scarica il file in pdf – Cucchi – NATO Macron – novembre 2019
Riflessioni sull’Alleanza Atlantica
a margine dell’intervista del Presidente Macron all’Economist
Gen. C.d’A. Giuseppe CUCCHI
Nell’effettuare la sua spietata diagnosi dei mali che affliggono in questo momento l’Alleanza Atlantica, cogliendo l’occasione dell’intervista allo “Economist”, il Presidente francese Macron è stato indubbiamente un buon medico.
Con una franchezza che ben di rado si permettono le personalità politiche del suo livello, egli ha infatti indicato in rapida successione i tre mali che attualmente minano la solidità di una Alleanza fino a poco tempo fa definita come la più potente che il mondo abbia mai visto nella sua lunga storia.
Si tratta, in primo luogo, dell’assoluta mancanza di un coordinamento politico fra gli Alleati, ciascuno dei quali si sente libero di assumere, nel quadro del perseguimento di una politica estera che si fa sempre di più esclusivamente nazionale, iniziative nel settore della sicurezza che non sono state concordate con gli altri Stati membri della NATO.
È quanto sta avvenendo in questo momento in Siria, ove Stati Uniti e Turchia si muovono in maniera completamente autonoma nonostante il fatto che legami di carattere storico, economico e politico qualifichino l’intera area del Medio Oriente quale una zona di particolare interesse per molti dei loro Alleati europei.
In ambito NATO il problema dell’assenza di coordinamento politico fra gli Stati membri, specie fra quelli maggiori, non è certo nuovo e in parecchie occasioni, prima fra tutte quella del cosiddetto “Rapporto dei tre saggi ” del 1957, si è cercato di porvi rimedio con un successo che però col mutare delle situazioni ha finito col rivelarsi soltanto temporaneo e parziale.
Sino alla caduta del Muro di Berlino, in ogni caso il Patto Atlantico è stato percepito e vissuto come un accordo che era innanzitutto e prevalentemente politico anche se la struttura disponeva di una robusta organizzazione militare, la NATO, pronta ad intervenire per dare vigore alle decisioni comuni.
Dopo lo sfaldamento dell’Unione Sovietica però le cose sono rapidamente cambiate, nella assoluta assenza di riforme sostanziali che mantenessero la politica, e la conseguente indispensabilità di un coordinamento, al centro della attenzione dei suoi Stati membri.
Si è trattato di una deriva che gli Stati Uniti hanno in parte pilotato ed accelerato, specie dopo aver constatato in occasione delle guerre di Jugoslavia come l’azione politico/militare di una Alleanza comportasse rallentamenti, remore e caveat che contrastavano palesemente con la mentalità da “Victory first” (la vittoria prima di tutto), tipica dell’impegno americano in un conflitto.
D’altro canto, poi, le proteste degli Alleati per questo cambiamento – che è stato macroscopico poiché ha fatto evolvere la NATO da una Organizzazione almeno in teoria paritaria ad un sistema praticamente stellare, con gli Stati Uniti al centro e tutti gli altri legati a loro da rapporti essenzialmente bilaterali – sono state tanto limitate da non riuscire mai ad innescare un reale dibattito sull’argomento.
L’ultimo politico ad effettuare un tentativo in tal senso fu il Cancelliere tedesco Shroeder, ma senza che il suo sforzo venisse coronato da un reale successo. La deriva è così continuata, mentre l’unica grande operazione comune di cambiamento diveniva quell’allargamento verso Est, destinato a produrre col tempo nuove tensioni fra l’Occidente e la Russia, e quindi a creare molti più problemi di quanti non ne avesse risolti.
Non vi è da stupirsi se in condizioni del genere la NATO si trovi ora alla vigilia di quell’abbandono dell’Afghanistan che – oltre a configurarsi come la prima guerra persa dall’Alleanza – finirebbe anche con l’incidere pesantemente sulla fiducia di cui sino a poco tempo fa l’Occidente ancora godeva nel resto del mondo.
Proprio la fiducia , o meglio la progressiva riduzione della fiducia reciproca fra i due lati dell’Atlantico, è poi il secondo dei mali su cui Macron pone l’accento nel corso della sua analisi.
Se il Patto Atlantico era risultato tanto efficace negli anni del confronto bipolare, ciò era infatti dovuto alla corale convinzione che tanto l’America quanto l’Europa avrebbero totalmente rispettato gli impegni assunti, facendo ciascuna la propria parte nel momento in cui se ne fosse presentata la necessità.
In tale ottica, il famoso articolo 5 del Trattato, con cui gli Stati membri si impegnavano a considerarsi tutti automaticamente coinvolti nel caso in cui uno di loro risultasse aggredito, non si configurava certo come una ipotesi, bensì come una granitica realtà Acquistavano in tal modo considerevole valore tanto la duplice garanzia, convenzionale e nucleare, che gli Stati Uniti fornivano a noi Europei quanto, reciprocamente , la concessione del nostro territorio agli Alleati d’oltreoceano oceano quale eventuale primo campo di battaglia.
Da molti anni però, cioè almeno da quattro Presidenze USA, la garanzia statunitense è progressivamente divenuta sempre più aleatoria: all’inizio abbiamo fatto finta di non accorgercene, aiutati da un lato dal fatto che gli Americani continuavano a mantenere forze militari schierate in area europea , dall’altro dal modo in cui Clinton prima, poi Bush ed Obama, avevano sempre evitato di affrontare l’argomento in termini chiari .
La politica del Presidente Trump ed il modo in cui egli appare ora disposto a violare senza esitazione ogni impegno precedentemente assunto, nel momento in cui esso gli appare in contrasto con gli interessi di breve scadenza degli Stati Uniti, hanno però brutalmente evidenziato come anche in questo campo i tempi siano cambiati e come occorra porsi urgenti, grandi e giustificati interrogativi sul valore attuale della duplice garanzia che, almeno secondo i trattati, il nostro Alleato di oltre oceano sarebbe ancora tenuto a fornirci .
Il guaio – e questo è il terzo punto toccato dal Presidente francese – è che anche in caso di un ulteriore allentamento del rapporto transatlantico l’Europa appare ancora ben lontana dal poter procedere da sola nel settore della sicurezza e della difesa.
Almeno sino ad ora l’Unione Europea non è, infatti, riuscita ad elaborare quella politica estera comune che costituisce l’indispensabile fondamento per potere pensare poi ad una politica di sicurezza e di difesa veramente integrata.
Anche se riuscissimo a superare questo ostacolo ed a conglobare i nostri strumenti militari il risultato sarebbe poi un coacervo di mezzi diversi fra loro che presenterebbe tra l’altro forti lacune in molti dei settori più importanti.
Se da un lato, infatti, la NATO ci ha insegnato come si combatte insieme – e questo è stato uno dei suoi meriti maggiori – dall’altro ci ha anche abituati a ricorrere in caso di necessità ad “assets and capabilities” appartenenti alla Alleanza o recuperati oltre oceano, una possibilità che non ci ha certo invogliati a ripianare in fretta costose e fondamentali carenze.
Per progredire, ci sarebbe inoltre da superare quella mentalità irenica ormai largamente diffusa in tutti i paesi dell’Unione che porta a considerare le spese per la sicurezza quali investimenti improduttivi quando addirittura non amorali.
In definitiva, l’intervista di Macron è stata la presa d’atto di una situazione nel complesso sconfortante, soprattutto in un periodo storico in cui in tutta l’area circostante all’Europa crescono le ambizioni di nuove medie potenze locali dai denti lunghi che prima o poi potrebbero essere portate a considerare il nostro continente come un appetitoso osso da spolpare.
In chiusura del dialogo, il Presidente francese ha in ogni caso avuto un attimo di ottimismo valutando in circa dieci anni il lasso di tempo necessario all’Unione Europea per costruire, qualora si decidesse di procedere in tal senso, una propria struttura di difesa realmente autonoma e potenzialmente efficace.
I tempi tecnici, in realtà, potrebbero essere anche minori, come ha dimostrato a suo tempo l’inaspettata rapidità con cui, dopo gli accordi di Saint Malo, gli Stati Maggiori dei vari Paesi riuscirono a mettere in piedi le strutture che ci hanno permesso di iniziare a svolgere azioni autonome sotto la bandiera blu con le dodici stelle.
Molto limitati o nulli sarebbero anche i problemi di finanziamento. Tra tutti noi Europei spendiamo più della metà di quanto investano gli USA nel loro settore di Difesa e non ci dimentichiamo di come la Russia riesca a esprimere una politica estera e di sicurezza da grande potenza con un prodotto nazionale lordo poco più grande di quello dell’Italia.
Ci sarebbe quindi semmai da armonizzare, da tagliare i rami secchi, da massimizzare le economie di scala, non certo da spendere di più di quanto stiamo facendo ora. Alla fine dei conti, anzi, uno strumento europeo di difesa comune potrebbe anche rivelarsi un risparmio.
Resta in ogni caso da superare la grande remora dell’assenza di una volontà politica comune di procedere in tal senso. Siamo come una grande macchina che non è capace di mettersi in modo perché non ha il carburante per farlo.
In altri tempi, ciò che ci ha indotto a muoverci è stata la paura dell’Unione Sovietica e allora abbiamo avuto la fortuna di trovare chi si associasse a noi aiutandoci a crescere finché non fummo pronti.
Dobbiamo attendere che sia anche questa volta la paura a rimetterci in moto? E se fosse troppo tardi e se questa volta, come appare più che probabile, non ci fosse più nessuno ad associarsi a noi e a fornirci garanzie?