Scarica il file in PDF – tesi melis APPROFONDIMENTI SUL TERRORISMO
RISPOSTE AGLI ATTENTATI TERRORISTICI DI MATRICE ISLAMICA A CONFRONTO: SISTEMA EUROPEO E SISTEMA ISRAELIANO. Analisi delle peculiarità e difficoltà di adeguamento tra le due metodologie
Gianluca Melis
(tesi Master in “Analista del Medio Oriente”, Università degli Studi Niccolò Cusano UNICUSANO – a.a. 2018-2019 – relatore Prof. Laura Quadarella Sanfelice di Monteforte)
Introduzione
CAPITOLO 1 Il Jihad
1.1 Definizione ed interpretazione.
1.2 Valore del Jihad
1.3 La preparazione al Jihad
1.4 Regole del Jihad
1.4.1 Momento dello scontro;
1.4.2 La spartizione del bottino
1.4.3 IlKharaj e la Gizia
1.5 I prigionieri di guerra
Capitolo 2
2.1 Il terrorismo internazionale dalla questione palestinese all’Islamic State;
2.2 La fine dell’ISIS e la problematica del rientro dei Foreign Fighters nei paesi d’origine
Capitolo 3 La risposta occidentale al fenomeno del terrorismo
3.1 Risposta delle istituzioni europee agli eventi di natura terroristica
3.2 Risposta agli attentati da parte della popolazione coinvolta negli eventi.
Capitolo 4 La risposta del sistema israeliano al fenomeno del terrorismo
4.1 Organizzazione del sistema sul fronte della sicurezza esterna, interna e della popolazione israeliana residente negli stati esteri
4.2 Risposta della popolazione civile israeliana agli attentati.
Conclusioni
Bibliografia e sitografia
INTRODUZIONE
Il 23 marzo 2019, dopo la Casa Bianca, attraverso un tweet, anche il Capo Ufficio stampa delle forze militari curde in Siria Mustafà Bali, annuncia la sconfitta del Califfato nella sua ultima roccaforte nella Siria nord-orientale. «Baghouz è stata liberata. La vittoria militare contro Daesh è completa», recita il messaggio, riferendosi all’ultimo villaggio sull’Eufrate, non lontano dal confine iracheno, dove si erano rifugiati gli ultimi combattenti di Isis.
Alla stessa maniera, anni prima, il 2 maggio 2011, al termine di un blitz delle forze speciali USA nel complesso fortificato di Abbotabad in Pakistan, il Presidente americano annuncia al mondo l’uccisione della figura leader di Al-Qaeda, il miliardario saudita Osama Bin Laden e la fine imminente del sodalizio terroristico.
Ancora prima di Al-Qaeda e dell’ISIS, si è sempre sentito parlare di conclusioni di lunghi braccio di ferro o di vere e proprie guerre combattute nei confronti di organizzazioni terroristiche con annunci di apparenti vittorie e di liberazione di territori.
La realtà è che tutti i fenomeni che coinvolgono importanti masse di persone, ancor di più se sospinti da ideali fortemente radicati come quello religioso, non cessano realmente di esistere, cambiano forma, territorio, faccia e nome ma continuano ad esistere e a combattere, cambiando spesso le modalità di attacco e di palesarsi agli occhi del mondo.
Nel caso specifico, in questo documento ho voluto estrapolare ed esternare questa mutazione e rapportarla con i diversi metodi di reazione da parte della comunità occidentale paragonandola poi al sistema israeliano, Stato questo che dal momento della sua nascita e riconoscimento da parte della comunità internazionale ereditava già tutte le problematiche relative alla “questione palestinese” e quindi da sempre considerato “faro” nella gestione delle strategie antiterrorismo e controterrorismo.
Ho iniziato quest’analisi spiegando intanto cosa è il jihād, elemento cardine degli attori del terrorismo islamico e fonte di grande ispirazione e coraggio. L’approccio utilizzato è stato quello di trattare l’argomento nel modo più asettico possibile, al fine di far intendere il diverso modo di intendere il jihād sia da parte dei musulmani moderati e di come possa invece essere stravolto il medesimo concetto sino ad arrivare a poter uccidere in nome di Allah.
Successivamente ho affrontato una breve digressione al fine di poter capire nel tempo come il terrorismo islamico si sia evoluto, partendo dalla questione palestinese, transitando per Al-Qaeda e l’ISIS, senza dimenticare la nuova tendenza del “terrorista senza terra” che agisce in nome di un’ideologia legata in qualche maniera a più rinomati gruppi terroristici ma opera in maniera autonoma, o quasi, in nazioni lontane al fine di perorarne la causa.
Passando dal generale al particolare ho trattato poi, in maniera più particolareggiata, la politica con cui l’occidente e l’Unione Europea nello specifico, affronta la problematica del terrorismo di matrice islamica, dedicando poi la stessa attenzione allo Stato di Israele.
Guardando con occhio critico le peculiarità e le debolezze dei due sistemi ho prodotto un’analisi delle due metodologie, molto lontane l’una dall’altra, ed in conclusione ho cercato di capire la problematica per cui i due sistemi non sono complementari tra loro e la difficoltà di interfaccia nei momenti in cui immancabilmente si necessita l’operatività congiunta.
CAPITOLO 1: Il Jihād.
1.1 Definizione e interpretazione
L’analisi di qualunque fenomeno legato ai gruppi radicali islamici non può prescindere dalla comprensione del concetto di Jihād.
La parola Jihād (traslitterazione dalla lingua araba del vocabolo جهاد ) non è un semplice vocabolo ma è espressione di una serie di significati legati alla concezione islamica della religione e della conduzione della vita di fedele ad Allah.
Essa include insieme due significati: il primo di natura astratta inteso come sforzo intellettuale, il secondo di natura più concreta che gravita sul significato dello sforzo fisico. Il senso morale dipende dalla dottrina islamica di riferimento infatti Sciiti, Sufiti e Sunniti hanno concezioni abbastanza diverse sul punto[1].
Nel pensiero Sciita “Jihād” indica lo sforzo compiuto dal fedele sulla propria persona per il miglioramento religioso e spirituale. Questa concezione è approfondita quindi nell’ambiente dei Sufi. Entrambe le dottrine, infatti, considerano “lo sforzo dell’anima” come Jihād maggiore, in opposizione allo “sforzo dei corpi”, percepito invece come Jihād minore[2].
Nella dottrina sunnita invece, Jihād significa soprattutto lo sforzo verso un obiettivo determinato, più precisamente l’azione concreta di ricerca di soluzioni ai problemi posti alla comunità musulmana; per le frange estremiste del movimento risulta legittimo l’utilizzo delle armi al fine di perseguire i dettami ideologici e religiosi dell’Islam[3][4].
Questo termine è entrato nell’uso comune in tutto il mondo dagli anni ‘70, a causa dei fenomeni terroristici di stampo islamico radicale, collegati in quel momento storico alla “questione palestinese”.
Oggi lo Jihād, invece, è legato a filo doppio al concetto di “Guerra Santa”, inteso come la battaglia che il musulmano radicale combatte, al fine di diventare un credente migliore, e contro ciò che considera il male, con la determinazione che ogni devoto deve avere per attuare la volontà di Allah.
Letterati e autori musulmani e non, al fine di dare una connotazione asettica e non legata necessariamente a un concetto negativo, sono concordi nel dare alla parola Jihād il significato letterale della termine “sforzo”, inteso come impegno nel condurre una vita virtuosa nel rispetto dei dettami della religione islamica, promuovendo la sua diffusione ed insegnamento.
Storicamente la nascita dello Jihād avvenne pochi anni dopo gli albori dell’Islam, nel 610 d.C., quando il Profeta Muhammad proclamò l’unicità assoluta di Dio nella sua città natale, Mecca, a quel tempo dominata da politeisti.
I Qurayshiti[5], la tribù che in quell’epoca occupava la città di Mecca, e che trasse grandi profitti dalla gestione del santuario della Ka’ba, dedicato alla divinità oracolare di Hubal (diventato oggi il luogo più sacro dell’Islam), a seguito della proclamazione di fede da parte del Profeta Muhammad, pose in atto una forte persecuzione che diede origine all’hijra, ossia l’emigrazione del Profeta e dei suoi seguaci a Medina.
Dal momento dell’emigrazione il popolo musulmano si trovò costretto a lottare in maniera continua, anche con le armi, contro i politeisti al fine di mantenere il possesso delle terre, sconfiggere i pagani e convertire le popolazioni delle terre conquistate alla nuova religione.
Durante i primi secoli dell’espansione islamica, i combattenti dello Jihād presero il nome di mujaheddin o anche “mujāhid̄n, mujahedeen, mujahedin, mujahidin, mujahideen”.
Il nome deriva dalla forma plurale del vocabolo “mujahid”, che in arabo significa “combattente.” Alla parola, inoltre, spesso è assegnato il significato di “guerriero santo” identificando combattenti feroci che si ispirano ad ideologie islamiche.
L’etimologia, come tutte le parole arabe, si basa su una radice di tre lettere. La radice di mujaheddin è J-H-D, che significa “sforzo” ed è la stessa radice di jihād, che significa lotta, guerra.
Il mujahid è, quindi, qualcuno che è in grado di compiere uno sforzo o una lotta e ciò assunse ben presto nella cultura araba un significato religioso e militare. E’ un uomo preparato ad affrontare una lotta per affermare il significato, le tradizioni e la propria cultura, che trova origine fondamentale nella religione[6].
In quest’analisi il significato che sarà approfondito è, ovviamente, quello riferito al concetto di Guerra Santa, combattuta con le armi contro i kāfir, gli infedeli.
Il riferimento attuale all’ideologia combattente emerge in concomitanza con gli avvenimenti geopolitici di epoca medioevale: le crociate in Medio Oriente (XI-XIII sec.) e l’invasione dei mongoli (XIII-XIV sec). Questi due avvenimenti saranno ripresi nella propaganda jihādista contemporanea per definire tutti gli interventi militari stranieri, soprattutto l’invasione anglo-americana dell’Iraq nel 2003.
1.2 Valore dello Jihād.
La qualità dello Jihād e, in alcuni casi del martirio per la causa religiosa, non è mai casuale, dalla preparazione al compimento vi sono una serie di Sure espresse nei versetti coranici della Verità Divina e in alcuni ḥadīth autentici del Profeta, che ne dettano modi e tempi.
“Certo Dio ha comprato dai credenti le loro persone, i loro beni in cambio del Paradiso. Lottano sulla Via di Dio, uccidono e sono uccisi. E’ una promessa autentica che Egli ha contratto con se stesso nella Torah, nel Vangelo e nel Corano. Chi è più fedele di Dio nel Suo impegno? Rallegratevi dunque dello scambio che avete fatto. Ecco il successo immenso.”[7]
“Dio, in verità, ama quelli che combattono sulla sua Via in ranghi serrati, come se formassero un edificio rivestito di piombo.”[8]
“O credenti, forse vi indicherò un patto che vi salverà da un castigo doloroso: Credete in Dio e nel suo Profeta; combattete nella via di Dio con i vostri beni e le vostre persone, Ecco un bene per voi; se sapeste! Egli vi perdonerà i vostri peccati; vi farà entrare nei Giardini sotto i quali scorrono ruscelli; in dimore gradevoli nei Giardini di Eden. Ecco il grande successo.”[9]
“Non pensate morti quelli che sono stati uccisi sulla Via di Dio. Al contrario: sono vivi, presso il loro Signore, e ben provvisti, rallegrandosi di ciò che Dio dà lorio per Sua grazia…”[10]
1.3 La preparazione allo Jihād.
Negli ambienti più radicali dell’Islam, quando si parla di preparazione allo Jihād, si intende il dotarsi di una formazione adeguata e di validi equipaggiamenti.
“E preparate contro di loro tutto ciò che potete come forza e come cavalleria per spaventare il nemico di Dio e nemico vostro e altri ancora oltre a loro che voi non conoscete ma che Dio conosce. Tutto ciò che voi elargite sul sentiero di Dio vi sarà rimborsato largamente e non vi sarà prevaricazione contro di voi.”[11]11
Lo Shayk Abu Bakr Djaber el Djazair, nel suo libro del 1964, sosteneva che fosse un dovere per i musulmani, indipendentemente dal fatto che fossero stati radunati sotto un unico Stato o sotto Stati diversi, dotarsi di armamenti e perfezionare l’arte militare, non solo per la difesa ma soprattutto per l’attacco, qualora risulti necessario, affinché il Verbo di Dio sia diffuso il più possibile.
El Djazair teorizzava che, affinché lo Jihād fosse compiuto, l’arruolamento dovesse essere obbligatorio per tutti i giovani in buona salute e che durante il periodo di leva fosse insegnata loro l’arte della guerra. Una volta terminato il periodo di arruolamento obbligatorio il musulmano sarebbe stato iscritto nei ruoli di una “riserva”, prontamente reperibile per rispondere alla chiamata dello Jihād.[12]12
Concetti molto simili nella sostanza, anni dopo, saranno ripresi da Abū Bakr al-Baghdād̄ con la sua l’autoproclamazione a Califfo dell’IS.
Al fine di migliorare le difese delle terre sottoposte a legge coranica vennero istituiti i Ribāṭ (in arabo رباط e letteralmente “avamposto”), un insieme di strutture fisse poste lungo i confini dei domini islamici (la cosiddetta dār al-Islām, o “casa dell’Islam”), finalizzate ad ospitare credenti (chiamati appunto murabitun), che in maniera spontanea, equipaggiati con armi e soprattutto sorretti dalla fede, potessero difendere le frontiere dell’Islam e nel contempo rafforzare la propria fede islamica, grazie a esercizi spirituali e devozionali.
Il servizio al Ribat era un obbligo per tutti i musulmani ma, com’è scritto per lo Jihād, quando una parte dei credenti lo assolveva, l’obbligo per gli altri veniva meno.[13]
La comparazione che Edmond Doutté fece fra il musulmano che andava al Ribāṭ e il cristiano che prestava la propria opera in favore di Dio fu: “Si andava nei Ribāṭ per acquisire titoli di favore divino, come da noi un tempo si entrava nell’ordine dei Cavalieri di Malta”[14].
1.4 Regole dello Jihād.
Lo Jihād può dirsi concluso quando si ottiene la vittoria o il martirio; entrambe sono considerate desiderabili al fine di compiacere Allah, ma, affinché il sacrificio sia votato alla finalità religiosa, devono essere rispettati determinati parametri:
- l’intenzione (“niyya”): ovvero, il combattente deve avere come unico scopo quello di combattere per assicurare il volere di Allah;
- la bandiera: lo Jihād non deve essere un atto deciso dal singolo ma deve essere assoltosotto il benestare di un sovrano musulmano, con il suo permesso e utilizzando la sua bandiera.
“O voi che credete! Obbedite Allah e il suo inviato e quelli che di voi che detengono l’autorità.”[15]
Da questo ḥadīth emerge la necessità, per ogni comunità musulmana, di eleggere una guida che abbia doti di scienza, devozione e competenza per guidare la Umma. La necessità aumenta se questa comunità è votata allo Jihād; in questo caso il capo dovrà raccogliere le forze e combattere con tutti gli strumenti a sua disposizione siano questi la parola, i beni o la forza, al fine di arrivare alla vittoria.
Le fasi che precedono lo Jihād sono:
- Preparazione: la comunità deve prepararsi allo Jihād dotandosi di armamenti, mezzi, uomini e scorte.
“Preparate, per lottare contro di loro, tutte le armi che potete acquisire.”[16]
- Autorizzazione alla partenza: se il mujahidin ha ancora i genitori in vita, è necessario il loro consenso al fine della sua partenza. In caso d’invasione nemica o se è l’Emiro a chiamare al combattimento, non vi è più l’obbligo del consenso genitoriale.
1.4.1 Momento dello scontro.
Al momento dello scontro il mujaheddin deve dare la sua più grande prova di coraggio non fuggendo davanti all’impeto degli avversari che avanzano verso di lui.
“O voi che credete! Quando affrontate i Kafirin in combattimento, badate a non voltare le spalle.”[17]
Se il numero degli avversari però è il doppio di quello dei musulmani in combattimento, è consentito ritirarsi, a patto di unirsi a un altro gruppo per poi tornare alla carica. In questo caso non è considerato un atto vile ma una scelta tattica.
“Chi volterà loro le spalle incorrerà nella collera di Allah, salvo che lo faccia per raggiungere una posizione migliore o per unirsi a un altro gruppo di armati.”[18]
E’ importante poi che il combattente implori Allah nei suoi pensieri o ad alta voce, questo consente di aumentare il coraggio, soprattutto nei momenti più difficili. La resistenza all’attacco e la lotta, anche a costo della morte, è l’essenza del Jihād.
“O voi che credete! Quando vi trovate di fronte ad una schiera nemica resistete e invocate spesso il nome di Allah, da questo dipende il vostro successo. Obbedite agli ordini di Allah e del suo inviato. Fuggite ogni contrasto che vi indebolirebbe e comprometterebbe le vostre possibilità di riuscita. Siate pazienti, Allah ama i pazienti.”[19]
Lo Jihād presuppone un comportamento atto ad assicurare la vittoria, a costo della morte del combattente.
Prima dello scontro bisogna invitare il nemico alla conversione all’Islam, se lo rifiuta dovrà pagare un tributo, se ancora non accetta si fa ricorso alle armi. Inoltre non bisogna sottrarre nulla dal bottino conquistato, non si devono uccidere anziani, donne e bambini che non siano direttamente coinvolti nella guerra, al contrario, se ne hanno preso parte, possono subire la stessa sorte di chi ha combattuto contro l’Islam.
1.4.2 La spartizione del bottino.
Tutto quello che si prende al nemico al termine del combattimento deve essere diviso in 5 parti e successivamente così ripartito: 1/5 al sovrano che lo utilizza per le necessità della Comunità, 4/5 devono essere distribuiti tra i combattenti che hanno partecipato alla battaglia, sia che essi abbiano combattuto o meno.
“Sappiate che del bottino che conquisterete un quinto spetta a Dio, al Suo Inviato, alla sua famiglia, agli orfani, ai poveri, ai viaggiatori, se voi davvero credete in Dio e in quello che Egli ha rivelato al Suo servitore nel giorno della Distruzione.”[20]20
1.4.3 Il Kharaj e la Giza.
Il Kharaj è un tributo fondiario permanente, applicato dal sovrano alle terre frutto di conquista. E’ pagato indistintamente da tutti gli abitanti, musulmani e non, ed è investito per le pubbliche necessità.
La Giza invece è un tributo in denaro prelevato annualmente da ogni protetto dal Sovrano il cui paese sia stato conquistato con le armi e deve essere pagato da tutti gli uomini puberi. Le fasce più deboli come donne, bambini, anziani e malati sono esentati dal pagamento.
Nel caso di conversione all’Islam non è più necessario pagare il tributo. Anche questo tributo, come il Kharaj, viene utilizzato per la pubblica utilità.
“Combattete contro quelli che non credono in Dio e nel suo giorno Estremo e non ritengono illecito quello che il Dio e il suo Inviato hanno proibito e non praticano la vera religione. Combatteteli finché non paghino la Giza con umiliazione.”[21]
1.5 I prigionieri di guerra.
Esistono pareri molto discordanti sulle norme di trattamento dei prigionieri catturati durante i combattimenti per lo Jihād.
I due versi del Corano che trattano l’argomento sono in netto contrasto tra di loro, consentendo così a chi è sul campo di decidere la sorte degli uomini che ha catturato, in base alla regola seguita.
“Quando affrontate in combattimento i negatori, colpiteli fin quando li avrete sgominati. Incatenate i prigionieri. Terminata la guerra li potrete mandare liberi o esigere per loro un riscatto.”[22]
Il secondo dal tenore diverso.
“Quando saranno trascorsi i mesi sacri non esitate ad uccidere gli idolatri ovunque li incontriate”.[23]
Per mesi sacri s’intendevano anticamente dei periodi di tregua tra tribù che erano in perenne lotta tra loro. Questo periodo di “pace” permetteva di recarsi in pellegrinaggio o di fare affari fuori dai confini del villaggio senza essere vittima di rappresaglia da parte della tribù rivale. I mesi sono quelli identificati nel calendario islamico come Zul-Kadda, Zul-Hijja, Muharram e Rajab.
CAPITOLO 2: Il terrorismo internazionale di matrice islamica
2.1 Dalla Questione Palestinese all’Islamic State.
Per comprendere il fenomeno terroristico di matrice islamica contemporaneo bisogna partire ad analizzare quella che da sempre è stata definita la “Questione Palestinese”, la sua evoluzione in ambito locale ed in seguito in ambito internazionale.
Tale digressione storica è necessaria al fine di capire come si è arrivati alla fenomenologia terroristica odierna, nelle sue forme più cruente.
Per scoprire le sue radici bisogna fare un passo indietro ed andare al 25 aprile 1859,giorno in cui veniva inaugurato il Canale di Suez e, di conseguenza, l’Impero Ottomano diveniva un’area strategica per gli scambi commerciali. Per sconfiggere l’Impero stesso e impossessarsi del suo territorio, le nazioni europee chiesero l’aiuto agli Stati che allora lo componevano: la Giordania, la Siria, il Libano e la Palestina.
In cambio dell’appoggio, veniva paventata agli stati la possibilità di far nascere un grande “Stato indipendente” che li avrebbe riuniti sotto un’unica grande nazione chiamata Grande Arabia; promessa rivelatasi successivamente falsa.
Nel 1916 a seguito degli accordi segreti stipulati tra il governo del Regno Unito, rappresentato dal diplomatico Mark Sykes, e da quello francese, rappresentato da Francois George Picot, dopo la sconfitta dell’Impero Ottomano, si definirono le sfere di influenza nell’area Medio Orientale.
Nel XX secolo gli ebrei acquisirono numerosi appezzamenti di terra nel territorio palestinese e si insediarono in questa nazione in forma stabile con le proprie famiglie; gli arabi non videro di buon occhio i giudei negli loro territori, considerandoli come una presenza nemica ed ostile.
Gli Ebrei, in tale periodo, diffondevano il loro credo politico religioso conosciuto come “Sionismo”, un’ideologia volta alla creazione di un unico Stato israeliano ed ebraico, nelle zone in cui identificavano la loro patria religiosa.
Nel 1929 un gruppo islamico rispose violentemente ad una manifestazione ebraica nei pressi del Muro del Pianto a Gerusalemme, provocando scontri che si propagarono in tutta la Palestina.
Negli anni ‘30 del secolo scorso la popolazione ebraica in Palestina aumentò considerevolmente in quanto migliaia di ebrei in fuga dall’Europa vi giunsero a seguito della promulgazione delle leggi razziali.
Con l’arrivo dei migranti europei le lotte tra ebrei e musulmani si inasprirono a tal punto che il Regno Unito nel 2° Libro Bianco[24] prese le distanze dal gruppo ebraico, sempre più consistente in Palestina, a causa della connotazione violenta che la religione aveva mostrato.
Nell’anno 1947 l’ U.N.S.C.O.P.[25] propose un piano di ripartizione dividendo il territorio palestinese in due stati, uno arabo più piccolo ed uno israeliano più esteso, e proponendo l’internazionalizzazione della città di Gerusalemme.
Per motivi legati non soltanto alla dimensione dei due stati ma anche alle oramai consolidate questioni religiose ed etniche, questo accordo non venne accettato da nessuno dei due popoli. Alla scadenza del mandato britannico, il successivo 14 maggio 1948 il politico David Ben Gurion proclamò al mondo la nascita dello Stato di Israele, diventandone contemporaneamente Primo Ministro.
Nello stesso mese con l’attacco da parte di Egitto, Iraq e Transgiordania contro il neo formato Stato di Israele ebbe inizio la prima guerra arabo-israeliana. Lo scontro terminò con la sconfitta della coalizione araba, permettendo così l’estensione dello Stato di Israele; la Transgiordania annetté la Cisgiordania prendendo il nome attuale di Giordania.
Nel 1952, a seguito del rovesciamento della monarchia egiziana del Re Farouq e dell’affermazione del regime del militare e politico Gamal Abd el-NASSER, conosciuto poi semplicemente come NASSER, si decretò la nazionalizzazione egiziana della Compagnia del Canale di Suez; ciò provocò una dura reazione di Israele, del Regno Unito e della Francia, che avevano grandi interessi commerciali nell’affare. Nel 1956 ebbe inizio la seconda guerra arabo-israeliana (o Crisi di Suez), che vide come attori principali, da un lato i tre stati esclusi dalla partecipazione alle attività del Canale di Suez e dall’altra parte l’Egitto che ne subì l’invasione, proprio nell’area prospiciente al Canale stesso.
Gli Stati Uniti e l’URSS s’inserirono nel conflitto, condannando gli attacchi e costringendo l’alleanza a ritirarsi. L’evento costituì una cassa di risonanza nel mondo arabo a favore di NASSER, tale da far nascere addirittura un movimento chiamato “nasserismo”.
Nel 1967 ebbe inizio il terzo conflitto arabo-israeliano, ad esito del quale Israele riuscì ad annettere al suo territorio dall’Egitto il Sinai, dalla Giordania la Cisgiordania e dalla Siria le Alture del Golan. I palestinesi si rifugiarono, quindi, nella Striscia di Gaza e nella Cisgiordania.
NASSER uscì umiliato dalla perdita del Sinai.
Negli anni sessanta del ‘900 vengono compiuti una serie di attentati di matrice islamica, all’interno del territorio israeliano, finalizzati all’indebolimento dello stato sionista e alla riappropriazione del territorio da parte dei palestinesi, riunitisi sotto l’O.L.P.[26] guidata da Yāsser ʿArafāt.
L’O.L.P. nasceva nel 1964 per iniziativa della Lega araba, a sostegno della lotta per l’indipendenza palestinese dall’occupazione israeliana. A seguito della terza guerra araboisraeliana confluirono in questa organizzazione le principali formazioni della diaspora palestinese e della guerriglia contro Israele. Passata sotto la guida di al-Fatah e del suo leader Y.‛Arafat nel 1969, l’OLP fu coinvolta, nel corso degli anni settanta e ottanta, in una serie di atti di guerriglia e di terrorismo internazionale e interarabo, mentre al suo interno si consumava una lotta fra fazioni che sostenevano metodi più o meno radicali di lotta armata.
Espulsa dalla Giordania nel 1970 e dal Libano nel 1982, l’Organizzazione stabilì successivamente la sua sede a Tunisi, fino al 1991.
Nel 1988, al termine della prima intifada, Arafat proclamava la nascita dello Stato di Palestina, rinunziando agli obiettivi militari e, in parte, a quelli politici esposti nella Carta costitutiva dell’OLP, che fu per questo riconosciuta nelle Nazioni Unite come unico rappresentante istituzionale del popolo palestinese.
Nel 1993, gli Accordi di Oslo istituivano una Autorità Nazionale Palestinese, diretta dall’OLP, stabilita in Cisgiordania e a Gaza. L’attuazione solo parziale degli Accordi e l’ascesa di Hamas hanno tuttavia fortemente minato il peso politico dell’OLP che, dalla morte di Arafat (2004), è diretta da M. Abbas[27].
Sino a quel momento però il tentativo di eversione attraverso la commissione di attentati era una problematica di tipo interno che interessava solo lo Stato di Israele.
Con il riconoscimento dello Stato di Israele da parte della comunità internazionale ma soprattutto da parte del mondo occidentale, al quale Israele si avvicinò, il fenomeno terroristico di matrice arabo-palestinese iniziò a essere presente in territori extra israeliani con l’attuazione di attentati mirati a sovvertire Israele, ottenendo nel contempo la liberazione di combattenti palestinesi, rinchiusi nelle carceri israeliane.
Tra i maggiori attentati, rivendicati dai vari gruppi terroristici palestinesi, vanno ricordati:
- nel 1972 la strage compiuta nella Germania Ovest alle Olimpiadi di Monaco e l’attentato alla Siot di Trieste;
- nel ‘73 due attentati in Italia, il primo contro la sede romana della compagnia aerea israeliana a El Al e il secondo conosciuto come “la strage di Fiumicino”;
- nel ‘76 il dirottamento sull’aeroporto di Entebbe (Uganda) di un aereo dell’Air France decollato da Atene e diretto a Tel Aviv;
- nel 1980 in Kenya terroristi palestinesi misero in atto un attentato ai danni degli occupanti dell’Hotel Norfolk di Nairobi;
- l’Italia fu nuovamente nel mirino dei terroristi palestinesi nel 1982 quando fu compiuto l’attentato alla Sinagoga di Roma;
- nel 1985 si consumò il duplice attentato contemporaneo agli aeroporti di Roma – Fiumicino e di Vienna oltre il dirottamento della nave da crociera italiana Achille Lauro;
- nel 1986 fu colpita la sinagoga turca a Istanbul “Neve Shalom”;
- il Sud America fu colpito in Argentina da un attentato a Buenos Aires all’ambasciata israeliana nel 1992 e, nel 1994, sempre nella capitale argentina, da un attentato al centro di cultura ebraica.
Nonostante il trascorrere degli anni, la questione arabo-israeliana è ancora oggi accesa e riempie le pagine di cronaca attuali, destando il continuo interesse dell’ONU e di tutta la comunità internazionale, oltre che dell’opinione pubblica dei diversi stati.
L’internazionalizzazione del terrorismo islamico è tuttavia da ricercarsi in altre ragioni oltre alla causa palestinese in quanto, parallelamente, nel resto del Medio Oriente nascevano una serie di organizzazioni terroristiche minori di matrice islamica, che miravano allora e continuano a puntare oggi, alla nascita di un Califfato unico, così come inteso dal Profeta Maometto.
A tal riguardo risulta necessario fare una digressione storica fondamentale per arrivare fino al 632 d.C, anno di morte del Profeta Maometto, fondatore del 1° Califfato Islamico.
In quel momento storico, infatti, ci fu una grande spaccatura tra sciiti e sunniti, cioè tra coloro che volevano che il successore di Maometto fosse individuato per discendenza diretta e quelli che invece ritenevano giusto scegliere il successore fra i fedeli. In tale disputa prevalse l’ideologia della componente sunnita e, pertanto, il successore del Profeta venne eletto dagli stessi seguaci.
Attualmente i musulmani sunniti rappresentano la componente maggioritaria dei fedeli islamici del mondo, con una presenza cospicua in Arabia Saudita.
Gli sciiti invece, ridotti ad una componente minoritaria dei seguaci di Allah, a seguito della scissione, si rifugiarono in Iran dove ancora oggi sono fortemente rappresentati, infatti il culto islamico sciita è la religione ufficiale dello Stato.
Per perseguire le finalità e gli scopi del loro “credo”, in particolare la creazione di Stato Islamico, la liberazione dei territori sacri dai “Kufr”[28] e l’imposizione dell’Islam e della sharia, sono nati alcuni gruppi che, in maniera simile a quanto già compiuto dalle frange estremiste palestinesi, hanno iniziato una “campagna contro l’occidente” attraverso una guerra fatta principalmente di attentati.
L’organizzazione terroristica moderna di stampo sunnita -salafita che si è fatta per prima portavoce di questa campagna antioccidentale è stata sicuramente Al Qaeda.
Il suo nome può essere tradotto con “la base”; nasce ufficialmente l’11 agosto del 1988 ed è conosciuta universalmente e tristemente per essere aver organizzato e portato a termine gli attacchi multipli dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti.
Al Qaeda nasceva al termine della guerra che scoppiò il 25 dicembre del ’79 e portò all’invasione dell’Afghanistan da parte dell’Unione Sovietica,terminando nel febbraio del ’89.
I miliziani provenienti da molte nazioni con credo musulmano diedero appoggio ai mujaheddin afghani accorrendo in loro aiuto, ma la componente maggiore dei combattenti unitisi alla battaglia contro i sovietici arrivò principalmente dagli arabi e dagli egiziani.
Nel 1984, tra le fila dei miliziani confluiti, spiccava un nome, che in seguito rimase legato per tutta la vita ad Al Qaeda, quello del ricco cittadino saudita Osama Bin Laden, colui che ne diventò il capo e guidò l’organizzazione sino alla sua morte nel 2011 a seguito di un blitz delle forze speciali statunitensi nella sua roccaforte ad Abbottabad in Pakistan[29].
A Gedda, cittadina saudita nei pressi di Mecca, diventata punto d’incontro coloro che erano diretti in l’Afghanistan, Osama Bin Laden incontrò il medico egiziano Ayman al Zawahiri.
Al Zawahiri divenne il medico personale di Bin Laden e contribuì a modellare la nascente organizzazione di Al Qaeda, attraverso il reclutamento di uomini fidati con i quali aveva già combattuto nel jihad egiziano contro i regimi che si erano succeduti al Cairo.
Non è un caso infatti che alla fondazione dell’organizzazione, oltre a Bin Laden e Abdallah Azzam, abbiano partecipato diversi membri egiziani ex combattenti, come Abu Ubayda e Abu Hafs (che negli anni ricoprirono il ruolo di capi militari di Al Qaeda).
Nel corso degli anni l’ideologia di Al Qaeda è andata via via modificandosi, attingendo dai movimenti fondamentalisti e radicali che attraversavano il mondo arabo.
La componente egiziana del gruppo teorizzò il bisogno per gli Stati Arabi di tornare alle origini, oramai contaminate dall’Occidente, e la necessità di tornare a una sorta di “vero islam” in cui poter applicare rigidamente la sharia.
Al Qaeda si fece anche portavoce della cosiddetta ideologia del takfir, legittimando l’uccisione di coloro che erano contrari all’Islam o che non applicavano la sharia. Furono molte le vittime in Egitto cadute sotto la convinzione “takfir”.
Alla componente Medio Orientale si unì anche una componente di giovani occidentali indottrinati all’ideologia salafita e wahabita.
Con l’affidamento del comitato “fatwa” da parte di Bin Laden ad uno dei suoi diretti collaboratori, Abu Hajer, iniziò la stagione degli attacchi agli Stati Uniti. Infatti Hajer, ottimo combattente ma con limitate conoscenze religiose e tattiche, effettuando interpretazioni dottrinali errate e forzate, predispose l’attacco alle Twin Tower del 2001.
E’ chiaro come gli obiettivi dell’organizzazione Al Qaeda siano variati nel tempo secondo le esigenze tattiche e in base alle esigenze politiche.
In principio Al Qaeda, attraverso i suoi campi d’addestramento si preoccupava di formare combattenti da inviare in zone dove vi erano in atto guerre combattute da musulmani, come Bosnia Herzegovina o Cecenia, modificando in seguito l’obiettivo con l’attacco all’America, cuore pulsante delle azioni contro i mujaheddin in tutto il mondo.
Muhammad Ibrahim Makkawi, noto anche con nome di Sayf al-Adel, egiziano ed ex colonello dell’Esercito, definito il numero tre di Al Qaeda divulgò nel 2005 un documento, da lui stesso redatto, in cui individuava la strategia che Al Qaeda avrebbe seguito.
Questo atto, intitolato “Al Qaeda’s Strategy to the Year 2020”[30] precisava cinque passaggi chiave per la riuscita strategica:
- provocare gli USA con degli attentati al fine di costringerli all’invasione di un paese musulmano;
- una volta che gli USA avessero invaso lo stato musulmano, incitare la popolazione locale a impugnare le armi contro gli invasori;
- ampliare il conflitto ai Paesi vicini;
- diffondere l’ideologia di Al Qaeda nel territorio lasciando germogliare i semi;
- far crollare l’economia americana sotto il peso di una lunga guerra di logoramento entro il 2020.
A seguito dell’uccisione di Osama Bin Laden e all’ascesa al comando della struttura terroristica di Al Zawahiri, sono stati accelerati la decentralizzazione ed il controllo del territorio, attraverso un rapporto più stretto con le popolazioni locali, come avvenuto in Somalia, Siria e Yemen, anche attraverso la “fidelizzazione” di piccoli gruppi terroristici locali.
Il primo vero attacco sferrato da al Qaeda al mondo americano risale al 1998 quando fu commesso un duplice e ferocissimo attacco alle ambasciate americane in Kenya e in Tanzania; l’esito degli attentati fu molto pesante e portò alla morte di 301 persone ed oltre 5000 feriti[31].
Il “salto di qualità” arrivò però due anni dopo nel 2000 con l’attacco alla nave da guerra americana Uss Cole nel Golfo di Aden. Nell’attacco persero la vita 17 marinai e lo scafo della nave venne gravemente danneggiato.
Ciò che ha reso tristemente famosa al Qaeda agli occhi di tutti, riempiendo le cronache del XXI secolo, è stato sicuramente l’attacco multiplo dell’11 settembre 2001, portato a compimento con aerei di linea, dirottati da componenti dell’organizzazione facente capo a Bin Laden. In quell’occasione due aerei si schiantarono contro i due grattacieli del World Trade Center New York, uno a Washington contro il Pentagono mentre un quarto si schiantò in Pennsylvania in aperta campagna, grazie ad una sommossa dei passeggeri a bordo, che evitò conseguenze peggiori.
A seguito di questa serie di attentati, gli Stati Uniti dichiararono “guerra” al terrorismo ponendo un ultimatum ad al-Qaeda e ai guerrieri talebani, imponendo la consegna del loro leader, pena l’attacco militare. Ovviamente nessuno fu consegnato né furono deposte le armi.
Gli americani iniziarono, quindi, le operazioni militari, portando avanti una campagna di bombardamenti che portò alla distruzione di molti campi di addestramento di al Qaeda oltre che alla morte di alcuni leader dell’organizzazione.
Dopo l’11 settembre e a seguito dell’inizio dell’offensiva militare americana in Afghanistan l’ondata di terrore si spostò anche in Europa quando nel 2004, a Madrid in Spagna, alcuni treni regionali furono colpiti da diverse esplosioni provocate da una serie di ordigni, provocando la morte di quasi 200 persone; l’attentato fu rivendicato da la Brigata Abu Hafs al –Masri.
La stessa organizzazione rivendicò un anno dopo anche l’attentato compiuto su 3 treni della metropolitana di Londra, provocando la morte di 56 passeggeri.
Furono numerosi gli attentati compiuti in seguito e che colpirono anche stati Medio Orientali come l’Egitto e la Giordania.
In Afghanistan, gli americani, oltre ai bombardamenti aerei iniziarono anche le operazioni di terra che portarono all’uccisione di molti talebani e alla cattura di coloro che non rimasero uccisi nei combattimenti.
Ad un anno dall’inizio dell’offensiva militare fu catturato il finanziatore dei dirottatori dell’11 settembre Ramzi bin al-Shibh, la mente dell’attacco contro la Uss Cole Abd al-Rahim al-Nashiri e nel 2003 in Pakistan venne individuato Khalid Sheikh Mohammed, l’ideatore degli attacchi dell’11 settembre.
Il primo maggio del 2011 il presidente americano Barack Obama annunciò alla nazione che un gruppo di Navy Seals aveva fatto irruzione nel compound di Osama Bin Laden ad Abbottabad, in Pakistan, uccidendo in uno scontro a fuoco il capo di Al Qaeda.
Dopo le “Twin Towers” Bin Laden si era mosso senza particolari resistenze lungo la frontiera orientale dell’Afghanistan per poi entrare in Pakistan nel 2002 e da lì si era poi spostato in alcune località limitrofe fino a stabilirsi definitivamente ad Abbottabad dal 2005.
Alla sua morte il potere passò nelle mani del numero due Ayman al-Zawahiri. Prima della sua morte, Bin Laden era però riuscito a spingere gli Usa a dichiarare guerra all’Iraq di Saddam Hussein.
Il gruppo Jama’at al-Tawhid wal-Jihad del terrorista giordano Abu Musab al-Zarqawi, il quale aveva stretto contatti con Ayman al-Zawahiri nel 1999, si affiliò ad Al Qaeda, di fatto creando al-Qaeda in Iraq (AQI), rinominata in seguito lo Islamic State in Iraq (ISI), sodalizio nato per contrastare l’attacco statunitense dell’Iraq e il governo sciita sostenuto dagli stessi americani dopo l’estromissione di Saddam Hussein.
Al- Zarqawi iniziò però a prendere delle decisioni in maniera autonoma dando il via agli sviluppi che negli anni successivi avrebbero portato, come vedremo più avanti, alla nascita dell’Islamic State.
Gli anni successivi alla morte di Bin Laden furono i più complessi per al-Zawahiri, in quanto lo Stato Islamico, proclamato nel 2014, sottrasse ad al-Qaeda attenzione mediatica, fondi e combattenti. Al-Qaeda continuò comunque il suo progetto di ampliamento del gruppo e delle attività annettendo alla sua struttura gruppi locali, come ad esempio al Shabaab in Somalia.
Così dopo l’AQAP, Al Qaeda nella Penisola Arabica (nata nel 2009 e che nel 2015 salì agli onori delle cronache per l’attacco al giornale satirico francese di Chalie Hebdo), nacque AQIM, Al-Qaeda in Maghreb e l’ultima nata l’AQIS, al- Qaeda nel Subcontinente Indiano.
I vari passaggi da Al Nusra a Fateh Al Sham e la finale confluenza in Hayat Tahrir Al Sham, noto anche come Tahrir Al Sham, sono la dimostrazione di una nuova capacità del gruppo di adattarsi e mutare a seconda dei nuovi scenari.
Nel 2013 l’ISI proclamò la sua unione alla branca siriana di al-Qaeda, quest’ultima reduce dalla guerra civile con il governo di al-Asad, grazie alla quale riuscì a conquistare una fetta di terreno siriano dove si insediò.
Con l’annessione sotto lo stesso “tetto” di territori iracheni e siriani, l’ISI cambiò denominazione in ISIS “Islamic State of Iraq and Syria”[32] scegliendo come capitale del nuovo autoproclamato stato islamico la città di Raqqa.
Nel giugno 2013 al-Zawahiri, attraverso un messaggio audio registrato e diffuso ai media, giudicando troppo estremi gli obiettivi, ordinò lo scioglimento dell’ISIS, dando al Fronte al-Nuṣra il compito di portare avanti lo jihād in Siria[33], ma al-Baghdadi contestò la decisione sulla base della giurisprudenza islamica e il gruppo continuò a operare autonomamente in Siria. IN base a queste decisioni iniziarono anche delle dispute interne che videro Fronte al-Nuṣra e l’ISIS fronteggiarsi anche sul campo di battaglia, motivo per cui al-Qaeda si separò formalmente dall’ISIS lasciando al-Nusra come sua unica rappresentante in Siria.
L’ISIS non fermò i combattimenti, cercando di annettere sempre più territori, con l’ambizione di creare un solo Stato Islamico sotto le regole della sharia, inglobando sotto il proprio controllo anche l’area di Mosul.
Il 29 giugno 2014, prima notte di Ramadan dell’anno, paventando la concreta opportunità di conquistare il controllo del movimento jihadista nel mondo, lo Shaykh Abu Muhammad al- Adnani al-Shami, portavoce del neonato Stato Islamico, dichiarava che il Consiglio della Shūra aveva preso la decisione di fondare formalmente il califfato, descrivendolo come “un sogno che vive nelle profondità di ogni credente musulmano“, nella convinzione era che i musulmani di tutto il mondo dovessero giurare la loro fedeltà al nuovo Califfo Abū Bakr al- Baghdād̄i[34].
Il nuovo “Califfato” eliminava, di fatto, la dicitura Iraq e Siria nella denominazione, intendendo come chiave di lettura il disconoscimento degli altri stati in quanto l’unico stato sovrano sulle terre occupate sarebbe divenuto da quel momento in poi lo Stato Islamico (IS)[35].
Le grosse differenze tra il fronte al-Nusra (legato ad al-Qaeda) e l’Islamic State si ravvisavano principalmente nel fatto che il primo mirava a rovesciare il governo di Assad mentre l’Islamic State combatteva per imporre il proprio dominio e portare la sharia nei territori conquistati.
In epoca successiva al-Nusra annunciò la propria scissione con l’adozione del nuovo nome Jabhat Fateh al-Sham (Fronte per la conquista del Levante) che a sua volta si fuse con altre quattro formazioni minori dando vita all’ Hayat Tahrir al-Sham (Organizzazione per la Liberazione del Levante) continuando a combattere in Siria.
Nel contempo altri gruppi autonomi jihadisti, presenti per mezzo dei propri adepti anche in altre nazioni, come ad esempio Boko Haram, fortemente radicato in stati come Nigeria e Somalia, dichiaravano il loro sostegno alle Islamic State al fine di combattere per la causa comune.
Il 24 luglio dello stesso anno a Mosul, in Iraq, veniva distrutta la Moschea di Giona perché frequentata anche da cristiani. A questi ultimi era offerta la possibilità di convertirsi all’Islam, di abbandonare le proprie abitazioni andando via oppure, come accennato nel precedente capitolo, di pagare una tassa di protezione per avere salva la vita.
Visto l’intensificarsi dei combattimenti e la crudeltà con la quale gli stessi venivano compiuti, la comunità internazionale capeggiata dagli Stati Uniti, decideva di intraprendere una massiccia campagna di bombardamenti, soprattutto con l’utilizzo di droni, sulle postazioni dell’IS in Iraq e in Siria.
Subito dopo avevano inizio anche le operazioni militari terrestri con l’invio di contingenti di terra e, nello stesso tempo, il Consiglio d’Europa deliberava la fornitura di armi per la resistenza curda per favorirla nell’azione di contrasto all’IS.
Il Califfato continuava la sua ambiziosa opera di espansione arrivando sino alla Libia (ancora debole dopo la caduta di Mu’ammar Gheddafi).
L’avanzata territoriale e i continui aspri combattimenti con le forze regolari e la “resistenza” locale, portavano all’esigenza di avere sempre più uomini disposti a sacrificarsi per la causa, obbligando l’Islamic State ad iniziare una campagna di reclutamento utilizzando anche il web come luogo virtuale di propaganda.
La strategia, che riscontriamo tuttora, prevedeva la pubblicazione di video, proclami inneggianti la Guerra Santa, messaggi audio e pubblicazioni, tutto questo finalizzato alla ricerca di seguaci da ogni parte del mondo disposti ad unirsi allo Jihād contro gli infedeli, anche a costo della vita.
A tale chiamata alle armi rispondono ancora oggi, purtroppo, numerosi sostenitori della lotta agli “infedeli” sia dall’Europa che dall’Asia e dall’America, muovendosi dalle proprie nazioni per raggiungere le zone di combattimento, dando così i natali al fenomeno dei “foreign fighters”.
Inoltre, attraverso la stessa propaganda sul web, il Califfato invita a colpire, anche in forma isolata e nella proprio nazione di appartenenza gli infedeli, spiegando con dovizia di particolari quali siano le tecniche, i mezzi e l’addestramento per colpire in maniera efficace ma, soprattutto, destabilizzare la sicurezza degli stati occidentali, costretti a convivere sotto la minaccia della strategia del terrore. L’azione terroristica, soprattutto quella isolata, è per definizione non prevedibile e le sue conseguenze non sono preventivabili. I combattenti singoli, che attuano questo tipo di azioni distruttive, hanno preso il nome di “Lone Wolf” o in italiano “lupi solitari”, proprio per la peculiarità di agire in maniera separata.
L’IS in tal modo, anche in continenti distanti, ha dato il via ad una serie di attentati, che hanno generato un considerevole numero di morti e feriti ma soprattutto un clima di insicurezza diffusa dovuto proprio al fatto che fossero inaspettati sia per la loro crudeltà che per le modalità con cui sono state eseguiti.
Il contrasto all’ISIS viene attuato con i metodi tradizionali, sul campo di battaglia, in particolare in area siriana, ma ciò non è sufficiente per sconfiggere una ideologia così complessa ed imprevedibile nell’azione. Ai metodi di guerra tradizionale si è reso necessario affiancare un’intensa attività di polizia di prevenzione e di intelligence interna ed internazionale; ciò riguarda tutti gli stati occidentali e filo-occidentali che si sono trovati a fronteggiare attentati consumati, o anche solo pianificati, da parte dell’organizzazione islamica.
Il 23 marzo 2019, al termine della Battaglia di Baghouz, con la caduta dell’ultima roccaforte dell’ISIS in Siria, il presidente americano Trump e il portavoce delle Forze Democratiche Siriane annunciano la sconfitta dell’ISIS[36].
Ciò ha rappresentato una mera illusione per l’occidente, la reazione a tali affermazioni non si è fatta attendere, infatti gli attentati da parte delle forze dell’ISIS non sono terminati.
Le forze islamiche, non combattendo più in maniera organica, si sono riorganizzate per operare in maniera sempre più isolata per colpire in varie parti del mondo. E’ cronaca recente, a due mesi di distanza dall’annuncio della sconfitta del Califfato Islamico, la notizia di molteplici attentati nello Sri Lanka, rivendicati dall’ISIS, ai danni della popolazione locale, che hanno portato alla morte di oltre 300 persone ed al ferimento di altre 1000.
2.2 La fine dell’ISIS e la problematica del rientro dei foreign fighters nei paesi d’origine.
E’ evidente, come dichiarato da molte autorità politiche e militari che la campagna militare contro l’ISIS, a seguito della perdita di Baghouz, sua ultima roccaforte in Siria, è terminata; l’organizzazione invece non può dirsi altrettanto scomparsa.
Il suo sostentamento finanziario, proveniente per lo più da donazioni da parte delle comunità vicine al sodalizio e da petromonarchie del Golfo, come Arabia Saudita, Kuwait, Bahrein, Qatar, Oman ed Emirati Arabi Uniti[37], consentirebbe un proseguo dell’attività terroristica, difforme dalla precedente in quanto meno organica ma non per questo meno efficace, ramificando in tutto il mondo le sue piccole unità di lotta armata, formate da ex combattenti che, rientrati nella propria nazione d’origine dopo la sconfitta siriana, consentirebbero all’organizzazione terroristica di operare in varie parti del globo, senza necessità di mantenere uno stabile dominio territoriale.
Il problema che oggi le nazioni devono affrontare è come controllare e gestire quei fedeli che, partendo da varie parti del mondo, Europa compresa, sono andati a combattere nel Califfato, e oggi sono in fase di rientro nel proprio paese natale o di provenienza. Altra questione da risolvere è come processare i circa 800 jihadisti catturati dagli americani e i 57mila jihadisti prigionieri provenienti da 48 Paesi che le forze di opposizione siriane (SFD) hanno dichiarato di detenere, in quanto Usa e SFD hanno affermato che se non si troverà a breve una soluzione per la loro posizione vi è la concreta possibilità che gli stessi vengano rilasciati.
Gli Stati europei sono, infatti, contrari a concedere l’autorizzazione al rientro dei jihadisti partiti dai loro territori per processarli.
Ogni Stato sta valutando ancora oggi il da farsi e la giurisprudenza da adottare al fine di inquadrare questo fenomeno.
La questione dei foreign fighters e della sconfitta dell’ISIS va però vista ed interpretata sotto diversi punti di vista.
Diventa necessario in primis garantire sia la sicurezza nazionale sia la posizione di chi nel “Califfato” non è andato per propria scelta ma ad esempio perché costretto da un genitore ovvero risolvere la situazione delle donne (spose o “schiave”) che hanno raggiunto il Califfato per seguire il coniuge, che invece era un combattente, ed hanno lì partorito i loro figli.
Di quest’ultima categoria si è occupato il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che nel dicembre 2017 ha adottato la risoluzione 2396 contenente un’intera sezione dedicata non solo alla repressione, ma anche alla riabilitazione di talune donne e dei fanciulli, considerati non tanto come sostenitori e seguaci dei terroristi, quanto piuttosto le loro stesse vittime.
I singoli stati occidentali, invece, non hanno un uniforme concetto giuridico di terrorismo, di conseguenza definizione e pene per tale reato sono diversi per ogni paese, pur essendo tutti concordi su una serie di convenzioni internazionali nel campo del terrorismo, non esiste, di fatto, un’esplicitazione di “terrorismo internazionale” univoca. Altro punto fondamentale da considerare, per definire il reato di terrorismo, è il locus commissi delicti, questo infatti è dirimente per stabilire quale stato può avere la competenza a processare i terroristi.
Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, attraverso la Risoluzione 2178(2014), affrontava di fatto il fenomeno dei foreign fighters dell’ISIS, imponendo l’obbligo a tutti glistati membri di criminalizzare i comportamenti collegati o correlati al fenomeno dei foreign fighters. Sino a quel momento i comportamenti da ritenersi configurabili come reato eranolegati ad attività che vedevano i soggetti come parti attive nell’attività, ad esempio condotte di istigazione, reclutamento, addestramento o partecipazione diretta all’attività terroristica. La novità introdotta dalla Risoluzione 2178 è la criminalizzazione non soltanto dei comportamenti attivi ma anche le condotte passive dall’essere arruolati, ricevere addestramento con finalità terroristica e non ultimo anche viaggiare al fine di unirsi a compagini ritenute terroristiche[38].
E’ importante però approfondire quanto stabilito nella risoluzione perché non proibisce il viaggio per unirsi a combattere in un conflitto armato, ma proibisce il trasferimento di persone che vanno a combattere per un’organizzazione terroristica, delineando così una reale differenza tra i foreign fighters e i foreign terrorist fighters.
L’Unione Europea ha recepito la risoluzione delle Nazioni Unite con la direttiva 2017/541 che annovera fra gli argomenti la proibizione di “viaggi a fini terroristici” per impedire il semplice trasferimento dei foreign terrorist fighters, i quali potrebbero poi commettere crimini più efferati.
Il rientro dei combattenti, come annunciato anche da una relazione dei servizi di intelligence italiani nel febbraio di quest’anno[39], conferma che i “combattenti stranieri nell’area siro-irachena si attestano oggi intorno alle 8 mila unità” e stima in “2.600 gli europei dello spazio Schengen”.
I foreign fighters tornati finora in Europa sarebbero invece 1.700, dei quali 400 nei Balcani, da dove, secondo il governo serbo, sarebbero partiti ben 800 volontari jihadisti kosovari e bosniaci.
Una relazione del comparto di intelligence italiana del febbraio 2019 ha sottolineato ancora una volta come i flussi di migrazione illegale, pur se in fortissimo calo (meno 95% nei primi due mesi del 2019 rispetto allo stesso periodo del 2018) costituiscano il percorso d’infiltrazione più utilizzato da criminali e terroristi; in particolare notevolmente pericolosi sono i cosiddetti “sbarchi fantasma” da Tunisia e Algeria, paesi che contano migliaia di volontari per la causa del Califfato o di Al-Qaeda.
La sfida degli stati occidentali sarà, pertanto, quella di monitorare il fenomeno dei foreign fighters, arginando le loro eventuali azioni isolate, che potrebbero avere gravi ripercussione sulla sicurezza nazionale, ovvero isolando questi soggetti, evitando che possano creare fra di loro una rete di aiuto e collegamento, rafforzandosi nuovamente in una compagine organizzata.
CAPITOLO 3: La risposta europea al fenomeno del terrorismo.
3.1 La risposta delle istituzioni europee agli eventi di natura terroristica.
La strategia antiterrorismo dell’Unione Europea è caratterizzata dall’adozione, con cadenza regolare, di misure vincolanti per i paesi membri finalizzate a far fronte ad una minaccia mutevole e sempre presente, soprattutto dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 occorsi negli Stati Uniti.
Negli anni immediatamente successivi all’attacco americano, anche in Europa sono stati commessi diversi attentati di matrice jihadista, a Madrid nel 2004 Al-Qaeda prese di mira, con attacchi multipli, dei treni locali provocando la morte di circa 200 persone e ferendone oltre 2000; a Londra nel 2005 una serie di esplosioni causate da bombe e da 4 “martiri” di Al-Qaeda ai danni di mezzi pubblici causò la morte di 56 persone e il ferimento di circa 700; a Parigi nel gennaio 2015 un gruppo di fuoco di Al-Qaeda entra nella redazione del giornale francese “Charlie Hebdò”, accusata di aver fatto delle vignette satiriche sul Profeta Maometto e, tra le vittime nella redazione e quelle in strada, il conteggio si assesta a 20 morti e 22 feriti. Nello stesso anno ma nel mese di novembre, sempre a Parigi, si contano 137 morti e 368 feriti durante gli attacchi multipli al “Bataclan” ed in altre parti città, questa volta non per mano di Al-Qaeda ma dell’ISIS. Da questo momento gli attentati cambiano regista e da Al-Qaeda si passa a rivendicazioni dell’Islamic State. La scia di attentati in Europa prosegue passando per Bruxelles e Nizza nel 2016, a Barcellona e nuovamente nella capitale inglese nel 2017, il che ha imposto l’elaborazione di strategie comuni maggiormente elaborate e complesse.
La popolazione europea non è abituata a fronteggiare attacchi di questo tipo, anche perché dal termine della seconda guerra mondiale non è stata più interessata da grandi conflitti nel proprio territorio; per questo diventa, quindi, necessario trovare una modalità efficace di contrasto al terrorismo che allo stesso tempo non risulti troppo invasiva per gli abitanti.
L’Unione Europea ha iniziato ad elaborare una serie di strumenti giuridici che, in primo luogo, riguardano la collaborazione tra le diverse forze di polizia presenti in ogni Stato per rivolgere poi lo sguardo a soluzioni comuni di politica estera e di strategie di sicurezza uniformi.
E’ da sottolineare come l’UE riconosca l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU)come organismo centrale nella lotta al terrorismo e, di conseguenza, adegua per quanto possibile la legislazione comunitaria alle Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza in materia di contrasto e lotta al terrorismo, al fine di adottare o rafforzare le misure legislative nazionali volte a sanzionare in modo specifico gli atti terroristici e a perseguirne i colpevoli.
L’altro fattore di primaria importanza è la collaborazione tra l’UE e gli Stati Uniti, concretizzatasi anche con accordi bilaterali tra le singole nazioni e gli USA e, soprattutto, nello scambio continuo di informazioni tra i servizi di intelligence e di Polizia.
In seno all’Unione Europea è stata creata un’agenzia incaricata di fornire assistenza agli Stati membri dell’Unione Europea nella lotta contro la grande criminalità internazionale ed il terrorismo. Quest’agenzia prende il nome di Europol.
L’agenzia collabora anche con molti Stati che non sono di fatto membri della UE.
L’Europol, al centro dell’architettura della sicurezza europea, funge da centro di sostegno per le diverse operazioni di contrasto alla criminalità e centro di raccolta ed elaborazione dei dati sulle attività delittuose. Conta un organico di circa 1000 persone che provengono da svariati contesti e numerose nazioni, tra cui 220 ufficiali di collegamento con le diverse forze di polizia e di intelligence europee e circa 100 analisti del crimine; l’Europol fornisce sostegno a più di 40.000 indagini internazionali ogni anno[40].
Organigramma Europol[41]
La struttura operativa conta un’aliquota di ufficiali Europol prontamente dispiegabili nei vari stati, con il proprio ufficio mobile, qualora ne venga richiesto il supporto.
E’ articolata in diversi organismi specializzati, in particolare:
- Centro Operativo Europol
Operativo 24 ore al giorno e 7 giorni a settimana, è il centro per lo scambio dei dati fra l’Agenzia, gli Stati membri e parti terze.
- EC3 – Centro Europeo per la lotta alla criminalità informatica
Quest’ultimo mira a rafforzare la risposta delle autorità nazionali, incaricate dell’applicazione della legislazione di contrasto alla criminalità informatica nello spazio dell’UE. Si avvale della Task Force congiunta contro la criminalità informatica (J-CAT) che dirige le attività di azione coordinate, guidata dagli organismi di intelligence, nella lotta contro le principali minacce della criminalità informatica. Il J-CAT nell’ambito di indagini complesse facilita l’impiego congiunto di diversi organismi nazionali e fornisce il supporto in termini di dati, analisi e strumenti all’indagine.
- ECTC – Centro Europeo Antiterrorismo
Si tratta di un centro operativo che svolge un ruolo essenziale negli sforzi europei atti a migliorare la risposta in materia di terrorismo.
- EMSC – Centro Europeo per la lotta al traffico di migranti
Sostiene gli Stati membri nell’individuare e smantellare le complesse e sofisticate reti criminali coinvolte nel traffico di migranti.
Al fine di poter archiviare, ricercare, visualizzare e collegare le informazioni Europol mette a disposizione delle singole realtà nazionali legate alla sicurezza, una serie di strumenti informatici tra i quali, i più importanti menzioniamo:
- net
Si tratta di una rete informatica decentrata che sostiene le unità di intelligence finanziaria ( FIU è appunto l’acronimo di Financial Intelligence Unit) dei singoli Stati al fine di agevolare la lotta contro il riciclaggio di denaro e il finanziamento del terrorismo.
- SIENA – Rete per lo scambio sicuro delle informazioni
Si tratta di una piattaforma molto moderna che soddisfa pienamente le esigenze di trasmissione di comunicazioni delle autorità incaricate dell’applicazione della legge.
- EPE – Piattaforma Europol per esperti
EPE è una piattaforma web sicura di collaborazione per gli specialisti che lavorano nei vari settori nell’ambito delle attività di contrasto.
- Sistema di Informazione Europeo
Si tratta di un grande archivio che alimenta il sistema di riferimento per i reati, le persone coinvolte negli stessi e gli altri dati correlati utili agli operatori nazionali.
L’Europol nel 2001 e nel 2002 in accordo con gli Stati Uniti ha concluso due accordi con l’intento di consentire alle autorità investigative americane e a Europol stessa di condividere informazioni di tipo “strategico” ( come soffiate, valutazione dei rischi, indicazioni di possibili attività criminali ecc.) che “personale” (nomi, indirizzi, precedenti penali ecc.) al fine di condurre “uno sforzo collettivo, sistematico e costante per eliminare il terrorismo internazionale, i suoi capi, i gregari e le reti”[42].
Inoltre Europol ha distaccato due ufficiali di collegamento a Washington, e l’FBI ne ha distaccati altrettanti presso la Counter-Terrorism Task Force[43] a l’Aja.
Nel successivo 2003 sono stati firmati gli accordi sulla mutua assistenza legale e sull’estradizione, collaborazioni queste che mirano a modernizzare ed armonizzare sistemi giuridici diversi al fine di promuovere una migliore cooperazione investigativa e semplificare il procedimento di estradizione. L’accordo sulla mutua assistenza prevede per gli investigatori UE e USA di poter accedere ai conti bancari nei rispettivi territori, a patto che l’indagine in corso riguardi reati gravissimi come il crimine organizzato e il terrorismo[44].
All’interno dell’UE viene quindi previsto un nuovo piano d’azione che rivoluziona la modalità di affrontare il tema del terrorismo, vista la sua nuova e imprevedibile mutazione. Questo nuovo piano d’azione prevede l’istituzione di una procedura d’arresto semplificata all’interno degli stati membri dell’Unione; l’identificazione delle organizzazioni terroristiche e la predisposizione di elenchi comuni a tutti gli operanti sul campo, anche attraverso uno scambio sistematico di dati con l’Europol, attraverso la propria squadra di analisti specializzati in anti-terrorismo, con gli omologhi statunitensi; la cooperazione tra servizi specializzati nella lotta al terrorismo; l’adozione delle misure necessarie a contrastare il finanziamento delle attività terroristiche; l’adozione di misure idonee a rafforzare la sicurezza dei trasporti aerei.
In base a questo nuovo “piano d’azione” vengono mensilmente redatti dei documenti che riportano gli aggiornamenti sulle situazioni ed, in occasione del Consiglio Europeo di Bruxelles, è stata prevista la redazione di un rapporto annuale sullo stato della minaccia terroristica chiamato TESAT (Terrorism Situation and Trends).
Al pari degli Stati Uniti colpiti il 11 settembre 2001, anche la UE, immediatamente dopo gli attentati di Madrid (2004) e Londra (2005) alza lo stato d’allarme e adotta la Declaration on Combatting Terrorism, una dichiarazione con la quale sollecita l’attuazione da parte degli Stati membri di quanto già deciso e rimarca la solidarietà, che comporta la previsione di aiuto immediato ad uno stato membro da parte degli Stati appartenenti all’UE, con tutti gli strumenti disponibili, incluso l’intervento militare, qualora, a seguito di commissione di fatti gravi di natura terroristica, ne ricorresse l’esigenza. Vengono, inoltre, create una serie di banche dati comuni, per favorire un rapido scambio di informazioni fra forze di polizia; importanti sono quella per i passaporti rubati, e per le condanne e interdizioni legate al terrorismo. Si uniforma la conservazione dei dati provenienti da telecomunicazioni e da internet; si istituisce l’Agenzia Europea per il Controllo delle Frontiere Esterne (FRONTEX) con il relativo rafforzamento dei controlli frontalieri e della sicurezza in materia di rilascio dei documenti, in particolare dei titoli di soggiorno per cittadini extracomunitari, con l’adozione di una procedura uniforme di rilevamento dei dati biometrici, attraverso la scansione del volto e delle impronte digitali.
Fondamentale è anche la creazione della figura del Counter-Terrorism Coordinator il quale coordina tutte le attività previste nel campo del contrasto al terrorismo, mantenendo una visione d’insieme fra tutti gli strumenti d’analisi provenienti dalle varie intelligence e dalle forze di polizia, funge, inoltre, da collettore tra la parte “operativa” e il Consiglio di Sicurezza dell’Unione Europea.
Dal 2005 è permesso ad Europol di poter accedere direttamente al Sistema di Informazione Schengen (SIS) al fine di migliorare i controlli alle frontiere, i controlli doganali e di polizia.
Viene inoltre istituito il VIS (Visa Information System), un archivio relativo a tutti i soggetti richiedenti un visto d’ingresso nell’area Schengen, in cui vengono inseriti i dati personali, la fotografia e la rilevazione delle impronte digitali.
Per la sicurezza dei percorsi di viaggio viene introdotta, in condivisione con gli Stati Uniti, la banca dati estrapolata dal sistema utilizzato per effettuare le prenotazioni di viaggi CRS (Computer Reservation System) da cui viene estratto il PNR (Passenger Name Record) collegato al nome e ai dati del passeggero.
Sulla pagina web del Consiglio dell’Unione Europea è ampiamente e dettagliatamente esplicata la strategia antiterrorismo posta in essere in ambito comunitario, demandata poi ai singoli stati membri per la concerta attuazione.
Questa strategia si basa su quattro “pilastri”[45]:
- Prevenzione.
La fase di prevenzione è mirata a studiare, analizzare e profilare le cause della radicalizzazione e del reclutamento di terroristi. La strategia in atto è stata rivista alla luce dell’evoluzione delle tendenze al compimento di attentati compiuti da “lupi solitari”, dai foreign-fighters e in considerazione del ricorso all’uso massiccio, da parte delle organizzazioni terroristiche, dei social media per diffondere la loro voce[46]. Le tappe fondamentali compiute dall’UE in tal senso sono: una direttiva restrittiva relativa al controllo dell’acquisizione e detenzione delle armi da fuoco, il perseguimento penale dei reati di terrorismo in particolare l’addestramento e ed i viaggi per scopi terroristici oltre che le condotte di loro agevolazione, fornitura o raccolta di fondi connessi ad attività o gruppi terroristici, il rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne anche con più efficaci verifiche nelle banche dati pertinenti. E ancora, fondamentale si è rivelato migliorare ulteriormente lo scambio di informazioni attraverso specifici protocolli di interoperabilità ed implementare il sistema SIS, istituire il Centro Europeo Antiterrorismo (ECTC), affrontare la lotta alla radicalizzazione on-line istituendo un’unità specifica di contrasto alla propaganda terroristica nel web incaricata di individuare i contenuti on line di carattere terroristico e di estremismo violento e di fornire consulenza agli stati membri in questo campo, aumentare la cooperazione con i paesi terzi (Medio Oriente, Nord Africa, Golfo e Shael) al fine di intensificare l’azione di lotta esterna al terrorismo, individuare le reti di reclutamento e i combattenti stranieri.
- Protezione.
Il secondo pilastro della strategia europea antiterrorismo è la protezione delle infrastrutture, dei cittadini e la riduzione di ogni forma di vulnerabilità delle infrastrutture critiche. In questo frangente appare fondamentale l’ impiego di informazioni provenienti dal comparto intelligence, difesa e sicurezza. Inoltre sussiste l’obbligo per i paesi membri di adottare la disciplina che prevede l’utilizzo del PNR, che aiuta a seguire e verificare il flusso di persone in transito, ancorché in condivisione con Stati Uniti, Australia, Canada.
- Perseguimento.
Il terzo pilastro mira ad ostacolare la capacità di pianificazione e di organizzazione dei terroristi al fine di renderli inermi per consegnarli nelle mani delle istituzioni giudicanti.
Al fine di perseguire questo scopo l’UE mira a migliorare e rafforzare le realtà nazionali interessate al fenomeno terroristico; aumentare e migliorare la cooperazione e lo scambio di informazioni tra le polizie e le autorità giudiziarie; porre in essere strategie per il contrasto al finanziamento del terrorismo e il riciclaggio; privare i terroristi e le organizzazioni terroristiche dei mezzo di sostegno e di comunicazione[47].
- Risposta.
L’ultimo obiettivo strategico è mirato a preparare, gestire e ridurre al minimo le conseguenze di un attacco terroristico consumato. Per arrivare a questo la UE punta al miglioramento delle capacità volte ad affrontare le conseguenze di un attacco, garantendo il coordinamento della risposta e limitando le conseguenze sulle vittime. Per perfezionare le proprie competenze in questo campo la UE sta elaborando una modalità di coordinamento nella gestione delle crisi al livello di UE, standardizzando il più possibile tra gli Stati membri le risposte, migliorando il meccanismo di protezione e sicurezza civile, anche attraverso finanziamenti per interventi mirati. Vanno in quest’ottica rielaborati nuovi strumenti per la valutazione del rischio e per la condivisione delle pratiche più efficaci per venire incontro alle vittime del terrorismo, limitando quanto più è possibile le conseguenze devastanti di un attentato.
Purtroppo la cooperazione tra le autorità europee e americane spesso incontra grandi difficoltà di interazione, nonostante tra loro esista una chiara volontà politica ed operativa comune. Spesso i problemi di compatibilità tra sistemi giuridici molto diversi tra loro, differente sviluppo tecnologico (dapprima all’interno dell’UE e poi tra UE e USA), differenti risorse umane e finanziarie rendono arduo il lavoro delle agenzie governative che sono chiamate a collaborare.
In maniera indipendente operano poi a livello di ogni singolo Stato gli apparati di Intelligence (riferiti sia alla situazione interna che esterna alla nazione) e le forze di polizia previste dai singoli ordinamenti statali, ognuna con la propria competenza settoriale ovvero territoriale.
Ognuno di questi enti, autonomo nel proprio incarico, pur utilizzando e implementando i sistemi forniti da Europol, risponde unicamente al Governo del proprio Stato per quanto riguarda la propria gestione, avviando attività di contrasto al terrorismo in modo indipendente ma, in caso di bisogno, può raccordarsi con gli organismi centrali europei al fine di dare più ampio respiro all’attività in termini di informazione e aumentare le capacità di successo all’attività di lotta e contrasto al fenomeno terroristico.
3.2 Risposta agli attentati da parte della popolazione coinvolta negli eventi terroristici.
La popolazione europea ed occidentale in generale gode fondamentalmente di una relativa tranquillità sociale che permette ad ognuno di non preoccuparsi del fatto di poter essere colpito da un attentato terroristico, considerando chi, invece, si è trovato coinvolto come qualcuno che è stato “sfortunato ad essere in quel posto in quel momento”.
Questo benessere e questa filosofia ha portato alla mancanza di una formazione pratica su come affrontare le emergenze e gli eventi eccezionali, in quanto è opinione comune che a difenderci ci siano sempre istituzioni deputate. I terroristi islamici, soprattutto in Europa, hanno invece operato e pianificato gli attacchi consapevoli del fatto che i cittadini occidentali non sono preparati all’autodifesa e che il riflesso istintivo della sopravvivenza è stato alienato in favore di una sicurezza condivisa assicurata dagli enti preposti, riuscendo per lo più nei loro intenti in mancanza di una risposta immediata da parte di chi era sottoposto all’attacco.
La reazione dei cittadini occidentali, a seguito di attentato, si è sempre per lo più espressa con l’organizzazione di successive manifestazioni di piazza di condanna verso il gesto e di solidarietà per le vittime.
L’inizio di una svolta sulla modalità di reazione da parte dei cittadini si è avuto il 4 dicembre 2015, quando a seguito degli attentati del 13 novembre a Parigi, il governo francese ha diffuso un manifesto in tutti i luoghi pubblici intitolato “Reagire in caso di attacco terroristico” che suggerisce ai cittadini i comportamenti che possono salvarli in attesa delle forze dell’ordine.
Il Corriere della Sera del 5 dicembre 2015, che al tempo riprese e tradusse il volantino, riportava la seguente spiegazione:
“Così il governo francese indica tre semplici priorità in ordine di importanza: “Scappare”; se questo non è possibile “nascondersi” ed infine “dare l’allarme” obbedendo poi alle forze dell’ordine. Nel primo capitolo, si consiglia di “localizzare il pericolo in modo da allontanarsene”. Poi, “se possibile aiutare le altre persone a scappare”. “Non esponetevi”, si legge accanto al disegno di un uomo che si abbassa sotto un muretto. Infine, nel caso in cui la fuga sia riuscita, “avvisate le persone intorno a voi e dissuadetele dal penetrare nella zona di pericolo”. Il secondo capitolo è quello del “nascondersi”, ed entra in gioco solo se non si è riusciti a scappare. I gesti consigliati sono in quest’ordine: 1) Chiudersi a chiave e barricarsi spostando mobili contro la porta; 2) “Spegnete la luce e togliete il volume agli apparecchi” (come computer e stereo); 3) Allontanarsi dalle finestre e stendersi al suolo; 4) Se è impossibile stendersi, rifugiarsi dietro un ostacolo solido (muro o colonna). In tutti i casi, “disattivate la suoneria e la vibrazione del vostro cellulare”. Alcuni testimoni hanno raccontato che al Bataclan la gente era terrorizzata a terra e le suonerie suonavano di continuo, innervosendo i terroristi.”
Le autorità britanniche, sulla scia di quelle francesi, qualche settimana dopo, nello stesso mese di dicembre diffusero un filmato intitolato “Stay Safe”[48] in cui spiegavano come reagire nel caso si rimanesse coinvolti in un attentato e ne illustravano nel dettaglio i comportamenti.
Il primo consiglio che veniva dato era quello di “correre”, intendendo con questo termine che bisogna scappare più velocemente e più lontano possibile appena si sentono degli spari, convincendo gli altri a fare lo stesso ma senza lasciarsi rallentare, lasciando borse e altro, chiamando la polizia solo quando si arriva in un luogo sicuro dando il maggior numero di informazioni possibili. Il consiglio di darsi alla fuga è ovviamente valido nel caso in cui ci sia una via sicura da percorrere, in caso contrario e non si possa correre via, il video consiglia di “nascondersi” in un posto riparato, meglio vicino ad una via d’uscita, in cui verosimilmente non si può essere raggiunti dai terroristi, chiudere la stanza e barricarsi all’interno e allontanarsi dalla porta. Altri consigli che vengono dati sono quelli di stare in silenzio, spegnere suoneria e vibrazione del telefono cellulare. Se all’arrivo delle forze di polizia si è dentro l’edificio, consiglia ancora il filmato, rimanere calmi, alzare le mani e tenerle in vista, fornire le proprie generalità e collaborare con gli operatori intervenuti seguendo gli ordinativi imposti. Nel 2017 la Counter-Terrorism Police, attraverso la sua pagina ufficiale ha diffuso una nuova edizione del video che ricalca comunque il filmato del 2015.
Appare lampante che il modus agendi suggerito dalle diverse autorità è improntato sulla stessa linea e tende il più possibile ad estromettere il cittadino all’intervento, fosse anche a discapito di altre vite, suggerendo in maniera implicita di evitare qualsiasi tipologia di reazione che non sia quella di scappare, nascondersi e chiamare i soccorsi. Anche quando l’aiutare gli altri a scappare produce un rallentamento è consigliato scappare lasciando gli altri dietro.
Il 12 giugno 2016 al Night Club Pulse di Orlando (Florida, USA), un uomo armato di fucile entra nel locale ed inizia a fare fuoco sui presenti. Nessuno reagisce sebbene il rapporto sia di 320/1, unica reazione dei presenti è stata quella di chiudersi nei bagni e mandare sms a familiari, pubblicare tweet e post su Facebook chiedendo aiuto, restando comunque uccisi.
L’unico a fronteggiare la situazione, prima dell’arrivo della Polizia, è stato un agente privato di vigilanza. L’epilogo dell’episodio è stato di 49 vittime e 58 feriti. Nel novembre del 2015 al Teatro Bataclan si è consumata un’altra tragedia che ha visto anche li una passività da parte delle persone coinvolte nell’attentato che non hanno provato a reagire sebbene fossero in numero di molto superiore a quello degli attentatori che, in quell’occasione, erano 3.
Altissimo il numero di vite spezzate e di feriti che si sono potuti contare sul pavimento del Bataclan al termine delle operazioni di liberazione da parte del B.R.I. francese.
A prescindere dalla motivazione che spinge l’attentatore a compiere il suo gesto, appare chiaro che la scelta di non reagire rimane una scelta sicuramente dettata da una impreparazione mentale e fisica ad affrontare una determinata situazione ma che può creare esiti ancora più gravi di quelli che si potrebbero avere reagendo. Un killer, per quanto armato, se fronteggiato da 300 persone, anche disarmate, sicuramente non riuscirebbe nel suo intento o almeno la sua potenzialità verrebbe decimata in pochissimo tempo.
Esempio lampante è quanto accaduto nella sera del 3 giugno 2017 a Londra, dove tre uomini a bordo di un furgone a noleggio hanno investito delle persone che passeggiavano sul London Bridge per poi andare a schiantarsi contro un pub. A questo punto i tre, scesi dal mezzo, hanno iniziato ad accoltellare i passanti ed gli avventori. Un rapido intervento delle forze di polizia ha permesso di arginare la minaccia in circa 8 minuti dalla chiamata al numero di pronto intervento della polizia.
L’attentato è stato poi rivendicato dall’ISIS.
In questi interminabili 8 minuti però, come è stata gestita la situazione?
E’ interessante analizzare come, per la prima volta, i londinesi hanno reagito in maniera attiva all’attacco, scaraventando tavoli, sedie e bottiglie contro i terroristi che accoltellavano la gente davanti ai bar e ristoranti.
Senza questa reazione probabilmente il bilancio sarebbe stato ancora più grave[49].
La coscienza da parte della popolazione, a seguito di attentati che hanno coinvolto negli ultimi anni tante città europee, sta lentamente cambiando, si è passati, infatti, da un atteggiamento passivo di reazione, caratterizzato principalmente dalla fuga o dalla paralisi a causa della paura, ad un atteggiamento attivo. Questo secondo tipo di reazione è destinato a prendere piede ove il fenomeno terroristico in Europa non si fermi ma continui a diffondersi, minando la tranquillità sociale, anche e soprattutto a causa di azioni isolate. Una reazione immediata della popolazione, come accaduto nella capitale inglese nel giugno 2017, può limitare nella fase dell’attacco i danni e le vittime, in attesa di una risposta operativa di tipo istituzionale.
CAPITOLO 4: La risposta del sistema israeliano al fenomeno del terrorismo.
4.1 Organizzazione del sistema di sicurezza esterna, interna e della popolazione israeliana residente negli stati esteri.
Come abbiamo già detto in precedenza, lo stato di Israele si è trovato in una situazione di conflitto, ancora prima della sua nascita.
La sua posizione geografica, importante in quanto collocata in un territorio nel quale si trovano i luoghi sacri delle più grandi religioni monoteiste, è aumentata a causa della sua importanza strategica nel Mar Mediterraneo, soprattutto dopo l’apertura del canale di Suez; tutto ciò ha fatto in modo che quest’area fosse e sia tuttora, al centro dello scacchiere politico e tattico internazionale.
Suddivisione della popolazione dello stato di Israele[50]
Ci si chiede come possa sopravvivere una nazione di circa 9.000.000[51]51 di abitanti con credi religiosi diversi, lacerata da importanti lotte interne, scaturite dalla forte volontà di autodeterminazione della popolazione araba palestinese, che spesso sfociano in attentati veri e propri e scontri nelle linee di confine. La risposta va cercata nella sua organizzazione puntuale e integrata dei servizi di intelligence, di sicurezza e di difesa.
Non è solo l’organizzazione di questi servizi a rendere questa nazione un modello di riferimento nell’ambito della sicurezza, ma anche il modo che hanno le istituzioni di condividere tra loro le informazioni e le attività operative poste in essere.
Tutta la filosofia della sicurezza israeliana ruota intorno a 4 parole chiave:
– intelligence;
– prevenzione;
– deterrente;
– segnali.
Il comparto di intelligence israeliano è un settore all’avanguardia ed è strutturato in maniera tale da consentire ad ogni ente di lavorare singolarmente, condividendo però con gli altri i risultati delle proprie attività, dando modo agli analisti di avere una visione completa dei fenomeni in tutte le loro sfaccettature.
L’intelligence israeliane è composta da diversi servizi che si occupano dell’attività informativa, di cui i più importanti sono il Mossad, lo Shabak ( conosciuto altresì come Shin Bet), l’Aman, la Unit 8200, il Comabat Intelligence Corps dell’Esercito. Inoltre un servizio di supporto all’intelligence è dato dal Servizio Informazioni della Polizia e dal Centro Ricerche Politiche del Ministero degli Esteri.
Per comprendere il loro funzionamento, che prevede in primis, la non sovrapposizione di competenze e di gestione, abbiamo la necessità di analizzarli uno per uno.
Il Mossad, parola che in italiano significa “Istituto”, è, in realtà, l’abbreviazione utilizzata per comodità nel parlato comune di HaMossad leModi’in uleTafkidim Meyuchadim ( in italiano Istituto per l’Intelligence e Servizi Speciali).
Fondato immediatamente dopo la nascita di Israele, l’agenzia di intelligence (nel disegno accanto è riportato il logo istituzionale)[52]si occupa principalmente all’estero, di studiare e prevenire le attività che possano compromettere la sicurezza statale nel campo della prevenzione e del contrasto al terrorismo (islamico e non), cura, inoltre, la raccolta di informazioni riservate di interesse per lo stato. Il Mossad non è un corpo militare ma civile e dipende direttamente dal Primo Ministro israeliano.
Della selezione, addestramento ed impiego degli uomini del Mossad vi sono solo dei racconti ma non vi sono fonti che ne possano spiegare le modalità, mentre è molto ampia la bibliografia sulle azioni compiute nel mondo, che ha contribuito a rendere leggendari i suoi agenti. Per fare un parallelismo con la realtà italiana, inteso ovviamente con la dovuta cautela, potremmo dire che il Mossad, seppur con metodi e strumenti completamente diversi, equivale all’italiana A.I.S.E. (Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna).
Lo Shabak è l’acronimo di Shérūt Bītāhōn Klālī (conosciuto anche come Shin Bet, nome dato dalle iniziali delle prime due parole che ne compongono il nome completo), in italiano significa Servizio di Sicurezza Generale. I suoi compiti differiscono da quelli del Mossad in quanto lo Shin Bet opera per lo più in patria, occupandosi in primis delle informazioni riservate che gravitano dell’ambito della sicurezza interna del paese, compreso l’interrogatorio di terroristi o di sospettati di far parte di cellule terroristiche (ha anche unasezione che si occupa, oltre che degli arabi palestinesi, anche delle attività delle frange ebree più estremistiche che potrebbero nuocere alla popolazione musulmana), attività di controspionaggio, attività sulla Striscia di Gaza ed in Cisgiordania dove contribuisce all’attività di intelligence militare per le operazioni antiterrorismo.
A seguito di pregressi attentati subiti dalla popolazione ebraica negli anni, i servizi di intelligence hanno appreso gli errori ed approntato nuovi protocolli di protezione e prevenzione. Un esempio sono i dirottamenti di aerei israeliani, commessi intorno agli anni ’60 e ‘70 del secolo scorso, che hanno fatto sì che Israele adottasse dei protocolli operativi più rigidi a protezione degli aeroporti nazionali e dell’aviazione civile, arrivando ad oggi a prevedere protocolli operativi contro la pirateria aerea che comportano la dislocazione di personale dello Shin Bet su ogni velivolo di linea della compagnia di bandiera ELAL[53]. Basti pensare che anche nel nostro paese vengono attivati specifici protocolli di sicurezza in occasione di arrivi e partenze di voli ELAL, innalzando ancor di più il livello di attenzione.
Stesso ragionamento vale per la protezione delle infrastrutture critiche e governative, dei centri commerciali, delle sedi diplomatiche o ebraiche in giro per il mondo. Anche su questo possiamo considerare come le Sinagoghe, le sedi diplomatiche, i musei ebraici siano considerati, in Italia come nel resto d’Europa, obiettivi sensibili, oggetto di specifiche vigilanze da parte delle forze di polizia.
Come già detto per il Mossad, se volessimo paragonare lo Shin Bet ad un organismo italiano, si potrebbe comparare all’A.I.S.I. (Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna).
L’Aman o Direttorato di Intelligence Militare è un organismo sovraordinato creato all’interno dell’Israel Defence Force, ed è il servizio centrale di intelligence a livello militare.
Il suo compito principale è l’organizzazione del sistema di raccolta delle informazioni provenienti dalle diverse agenzie, compresi i dati provenienti dagli addetti militari nelle ambasciate all’estero, al fine di rendere fruibili le informazioni agli analisti per l’aggiornamento delle situazioni e dell’intelligence cartografica, l’addestramento di personale, lo sviluppo e ricerca di nuove attrezzature per l’attività di intelligence, soprattutto quella riguardante l’uso nell’ attività campale, tipica di chi svolge attività di intelligence lontano dalle infrastrutture ufficiali. Non ultima l’analisi dei dati per poter fornire il supporto alle decisioni di tipo militare del sistema difensivo nazionale e degli organi di governo.
Tra le sue unità più conosciute vi è la Unit 8200 e l’unità di Combat Intelligence che però dal 2008 svolge l’attività in maniera autonoma.
La Unit 8200 è finalizzata all’attività informativa e di intelligence dei segnali elettromagnetici (SIGINT)[54], alla ricerca di informazioni su fonti aperte (OSINT)[55] e alla decrittazione di informazioni, codici cifrati e cyberwarfare.
L’unità, cresciuta nel tempo sia nella misura di operatori che di risorse, non si occupa solo di attività passive di intercettazione ma svolge un’importante attività di valore strategico nell’ambito tecnologico, in particolare nel campo dell’informatica tanto da venir paragonata per competenza, capacità e prontezza di risposta all’agenzia americana NSA. Attualmente il lavoro della Unit 8200, strettamente connesso con l’attività dello Shabak, riveste un ruolo molto importante nel complesso ingranaggio dell’intelligence israeliana.
L’ex capo di Aman (da cui la Unit 8200 dipende gerarchicamente e funzionalmente) Amos Yadlin, durante un’intervista al giornale “la Repubblica”, parlando dell’importanza della Unit 8200, disse: “insegniamo alla nostra gente che la missione è così importante che non c’è alcuna possibilità di fallimento perché il cyberspazio concede ai piccoli Stati e ai singoli individui un potere che finora era appannaggio solo delle superpotenze. La cyberwar ha la stessa portata innovativa che ebbe l’aeronautica nelle guerre del XX secolo[56].”
Il Combat Intelligence Corps è il più giovane dei servizi di intelligence israeliani, nato, o meglio, reso autonomo dall’Aman nel 2000 il Combat Intelligence Corps si occupa di raccogliere dati e informazioni dalle aree di combattimento e del relativo mantenimento del network informativo.
Per svolgere la sua attività si avvale di 4 battaglioni ad alta valenza operativa, con personale formato specificatamente ed equipaggiato con droni leggeri, mezzi fuoristrada (foto a lato)[57] e telecamere che inviano le immagini in diretta nelle sale di controllo nel Quartier Generale a Tel Aviv.
Ogni battaglione è specializzato per operare in una diversa area (settore di Gaza, settore siriano, settore del Negev e il settore libanese), inoltre vi è un battaglione di coordinamento chiamato “Field Intelligence Battalion, una scuola di formazione e la già citata Unità di Comando presso il palazzo dell’IDF a HaKyria, nei pressi di Tel Aviv.
Da un punto di vista di sicurezza nazionale, la lotta contro il terrore è innanzitutto una battaglia d’apprendimento nella quale vanno individuate le falle del sistema al fine di perfezionare le soluzioni e i metodi di contrasto.
Elencati ed analizzati i principali organi di riferimento dell’intelligence israeliana, bisogna comprendere come questi operino nella prevenzione e risposta ad eventuali attacchi terroristici.
La fase di prevenzione di eventuali attacchi da parte di qualsiasi frangia estremistica inizia con uno screening da parte degli analisti delle agenzie finalizzato a profilare potenziali terroristi. Il profilo viene creato mettendo insieme più informazioni come l’ambiente frequentato, la provenienza, i viaggi compiuti all’estero e quant’altro sia noto sulla persona.
La lista dei potenziali individui pericolosi viene così trasmessa alla Unit8200 che, attraverso l’attività OSINT, monitora i soggetti, unendo alle informazioni ricavate dalle fonti aperte le informazioni riservate provenienti dalle altre agenzie di intelligence nazionali.
Quando un soggetto posto sotto monitoraggio inizia ad esprimere concetti eversivi o porre in essere comportamenti estremistici, che potrebbero sfociare in un azione pericolosa per la sicurezza nazionale, viene prelevato dal personale dello Shabak, sottoposto a detenzione amministrativa, interrogato per verificare quale fosse il reale intento del suo comportamento sospetto e successivamente rilasciato, con l’avviso che da quel momento rientra tra gli individui posti sotto controllo da parte dello Stato.
Conoscere il pensiero della controparte per convincerla ad astenersi dal compiere l’attività illecita ma, soprattutto, la certezza della punizione per i terroristi costituiscono i punti di forza dell’attività israeliana, legata all’azione deterrente dell’atto terroristico. Nei casi più gravi è legittima, ad esempio, la demolizione della casa del terrorista come chiaro segnale per tutti i cittadini di come, al di la della “giustizia in aula”, le istituzioni israeliane vogliano dare dei segnali concreti e forti alla popolazione, confidando nel potere dissuasivo di questi gesti estremi.
E’ chiaro che questo genere di attività preventiva è possibile soltanto perché l’ordinamento giudiziario, basato prevalentemente sulle leggi in uso durante il mandato britannico, è particolarmente duttile e si adegua continuamente alla necessità di combattere il terrorismo e chi lo sostiene, a vantaggio della sicurezza del Paese. Inoltre questa flessibilità legislativa consente di legittimare le azioni dello Stato, soprattutto di tipo militare, mirate al contrasto del terrorismo.
Infatti, quando non è possibile arrestare preventivamente chi sta per compiere un attentato, perché tatticamente non conveniente, ma la minaccia diventa reale ed attuale, il sistema israeliano permette di utilizzare l’Esercito per operazioni militari di contrasto e prevenzione al terrorismo, sulla scorta delle informazioni riservate ed in possesso dell’ Aman, che ne predispone, quindi, i piani di intervento.
Questo genere di attività finalizzata a prevenire i comportamenti illeciti più gravi, funge soprattutto da deterrente in quanto, ad esempio, è verosimile che chi ha anche solo iniziato l’ideazione di un attentato e viene scoperto, desista dalla sua attività ovvero che questa venga scoperta in maniera celere. Ecco perché la condivisione delle informazioni dell’intelligence è un punto cruciale un per un’efficace azione preventiva mirata ad annullare ogni tipo di embrionale attività sovversiva.
Per ciò che attiene il sistema di difesa, in particolare l’ordinamento militare, si consideri il fatto che ogni cittadino israeliano, uomo o donna dai 18 ai 40 anni, deve svolgere il servizio di leva obbligatorio per un periodo di 3 anni per gli uomini e di circa 2 anni per le donne; il servizio è aumentato di un anno se viene svolto nel ruolo di ufficiale. Una volta terminato il servizio obbligatorio è possibile fare domanda per far parte in maniera permanente dell’Esercito; inoltre il personale posto in congedo viene iscritto alle liste di “riserva”. Il personale militare, può in alcuni casi particolari, come ad esempio durante le operazioni di contrasto al terrorismo in Palestina, ricorrere all’utilizzo di abbigliamento civile analogo a quello utilizzato dai palestinesi, per confondersi fra i terroristi ed avvicinarsi sempre più a questi per poterli arrestare prima di essere scoperto.
Il personale riservista, sino ai 40 anni d’età, viene richiamato alle armi un mese ogni anno, al fine di svolgere corsi di aggiornamento, effettuare l’addestramento di mantenimento all’uso delle armi e svolgere servizio attivo. In caso di bisogno il personale riservista può essere richiamato in servizio aumentando le fila del personale operativo sino quasi a triplicarlo.
Solo alcune categorie di cittadini come gli ultradordotossi possono chiedere di essere dispensati dallo svolgere il servizio militare ma recenti integrazioni alla legislazione in materia hanno previsto un tetto massimo annuale di giovani dispensati, oltre i quali invece si è obbligati a servire il paese.
4.2 Risposta della popolazione civile israeliana agli attentati.
A 70 anni dalla fondazione dello stato di Israele, precisamente il 19 luglio scorso, i 120 membri del Knesset hanno varato una legge fondamentale per gli ebrei d’Israele e del mondo dichiarando Israele «Stato nazionale del popolo ebraico». Questa importante decisione presa a livello centrale ha però creato non pochi malcontenti nelle fila della coalizione di minoranza arabo-comunista, che ha visto svanire ancora più la possibilità di una nazione democratica che potesse accogliere musulmani, drusi, ceppi ridotti non giudaici (come beduini, aramei, ecc.) nella stessa misura e con la stessa forza degli ebrei. Durante la discussione della legge, le destre nazionaliste e religiose sono state ovviamente a favore ad uno stato ufficialmente ebraico, il Knesset si è diviso tra favorevoli e contrari all’emendamento e come già detto i partiti di minoranza di sinistra risultavano contrari.
Quindi ogni ebreo, ovunque si trovi, sa di trovare nei ghetti ebraici dislocati nelle città del mondo una comunità pronta ad accoglierlo o di poter chiedere asilo in Israele qualora si senta minacciato. La forza di questo popolo è proprio il grande e forte senso di appartenenza, che ha portato alcuni ebrei in tempi passati, ad arruolarsi nell’Esercito e combattere il nemico di Israele. In Italia abbiamo l’esempio dei giovani ebrei romani che nel 1948 partirono per difendere Israele durante la prima guerra con gli arabi.
Carta riportante la principale suddivisione del cd. Mosaico israeliano nel quale appare ben chiara la moltitudine di minoranza e territori che lo compongono.[58]
Questo forte senso di appartenenza, reso ancora più forte dopo i luttuosi eventi di persecuzione della seconda guerra mondiale, si estrinseca anche nel fatto che le comunità ebree di tutto il mondo si autotassano in maniera volontaria al fine di raccogliere fondi per il sostentamento di Israele e delle sue attività, utilizzando un’evoluzione dell’antico sistema della “cassella”[59].
Il principale tratto che accomuna gli ebrei nel mondo, oltre chiaramente a quanto sopra esposto, è ovviamente l’appartenenza alla religione ebraica, la scrittura utilizzando il proprio alfabeto e ovviamente la lingua. Motivi questi per cui i cittadini ebrei nel mondo si sentono comunque parte di una grande comunità e contemporaneamente cittadini israeliani, pur non avendo il requisito tecnico della cittadinanza.
Diventa lampante che all’attività di intelligence classica si aggiunge anche l’attività spontanea o addirittura quella “involontaria” degli ebrei in patria e nel mondo che riportano anche casualmente informazioni di tipo sensibile.
Per capire come reagisce la popolazione civile israeliana è da tener presente che si tratta di un popolo abituato, dalla nascita della nazione, a combattere una guerra con la minoranza palestinese, a subire attentati in qualsiasi luogo e nelle modalità più disparate e non ultimo, ad avere in ogni famiglia diversi morti in questi eventi.
Lo Stato imprime una forte spinta alla formazione dei suoi cittadini in quella che è conosciuta come “sicurezza partecipata”, spiegando in maniera quasi ossessiva le modalità di comportamento prima e durante e dopo un atto terroristico.
La caparbietà e l’attuazione di precisi protocolli anche da parte della popolazione civile è da ricercarsi in primis nella profonda convinzione in ogni cittadino che il sionismo è l’essenza dello Stato di Israele e che i valori in cui credono siano nobili e che sia necessario difenderli a qualsiasi costo. In ultimo, l’idea che la causa ebreo-israeliana, soprattutto dopo la Shoah, goda del più ampio sostegno internazionale anche delle nazioni con cui Israele non ha diretti rapporti.
La preparazione dei civili, oltre che all’interno delle mura domestiche, inizia nei primi anni di scuola dove vengono insegnati i rudimenti della prevenzione di atti terroristici e i loro segnali preventivi. Ad esempio un bambino che trova in mezzo alla strada, lo zainetto del proprio compagno di scuola non si azzarderà a raccoglierlo ma avviserà le autorità.
Questo comportamento, interiorizzato fin da piccoli, deriva dall’insegnamento, attuato già nei confronti dei bambini in età scolare, che spesso borse, valigie e zaini contengono esplosivo pronto ad esplodere nel momento in cui ci si entri in contatto.
A memoria di questi insegnamenti è, comunque, presente cartellonistica informativa sui mezzi pubblici, in tv e per strada, come si può notare nelle immagini sotto riportate, che invitano al rispetto delle principali norme di tutela e auto-tutela.
Viene, inoltre, spiegato, ripetuto e studiato come ci si comporta durante un attentato, qual è il ruolo della popolazione civile, quello di chi si occupa di prestare i primi soccorsi e dell’importanza di rispettare il proprio ruolo al fine di ottimizzare il risultato a vantaggio della comunità intera e di chi è coinvolto nell’attentato. Si è a conoscenza che, in caso di esplosione, se non si è coinvolti direttamente bisogna allontanarsi al più presto dal luogo dell’evento, limitandosi a segnalare l’accaduto alle autorità, che provvederanno all’attività di soccorso. Il veto di avvicinamento per la popolazione civile deriva dal pericolo di “seconda esplosione”: la modalità d’attacco più diffusa, infatti, prevede l’esplosione di un secondo ordigno nel momento in cui la popolazione si avvicina per prestare i primi soccorsi o per capire cosa sia successo.
Ogni israeliano acquisisce nel corso della sua vita un modus operandi derivante dagli insegnamenti ricevuti in famiglia, a scuola e durante l’addestramento militare ma anche come conseguenza diretta di esperienze di vita e di ripetizione di gesti visti e ripetuti migliaia di volte dai propri connazionali, che lo pone sempre in una posizione di allerta al fine di individuare una possibile minaccia.
Oltre l’attuazione di precisi protocolli per la popolazione civile da seguire nel momento in cui si è in prossimità di una possibile minaccia (es. zainetto abbandonato) o nel momento in cui l’emergenza è già in atto (es. esplosione di un’autobomba), vi è l’attività di contrasto al terrorismo che è possibile attuare dal cittadino nel caso in cui si trovi a contatto con un pericolo attuale. E’ riscontrabile nella maggior parte della popolazione adulta il possesso di un’arma da difesa ed il suo porto nelle attività quotidiane. Il porto dell’arma associato ad un addestramento militare continuo sia per gli uomini che per le donne, fa sì che nel momento in cui un individuo si trovi davanti ad un uomo armato o che stia per compiere un attentato sia pronto a fare fuoco e a reagire fisicamente alla minaccia, ancora prima dell’intervento delle autorità preposte.
Si può concludere affermando, senza dubbio, che il terrorismo è parte integrante della vita degli israeliani i quali sono obbligati da sempre a conviverci, cercando di non farsi sopraffare dalla paura, consci, comunque, del fatto che la prevenzione svolta in tutte le sue forme non può garantire la sicurezza assoluta né che un attacco terroristico non si verifichi.
La resilienza della popolazione israeliana è davvero molto alta e la cooperazione delle persone a seguito di un attentato è davvero il punto di forza chiave dell’ordinamento statale alla lotta comune al terrorismo. La garanzia che viene data ai cittadini, protagonisti attivi della lotta, è che l’azione criminale e sovversiva non rimarrà impunita e che “si ritornerà a vivere regolarmente nelle 4 ore successive ad un attacco”. La reazione immediata, comprensiva anche della capacità di rimozione rapida delle conseguenze di un attacco e di ricostruzione rapida di infrastrutture colpite, è fondamentale per far funzionare questo sistema. Anche i media, su cui grava la censura statale, devono uniformarsi a questa impostazione e non possono concentrarsi per più di 48 ore sulla notizia dell’attacco, al fine di dare il minor peso possibile allo stesso, traendo un vantaggio anche tattico, considerando l’attentato sempre come un evento singolo e non collegato ad un terrorismo globale organizzato.
Il ripristino delle condizioni di vita analoghe a quelle precedenti l’attentato, solo poche ore dopo l’evento, riduce considerevolmente l’impatto strategico dell’atto terroristico riportando quest’ultimo quasi alla stessa valenza di un incidente.
Lampante anche in questo caso è la differenza di approccio dei popoli europei ad un attacco terroristico. Difficilmente, infatti, si è ritornati alla normalità in poche ore o dopo pochi giorni. La capacità di ricostruzione di infrastrutture in tempi brevissimi è senza dubbio più limitata, dettata dal fatto che il numero di attentati che ha colpito l’Europa è sicuramente di molto inferiore agli attacchi a cui sono soggetti gli Israeliani. A ciò si aggiunga, come già sottolineato, che la popolazione civile occidentale arriva spesso a “celebrare” gli attentati, ricordandone le vittime in manifestazioni di solidarietà, anniversari, celebrazioni religiose pubbliche.
Alla luce di ciò viene da interrogarsi se tutto ciò non costituisca, involontariamente, un punto di forza per la strategia del terrore, che proprio grazie a queste manifestazioni amplifica l’eco dei propri attacchi distruttivi. Al contrario, nella strategia israeliana, è fondamentale dare minor risalto possibile all’attività scellerata degli attentatori.
Conclusioni
Nel presente elaborato si è analizzata la diversità di approccio, dinanzi alla consumazione di un attentato terroristico, da parte dei paesi occidentali rispetto a quello di Israele.
Una differenza sostanziale che scaturisce da molteplici fattori, principalmente la condizione, per lo stato di Israele, di vivere una guerra ininterrotta da 70 anni, dall’altro lato, in analogo periodo storico, la “stabilità civile” del mondo occidentale.
In Europa l’ultimo vero e proprio evento storico devastante, che ha coinvolto la popolazione nella sua totalità, modificandone abitudini, provocando numerose perdite e ingenti migrazioni, è stata la Seconda Guerra Mondiale; successivamente a questa hanno avuto luogo conflitti limitati territorialmente e temporalmente.
Diversamente in Israele, dalla fondazione dello stato, ed in verità anche in precedenza, la popolazione è costretta e quindi oramai abituata a vivere in uno stato di perenne allarme a causa di attentati, combattimenti e attacchi messi in atto dai palestinesi.
Appare evidente il motivo per cui in occidente e in Israele si utilizzino modelli diversi per prevenire e combattere il terrorismo. Il modello israeliano è da considerasi altamente efficace, sia per le capacità di analisi previsionale degli attacchi sia per l’attuazione di contromisure immediate agli attentati. Ci si interroga, quindi, sul perché tale modello non venga “importato” in Europa, mutuando quindi i nostri strumenti di contrasto su quelli israeliani. La risposta va ricercata nel fatto che le popolazioni occidentali non sono pronte a sacrificare la propria libertà, acquisita man mano nei secoli, che trova in Europa il suo coronamento in una organizzazione sovranazionale che ha garantito decenni di pace, considerando il modello israeliano fortemente lesivo della sfera personale degli individui.
Un modalità di attuazione di attentati da analizzare, che si è verificata in Occidente, è quella di assalti terroristici compiuti attraverso un mezzo di trasporto che investe la folla cercando di provocare più morti possibile. Questo è un metodo mutuato dai palestinesi per colpire la popolazione ebrea; il suo nome è “car intifada”.Una modalità di attacco difficilmente prevedibile per la polizia e per l’intelligence che può essere contrastato soltanto “blindando” e proteggendo tutto ciò che può costituire un bersaglio. Le fermate del bus, ad esempio, in Israele vengono costruite in cemento armato, a bordo dei bus non è raro trovare personale armato, così come frequenti sono i poliziotti e militari in strada. Ci si chiede se i popoli occidentali, europei in particolare, siano pronti a rinunciare a costruire le pensiline delle fermate degli autobus in alluminio e plexiglass a favore di strutture più protettive in cemento armato. Se siano pronti a salire sui mezzi pubblici e trovare poliziotti con giubbotto antiproiettile e arma lunga pronti a fare fuoco in luogo del bigliettaio.
Si può senza dubbio affermare che la maggior parte degli occidentali, pur conoscendo oggi la paura di convivere con il terrorismo, vedrebbe queste misure come altamente invasive della propria sfera personale e come un atteggiamento ossessivo nei confronti di un evento che nel 99% dei casi non si verificherà.
Il coinvolgimento diretto della popolazione israeliana è di fatto la chiave del funzionamento del sistema di sicurezza e antiterrorismo, a ciò si aggiunga che il governo israeliano garantisce la punizione certa di qualsiasi attività illecita.
In occidente abbiamo analizzato come la popolazione, nell’evento terroristico, venga messa in una posizione di autotutela e, proprio per la mancanza di una formazione tattico-militare, è esortata a scappare dal luogo dell’evento e ad avvisare gli organi deputati al mantenimento della sicurezza.
In Israele è prassi che i cittadini paghino un piccolo supplemento in palestra, al centro commerciale e negli esercizi pubblici e privati in genere al fine di mantenere il personale armato di vigilanza e favorire l’installazione di costose apparecchiature di difesa passiva e sorveglianza, come è previsto per tutta la popolazione, o quasi, lo svolgimento di un servizio di leva di durata dai 2 ai 5 anni.
Tutto ciò perché la strategia antiterrorismo, pluridecennale, si è dovuta adeguare alla realtà degli attacchi terroristici frequentissimi, adottando un approccio basato sulla difesa, sull’anticipazione e rapidità di reazione.
Questi sono ovviamente modelli e concetti che in Europa non sono accettati perché troppo lontani dall’effettiva possibilità che un attentato possa compiersi.
Ci si può, al contrario, interrogare, facendo il percorso inverso sull’applicabilità del modello occidentale alla realtà israeliana.
Si noterebbe che il “metodo israeliano”, altro non è che il metodo occidentale rivisto, elaborato e modificato per le esigenze di una nazione che quotidianamente subisce attentati terroristici.
La fermata dell’autobus in cemento armato, che resiste al mezzo guidato dal terrorista e lanciato sui passeggeri in attesa, anni fa in Israele altro non era che la fermata dell’autobus che possiamo trovare oggi in ogni città occidentale, ma che a seguito di numerosi eventi terroristici tipizzati, si è trasformata in una soluzione “blindata” della fermata del bus.
Alla stesso modo si può parlare del personale armato, che effettua controlli all’ingresso di una struttura apparentemente normalissima come la palestra. In Occidente è attività ordinaria andare in una palestra, cambiarsi, mettere la propria borsa nell’armadietto e iniziare l’attività fisica. Anche in Israele potrebbe essere consueto ma, a causa degli attentati compiuti per mezzo di ordigni esplosivi inseriti nelle borse sportive, lasciati nell’armadietto e fatti esplodere nel momento di maggior afflusso, si è arrivati all’estrema ratio di potenziare i controlli agli ingressi con tutti i mezzi possibili al fine di evitare ulteriori perdite di vite.
Nel complesso, i due differenti modelli di vita e la diversa probabilità che un attentato possa essere compiuto fa sì che i due approcci, pur finalizzati al contrasto del fenomeno terroristico, non possono essere sostituiti l’uno con l’altro, ma possono costituire solo uno spunto di miglioramento ed affinamento delle tecniche, parametrate sulla realtà dei singoli Stati.
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[1] MORABIA Alfred, “Le Ğihâd dans l’Islam médiéval, le «combat sacré» des origines au XII° siècle”, Bibliotheque de l’évolution de l’Humanité, Paris, 1998
[2] PICADOU Nadine, “L’Islam entre religion et idéologie: essai sur la modernité musulman”, NFR, Mesnil-surl’Estrée, 2010.
[3] HUMPHREYS Stephen, “Between Memory and Desire”, University of California Press, Los Angeles, 2005.
[4] CASALICCIO Valentino Armando, “Jihād e Stato Islamico”, articolo tratto da Pandora – Rivista di teoria e politica, aprile 2016.
https://www.pandorarivista.it/articoli/Jihād-e-stato-islamico-breve-storia/
[5] Tribù araba di abili mercanti e forti guerrieri stanziata a la Mecca a partire dal VII sec. d.C.
[6] TERMENTINI Fernando, Insurrezionalismo e Terrorismo il problema del banditismo in Afghanistan, Stato
Maggiore della Difesa Italia, Roma, 2006.
http://www.difesa.it/smd_/casd/im/cemiss/pubblicazioni/documents/72821_termentinpdf.pdf
[7] MANDEL Gabriele (a cura di),Corano, UTET, Novara, 2013, 9^ Sura alTauba (Il pentimento; la disconferma) versetto 111.
[8] MANDEL Gabriele (a cura di),Corano, UTET, Novara, 2013, 61^ Sura alSaff (I ranghi) versetto 4.
[9] MANDEL Gabriele (a cura di),Corano, UTET, Novara, 2013, 61^ Sura alSaff (I ranghi) versetti 10/12.
[10] MANDEL Gabriele (a cura di),Corano, UTET, Novara, 2013, 3^Sura al- imran (La famiglia di Imran) versetti 169/170.
[11] MANDEL Gabriele (a cura di),Corano, UTET, Novara, 2013, 8^ Surat alAnfal (Il bottino, le prese di guerra), versetto 60
[12] PICCARDO Hamza Dawud (a cura di), La via del Musulmano (Minhaj Al Muslim), Unione degli Studenti Musulmani in Italia, Perugia, 1990.
[13] PICCARDO Hamza Dawud (a cura di), La via del Musulmano (Minhaj Al Muslim), Unione degli Studenti Musulmani in Italia, Perugia, 1990.
[14] DOUTTE’ Edmond, Notes sur l’Islam maghribin: Les Marabouts, Parigi, 1900.
[15] MANDEL Gabriele (a cura di), Corano, UTET, Novara, 2013, 4^ Sura alNisa (le donne) versetto 59.
[16] MANDEL Gabriele (a cura di), Corano, UTET, Novara, 2013, 8^ Sura alAnfal (Il bottino, le prese di guerra) versetto 60
[17] MANDEL Gabriele (a cura di), Corano, UTET, Novara, 2013, 8^ Sura alAnfal (Il bottino, le prese di guerra) versetto 15
[18] MANDEL Gabriele (a cura di), Corano, UTET, Novara, 2013, 8^ Surat alAnfal (Il bottino, le prese di guerra) versetto 16.
[19] MANDEL Gabriele (a cura di), Corano, UTET, Novara, 2013, 8^ Surat alAnfal (Il bottino, le prese di guerra) versetti 45/46.
[20] MANDEL Gabriele (a cura di), Corano, UTET, Novara, 2013, 8^ Surat alAnfal (Il bottino, le prese di guerra) versetto 41.
[21] MANDEL Gabriele (a cura di),Corano, UTET, Novara, 2013, 9^ Sura alTauba (Il pentimento; la disconferma) versetto 29.
[22] MANDEL Gabriele (a cura di),Corano, UTET, Novara, 2013, 47^ Sura Muhammad (detta del combattimento) versetti 4/5.
[23] MANDEL Gabriele (a cura di),Corano, UTET, Novara, 2013, 9^ Sura alTauba (Il pentimento; la disconferma) versetto 5.
[24] I Libri Bianchi, erano delle raccolte di leggi e di misure che regolavano la gestione della situazione Palestinese da parte delle autorità britanniche. I libri pubblicati furono 3, il primo conosciuto come il “Libro Bianco di Churchill” pubblicato il 3 giugno 1922, il secondo conosciuto come “Libro Bianco di Lord Passfield” pubblicato il 21 ottobre 1930 e il terzo conosciuto come “Libro Bianco di Malcolm MacDonald” pubblicato il 17 maggio 1939.
[25] Acronimo di United Nations Special Commitee On Palestine. Organismo nato il 13 maggio 1947 in seno all’ONU e esplicita su richiesta del Regno Unito, al fine di trovare una soluzione al problema palestinese.
[26] Acronimo di Organizzazione Liberazione Palestina.
[27] Fonte: Enciclopedia Treccani, voce OLP;
http://www.treccani.it/enciclopedia/olp_%28Dizionario-di-Storia%29
[28] kufr o kafir. Parole arabe con le quali s’intendono attraverso una grande varietà di significati, un concetto o una persona che non crede in Allah. Queste sono normalmente tradotte come “miscredente”, “apostata” o “infedele”.
[29] WALSH Declan – ADAMS Richard – MAC ASKILL Ewen, Osama bin Laden is dead, Obama announces, Articolo su The Guardian, Londra, 2011.https://www.theguardian.com/world/2011/may/02/osama-bin-ladendead-obama
[30] https://jamestown.org/program/al-qaedas-strategy-until-2020/
[31] http://www.lisistrata.com/attentatiterrorislamici/03-Islamallaconquista6-1986-00.htm
[32] Chi appartiene al gruppo e ne sostiene i principi parla di “Stato islamico” (ad Dawla al Islamiya), da qui viene l’acronimo inglese “IS” (Islamic State), sempre più usato in termine neutro.
E’ da considerare ormai obsoleto, anche se ancora molto diffuso nei media, l’acronimo inglese “ISIS” (o “ISIL”), che sta per “Islamic State in Iraq and Syria (o nel “Levante”). e che in arabo (“ad Dawla al Islamiya fi l Iraq w Sham) ha le iniziali di “Daish”, da cui “Daesh”. “ISIS” è un termine superato dal 29 giugno 2014 quando al-Baghdadi ha annunciato il cambio del nome: da “Stato islamico in Iraq e Siria” a “Stato islamico”. Il termine “Daesh” per indicare “l’Organizzazione dello Stato islamico” (Tanzim ad Dawla al Islamiya) è l’acronimo arabo usato dai detrattori del gruppo jihadista.
[33] BASMA Atassi, Iraqi al-Qaeda chief rejects Zawahiri orders, articolo online su al-jazeera, web, 2013;
https://www.aljazeera.com/news/middleeast/2013/06/2013615172217827810.html
[34] ZELIN Aaron Y., ISIS Is Dead, Long Live the Islamic State, articolo on line su The Washington Institute, web, 2014;
https://www.washingtoninstitute.org/policy-analysis/view/isis-is-dead-long-live-the-islamic-state
[35] ZARCHARY Laub, The Islamic State, articolo online su Council on Foreign Relations, web, 2016;
https://www.cfr.org/backgrounder/islamic-state
[36] ALBERTI Davide Giancristofaro, Siria, cade Baghuz, ultima roccaforte Isis/ L’annuncio: “Califfato sconfitto al 100%”, articolo su Il Sussidiario.net, Milano, 2019;
[37] PARIGI Giovanni, L’Isis e le start up del terrore: così il Golfo finanzia la jihad, articolo su Qui Finanza, 2018
https://quifinanza.it/editoriali/lisis-e-le-start-up-del-terrore-chi-finanzia-chi/47262/
[38] DELORENZI Dalila, “Foreign Fighters” e l’attuazione nell’UE della Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite 2178 (2015). Un altro caso di “legiferare in fretta, pentirsi con comodo…” articolo su rivista Eurojus, Milano, 2016.
[39] CONTE Giuseppe – VECCHIONE Gennaro, Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma, 2019.
http://www.governo.it/media/relazione-sulla-politica-dell-informazione-la-sicurezza-2018/11028
[40] Dati e informazioni estrapolate dalla pagina ufficiale di Europol; https://europol.europa.eu/it/about-europol/
[41] Fonte https://europol.europa.eu/it/about-europol/
[42] Dichiarazione ministeriale congiunta USA-UE del 20 settembre 2001.
[43] Operativa dal 2004, ha lo scopo di dare impulso e sostegno investigativo a quattro settori di particolare importanza: l’analisi strategica ed operativa, il modus operandi, il finanziamento delle organizzazioni terroristiche ed il reclutamento dei terroristi.
[44] Operativa dal 2004, ha lo scopo di dare impulso e sostegno investigativo a quattro settori di particolare importanza: l’analisi strategica ed operativa, il modus operandi, il finanziamento delle organizzazioni terroristiche ed il reclutamento dei terroristi.
[45] Consiglio dell’Unione Europea, Strategia antiterrorismo dell’UE, Bruxelles, 2018.
http://www.consilium.europa.eu/it/policies/fight-aganist-terrorism/eu-strategy
[46] Consiglio dell’Unione Europea, Risposta alla minaccia terroristica e ai recenti attentati terroristici in Europa, Bruxelles, 2018.
http://www.consilium.europa.eu/it/policies/fight-aganist-terrorism/foreign-fighters/
[47] Consiglio dell’Unione Europea, Lotta al riciclaggio e al finanziamento del terrorismo, Bruxelles, 2019.
[48] video visibile al link https://youtube.com/watch?time_continue=230&v=XcMu28BZEjc e
intitolato London police Advise Londoners How to Deal Whit Terrorists “Run, Hide, and Tell” sono estrapolate le immagini sopra riportate.
[49] IPPOLITO Luigi, La reazione della folla contro i terroristi, la tecnica, la scelta dell’obiettivo: i sette punti chiave dell’attentato a Londra, articolo su il Corriere della Sera, Milano, 2017
[50] Dati forniti dall’ Israel Central Bureau of Statistics, Tel Aviv, 2018.
[51] HAIM Shine, Alla vigilia del nuovo anno ebraico, la popolazione di Israele si avvicina ai 9 milioni di cittadini, in gran parte contenti della loro vita: articolo tratto dal giornale on line israele.net, Gerusalemme, 2018, raggiungibile al link www.israele.net/alla-vigilia-del-nuovo-anno-ebraico-la-popolazione-di-israele-si-avvicinaa-9-milioni-di-cittadini-in-gran-parte-contenti-della-loro-vita
I dati riportati non sono allineati con quelli ufficiali ma lo scarto è davvero trascurabile. Infatti secondo Israele.net la popolazione di Israele conta 8.907.000 abitanti di cui 6.625.000 ebrei, compresi quelli abitanti in Cisgiordania. La popolazione araba è invece il rimanente 1.864.000.
[52] Dal sito istituzionale www.mossad.gov.il
[53] Sito istituzionale www.shabak.gov.il da cui è stato prelevato anche il logo istituzionale presente nella pagina.
[54] SIGINT: acronimo di SIGnal INTelligence, attività di raccolta delle informazioni mediante l’intercettazione e l’analisi di segnali, sia tra persone sia tra macchine.
Definizione su https://www.sicurezzanazionale.gov.it/sisr.nsf/cosa-facciamo/l-intelligence.html
[55] OSINT: acronimo di Open Source INTelligence, attività di raccolta delle informazioni mediante l’analisi di fonti aperte come social network, web, giornali e quant’altro non classificato e di pubblico dominio.
Definizione su https://www.sicurezzanazionale.gov.it/sisr.nsf/cosa-facciamo/l-intelligence.html
[56] SCUTO Fabio, Unit 8220, articolo su La Repubblica, Tel Aviv, 2013.
[57] https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Racoon001.jpg
[58] CANALI Laura, L’irriducibile complessità delle comunità che compongono Israele, carta su Limesonline, Roma, 2019.
http://www.limesonline.com/israele-arabi-russi-ultraortodossi-ashkenaziti-carta/110663
[59] Il metodo della cassella fu un metodo in uso nelle comunità ebraiche nel 1700 circa che prevedeva che per pagare le tasse ogni capofamiglia consegnasse alla comunità una busta chiusa contenente un atto con il quale comunicare l’ammontare del proprio patrimonio e l’impegno tributario che intendeva assumere nei confronti della comunità.