Le forze regolari siriane hanno rotto l’assedio di Deir Ezzor, l’ultimo baluardo dell’Isis nella Siria orientale. Decisivo il supporto dell’aviazione russa che con una serie di raid mirati ha eliminato alcuni importanti comandanti jihadisti, favorendo l’avanzata delle truppe governative.
A 140 chilometri a sud di Raqqa, la capitale dell’Isis in Siria, Deir Ezzor è una città di fondamentale importanza strategica. Si trova sulle sponde del fiume Eufrate, il cui controllo garantisce la gestione delle acque nell’intera area. E’ al centro di una regione ricca di gas naturale e pozzi petroliferi, sfruttati per decenni dal regime degli Assad anche attraverso concessioni a multinazionali occidentali quali Shell e Total. La sua posizione le consente di dominare le aree a maggioranza sunnita della Siria e dell’Iraq, laddove il fondamentalismo islamico ha messo le sue radici più profonde dando origine prima ad al-Qaeda e poi allo Stato Islamico.
Ma soprattutto, la conquista di Deir Ezzor da parte dell’esercito siriano consentirebbe ad Assad e ai suoi alleati, primi fra tutti l’Iran e le milizie libanesi di Hezbollah, di realizzare l’ambizioso progetto di un corridoio sciita in Medioriente. Secondo il professor Georg Meyr, docente di storia delle relazioni internazionali all’Università di scienze internazionali di Trieste, “Deir Ezzor non è la più importante città dello scenario, ha circa 200.000 abitanti, però si trova sull’Eufrate ed è in una posizione assolutamente strategica proprio per questioni geopolitiche. In pratica, una volta completamente conquistata dalle forze di Assad, quindi dalle truppe regolari siriane, sostenute dalla Russia in maniera ufficiale, ma anche dall’Iran sia in maniera diretta sia attraverso gli hezbollah libanesi, quella caduta oltre a segnare probabilmente la fine dell’esperienza territoriale dell’Isis, potrebbe aprire la strada alla realizzazione di una continuità incontrastata di accesso territoriale dall’Iran al mediterraneo. Si tratterebbe di un passaggio inevitabile attraverso l’Iraq – al momento l’Iraq è in mano agli stessi sciiti perseguitati dal sunnita Saddam Hussein – attraverso evidentemente la Siria che con gli sciiti ci va molto d’accordo – Assad tecnicamente non è proprio uno sciita, è un alawita, ma senza essere un esperto di religioni islamiche so che gli alawiti sono una costola degli sciiti – quindi dalla Siria, che pare ormai riconquistata da Assad, avrebbe un diretto sbocco sul libano dove il partito Hezbollah è un partito di enorme rilevanza e quindi potrebbe essere direttamente sostenuto dagli stessi alleati e sponsor iraniani. Di fatto l’Iran arriverebbe come proiezione pressoché diretta al Mediterraneo”.
Una strategia ambiziosa che tuttavia rischia di far aumentare le tensioni, già altissime, presenti nell’area. In particolare, è la frattura fra sciiti e sunniti a destare maggiore preoccupazione. Tuttavia, a differenza di sei anni fa, quando il conflitto siriano era ancora agli inizi, oggi le tribù sunnite rischiano di perdere territori, tanto siriani quanto iracheni, in cui in passato dominavano incontrastate. Secondo l’ammiraglio Ferdinando Sanfelice Di Monteforte, docente di Strategia presso l’Università di Trieste e già Rappresentante Militare per l’Italia presso i Comitati Militari NATO e UE “con la sconfitta imminente dell’Isis, il campo sunnita è entrato in difficoltà e le lotte interne lo hanno ulteriormente indebolito malgrado sia in teoria prevalente, Consideriamo che i sunniti sono dieci volte gli sciiti. Nel tentativo di controllare la Siria e lo Yemen, che sono i due crocevia strategici dell’Asia, stanno perdendo perché non stanno facendo abbastanza forza”.
Il grande artefice del corridoio sciita è l’Iran. La maggiore potenza sciita del Medioriente è impegnata in prima linea nella lotta al terrorismo in Siria e in Iraq attraverso le milizie iraniane Al Qods comandate dal generale Qassem Soleimani. Ma dietro la guerra al terrore si cela un ulteriore obiettivo: estendere il più possibile la propria sfera di influenza nella regione, saldare fra loro tutte le componenti della galassia sciita, dalle forze di Assad alle milizie irachene del Popular Mobilization Front passando dai reparti di Hezbollah, per raggiungere la vittoria finale.
Ma così facendo, le possibilità di uno scontro con Israele, secondo il professor Meyr, sarebbero molto alte. “Venendo soprattutto da un passato nel quale la distruzione di Israele è sempre stata data come obiettivo pressoché irrinunciabile – mi sembra che oggigiorno i toni siano più bassi, meno accesi, ma soprattutto in precedenza Ahmadinejad tuonava su questa tematica – è chiaro che Israele non può vedere come accettabile per la propria sicurezza nazionale di avere praticamente le forniture incontrastate dirette e militari iraniane a Hezbollah in Libano, a pochi chilometri dal proprio confine. Cosa poi sia disposta a fare Israele per contrastare tutto questo è difficile prevederlo, teniamo presente che in passato gli israeliani, ad esempio agli inizi degli anni Ottanta, hanno raso al suolo o comunque reso inutilizzabile la centrale atomica di Saddam Hussein che con un rapidissimo raid. Bisogna vedere poi cosa veramente siano disposti a fare, quanto ritengano davvero insopportabile il così detto corridoio sciita dall’Iran al mediterraneo”.
Il possesso, sebbene non ufficialmente dichiarato, di armi nucleari da parte di Israele, è certamente un ulteriore elemento di incertezza nello scenario. In proposito, l’ammiraglio Sanfelice, pur sottolineando come “le armi nucleari verranno usate solo quando l’esistenza stessa di uno Stato sarà messa in pericolo” non può fare a meno di ammettere che “l’escalation è già arrivata al massimo livello del convenzionale”. Le future scelte di Gerusalemme sono più che mai imprevedibili anche alla luce del celebre motto israeliano “questa sera non abbiamo armi nucleari ma potremmo disporne domani mattina” che il professore giustamente ricorda.
Israele potrebbe, infine, giocare la carta della riapertura dei rapporti diplomatici con l’ Arabia Saudita. Durante la visita di Trump di questa primavera fu addirittura permesso al presidente Usa di viaggiare direttamente da Rihad a Gerusalemme, attraverso un corridoio aereo diretto che finora non era mai esistito alla luce dell’assenza di relazioni bilaterali fra i due Paesi. Questo ha dimostrato come in materia di rapporti saudito-israeliani la distanza fra ufficialità e realpolitik sia spesso notevole. “In linea teorica l’Arabia Saudita e Israele non hanno nessuna possibilità di dialogo perché l’Arabia saudita non ha mai riconosciuto Israele. L’Arabia è uno stato rigorosamente islamico incompatibile con la realtà israeliana che non è soltanto ebraica ma ha anche forti aspetti di un laicismo che non piace ai paesi islamici. Questa è la teoria”, sottolinea Meyr. “Indubbiamente li accomuna il nemico in questo momento perché per l’Arabia l’Iran è assolutamente il principale pericolo a livello statuale dello scenario medio orientale. Una conflittualità saudito- iraniana potrebbe portare anche a ‘turarsi il naso’ e a superare naturali rancori e gelosie”.
Precedenti storici in tal senso non mancano, come ricorda il professore: “Un capolavoro in tal senso furono Hitler e Stalin che firmano l’accordo, pur non personalmente, accettano il trattato del ‘39 pur odiandosi con tutte le loro forze, disprezzando i reciproci sistemi con tutte le loro forze, ma ritengono che quel trattato fosse ottimo per loro in quel momento”.
L’Arabia Saudita non è l’unico oppositore al disegno egemonico dell’Iran. Il presidente usa Donald Trump considera punto fondamentale della sua agenda estera la riapertura delle ostilità con il regime di Teheran, in controtendenza con la politica di appeasement voluta dal suo predecessore Barack Obama. Tale intento si spiega, secondo l’ammiraglio Sanfelice, con la diffidenza, da sempre provata dagli Stati Uniti, verso il sorgere di una potenza islamica: “Finché sembravano vincere gli estremisti sunniti, con l’Isis, gli Stati Uniti hanno cercato di contenerli e , se possibile, di sconfiggerli. Adesso che vedono il campo sciita emergere tutto sommato al di là delle loro possibilità, allora cercano di contenerlo e quindi cercano di minacciarlo”. Il culmine di tale minaccia è dato dall’intenzione, più volte ventilata dal presidente americano, di far dichiarare l’Iran inadempiente dell’accordo sul nucleare firmato da Teheran con i Paesi del 5+1 nel 2015. Sul punto , ogni scenario è possibile: “L’accordo sul nucleare può essere visto, rivisto, negoziato e rinegoziato” ritiene l’ammiraglio “la realtà è che l’America cerca un equilibrio nella regione perché solo con la stabilità si sviluppano i commerci e c’è benessere generalizzato. Questo equilibrio sta cercando di ottenerlo dando prima una botta a destra e poi una a sinistra e questo rientra in tale logica. Ma fra le dichiarazioni e gli atti c’è spesso un bell’abisso”.
La strategia di contrasto all’Iran potrebbe essere agevolata dal progetto di una Nato Araba, una grande alleanza fra Stati Uniti e monarchie del Golfo, al centro della visita di Trump in Arabia Saudita del maggio scorso. Secondo il professor Meyr, tuttavia, le opportunità aperte dall’asse Usa-Rihad non devono essere sopravvalutate. “Le opposizioni al corridoio sciita possono essere una ennesima ragione in più per, tutto sommato, le buone relazioni che esistono tra l’Arabia Saudita e gli USA in questo momento: sono già di per sé positive perché ci sono già diverse assonanze tra i due paesi. Però teniamo anche presente che gli USA – lo citavo già prima per le parole di Trump – in Siria dimostrano una scarsa propensione ad un impegno diretto. Hanno già un diretto coinvolgimento attraverso l’Iraq naturalmente,in quanto sostengono il governo di al-Abadi però non così diretto come ha invece nettamente la Russia nello scenario al momento”.
II vero asso nella manica degli Stati Uniti è dato dalle milizie curde addestrate ed armate dal Pentagono nella valle dell’Eufrate, già impegnate nella lotta contro l’Isis a Raqqa. Mentre le truppe siriane entravano a Deir Ezzor, le milizie curde si sono spostate verso Sud su impulso dei consiglieri americani arrivando a pochi chilometri di distanza dall’esercito di Assad. Un intervento che secondo il professor Meyr: “E’ il contrasto, chiaramente, alla vittoria di Assad, che si sta trafilando a Deir Ezzor. Non piace la liberazione di quella città la quale, più che un simbolo, perché forse i simboli erano Mosul, Raqqa, eccetera, è un crocevia strategico per la realizzazione del corridoio. In qualche modo, se si può ostacolare nei limiti dell’accettabilità e senza ovviamente attaccare i caccia russi che intervengono nella zona, questo viene fatto sicuramente, pertanto anche lo spostamento dei curdi è un freno al dilagare verso Oriente delle forze di Assad”.
Gli Stati Uniti intendono utilizzare le milizie curde come ‘pedine’ del delicato gioco mediorientale, al fine di sbarrare la strada ad Assad e all’alleato iraniano e di allontanare nel tempo la realizzazione del temuto corridoio sciita. Ed i curdi sono pedine certamente sacrificabili nell’ottica di un disegno più grande. “Sono popolazioni purtroppo martoriate, che vivono a cavallo tra un po’ tutti gli stati dello scenario del vicino Medio Oriente e che cercano una loro dimensione possibilmente statuale e non soltanto una dimensione nazionale che già hanno”, ricorda il professor Meyr, “Esiste comunque una nazione curda, però non esiste – come sappiamo – lo stato curdo: pertanto i curdi possono rendersi disponibili a pressioni facilmente immaginabili. E’ facile immaginare il baratto, ti sostengo per uno stato curdo ma tu intanto mi aiuti a fare quello che serve, anche se poi le cose non andranno in tal senso perché sappiamo che lo stato curdo nella realtà non lo vuole nessuno nell’area”.
Il sostegno ai curdi proseguirà anche a costo di creare ulteriori tensioni con la Turchia. “Le relazioni fra Usa e Turchia ormai non sono più quelle dell’idillio di decenni in cui comunque la Turchia moderatamente democratica, definiamola così, prudentemente democratica, tuttavia era un ferreo e sicuro alleato occidentale contro Unione Sovietica e minacce di ogni tipo nella area in questione. L’impressione è che gli Stati Uniti non stiano investendo in maniera particolare con la Turchia di Erdogan né Erdogan stia cercando più di tanto di attirarsi il grande sostegno ulteriore e prolungato degli Stati Uniti” aggiunge il professore.
Mentre le tensioni aumentano la Russia, storica alleata di Assad, continua a giocare un ruolo da protagonista. I propositi del presidente russo Putin, secondo la testimonianza del professore, sono molto chiari: “Portare nuovamente Assad alla guida del paese e acquisire enormi meriti come Russia per il ruolo rivestito nella riconquista faticosissima della sovranità centrale di Damasco, per poi pilotare il paese verso una qualche forma, bisogna essere anche prudenti con le parole, e di democraticità almeno parzialmente accettabile sotto il profilo internazionale che passi attraverso un qualche voto dell’intero Paese”.
Il grande ‘peso contrattuale’ che la Russia possiede in Siria potrebbe surriscaldare ancora di più le già complesse relazioni bilaterali fra Usa e Russia. Ma su questo punto, l’ammiraglio Sanfelice ricorda come le apparenze possano ingannare: “Gli Stati Uniti e la Russia stanno giocando da sessant’anni a questa parte al gioco che a Napoli si chiama dei ladri di Pisa che litigano ogni giorno e di notte vanno a rubare insieme. Gli Stati Uniti e la Russia sono in accordo su alcuni elementi ed in profondo disaccordo su altri. Quando loro vogliono far vedere che litigano tirano fuori questi argomenti e li danno alle stampe con grande evidenza, però sia gli usa che la Russia hanno un interesse comune: gli estremisti non li vogliono a capo della galassia islamica”.
Nella delicata partita siriana, invece, pare improbabile un ruolo rilevante da parte dell’Europa a causa della mancata elaborazione di una politica estera autonoma. A proposito del Vecchio Continente il professor Meyr ammette che “noi europei, pur non volendo dare una immagine troppo nichilista, non credo che abbiamo una reale possibilità di condizionamento diretto. Ci sono degli impegni anche dell’Italia per l’addestramento e la difesa di punti strategici, dighe e quant’altro però un ruolo inteso come Unione Europea, non riesco a vederlo. Se parliamo di singoli paesi, magari sulla scia degli Stati Uniti o anche per vecchi rapporti diretti, sì , ma l’ Unione Europea purtroppo, e lo dico con tristezza, ancora non è in grado di esprimere politiche congiunte. Il settore della politica estera rimane ancora uno degli assoluti incompiuti degli accordi di Maastricht, siamo assolutamente indietro, non c’è assolutamente una possibilità”.
Anche per quanto riguarda le capacità militari europee il giudizio, questa volta espresso dall’ammiraglio Sanfelice, è pessimista. “L’Europa non ha potenza militare, l’ha persa, l’ha persa sessant’anni fa e non è stata in grado di ricostruirla. Quindi quando uno è debole non riesce ad influire sugli eventi e le armi non è che uno ce le ha per usarle, il semplice possesso conferisce credibilità al negoziatore. Gli Usa sono ascoltati di più rispetto a quanto non sia ascoltata l’Europa perché, come diceva il presidente Theodore Roosevelt, hanno the Big Stick, il grande bastone”. E la realizzazione di un progetto di una difesa comune europea richiederebbe, in ogni caso, dai quindici ai vent’anni: “Quindi il progetto di difesa europea è un progetto a lungo termine. In questo momento la difesa europea non potrà che essere una unione di debolezze senza un apprezzabile risultato a breve termine”.
La costruzione del corridoio sciita muterà la geopolitica del Medioriente. Molti gli attori in gioco, gli interessi, le possibilità di conflitto. In tale scenario l’unica arma da usare, secondo l’ammiraglio Sanfelice “è quella di fare il negoziatore, cercare di convincere le varie parti, tentare di metterle d’accordo, cercare di evitare azioni estreme, diciamo de-escalare il conflitto. La diplomazia italiana si è affermata nella regione non da ieri e può riuscire quanto meno ad evitare che il conflitto diventi sempre peggio”. Solo in tal modo, forse, si potrà arrivare alla fine della guerra ed ottenere una pace duratura.