I PROBLEMI DI SICUREZZA DEL MEDITERRANEO

Amm. Sq. Ferdinando SANFELICE di MONTEFORTE

 

Non si può affrontare il problema della sicurezza del Mediterraneo senza considerare prima di tutto quale sia la sua posizione, rispetto alle masse continentali che lo circondano. L’Africa, l’Asia e l’Europa, infatti, si affacciano tutte e tre su questo bacino, che costituisce di fatto il centro di quella che MACKINDER chiamava “l’Isola del Mondo”[1], composta appunto dai tre continenti riuniti.

Queste imponenti masse terrestri ne fanno un mare chiuso, comunicante con gli oceani, da un lato, attraverso lo Stretto di Gibilterra e, dall’altro, attraverso una serie di passaggi obbligati che inizia con il Canale di Suez, prosegue con il Mar Rosso e termina con lo Stretto di Bab-el-Mandeb. Questo fa sì che il Mediterraneo venga dominato da chi possiede tali posizioni. Ricorda una di quelle caramelle tonde: chi vuole mangiarla, può scartarla prendendola per le due estremità.

Ma, guardando all’insieme Mediterraneo-Mar Rosso, un’altra considerazione sorge spontanea: i due mari, messi insieme, spaccano in due parti l’Isola del Mondo, separando l’Africa dal resto della massa terrestre: se si avverassero le ipotesi di alcuni geologi, che sostengono la possibilità che questa spaccatura si ampli arrivando a toccare i Grandi Laghi al centro dell’Africa, si avrebbe tutta un’altra configurazione delle masse terrestri, rispetto all’attuale.

Al suo interno, il Mediterraneo presenta due bacini alturieri, nei quali le tempeste raggiungono una violenza simile a quelle oceaniche; essi sono separati tra loro dalla penisola italiana e dalla Sicilia, un ponte naturale che si protende verso la Tunisia, la punta più a nord dell’Africa. Questo ponte è utilizzato, fin dai tempi più remoti, quale passaggio agevole per i movimenti di masse umane nei due sensi, a seconda delle situazioni e dei rapporti di forza.

Vi sono poi alcune zone in cui il mare si spinge verso nord, a partire da questi due bacini: il mare Adriatico, il mar Egeo e l’insieme mar Nero/mare d’Azov sono il collegamento marittimo con l’interno dell’Eurasia, agevolato dai grandi fiumi europei, che consentono una penetrazione del commercio marittimo ancora più in profondità, e i terminali sulla costa o lungo le loro rive permettono al continente di esportare i prodotti del suolo e del sottosuolo in tutto il mondo, utilizzando il commercio marittimo.

Se poi si aggiunge a tutto ciò il clima straordinariamente temperato, grazie a quell’enorme “riscaldamento centrale” costituito dal Sahara, che sposta l’Equatore termico verso nord, consentendo all’Europa di godere di temperature medie ben più favorevoli alla vita umana rispetto ad altre zone del mondo di pari latitudine, si può vedere perché, da secoli, imponenti flussi migratori, provenienti da tutte le direzioni e dai tre continenti, si siano diretti verso questa regione.

Purtroppo, non è tutto oro quello che luccica: vi sono infatti due problemi di fondo. Il primo è la notevole sismicità del bacino, dovuta ai movimenti delle placche continentali che tendono ad avvicinarsi. Di conseguenza, i terremoti, talvolta seguiti da tsunami, sono frequenti, causando ripetute e ricorrenti tragedie.

Il secondo problema, invece, è prettamente geopolitico. Diceva infatti, anni fa, Fernand BRAUDEL, che “la complicità della Geografia e della Storia ha creato una frontiera intermedia di coste e di isole che, da nord a sud, divide il mare in due universi ostili. Provate a tracciarla, da Corfù e dal Canale di Otranto, fino alla Sicilia e alle coste dell’attuale Tunisia: a est siete in Oriente e a ovest in Occidente”[2]. Anche se questa frontiera, nel corso dei secoli, si è spostata avanti e indietro, a seconda dei rapporti di potenza tra le Nazioni che agivano nel bacino, la divisione del Mediterraneo in due aree ostili è valida ancor oggi.

L’affermazione di BRAUDEL è però anche un modo efficace per ricordare a quali risultati si sia giunti, dopo millenni di lotte tra i popoli della regione mediterranea. A questi, in tempi più recenti, un prestigioso intellettuale ed economista francese, Jacques ATTALI, ha attribuito l’invenzione della “vendetta, come forma dell’organizzazione della storia, come forma dell’organizzazione delle relazioni umane, (per cui) nessun male è possibile senza che un altro si vendichi”[3].

La conflittualità, quindi, è una caratteristica storica del Mediterraneo, e ogni guerra o disputa non è altro che la prosecuzione di lotte passate, una vendetta appunto scatenata dagli sconfitti che cercano la rivalsa rispetto ai torti subìti nel passato, veri o presunti che siano. Questo sentimento, bisogna ammetterlo, è fortemente radicato nel DNA dei popoli mediterranei, tanto che i numerosi tentativi di collaborazione, al di là della loro maggiore o minore efficacia, non hanno trovato l’appoggio di un consenso popolare tale da farli prosperare, rimanendo processi di dialogo tra élite governative o intellettuali.

Detto questo, bisogna considerare le specificità attuali del Mediterraneo, e i punti di contrasto che, dopo averne causato la decadenza, ne impediscono il ritorno ai fasti di un tempo.

La prima specificità è che il Mediterraneo rimane, malgrado tutto, una delle principali “autostrade del commercio” marittimo mondiale. Come ricorda ATTALI, “il 30% del traffico marittimo mondiale e il 25% del trasporto di idrocarburi del mondo passano per il Mediterraneo”[4] ma, per converso, il bacino non dispone di porti significativi, tanto che “i porti maggiori di questo mare sono al quarantesimo o al cinquantesimo posto nel mondo, (e) scadono annualmente in tale classifica”[5]. Questo significa che ai popoli del litorale mediterraneo vanno solo le briciole di tale enorme flusso di beni, rappresentato dal commercio internazionale.

La seconda caratteristica, anch’essa citata da ATTALI, è che circa l’80% del PIL e della produzione della regione sono concentrati in tre Paesi: Spagna, Francia e Italia. Solo il rimanente 20% è prodotto da tutte le altre Nazioni messe insieme. Questa diseguaglianza conferma che, laddove esistano forti contenziosi interni, instabilità e dispute sub-regionali, non vi è alcuna speranza di sviluppo.

Ma proprio i tre Paesi più sviluppati sono preda, a loro volta, di storiche instabilità e di ricorrenti tensioni interne, tanto che i rispettivi governi si sono pesantemente indebitati, per migliorare la qualità di vita delle loro popolazioni, limitando così la propria capacità di influire sugli eventi della regione, sia mediante l’arma economica, sia a mezzo della loro forza militare.

A proposito di quest’ultima, non deve trarre in inganno l’apparente notevole entità della spesa per la Difesa di tali Nazioni, dato che queste dispongono di strumenti militari sostanzialmente aero-terrestri, un lascito della Guerra Fredda che nessuno di loro è stato in grado di modificare. Siamo pronti, come dieci anni fa, a svolgere missioni di stabilizzazione, una capacità che l’inasprirsi dei conflitti nel mondo rende meno urgente, e per contro manca la capacità di agire, in modo consistente, attraverso il mare.

Non è inopportuno citare, a tal proposito, Paul KENNEDY, che affermò, alcuni anni fa, che “la ricchezza è in genere necessaria per sostenere la potenza militare, così come la potenza militare è di solito necessaria per conquistare e proteggere la ricchezza”[6].

Questa considerazione ci porta alla terza specificità del Mediterraneo. Il fatto che persino le tre Nazioni più ricche del bacino non posseggano né le disponibilità economiche né tantomeno la forza militare per influenzare gli eventi, apre alle potenze maggiori ampie disponibilità di azione, a protezione dei loro interessi essenziali, interessi che non coincidono necessariamente con quelli dei Paesi litoranei. Quindi, Stati Uniti, Russia e Cina, per non parlare dei Paesi dell’Heggiaz, perseguono strategie che, spesso, vanno a discapito della stabilità del Mediterraneo.

Va detto che le grandi potenze interferiscono nella situazione del Mediterraneo proprio perché la regione è preda di una crescente instabilità, che mette in pericolo le pur limitate aspettative di un suo sviluppo. Il livello di contenzioso non è limitato allo storico confronto tra Nord Ovest e Sud Est, citato da BRAUDEL, ma comprende anche i Paesi della sponda nord, intenti a strapparsi fette di mercato e fonti di produzione e di estrazione, quasi ritenessero che l’unico modo per arricchirsi sia quello di togliere agli altri le ricchezze in loro possesso.

Ma questa disunione tra Paesi apparentemente amici non è il fatto più grave che affligga la regione mediterranea. Vi sono numerosi nodi da scogliere, e il più complesso è il prodotto dell’implosione della “Galassia Islamica”, sempre più preda della lotta all’ultimo sangue tra Sunniti e Sciiti. In questa lotta, apparentemente senza speranza per questi ultimi, che sono appena un decimo degli avversari, conta il fatto che, mentre gli Sciiti dispongono di un centro politico forte, l’Iran, i Sunniti sono sempre più divisi tra loro, e soffrono per la presenza di troppi aspiranti alla “primogenitura”, o meglio alla leadership di tale enorme insieme.

L’attuale assetto del mondo sunnita è infatti il prodotto della “strategia dello spezzatino”, più nota dai nomi dei due proponenti, SYKES e PICOT, messa in atto un secolo fa, al termine della Prima Guerra Mondiale. L’Occidente europeo era infatti ben felice del crollo dell’Impero Ottomano, che tante sofferenze gli aveva procurato nei cinque secoli precedenti, e volle suddividerlo in più Nazioni, ognuna di dimensioni tali da non riuscire ad assimilare le altre.

Questa divisione andava contro le aspirazioni di alcune élite islamiche, che cercavano di ricostituire, dopo secoli di sottomissione agli Ottomani, la cosiddetta “Grande Arabia”, un sogno perseguito prima dalla dinastia Hascemita, quindi da NASSER, e ora dalle frange più estremiste sunnite, al Qaeda e il cosiddetto “Islamic State” (o ISIS, come taluni ancora lo chiamano).

In questa lotta, l’Occidente europeo è stato, all’inizio, neutrale, pur non vedendo con favore questo tipo di aspirazione; poi alcuni Paesi, unitamente alle potenze maggiori, in particolare Stati Uniti e Russia, hanno deciso di sventare la minaccia, intervenendo in favore degli Stati esistenti e attuando di fatto una “strategia della destabilizzazione”, direttamente o indirettamente, agendo soprattutto nei due “crocevia strategici” del bacino, e precisamente la Siria e lo Yemen. Prolungando in tal modo le lotte interne alla “Galassia Islamica”, si impoveriscono tutti gli attori direttamente coinvolti nel conflitto, rendendo così il “pericolo islamico”, a suo tempo tanto evidenziato da Oriana FALLACI, meno immanente.

Non ci si deve meravigliare, quindi, che le frange estremiste del mondo sunnita vedano l’Occidente come un mondo ostile, e lo colpiscano con i mezzi a loro disposizione, alias il terrorismo, la pirateria, i flussi migratori e la sovversione interna, rivolgendosi a quelle popolazioni islamiche da tempo residenti nei nostri Paesi.

In questa lotta, l’Italia si sta differenziando dal resto dell’Occidente, svolgendo un ruolo di benevola apertura verso i contendenti, dato che la principale aspirazione del nostro popolo è la stabilità, la pace o, per meglio dire, la quiete regionale, unico modo per consentire al nostro Paese di mantenere un minimo di prosperità e benessere.

L’ultimo aspetto da considerare, anche se fonte di gravi pericoli in prospettiva, è che il Mediterraneo viene sempre più interessato da quel fenomeno nuovo e preoccupante, costituito dalla “marittimizzazione dei conflitti”. Gli Stati che si affacciano sul mare sono sempre più consapevoli che le risorse disponibili nei loro territori, siano esse sul suolo o nel sottosuolo, non bastano più a garantire loro una sopravvivenza economica adeguata, e da tempo si sono lanciati convincere che la soluzione risieda nello sfruttamento delle risorse marine.

Questo spiega perché l’ultima convenzione dell’ONU sul diritto del mare, nota come UNCLOS o Convenzione di Montego Bay, abbia incrementato il processo di “territorializzazione” dei mari, introducendo i concetti di Zona Economica Esclusiva e di Piattaforma Continentale, a dispetto delle potenze marittime, sostenitrici della libertà dei mari.

Ma questa nuova tendenza ha portato a una serie di contenziosi sulle linee divisorie tra i vari Stati, le cui coste siano confinanti. La scoperta di importanti giacimenti di idrocarburi, nonché di minerali preziosi, quali le “terre rare”, importanti nell’elettronica moderna, non ha fatto che esacerbare tali contenziosi.

Molti ricorderanno la disputa sul Golfo di Trieste e sulla contigua Baia di Pirano, tra Slovenia e Croazia, che ha ritardato l’ingresso di quest’ultima nell’Unione Europea; gli storici poi citano il caso dell’Isola Ferdinandea, sorta da un giorno all’altro nel Canale di Sicilia, nel 1831, e rivendicata dall’Austria, dalla Gran Bretagna, oltre che dal Regno delle Due Sicilie. Oggi è solo un basso fondale, noto dalle carte nautiche come “Banco GRAHAM”, ma è ancora oggetto di note verbali delle Cancellerie europee.

Ma da ovest a est, le zone di contenzioso sono numerose: basti consultare quell’aurea pubblicazione che è l’Atlas Géopolitique des Espaces Maritimes[7], per vedere quante siano le dispute sui confini marittimi, accese dai Paesi litoranei del Mediterraneo, specie nell’area del Levante.

Quali prospettive, in definitiva, vi sono per il Mediterraneo? Finché dura questa situazione di lotta accanita, non resta che contenere la conflittualità, e per questo è necessario, per i Paesi del Nord Ovest del bacino, modificare rapidamente gli strumenti militari, in modo da poter influire sugli eventi: anche il contenimento richiede la forza!

Solo quando interverrà la “stanchezza della guerra”, da parte degli attori statuali e non statuali coinvolti, sarà possibile creare le condizioni di una collaborazione efficace tra le sponde del Mediterraneo. Se però tale fenomeno non avverrà nel breve termine, il rischio è il ripetersi di quanto avvenne dopo il 1453, con la conquista di Costantinopoli da parte degli Ottomani: il commercio marittimo, che – come osservò uno studioso del secolo scorso – “segue le rotte più vantaggiose”[8], cioè quelle prive di ostacoli o di pericoli, potrebbe ancora una volta abbandonare il Mediterraneo, a favore della rotta del Capo di Buona Speranza o di quella dell’Artico, le cui vie si stanno aprendo per lo scioglimento dei ghiacci, privando così i Paesi litoranei anche di quel poco di ricchezza di cui godono grazie ad esso.

 

 

 

 

 

[1]H. MACKINDER. Democratic Ideals and Reality; A Study in the Politics of Reconstruction. Ed. Constable and Co., 1919, pag. 81.

[2] F. BRAUDEL. Il Mediterraneo. Ed. Bompiani, 1987, pag. 12.

[3]J. ATTALI. La Méditerranée ou l’ultime utopie. In « Défense Nationale et Sécuritécollective », numero speciale dedicato all’Unione per il Mediterraneo, 2008.

[4]Ibid. pag. 15.

[5]Ibid.

[6]P. KENNEDY. Ascesa e Declino delle Grandi Potenze. Ed. Garzanti, 1989, pag. 20.

[7] D. ORTOLANI et J.P. PIRAT. Atlas Géopolitique des Espaces Maritimes. Ed. Technip, 2010.

[8]A.T. MAHAN. Strategia Navale. Ed. Forum di Relazioni Internazionali, 1997, Vol. I, pag. 200.

 

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