestinese indipendente, e la liberazione della sua terra. Comunque, non ci sarebbe stata resistenza in Palestina se non fosse stato per Oslo. Fu Oslo che incoraggiò fortemente alla resistenza palestinese.
[13]Ehud Barak, su sollecitazione del presidente Clinton, offrì ad Arafat uno Stato palestinese nella striscia di Gaza e in parte della Cisgiordania, il ritorno di un limitato numero di profughi e un indennizzo per gli altri, a patto della demilitarizzazione dello Stato palestinese e dello smantellamento dei gruppi terroristici. Con una mossa criticata, Arafāt rifiutò l’offerta di Barak senza presentare controproposte.
[14] Hamas ne assume il controllo dopo una breve guerra civile con Fatah nel 2007
[15] Dati recenti stimano che in Cisgiordania ci sono circa 300 insediamenti e 465.000 coloni, più altri 230.000 coloni che si aggiungono ai 3.000 che risiedono a Gerusalemme Est.
[16] Gli EAU hanno aperto la strada agli Accordi di Abramo, dato che la loro politica estera è caratterizzata da dinamismo e pragmatismo ben espressi dal ministro del commercio che, in merito all’impatto degli scontri Israele-Hamas sui rapporti di Abu Dhabi con Tel Aviv, ha asserito che gli Emirati non mescolano la politica al commercio. Gli EAU e Israele hanno avviato diverse partnership riguardanti il settore della difesa. Emirati e Israele fanno entrambi parte del Quad dell’Asia occidentale, assieme a USA e India.
[17] L’Arabia Saudita avrebbe potuto, forse potrà, avvicinarsi alla normalizzazione con Tel Aviv, visto l’interesse mostrato ad una più ampia intesa con gli USA che compendia lo sviluppo dell’energia nucleare, le armi avanzate, un accordo di reciproca difesa. La visita dell’inviato saudita per la Palestina a Ramallah ha confermato l’interesse per la creazione di uno Stato palestinese con Gerusalemme Est come capitale. È però presto per avere la certezza che i Sauditi non metteranno i loro interessi nazionali dinanzi alla causa palestinese. La normalizzazione con Israele ha come scopo una rinegoziazione dei rapporti con gli USA, che compendia tre punti: una garanzia di protezione da parte degli USA in caso di attacco a Riyadh, la cooperazione americana per il programma nucleare civile saudita, la necessità di una maggiore stabilità regionale in funzione dello sviluppo di Vision 2030. Muhammad Bin Salman può o annullare il processo di normalizzazione con Israele, a costi insostenibili, o congelarlo in attesa di una de-escalation. L’annullamento di un processo già avviato restituirebbe l’immagine di un management saudita debole internamente ed all’estero. Hamas mette in difficoltà MbS anche per le posizioni saudite circa l’estremismo islamico. Uno degli obiettivi dell’erede al trono è separare l’identità saudita dalla scuola islamica wahabita abbracciando un’identità più legata ad un Islam più moderato.
[18] Questo malgrado nel 2002 i Paesi citati abbiano firmato l’iniziativa di Pace Araba a guida saudita, che condizionava la pace tra Israele e il mondo arabo alla creazione di uno Stato palestinese indipendente.
[19] Mentre Israele giungeva ad accordi con l’OLP era comunque impegnato contro gli integralisti sciiti di Hezbollah nel Libano del sud che attaccavano posizioni israeliane con pesanti risposte israeliane in reazione. Il terrorismo islamico riprese la sua strategia il 18 luglio 1994 quando una bomba fece crollare i 7 piani dell’associazione israelo-argentina di mutua assistenza a Buenos Aires causando 60 morti.
[20] Federazione Generale dei Lavoratori in Terra d’Israele
[21] L’Accordo ad interim sulla Cisgiordania e la Striscia di Gaza ovvero Accordo di Taba (a volte anche Oslo 2 o Oslo II) è stato un accordo politico, nell’ambito del conflitto israelo-palestinese Avente ad oggetto la striscia di Gaza e la Cisgiordania, venne firmato a Taba nella penisola del Sinai da parte di Israele e l’OLP il 24 settembre 1995 e poi quattro giorni più tardi il 28 settembre 1995 dal primo ministro israeliano Yitzhak Rabin e dal presidente dell’OLP Yasser Arafat – e attestato dal presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, nonché dai rappresentanti di Russia, Egitto, Giordania, la Norvegia e l’Unione europea – a Washington DC.
[22] Libia, Siria, Iran che ritenevano che l’accordo avrebbe favorito solo lo stato ebraico
[23] Ahmed Khalidi, rettore del collegio governativo arabo di Gerusalemme nel ’33, proponeva uno stato unitario formato dalla Transgiordania e dalla Palestina sotto il principe Abdullah con un cantone autonomo nelle terre meridionali e ponendo un limite all’emigrazione ebraica. La cantonizzazione venne ripresa nel Piano Morrison-Grady del ‘46.
[24] Il 29 novembre 1947, il Piano di partizione della Palestina elaborato dall’UNSCOP (United Nations Special Committee on Palestine) fu approvato dall’Assemblea Generale delle NU, con l’intento di dirimere il conflitto tra la comunità ebraica e quella araba palestinese, divampato già durante il mandato britannico della Palestina. Il piano proponeva la partizione del territorio palestinese fra due istituendi Stati, uno ebraico, l’altro arabo, con Gerusalemme sotto controllo internazionale. Il rifiuto da parte dei Paesi arabi e il deterioramento delle relazioni fra ebrei e arabi in Palestina condussero alla guerra arabo-israeliana del 1948.